N. 646 ORDINANZA (Atto di promovimento) 2 aprile 1998
N. 646 Ordinanza emessa il 2 aprile 1998 dal tribunale amministrativo regionale per il Piemonte sul ricorso proposto da Cagliero Giancarlo contro il comune di Torino Impiego pubblico - Dipendente condannato in sede penale - Possibilita' di destituzione all'esito di procedimento disciplinare - Termine perentorio di novanta giorni per la conclusione di detto procedimento - Asserita impossibilita' per la pubblica amministrazione di porre in essere tutti gli atti endoprocedimentali a garanzia degli interessi della stessa o dell'incolpato - Irragionevolezza - Lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. Legge 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9). (Cost., artt. 3 e 97).(GU n.38 del 23-9-1998 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunziato la seguente ordinanza su ricorso 696/1996 proposto da Cagliero Giancarlo, rappresentato e difeso dagli avvocati Claudio Dal Piaz e Carlo Emanuele Gallo, ed elettivamente domiciliato presso lo studio del primo, in Torino, via S. Agostino n. 12; Contro il comune di Torino, in persona del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Luciano Marcon, presso il cui studio, in Torino, palazzo civico, piazza Palazzo di Citta' n. 1, e' elettivamente domiciliato; Per l'annullamento della deliberazione assunta dalla Giunta comunale di Torino in data 22 febbraio 1996, prot. n. mec. 9601190/04, notificata il 22 febbraio 1996, con la quale e' stata disposta la destituzione dall'impiego del ricorrente, a norma dell'art. 115 del regolamento generale per il personale del comune di Torino, nonche' per l'annullamento degli atti antecedenti, preordinati, come, in particolare, il parere assunto dalla commissione disciplinare, nella riunione del 21 dicembre 1995, consequenziali e, comunque connessi del relativo procedimento; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'amministrazione intimata; Visti gli atti tutti della causa; Uditi alla pubblica udienza del 29 aprile 1998 il relatore, referendario dott. Bernardo Massari; uditi, altresi', l'avv. Dal Piaz, per il ricorrente, e l'avv. Marcon, per l'amministrazione resistente; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: F a t t o Il ricorrente, con ricorso notificato il 5 aprile 1996, ha impugnato la delibera assunta dalla Giunta comunale di Torino, con la quale si e' disposta la destituzione dall'impiego del medesimo. La richiesta di annullamento della delibera viene, tra l'altro, fondata sulla asserita violazione dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19. Evidenzia il ricorrente, in proposito, che la delibera di destituzione e' stata assunta molto oltre i termini previsti dal citato art. 9, che, come e' noto stabilisce i termini entro cui deve essere iniziato e concluso il procedimento disciplinare, quando e' connesso a fatti divenuti rilevanti in sede penale e definiti con sentenza irrevocabile di condanna del dipendente pubblico. Piu' precisamente, la parte riferisce che il procedimento disciplinare non solo non si e' concluso entro i novanta giorni dal suo promovimento, ma e' proseguito per piu' di un anno: infatti, la constatazione degli addebiti e' avvenuta il 19 dicembre 1994, mentre il provvedimento di destituzione della Giunta comunale e' stato emesso il 20 febbraio 1996. Il ricorrente ha richiamato precedenti giurisprudenziali, al fine di sostenere la tesi difensiva secondo cui il succitato termine ha natura perentoria, e dimostrare, quindi, l'illegittimita' dell'attivita' svolta dell'amministrazione intimata. Ritiene il collegio di sollevare d'ufficio questione di costituzionalita' del comma 2 del citato articolo, apparendo la questione rilevante e non manifestamente infondata, con riferimento agli artt. 3 e 97 della Costituzione. D i r i t t o 1. - Sulla rilevanza della questione. Il ricorrente si duole della illegittimita' del provvedimento impugnato, deducendo una pluralita' di motivi. Rivestendo, tuttavia, ad avviso del collegio, carattere assorbente le censure proposte con riferimento al superamento del limite di 90 giorni per la conclusione del procedimento, diviene decisiva, ai fini del decidere, l'interpretazione da assegnare alla norma contenuta nell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19. Il ricorrente invoca, infatti, l'annullamento del provvedimento di destituzione, al fine che qui rileva, poiche' emesso in violazione palese dei termini previsti dalla normativa di riferimento. Occorre, dunque, verificare se il termine indicato dalla norma in parola sia da reputarsi meramente ordinatorio con la conseguente reiezione della doglianza di parte, ovvero se esso non sia piuttosto da considerare come un limite temporale invalicabile, a pena di determinare l'invalidita' dell'intero procedimento disciplinare. La questione di diritto sulla quale si controverte, concerne la portata dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del quale nei confronti del pubblico dipendente, condannato in sede penale "la destituzione puo' sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro 180 giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile e concluso nei successivi 90 giorni". La norma predetta ha dato luogo a numerose difficolta' di interpretazione e a contrasti giurisprudenziali circa la natura di tali termini. Taluni giudici hanno, infatti, ritenuto viziato da violazione di legge il provvedimento di destituzione adottato dopo la scadenza del termine in parola previsto per la conclusione del procedimento, argomentandone il carattere perentorio dal tenore letterale della norma ("... deve essere ... concluso"), in relazione all'intenzione del legislatore di delimitare rigidamente l'esercizio del potere disciplinare, sotto il profilo temporale. Altre pronunce hanno, di contro, affermato che il termine in questione ha carattere ordinatorio, e percio' il provvedimento assunto dopo 90 giorni dalla contestazione degli addebiti non e' illegittimo, in quanto, alla luce di una lettura sistematica della normativa contenuta nel testo unico n. 3 del 1957, il procedimento disciplinare e' composto da piu' fasi, volte a contemperare due sfere contrapposte di interessi: quello pubblico-istituzionale dell'amministrazione e quello di consentire l'adeguato esercizio del diritto di difesa del dipendente. Anche le sentenze del Consiglio di Stato sull'argomento si sono mosse intorno a questo dualismo interpretativo, sottolineando piu' volte come il superamento del termine non puo' sempre comportare l'estinzione automatica del procedimento, ogni qualvolta sia documentato che detto travalicamento e' sorretto da adeguate esigenze istruttorie, in relazione, del resto, alla eliminazione, all'interno del procedimento disciplinare, di ogni automatismo valutativo conseguente alla sentenza della Corte costituzionale n. 971 del 1988. Peraltro, con ordinanza n. 16 del 3 settembre 1997, l'adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha ritenuto che l'unica possibile interpretazione della norma in questione sia quella che, privilegiando il tenore letterale della medesima, dispone la perentoria conclusione del procedimento nel termine di 90 giorni indicato dalla legge. Tale lettura, supportata, altresi', dall'individuazione di una ratio legis rinvenuta nell'esigenza di definire nel piu' breve tempo possibile la critica condizione dell'impiegato sottoposto a procedimento disciplinare ed, ancora, nell'interesse pubblico ad acquisire in tempi certi un giudizio su fatti che potrebbero condurre all'adozione di provvedimenti modificativi o sospensivi dello status del dipendente, e' condivisa dal collegio, per il quale, d'altro canto, essa costituisce diritto vivente. Nondimeno, proprio per le ragioni in parte gia' illustrate, la norma della quale si discute potrebbe porsi in contrasto con alcuni principi costituzionali, come appresso illustrato. 2. - Sulla non manifesta infondatezza. A) Violazione dell'art. 3 della Costituzione. Per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 971 del 14 ottobre 1988, sono state espunte dall'ordinamento le norme che, in materia di sanzioni disciplinari del pubblico dipendente, consentivano all'amministrazione l'automatica adozione di provvedimenti conseguenti a sentenze penali di condanna passate in giudicato. Ne e' conseguita una situazione per la quale l'amministrazione e' sempre tenuta, prima di adottare qualsivoglia determinazione in proposito, a porre in essere un articolato procedimento che, da un lato consenta all'incolpato di esercitare in ogni fase il proprio diritto di difesa, dall'altro ponga l'organo inquirente e quello giudicante nella condizione di rivalutare il materiale probatorio gia' emerso nel processo penale, eventualmente acquisendo autonomamente nuove fonti di prova. Non vi e' chi non veda come tali imprescindibili esigenze rischino di essere pretermesse di fronte alla necessita' di concludere perentoriamente il procedimento entro 90 giorni dalla sua apertura. Appare illogica, percio', alla luce del principio generale dell'art. 3 della Costituzione, l'introduzione nell'ordinamento di una norma che riduce in modo sostanziale, sia per la pubblica amministrazione che per il dipendente, il tempo utile per individuare ed apportare al procedimento elementi istruttori e probatori, che in novanta giorni spesso non e' facile reperire (si pensi in particolare alle sentenze penali non pronunciate in esito a dibattimento). B) violazione dell'art. 97 della Costituzione. Appare, inoltre, violato dall'articolo in questione il principio di buon andamento e di imparzialita' della pubblica amministrazione, sancito dall'art. 97 della Carta costituzionale. Il principio in questione e' canone essenziale di condotta della pubblica amministrazione che, tra l'altro, si invera per il tramite dell'adozione di una serie di regole procedimentali dell'agire amministrativo. La drastica riduzione del tempo utile per addivenire all'accertamento delle responsabilita' del pubblico dipendente, imposta dalla norma in discorso, non puo' che incidere negativamente, fino a eventualmente determinarne la compromissione, nei predetti valori. Cio' appare tanto piu' rilevante ove si consideri che il procedimento disciplinare, in quanto volto ad accertare l'eventuale responsabilita' dell'impiegato, si propone, tra l'altro, la non secondaria finalita' di evitare la permanenza nella struttura degli uffici di soggetti che per la gravita' dei fatti commessi, eventualmente accertati in modo incontrovertibile dal giudice penale, non potrebbero che arrecare corrispondente pregiudizio al prestigio e, in definitiva, alla funzionalita' dell'amministrazione stessa.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, cosi' statuisce; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' dell'art. 9 della legge 7 febbraio 1990, n. 19, nella parte in cui appone il termine perentorio di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, per contrasto con gli artt. 3 e 97 della Costituzione; Sospende il giudizio; Dispone l'invio degli atti alla Corte costituzionale, a cura della segreteria della sezione, che provvedera' altresi' alla notifica della presente ordinanza alle parti e al Presidente del Consiglio dei Ministri e alla comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Torino, in camera di consiglio, addi' 2 aprile 1998. Il presidente: Montini Il referendario, estensore: Massari 98C1046