N. 71 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 gennaio 2019
Ordinanza del 22 gennaio 2019 del Tribunale di Milano nel procedimento civile promosso da K. M. e altri contro Regione Lombardia. Edilizia residenziale pubblica - Norme della Regione Lombardia - Beneficiari dei servizi abitativi pubblici - Requisiti di accesso all'edilizia residenziale pubblica - Residenza anagrafica o svolgimento di attivita' lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda. - Legge della Regione Lombardia 8 luglio 2016, n. 16 (Disciplina regionale dei servizi abitativi), art. 22, comma 1, lettera b).(GU n.20 del 15-5-2019 )
TRIBUNALE ORDINARIO DI MILANO prima civile Nella causa civile iscritta al n. r.g. 23608/2018 M. K. (c.f. ... ), ASGI-Associazione studi giuridici sull'immigrazione (c.f. 97086880156), NAGA-Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria e per i diritti di cittadini stranieri, rom e sinti (c.f. 97058050150) e Confederazione generale italiana del lavoro Lombardia (c.f. 94554190150), con il patrocinio dell'avv. Neri Livio e dell'avv. Guariso Alberto (GRSLRT54S15F205S), elettivamente domiciliati in Milano, viale Regina Margherita n. 30 presso i difensori, ricorrenti; Contro Regione Lombardia (c.f. 80050050154), con il patrocinio dell'avv. Tamborino Maria Lucia, elettivamente domiciliata in Milano, piazza Citta' di Lombardia n. 1, presso il difensore, resistente; Il Giudice, a scioglimento della riserva che precede, ha emesso la seguente ordinanza. Oggetto: Discriminazione. Fatto e Diritto Con ricorso ex art. 44 decreto legislativo n. 286/1998, M. K., la CGIL Lombardia, l' ASGI-Associazione degli studi giuridici sull'immigrazione - e il NAGA-Associazione volontaria di assistenza socio-sanitaria e per i diritti dei cittadini stranieri, rom e sinti (di seguito, solo ASGI e NAGA), hanno convenuto in giudizio dinanzi al Tribunale di Milano la Regione Lombardia, chiedendo, previo occorrendo rinvio alla Corte costituzionale o alla Corte di giustizia: accettare e dichiarare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dalla Regione Lombardia consistente nell'aver emanato il regolamento Regionale di cui alla delibera X/7004 del 31 luglio 2017 nella parte in cui (art. 7, comma 1, lettera d) esclude dal sistema abitativo pubblico lo straniero titolare del permesso per protezione internazionale, del permesso umanitario ex art. 5, comma 6, TU immigrazione, del permesso per soggiornanti di lungo periodo ex art. 9 TU immigrazione (e in conseguenza anche l'italiano) qualora questi abbia la titolarita' di diritti di proprieta' o altri diritti reali di godimento su beni immobili ubicati all'estero; in subordine nella parte in cui (art. 7, comma 1, lettera d) prevede che, ai fini dell'accesso al sistema abitativo pubblico, il cittadino extra UE debba documentare l'assenza di diritti di proprieta' o di altri diritti reali di godimento su beni immobili ubicati all'estero in forme diverse da quelle che vengono richieste all'italiano; nella parte in cui (art. 7, comma 1, lettera b) prevede per l'accesso ai servizi abitativi pubblici il requisito della residenza o attivita' lavorativa quinquennale nella regione o, in subordine, nella parte in cui prevede detti requisiti anche per i nuclei familiari in condizioni di indigenza di cui all'art. 13 del regolamento, e per gli interventi di emergenza abitativa di cui all'art. 23, comma 13, L.R. n. 16/2006; accertare e dichiarare il carattere discriminatorio dell'esclusione del ricorrente M. K. in ragione del mancato possesso del requisito della residenza o attivita' lavorativa quinquennale; conseguentemente ordinare alla Regione Lombardia di modificare il predetto regolamento, escludendo le previsioni discriminatorie nelle parti sopra indicate; ordinare di ammettere il sig. M. K. alle graduatorie per edilizia ERP anche in assenza del requisito della residenza quinquennale o dello svolgimento di attivita' lavorativa per il quinquennio antecedente la domanda; in subordine, in caso di rigetto, della predetta domanda, condannare Regione Lombardia a risarcire al ricorrente M. i danni derivanti dall'illegittima esclusione, pagando allo stesso un importo da determinarsi in via equitativa, che si indica in euro 300,00 per ogni mese intercorso tra l'ottobre 2017 e la data di compimento del quinquennio o di eventuale accesso al servizio abitativo pubblico; adottare un piano di rimozione delle discriminazioni accertate, assumendo ogni utile provvedimento al fine di evitare il reiterarsi della discriminazione e, in particolare, a tal fine, ordinare alla convenuta di dare adeguata pubblicita' alla decisione giudiziale, pubblicandola sul proprio sito istituzionale o con le altre forme che il Giudice riterra' di individuare, con vittoria di spese da distrarsi in favore dei difensori antistatari. Hanno dedotto i ricorrenti: che, ai sensi dell'art. 1, comma 1, della L.R. n. 16/2016, finalita' dei servizi abitativi pubblici e' quello di «soddisfare il bisogno abitativo primario e ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonche' di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio»; che l'art. 7, comma 1, lettera d) del regolamento regionale 4 agosto 2017 n. 4, introducendo un esplicito divieto di accesso al sistema abitativo pubblico per chi sia proprietario di un alloggio all'estero, in modo irragionevole, non prende in alcuna considerazione la condizione di poverta' o di bisogno del richiedente, per il solo fatto che egli disponga, in qualsiasi parte del mondo, di un alloggio di proprieta'. Tale previsione, peraltro, fissa un'incompatibilita' in relazione alla sola metratura dell'alloggio, negando qualsiasi rilevanza alle relative condizioni; che la predetta previsione risulta non applicabile ai titolari di protezione internazionale e ai titolari di permesso umanitario, che non possono far ritorno nel loro paese d'origine; che la norma in esame, pur essendo apparentemente rivolta a tutti, pone gli stranieri (i quali, in quanto migranti, hanno presumibilmente vissuto molti anni all'estero) in una condizione di particolare svantaggio rispetto ai cittadini italiani e che, in particolare, tale svantaggio configura una discriminazione indiretta per i titolari di permesso di soggiorno UE per soggiornanti di lungo periodo e per i titolari di permesso di soggiorno almeno biennale e che esercitano una regolare attivita' di lavoro autonomo o subordinato; che l'art. 7 del regolamento prevede che il cittadino di paesi extra UE debba affiancare al modello ISEE anche una dichiarazione di' impossidenza di alloggi adeguati nel paese di provenienza e che tale previsione pone lo straniero in una condizione di particolare svantaggio; che l'art. 7 del citato regolamento prevede che tra i requisiti per avere accesso ai servizi abitativi pubblici vi sia anche la residenza anagrafica o lo svolgimento di attivita' lavorativa in Regione Lombardia da almeno 5 anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda; che tale previsione riguarda la generalita' dei richiedenti e, dunque, anche i nuclei familiari in condizioni di indigenza, trovando applicazione anche nella c.d. «emergenza abitativa»; che la disposizione in esame costituisce una discriminazione indiretta in danno degli stranieri, che godono del diritto alla parita' di trattamento nell'accesso all'abitazione. Con comparsa depositata il 5 luglio 2018, si e' costituita la Regione Lombardia eccependo, preliminarmente, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in favore di quello amministrativo, la carenza di interesse in capo al sig. K. - atteso che, al momento della presentazione della sua domanda, non era ancora entrato in vigore il regolamento regionale n. 4/2017 e che il requisito della residenza quinquennale era stato gia' ritenuto legittimo dalla Corte costituzionale -, e il difetto di legittimazione attiva della CGIL regionale, non iscritta nell'elenco previsto dall'art. 5 del decreto legislativo n. 215/2003. Ancora in via preliminare, l'ente convenuto ha eccepito l'inammissibilita' del ricorso per omessa notifica al Comune di Milano, ritenuto parte necessaria alla luce della domanda di rimozione del provvedimento di esclusione dalla graduatoria comunale ERP. Nel merito, la difesa della regione ha dedotto: che la proprieta' o il possesso di un diritto reale di godimento riferito ad un alloggio adeguato e' causa di impedimento per chiunque, indipendentemente dalla nazionalita', sul presupposto che dall'immobile potrebbe essere tratto comunque un vantaggio economico; che, con riferimento all'attestazione di non possidenza, la stessa era richiesta solo all'assegnatario, ai sensi dell'art. 3, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica n. 445/2000, mentre, in fase di presentazione dell'istanza, al richiedente era chiesta una semplice dichiarazione, che non aveva costi ne' imponeva particolari oneri burocratici; che, in merito all'autocertificazione, la denunciata disparita' di' trattamento non sussisteva, in quanto il limite degli stati, qualita' personali o fatti riscontrabili presso una pubblica amministrazione italiana valeva per tutti; che, con riferimento al requisito di residenza anagrafica o di svolgimento di' attivita' lavorativa quinquennale, la Corte costituzionale, con ordinanza n. 32/2008, aveva gia' statuito che il requisito della residenza continuativa non risultava irragionevole; che la domanda risarcitoria era del tutto infondata, atteso che nessun comune aveva ancora indetto avvisi per la presentazione di domande per l'assegnazione di alloggi ai sensi del regolamento n. 4/17 e che la partecipazione al bando non avrebbe comunque garantito l'assegnazione di un alloggio. All'udienza del 17 luglio 2018 le parti hanno discusso e il giudice ha rinviato per la discussione e decisione, con termine per note sino al 5 novembre 2018. All'udienza del 28 novembre 2018, depositate le note difensive, le parti hanno discusso la causa - anche con riferimento alle sentenze della Corte costituzionale n. 106, 107 e 166 del 2018, depositate dopo l'instaurazione del presente ricorso - ed il giudice ha riservato la decisione. 1. Giurisdizione del giudice ordinario adito. La difesa regionale invoca la giurisdizione del giudice amministrativo in virtu' del carattere di atto normativo del regolamento impugnato e del limite della giurisdizione esclusiva, in materia di servizi pubblici, quali l'edilizia residenziale pubblica. Come da tempo chiarito dalla Suprema corte, l'indagine sulla sussistenza di un «trattamento favorevole connesso al fattore vietato» rientra nella giurisdizione del giudice ordinario anche quando - come nel caso di specie - questo sia posto in essere mediante l'adozione di atti amministrativi (cfr. Cassazione SS.UU. n. 7186/2011). L'invocato riferimento alla giurisdizione esclusiva appare del tutto inconferente, proprio alla luce di quanto affermato dalle Sezioni unite nella sentenza appena richiamata. La Suprema corte, infatti, ha definitivamente chiarito che: «in presenza di normative che, al fine di garantire parita' di trattamento, in termini particolarmente incisivi e circostanziati, e correlativamente vietare discriminazioni ingiustificate, con riferimento a fattori meritevoli di particolare considerazione sulla base di indicazioni costituzionali o fonti sovranazionali articolano in maniera specifica disposizioni di divieto di determinate discriminazioni contemporaneamente istituiscono strumenti processuali speciali per la loro repressione, affidati lai giudice ordinario, deve ritenersi che il legislatore abbia inteso configurare, a tutela del soggetto potenziale vittima delle discriminazioni, una specifica posizione di diritto soggettivo, e specificamente un diritto qualificabile come "diritto assoluto" in quanto posto a presidio di una area di liberta' e potenzialita' del soggetto, rispetto a qualsiasi tipo di violazione della stessa. Il fatto che la posizione tutelata assurga a diritto assoluto, e che simmetricamente possano qualificarsi come fatti illeciti i comportamenti di mancato rispetto della stessa, fa si' che il contenuto e l'estensione delle tutele conseguibili in giudizio presentino aspetti di atipicita' e di variabilita' in dipendenza del tipo di condotta lesiva che e' stata messa in essere e anche della preesistenza o meno di posizioni soggettive di diritto o interesse legittimo del soggetto leso a determinate prestazioni. Di cio' si trova riscontro nel dettato normativo, secondo cui il giudice puo' "ordinare la cessazione del comportamento pregiudizievole e adottare ogni altro provvedimento idoneo, secondo le circostanze, a rimuovere gli effetti della discriminazione"(decreto legislativo n. 2876 del 1998, art. 44, comma 1), oltre che condannare il responsabile al risarcimento del danno (comma 7). Risulta quindi spiegabile, in particolare, come, in relazione a discriminazioni del genere di quelle in esame, anche quando esse siano attuate nell'ambito di procedimenti per il riconoscimento da parte della pubblica amministrazione di utilita' rispetto a cui il soggetto privato fruisca di una posizione di interesse legittimo e non di diritto soggettivo, la tutela del privato rispetto alla discriminazione possa essere assicurata secondo il modulo del diritto soggettivo e delle relative protezioni giurisdizionali». Deve ritenersi sussistente, pertanto, la giurisdizione del giudice ordinario adito. 2. Interesse ad agire del sig K. Come noto, l'interesse ad agire richiede non solo l'accertamento di una situazione giuridica, ma anche che la parte prospetti l'esigenza di ottenere un risultato utile, giuridicamente apprezzabile, e non conseguibile senza l'intervento del giudice. Secondo il consolidato insegnamento della Suprema corte, l'interesse ad agire, previsto quale condizione dell'azione dall'art. 100 cod. proc., civ., con disposizione che consente di distinguere fra le azioni di mera iattanza e quelle oggettivamente dirette a conseguire il bene della vita consistente nella rimozione dello stato di giuridica incertezza in ordine alla sussistenza di un determinato diritto, va identificato in una situazione di carattere oggettivo derivante da un fatto lesivo, inteso in senso ampio, di un diritto che, senza il processo e privato dell'esercizio della giurisdizione, resterebbe sfornito di tutela, con conseguente danno per l'attore. Da cio' consegue che tale interesse deve avere necessariamente carattere attuale, poiche' solo in tal caso trascende il piano di una mera prospettazione soggettiva assurgendo a giuridica ed oggettiva consistenza, e resta invece escluso quando il giudizio sia strumentale alla soluzione soltanto in via di massima o accademica di una questione di diritto in vista di situazioni future o meramente ipotetiche (v. fra le tante Cass, n. 5635/02, n. 3157/01, n. 565/00, n. 4444/95, n. 685/93; piu' di' recenti, v. Cass. n. 24434/07, n. 2617/06, n. 17815/05). Nel caso in esame, basti rilevare che per il sig. K. di cittadinanza tunisina, l'asserita violazione risulta consumata all'atto dell'esclusione dalla possibilita' di presentare la domanda, operata in ragione della previsione di un requisito - la residenza quinquennale in Lombardia - prevista sia dal regolamento regionale vigente al momento della presentazione della domanda da parte del ricorrente sia dal regolamento successivamente adottato dalla resistente. Deve, pertanto, ritenersi sussistente l'interesse ad agire in capo al sig. K. Per completezza, appare inoltre opportuno ricordare che il ricorrente puo' agire anche quando la condotta o l'atto «non sia piu' sussistente» (art. 4, comma 4, decreto legislativo n. 215/2003) e che l'accesso all'azione antidiscriminatoria deve essere garantito «anche dopo la cessazione del rapporto che si lamenta affetto da discriminazione» (art. 7, comma 1, della direttiva n. 2000/43). 3. Legittimazione attiva della CGIL regionale. La Regione Lombardia contesta la legittimazione ad agire della CGIL Lombardia, in quanto non iscritta negli elenchi di cui all'art. 5 del decreto legislativo n. 215/2003. L'ultimo comma dell'art. 5 decreto legislativo n. 215/2003, stabilisce che «Le associazioni e gli enti inseriti nell'elenco di cui al comma 1 sono, altresi', legittimati ad agire ai sensi degli articoli 4 e 4-bis nei casi di discriminazione collettiva qualora non siano individuabili in modo diretto e immediato le persone lese dalla discriminazione» con cio' prevedendo una legittimazione straordinaria delle associazioni qualora il comportamento discriminatorio sia collettivo e non siano individuabili in via immediata e diretta le vittime della discriminazione. Nel caso in esame, non e' contestato che la CGIL Lombardia non risulti iscritta nel predetto elenco. Le ricorrenti invocano, comunque, la legittimazione ad agire della predetta associazione in quanto legittimata a difendere, in via giurisdizionale, gli interessi di categoria dei soggetti di cui hanno la rappresentanza istituzionale e non gli interessi dei singoli iscritti. In relazione all'eccepito difetto di legittimazione ad agire delle odierni ricorrenti, preliminarmente si evidenzia che la legitimatio ad causam «si risolve nella titolarita' del potere o del dovere (rispettivamente per la legittimazione attiva o passiva) di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, indipendentemente dalla questione dell'effettiva titolarita' del lato attivo o passivo del rapporto controverso» (cfr., ex multis, Cass., sentenza n. 16678 del 12 agosto 2005). Orbene, nel caso in esame, appare opportuno precisare che, anche a prescindere dalla formale iscrizione nei predetti elenchi, un'associazione sindacale puo' ritenersi senz'altro portatrice di un interesse collettivo consistente nella rimozione degli ostacoli, sociali ed economici, che impediscono ai lavoratori stranieri di poter orientare le proprie scelte di vita e di lavoro senza subire discriminazioni (cfr. Consiglio di Stato n. 4487 del 26 ottobre 2016). Tanto premesso, nel caso di specie, pur condividendosi le argomentazioni svolte dal Consiglio di Stato nella citata pronuncia, in assenza dello Statuto della CGIL Lombardia (non prodotto agli atti, ove risulta, invece, prodotto solo quello della CGIL, sub. doc. 13), non puo' verificarsi e, sulla base delle specifiche disposizioni statutarie, l'associazione ricorrente sia legittimata a difendere, in sede giurisdizionale, l'interesse di categoria (per i cittadini stranieri) costituito dal diritto di accedere al sistema abitativo pubblico in condizioni di parita' con i cittadini italiani. Deve, pertanto, essere dichiarato il difetto di legittimazione ad agire in capo alla CGIL Lombardia. 4. Necessita' dell'integrazione del contraddittorio nei confronti del Comune di Milano. In merito alla richiesta di integrare il contraddittorio nei confronti del Comune di Milano, chiamato a dare attuazione alle disposizioni del regolamento regionale per cui e' causa - e dinanzi al quale il sig. K. ha presentato la domanda per l'assegnazione dell'alloggio di edilizia residenziale pubblica - si osserva come, nel caso in esame, non sussista un'ipotesi di litisconsorzio necessario. Deve, infatti escludersi che, nel caso in esame, ne sussistano le condizioni, richiedendosi a tal fine, al di fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (non sussistenti nel caso di specie), che la situazione dedotta in giudizio debba essere decisa in maniera unitaria nei confronti di piu' soggetti. Ove, infatti, venisse accolta la domanda spiegata dai ricorrenti, tutti i comuni lombardi (e non solo il Comune di Milano) sarebbero tenuti a conformare il proprio comportamento alle mutate previsioni regolamentari. 5. Il diritto vantato dai ricorrenti. L'Asgi, il Naga e il sig. K. lamentano l'esistenza di una discriminazione indiretta nelle disposizioni del regolamento della Regione Lombardia 4 agosto 2017 n. 4, che prevedono un requisito di residenza o attivita' lavorativa nella regione nei cinque anni antecedenti la data della domanda, che dispongono un divieto di accesso al sistema abitativo pubblico per chi sia proprietario di un alloggio all'estero e che pongono un conseguente obbligo di produrre documentazione ulteriore e differenziata attestante l'impossidenza delle predette proprieta' all'estero. Del tutto preliminare appare l'esame del requisito di residenza o di svolgimento di attivita' lavorativa nella Regione Lombardia, atteso che il mancato possesso del detto requisito rende irrilevanti le ulteriori questioni relative all'esistenza di proprieta' all'estero e all'obbligo di documentare la situazione di eventuale impossidenza. Infatti, chi non risiede nella Regione Lombardia (o non svolge nella detta regione attivita' lavorativa) da almeno cinque anni non puo' avere accesso ai servizi abitativi pubblici, a prescindere dalla titolarita' di un immobile all'estero e dalla prova dell'impossidenza di detti beni immobili. Il possesso di tale requisito appare, pertanto, indispensabile ai fini dell'accesso ai servizi abitativi pubblici e la valutazione sulla ragionevolezza e proporzionalita' di tale previsione, rispetto alle altre contestate dai ricorrenti, e' del tutto preliminare. L'art. 7, primo comma, lettera b) del regolamento n. 4/2017 - con disposizione coincidente con quella dell'art. 22, primo comma lettera b) della L.R. n. 16 dell'8 luglio 20l6 - prevede che: «i beneficiari dei servizi abitativi pubblici devono avere i seguenti requisiti: ... b) residenza anagrafica o svolgimento di attivita' lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda». La citata disposizione, inoltre, richiede il possesso di detto requisito anche per i nuclei familiari in condizioni di indigenza (art. 13 del regolamento) e per gli interventi di emergenza abitativa, come definiti dall'art. 23, comma 13 della L.R. n. 16/2016. Ad avviso di questo giudice, la questione di costituzionalita' dell'art. 22, comma 1, lettera b) della L.R. n. 16/2016 e' rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento, in primo luogo, all'art. 3 Cost. e 10 Cost. (quest'ultima norma per i richiedenti titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria) all'art. 117 Cost., in relazione alla direttiva n. 2003/109 (e, segnatamente, all'art. 11). 6. Superamento del requisito della residenza o attivita' lavorativa quinquennale, attraverso la non applicazione delle disposizioni ritenute in contrasto con la normativa europea o attraverso una lettura costituzionalmente e convenzionalmente orientata. In primo luogo, va osservato che la controversia in esame ha un oggetto che rientra nell'ambito di competenza che il Trattato sul funzionamento dell'Unione europea assegna all'Unione. L'esame della questione di compatibilita' con il diritto dell'Unione europea costituisce un prius logico e giuridico rispetto alla questione di legittimita' costituzionale in via incidentale, poiche' investe la stessa applicabilita' della norma censurata nel giudizio principale (e, pertanto, la rilevanza della questione). Tanto premesso, non pare inutile ricordare che il contrasto con il diritto dell'Unione europea condiziona l'applicabilita' della norma censurata nel giudizio a quo - e di conseguenza la rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale che si intendano sollevare sulla medesima - soltanto quando la norma europea e' dotata di effetto diretto. Al riguardo, come recentemente ribadito dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 269/2017, «deve richiamarsi l'insegnamento di questa Corte in base al quale "conformemente ai principi affermati dalla sentenza della Corte di giustizia 9 marzo 1978, in causa C-106/77 (Simmenthal), e dalla successiva giurisprudenza di questa Corte, segnatamente con la sentenza n. 170 del 1984 (Granital), qualora si tratti di disposizione del diritto dell'Unione europea direttamente efficace, spetta al giudice nazionale comune valutare la compatibilita' comunitaria della normativa interna censurata, utilizzando - se del caso - il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, e nell'ipotesi di contrasto provvedere egli stesso all'applicazione della norma comunitaria in luogo della norma nazionale; mentre, in caso di contrasto con una norma comunitaria priva di efficacia diretta - contrasto accettato eventualmente mediante ricorso alla Corte di giustizia - e nell'impossibilita' di risolvere il contrasto in via interpretativa, il giudice nazionale deve sollevare la questione di legittimita' costituzionale, spettando poi a questa Corte valutare l'esistenza di un contrasto insanabile in via interpretativa e, eventualmente, annullare la legge incompatibile con il diritto comunitario (nello stesso senso, Corte cost. n. 284 del 2007, n. 28 e n. 227 del 2010 e n. 75 del 2012)" (ordinanza n. 207 del 2013)». Nella pronuncia in esame, con considerazioni rilevanti nel caso di specie, il giudice delle leggi ha ancora affermato che «quando una disposizione di diritto interno diverge da norme dell'Unione europea prive di effetti diretti, occorre sollevare una questione di legittimita' costituzionale, riservata alla esclusiva competenza di questa Corte, senza delibare preventivamente i profili di incompatibilita' con il diritto europeo. In tali ipotesi spetta a questa Corte giudicare la legge, sia in riferimento ai parametri europei (con riguardo alle priorita', nei giudizi in via di azione, si veda, ad esempio, la sentenza n. 197 del 2014, ove si afferma che «la verifica della conformita' della norma impugnata alle regole di competenza interna e' preliminare al controllo del rispetto dei principi comunitari (sentenze n. 245 del 2013, n. 127 e n. 120 del 2010)». Una norma eurounitaria puo' essere ritenuta ad efficacia diretta (cd. self executing) quando, a prescindere dall'atto comunitario in cui e' contenuta (sia esso o meno direttamente applicabile) imponga ai destinatari un comportamento preciso ed incondizionato e contenga una disciplina completa che non necessita di una normativa ulteriore di attuazione da parte degli Stati membri, o comunque individui un diritto soggettivo o prescriva un obbligo che possano essere immediatamente fatti valere in un giudizio. La Corte di giustizia ha da tempo chiarito che in tutti i casi in cui le disposizioni di una direttiva appaiono, dal punto di vista sostanziale, incondizionate e sufficientemente precise, i singoli possono farle valere dinanzi ai giudici nazionali nei confronti dello Stato membro,vuoi qualora quest'ultimo abbia omesso di trasporre la direttiva in diritto nazionale entro i termini, vuoi qualora l'abbia recepita in modo non corretto (v., in particolare, le sentenze 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich, punto 11, e 11 luglio 2002, causa C-62/00, Marks & Spencer, punto 25, e la sentenza 5 ottobre 2004, cause riunite C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer e a., punto 103). Alla luce della citata giurisprudenza, deve ritenersi che le disposizioni della direttiva n. 2003/109 - nella parte rilevante ai fini del caso in esame - non possano essere ritenute ad efficacia diretta. Devono, a tal fine, essere considerati i seguenti elementi: l'art. 11 primo comma lettera f) della direttiva prevede espressamente che il soggiornante di lungo periodo goda espressamente dello stesso trattamento dei cittadini nazionali anche per l'accesso alla «procedura per l'ottenimento di un alloggio», ma, allo stesso tempo, prevede che lo Stato membro possa limitare la parita' di trattamento ai casi in cui il richiedente ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio; le previsioni in esame, pur essendo chiare e precise, non sono incondizionate, in quanto prevedono la possibilita' di un intervento limitativo dello Stato membro; la direttiva in esame e' stata attuata con il decreto legislativo n. 3/2007 (cfr. in particolare art. 9, comma 12,lettera c). Le stesse integrano, pertanto, quali norme interposte, il parametro costituzionale espresso dall'art. 117, primo comma Cost., nella parte in cui impone la conformazione della legislazione interna ai vincoli derivanti dagli obblighi internazionali. Del pari non appare possibile l'interpretazione delle disposizioni della L.R. n. 16/2016 orientata in senso conforme alle disposizioni costituzionali. L'art. 22 della L.R. n. 16, infatti, limita espressamente il diritto di accesso ai servizi abitativi pubblici al possesso, tra gli altri, del requisito di residenza quinquennale (o di svolgimento di attivita' lavorativa nella Regione Lombardia). La chiara lettera della legge, confermata anche dall'utilizzo di espressioni dal senso univoco (quali «i beneficiari dei servizi abitativi pubblici devono avere i seguenti requisiti»), non consente alcuna interpretazione conforme all'art. 3 Cost. In conclusione, si ritiene che il presente giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimita' costituzionale - che, pertanto, si solleva - dell'art. 22, comma 1 lettera b) della L.R. Lombardia n. 16/2016, per contrasto con l'art. 3 Cost. - per i titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria con l'art. 10 Cost. - nonche' per contrasto con l'art. 117 comma 1 Cost., in relazione alla direttiva n. 2003/109, interpretata alla luce dell'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali. 6. Rilevanza. In merito alla rilevanza della questione, atteso che i ricorrenti censurano piu' disposizioni del regolamento regionale (emesso in attuazione della legge regionale n. 16/2016, il cui scrutinio di costituzionalita' appare imprescindibile ai fini della risoluzione del caso in esame), appare opportuno premettere alcune considerazioni di carattere generale. In primo luogo si osserva come il requisito relativo alla residenza o attivita' lavorativa nella regione si ponga come necessariamente pregiudiziale rispetto agli ulteriori elementi ritenuti discriminatori dai ricorrenti. Ove, infatti, il beneficiario del servizio abitativo pubblico non risieda o non svolga attivita' lavorativa nella Regione Lombardia da oltre 5 anni, egli non avra' diritto di accedere al predetto servizio, indipendentemente dalla titolarita' di altri beni immobili ubicati nel territorio italiano o all'estero (e alla prova di tale titolarita'). In secondo luogo si osserva come - lette le disposizioni della legge regionale n. 16/2016 - ben sia possibile accettare la natura discriminatoria delle disposizioni regolamentari relative agli ulteriori requisiti censurati dai ricorrenti, a prescindere da una pronuncia della Corte costituzionale sulla predetta legge. La legge regionale n. 16, infatti, prevede che, ai sensi dell'art. 1, comma l, finalita' dei servizi abitativi pubblici sia quella di «soddisfare il bisogno abitativo primario e ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonche' di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio». L'art. 22 della detta legge, poi, indica tra i requisiti per avere accesso ai servizi abitativi pubblici l'«assenza di titolarita' di diritti di proprieta' o di altri diritti reali di godimenti su beni immobili adeguati alle esigenze del nucleo familiare, ubicati nel territorio italiano o all'estero». Mentre tale previsione appare del tutto coerente con quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 176/2000 (in merito alla non irragionevolezza di una previsione che preveda una preclusione all'accesso ai servizi di edilizia residenziale pubblica per chi aspiri all'assegnazione di un alloggio, pur essendo titolare di un bene della stessa natura dalla quale ricavi un'«utilita' comparabile» con quelle di un alloggio situato in un «luogo adeguato»), a diverse conclusione deve giungersi con riferimento alla disposizione contenuta nell'art. 7, comma 1, lettera D - nella parte in cui considera, ai fini di una valutazione di adeguatezza dell'alloggio, la sola metratura dello stesso. L'accertamento della ragionevolezza di tale previsione (e di quella, del tutto conseguente, relativa all'onere di documentazione dell'assenza di proprieta' all'estero), ai fini della valutazione dell'esistenza di una discriminazione, ben potrebbe essere effettuato da questo giudice - in seguito alla preliminare e non eludibile valutazione da parte del giudice delle leggi sulla costituzionalita' della previsione del requisito di residenza ed attivita' lavorativa quinquennale - con conseguente disapplicazione della disposizione regolamentare. Tanto premesso, occorre distinguere la posizione del ricorrente sig. K. da quella delle due associazioni ricorrenti. In merito al sig. K., dai documenti prodotti dalla difesa del ricorrente, emerge che: egli, di nazionalita' tunisina, e' arrivato in Italia nel 2009 con un visto per motivi di studio; nel 2012, dopo aver conseguito la laurea in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo presso l'Universita' di Roma Tre, ha proseguito gli studi specialistici all'estero, per poi tornare in Italia nel 2015 (doc. 15 e 16); dal 2015 risiede in Lombardia con la moglie e lavora a Milano; dopo la nascita della figlia (il 27 luglio 2017), nel settembre del 2017 ha presentato la domanda per l'assegnazione dell'alloggio ERP presso il servizio sportello al pubblico e monitoraggio servizi - area assegnazioni alloggi ERP del Comune di Milano; egli si e' recato al colloquio, ma il funzionario del comune, dopo aver constatato l'assenza del requisito della residenza o del lavoro nel quinquennio antecedente, ha archiviato la domanda (fatto non contestato). Per poter decidere la domanda del ricorrente - di accertare il carattere discriminatorio dell'esclusione del ricorrente in ragione del mancato possesso del requisito della residenza o attivita' lavorativa quinquennale e di ordinare alla regione resistente di modificare il predetto regolamento, escludendo le previsioni discriminatorie - e si rende pertanto necessario applicare la L.R. n. 16/2016 (prima ancora che il regolamento n. 4/2017, che alla stessa ha dato attuazione). Le disposizioni di tale legge, infatti, costituiscono l'indefettibile presupposto normativo del regolamento ritenuto discriminatorio ed oggetto del presente giudizio. Il sig. K., infatti, non potrebbe accedere ai servizi abitativi pubblici - in relazione ai quali aveva presentato una domanda - atteso che lo stesso non possiede il requisito previsto dall'art. 22 lettera b) della citata legge regionale. L'eventuale accertamento della natura discriminatoria di tale disposizione, pertanto, non puo' prescindere dallo scrutinio relativo alla conformita' o meno di tale previsione al disposto dell'art. 3 della Costituzione. Con riferimento alle censure svolte dalla difesa della regione resistente, si osserva che, ai fini dell'accertamento dell'invocata discriminazione, appare del tutto irrilevante il fatto che, al momento della presentazione della domanda, fosse vigente il regolamento regionale antecedente al regolamento n. 4/2017, atteso che il requisito della residenza o attivita' lavorativa quinquennale - requisito il cui possesso si pone, come evidenziato poco sopra, come dirimente rispetto agli altri requisiti, in parte censurati nel presente ricorso - era presente in entrambe le disposizioni (in quanto attuativo delle vigenti leggi regionali). Del pari inconferente appare il richiamo al fatto che il Comune di Milano non sarebbe stato individuato ai fini della sperimentazione (DGR n. 73316 del 30 ottobre 2017), atteso che il regolamento e' comunque entrato in vigore in seguito al decorso di sei mesi dalla data di pubblicazione nel BURL (avvenuta l'8 agosto 2017) e che le sue disposizioni sono vincolanti per tutti i comuni lombardi. In merito alla posizione delle due associazioni ricorrenti, basti osservare che il NAGA e l'ASGI hanno proposto, in proprio, l'azione collettiva ex art. 5 del decreto legislativo n. 215/2003 volta ad accettare il carattere discriminatorio della condotta tenuta dalla Regione Lombardia, consistente nell'aver emanato il regolamento regionale di cui alla deliberazione X/7004 del 31 luglio 2007 nella parte in cui - tra le altre disposizioni censurate - prevede, per l'accesso ai servizi abitativi pubblici il requisito della residenza o attivita' lavorativa quinquennale nella detta regione, o, in subordine, nella parie in cui prevede detti requisiti anche per i nuclei familiari in condizioni di indigenza di cui all'art. 13 del regolamento e per gli interventi di emergenza abitativa di cui all'art. 23, comma 13, L.R. n. 16/2016. Appare, pertanto, evidente la rilevanza della questione di costituzionalita' per l'accertamento della ragionevolezza o della non ragionevolezza - e, dunque, della discriminazione - delle disposizioni censurate. Del pari rilevante, con riferimento alle due associazioni ricorrenti, portatrici di interessi collettivi (e, nel caso di specie, portatrici del diritto dei titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria a non essere discriminati) la questione con riferimento alla posizione dei richiedenti, gia' titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria. 7. Non manifesta infondatezza. a) La questione di costituzionalita' dell'art. 22, comma 1, lettera b) della L.R. n. 16/2016 appare, ad avviso di questo giudice, non manifestamente infondata in relazione, in primo luogo, all'art. 3 Cost. L'art. 22, comma 1, lettera b) della legge citata indica, tra i requisiti per avere accesso ai servizi abitativi pubblici, la «residenza anagrafica o lo svolgimento di attivita' lavorativa in Regione Lombardia per almeno 5 anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda». La disposizione in esame trova applicazione per tutti i beneficiari dei servizi abitativi pubblici e, dunque, anche per i «nuclei familiari in condizioni di indigenza» (art. 23, comma 3 della legge n. 16/2016, ai sensi del quale «si considerano in condizioni di indigenza i nuclei familiari che dichiarano una situazione economica pari o inferiore all'indicatore di situazione economica equivalente corrispondente ad una soglia di poverta' assoluta e di grave deprivazione materiale ... ») e nell'ambito della c.d. «emergenza abitativa» disciplinata dall'art. 23, comma 13 della legge in esame (cioe' nell'ambito dell'intervento volto a «contenere il disagio abitativo di particolari categorie sociali, soggette a procedure esecutive di rilascio degli immobili .... »). La Corte costituzionale ha da tempo rilevato che le finalita' proprie dell'edilizia residenziale pubblica sono quelle di «garantire un'abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove e' la sede dei loro interessi» (sentenza n. 176 del 2000), al fine di assicurare un'esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongono di risorse sufficienti (art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea), mediante un servizio pubblico deputato alla «provvista di alloggi per i lavoratori e le famiglie meno abbienti» (sentenze n. 417 del 1994, n. 347 del 1993, n. 486 del 1992). Piu' di recente, il Giudice delle leggi ha espressamente affermato che «dal complesso delle disposizioni costituzionali relative al rispetto della persona umana, della sua dignita' e delle condizioni minime di convivenza civile, emerge, infatti, con chiarezza che l'esigenza dell'abitazione assume i connotati di una pretesa volta a soddisfare un bisogno sociale ineludibile, un interesse protetto, cui l'ordinamento deve dare adeguata soddisfazione, anche se nei limiti della disponibilita' delle risorse finanziarie. Per tale motivo, l'accesso all'edilizia residenziale pubblica e' assoggettato ad una serie di condizioni relative, tra l'altro, ai requisiti degli assegnatari di alloggi di edilizia residenziale pubblica, quali, ad esempio, il basso reddito familiare (sentenza n. 121 del 1996) e l'assenza di titolarita' del diritto di proprieta' o di diritti reali di godimento su di un immobile adeguato alle esigenze abitative del nucleo familiare dell'assegnatario stesso, requisiti sintomatici di una situazione di reale bisogno» (Corte costituzionale n. 168/2014). In questa prospettiva, la legge n. 16 del 2016 della Regione Lombardia, intitolata «Disciplina regionale dei servizi abitativi», dispone, all'art. 1, che «la presente legge disciplina i soggetti, i servizi e gli strumenti del sistema regionale dei servizi abitativi al fine di soddisfare il fabbisogno abitativo primario e di ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonche' di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio». Nel capo dedicato alla «disciplina dei servizi abitativi pubblici», all'art. 21 prevede che tali servizi «si rivolgono ai nuclei familiari che si trovano in uno stato di disagio economico, familiare ed abitativo, accertato ai sensi del regolamento di cui all'art. 23» (sopra citato). Al fine di realizzare tale servizio sociale, la regione ha stabilito, all'art. 22, specifici criteri di accesso per l'assegnazione dei beni facenti parte del patrimonio abitativo regionale in esame, fra i quali - accanto alla previsione di indicatori del basso reddito e della assenza di titolarita' di diritti di proprieta' o di altri diritti reali di godimento su beni immobili adeguati alle esigenze abitative del nucleo familiare richiedente - indica, alla lettera b), il diverso criterio della residenza o dello svolgimento dell'attivita' lavorativa protratta per cinque anni sul territorio regionale. La Corte costituzionale ha, peraltro, affermato «il principio che "se al legislatore, sia statale che regionale (e provinciale), e' consentito introdurre una disciplina differenziata per l'accesso alle prestazioni assistenziali al fine di conciliare la massima fruibilita' dei benefici previsti con la limitatezza delle risorse finanziarie disponibili" (sentenza n. 133 del 2013), tuttavia "la legittimita' di una simile scelta non esclude che i canoni selettivi adottati debbano comunque rispondere al principio di ragionevolezza" (sentenza n. 133 del 2013) e che, quindi, debbano essere in ogni caso coerenti ed adeguati a fronteggiare le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che costituiscono il presupposto principale di fruibilita' delle provvidenze in questione (sentenza n. 40 del 2011)» (sentenza n. 168 del 2014). Ha inoltre affermato che «l'introduzione di regimi differenziati e' consentita solo in presenza di una causa normativa non palesemente irrazionale o arbitraria, che sia cioe' giustificata da una ragionevole correlazione tra la condizione cui e' subordinata l'attribuzione del beneficio e gli altri peculiari requisiti che ne condizionano il riconoscimento e ne definiscono la ratio» (sentenza n. 172 del 2013). Con particolare riferimento al requisito della residenza protratta, proprio nella sentenza invocata, non pertinentemente, dalla difesa regionale (la sentenza n. 32/2008), la Corte costituzionale - chiamata a valutare la legittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 41-bis, della legge della Regione Lombardia 5 gennaio 2000, n. 1 (cosi' come modificata legge della Regione Lombardia 8 febbraio 2005, n. 7) che prevedeva, per la presentazione della domanda, il requisito della residenza protratta in Lombardia o dell'attivita' lavorativa in detta regione per 5 anni antecedenti alla data della domanda - ha affermato che il requisito della residenza continuativa, ai fini dell'assegnazione, risulta non irragionevole (sentenza n. 432 del 2005) quando si pone in coerenza con le finalita' che il legislatore intende perseguire (sentenza n. 493 del 1990), specie la' dove le stesse realizzino un equilibrato bilanciamento tra i valori costituzionali in gioco (ordinanza n. 393 del 2007). Nella sentenza in esame, il Giudice delle leggi non si era, pero', ancora pronunciato sul rispetto dei principi di ragionevolezza ed eguaglianza. Nelle pronunce successive a quella del 2008, la Corte costituzionale ha infatti chiarito che la previsione del requisito della residenza protratta per un predeteminato e significativo periodo minimo di tempo (nella specie, quinquennale), ove di carattere generale e dirimente, non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari», non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno o di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di accesso al sistema di protezione sociale (sentenza n. 40 del 2011)» (sentenza n. 222 del 2013). Alla luce della giurisprudenza costituzionale appena ricordata (non specificamente presa in esame dalla difesa regionale, ne' nella comparsa di costituzione, ne' nelle note difensive autorizzate), ad avviso di questo giudice, la norma in esame risulta lesiva dell'art. 3 Cost. La configurazione della residenza (o dell'occupazione) protratta come condizione dirimente per l'accesso ai servizi abitativi pubblici, anche per le famiglie economicamente deboli, si pone, difatti, in patente contrasto con la vocazione sociale propria dell'esigenza dell'abitazione (nei limiti sopra ricordati). Il servizio abitativo pubblico, infatti, rispondendo direttamente a finalita' di eguaglianza sostanziale predicata espressamente dall'art. 3, secondo comma Cost., garantisce un'abitazione a soggetti economicamente deboli nel luogo ove e' la sede dei loro interessi ed elimina un ostacolo che limita detta eguaglianza ed impedisce il pieno sviluppo della persona umana. Il requisito previsto dalla norma in esame - che non si limita a riconoscere una preferenza a chi risiede o lavora in Lombardia da «almeno cinque anni», ma che prevede il requisito del radicamento territoriale legato al solo decorso del quinquennio come limite di accesso al servizio abitativo - non ha, viceversa, alcun ragionevole collegamento con la funzione sociale dei servizi abitativi pubblici. In secondo luogo, si osserva come il limite alla prestazione sociale oggetto del presente giudizio - il requisito di residenza o attivita' lavorativa quinquennale - non risponda al necessario criterio di ragionevolezza. Non vi e', infatti, alcuna ragionevole correlazione tra la durata della residenza, prevista dall'art. 22, lettera b) della legge n. 16/2016 (durata che costituisce l'unico strumento di valutazione del radicamento con il territorio), e la situazione di disagio economico che il servizio abitativo pubblico mira ad alleviare. Non puo' infatti ragionevolmente presumersi che coloro che vivono nella Regione Lombardia da meno di cinque anni soffrano una condizione di disagio minore rispetto a chi vi risieda da piu' anni. La Corte costituzionale ha gia' affermato che il requisito della residenza protratta, ove di carattere generale e dirimente (come nel caso di specie), non risulta rispettosa dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in quanto «introduce nel tessuto normativo elementi di distinzione arbitrari, non essendovi alcuna ragionevole correlazione tra la durata prolungata della residenza e le situazioni di bisogno e di disagio, riferibili direttamente alla persona in quanto tale, che in linea astratta ben possono connotare la domanda di accesso al sistema protezione sociale» (sentenza n. 222 del 2013). In terzo luogo, si osserva come l'applicazione del requisito di residenza o di lavoro quinquennale anche ai casi di «nuclei familiari in condizioni di indigenza» porti ad escludere - come peraltro gia' affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 166/2018 - che possa ravvisarsi alcuna ragionevole correlazione tra il soddisfacimento dei bisogni abitativi primari della persona che versi in condizioni di «di poverta' assoluta e di grave deprivazione materiale» (art. 23 legge n. 16/2016) e sia insediata nel territorio regionale e la lunga protrazione nel tempo di tale radicamento territoriale (cfr., altresi', Corte Cost. 222 del 2013, n. 40 del 2011 e n. 187 del 2010). b) La questione appare, inoltre, per quanto riguarda il ricorso proposto dalle associazioni, non manifestamente infondata anche con riferimento all'art. 10 Cost. (oltre che all'art. 3 Cost., per le ragioni sopra richiamate), per quanto riguarda la categoria dei titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria. L'art. 10 comma III Cost., infatti, prevede che: «lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l'effettivo esercizio delle liberta' democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d'asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge». La Suprema corte (cfr. Cassazione 4 agosto 2016 n. 16362) ha da tempo chiarito che il diritto d'asilo, ex art. 10 Cost., risulta interamente attuato e regolato attraverso le tre forme di protezione previste dall'ordinamento vigente (rifugio, protezione sussidiaria e protezione umanitaria). Orbene, l'art. 22 della L.R. n. 16/2016 trova applicazione nei confronti di tutti i potenziali richiedenti e dunque anche nei confronti dei titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria. Il decreto legislativo n. 251 del 2007 - che ha disciplinato, in attuazione della direttiva n. 2004/83/CE (cd «Direttiva qualifiche»), il riconoscimento allo straniero della qualifica di rifugiato o del diritto alla protezione sussidiaria in base ai principi gia' contenuti nella Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 - prevede che uno dei requisiti per ottenere la protezione in esame sia proprio l'impossibilita' di fare ritorno nel proprio Paese d'origine. Del pari, uno dei requisiti per il riconoscimento della protezione umanitaria e' rappresentato dall'impedimento all'esercizio delle liberta' democratiche nel paese d'origine (e, dunque, l'impossibilita' di fare ritorno nel detto paese). La possibilita' di accedere al servizio di edilizia residenziale pubblica, per tali categorie di persone, non puo' pertanto essere ragionevolmente legata al radicamento sul territorio (ne' tale radicamento puo' essere ritenuto rispettoso del principio di proporzionalita'), ma, una volta ottenuta la protezione - in ragione dei requisiti previsti per il riconoscimento dello status di rifugiato, di quella sussidiaria o umanitaria - la situazione di bisogno (che legittima la presentazione della domanda) dovrebbe essere disciplinata con riferimento ad altre condizioni (individuate dal legislatore in armonia con le finalita' della legge sopra descritte, ed in coerenza con le caratteristiche dei titolari di protezione e con i diritti ad essa connessi). c) La questione appare, inoltre, non manifestamente infondata anche con riferimento all'art. 117 Cost., in relazione alla direttiva n. 2003/109 (e segnatamente all'art. 11). L'art. 11 della direttiva in esame prevede che: «Il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda: ... lettera f) l'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all'erogazione degli stessi, nonche' alla procedura per l'ottenimento di un alloggio». Il secondo comma dispone: «Per quanto riguarda le disposizioni del paragrafo 1, lettere b), d), e), f) e g), lo Stato membro interessato puo' limitare la parita' di trattamento ai casi in cui il soggiornante di lungo periodo, o il familiare per cui questi chiede la prestazione, ha eletto dimora o risiede abitualmente nel suo territorio». Nella disposizione normativa in esame non si prevede soltanto una limitazione per chi «dimora o risiede abitualmente», ma si impone una preclusione all'accesso, in difetto di un requisito di residenza prolungata (o di attivita' lavorativa) per ben cinque anni. In relazione ai requisiti di residenza prolungata, la Corte di giustizia dell'Unione europea ha affermato che «una siffatta normativa nazionale, che svantaggia taluni cittadini di uno Stato membro per il solo fatto che essi hanno esercitato la loro liberta' di circolare e di soggiornare in un altro Stato membro, costituisce una restrizione alle liberta' riconosciute dall'art. 21, n. l, TFUE ad ogni cittadino dell'Unione», e che «una simile restrizione puo' essere giustificata, con riferimento al diritto dell'Unione, solo se e' basata su considerazioni oggettive indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate ed e' proporzionata allo scopo legittimamente perseguito dal diritto nazionale» (sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, Stewart, punti 86 e 87; si vedano anche le sentenze 26 febbraio 2015, in causa C-359/13, B. Martens; 24 ottobre 2013, in causa C-220/12, Andreas lngemar Thiele Meneses (punti 22-29); 15 marzo 2005, in causa C-209/03, The Queen, ex parte di Dany Bidar, punti 51-54; 23 marzo 2004, in causa C-138/02, Brian Francis Collins; 30 settembre 2003, in causa C-224/01, Gerhard Köbler). La Corte di giustizia non esclude a priori l'ammissibilita' di requisiti di residenza per l'accesso a prestazioni erogate dagli Stati membri, ma richiede che la norma persegua uno scopo legittimo, che sia proporzionata, e che il criterio adottato non sia «troppo esclusivo», potendo sussistere altri elementi rivelatori del «nesso reale» tra il richiedente e lo Stato (si vedano le citate sentenze Stewart, punti 92 e 95, e Thiele Meneses, punto 36). Orbene, non sembra potersi ritenere che la norma in esame, alla luce delle considerazioni sopra espresse, persegua uno scopo legittimo. Se, infatti, scopo della legge e' quello di «soddisfare il fabbisogno abitativo primario e di ridurre il disagio abitativo dei nuclei familiari, nonche' di particolari categorie sociali in condizioni di svantaggio» (art. 1 della legge n. 16/16), non si comprende come tale scopo possa essere raggiunto attraverso l'esclusione tout court di persone bisognose (tra le quali anche quelle appartenenti a nuclei familiari in condizioni di indigenza) che risiedono in Lombardia da un periodo di tempo inferiore ai 5 anni. La disposizione normativa oggetto del presente procedimento, inoltre, non appare rispettosa del principio di proporzionalita', prevedendo l'obbligo incondizionato di residenza da almeno cinque anni quale presupposto necessario per la stessa ammissione al beneficio dell'accesso all'edilizia residenziale pubblica e non, invece, come mera regola di preferenza. Il fatto che tale disposizione si risolva in una discriminazione anche per i cittadini italiani (non radicati in Lombardia da piu' di cinque anni) non e' poi rilevante ai fini della conformita' al diritto europeo (Corte di giustizia dell'Unione europea, sentenze Thiele Meneses, punto 27; 16 gennaio 2003, in causa C-388/01, Commissione, punto 14; 6 giugno 2000, in causa C-281/98, Angonese, punto 41). La Corte costituzionale, peraltro - sebbene investita della questione in via principale e non incidentale, come nel caso di specie - ha gia' censurato, per violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., e dell'art. 21 TFUE, una norma che annoverava, fra i requisiti di accesso all'edilizia residenziale pubblica, la «residenza nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente»: scrive, in proposito, il Giudice delle leggi «la norma regionale in esame li pone [i cittadini dell'Unione europea] in una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla comunita' regionale, ma anche rispetto agli stessi cittadini italiani, che potrebbero piu' agevolmente maturare gli otto anni di residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione vietata dal diritto comunitario [ ... ], in particolare dall'art. 18 del TFUE, in quanto determina una compressione ingiustificata della loro liberta' di circolazione e soggiorno, garantita dall'art. 21 del TFUE» (sentenza n. 168 del 2014; si vedano anche le sentenze n. 190 del 2014 e n. 264 del 2013). Al di la' ed a prescindere dalla natura - incidentale o principale - del giudizio sottoposto all'esame della Corte, deve pertanto ritenersi che, anche nel caso di specie, la previsione dell'obbligo di residenza da almeno cinque anni, quale presupposto necessario per la stessa ammissione al beneficio dell'accesso all'edilizia residenziale pubblica (e non, quindi, come mera regola di preferenza), determini un'irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell'Unione, ai quali deve essere garantita la parita' di trattamento rispetto ai cittadini degli Stati membri (art. 24, par. 1, della direttiva n. 2004/38/CE), sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo, i quali, in virtu' dell'art. 11, paragrafo 1, lettera f), della direttiva n. 2003/109/CE, godono dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda anche l'accesso alla procedura per l'ottenimento di un alloggio. La fattispecie in esame e' dunque sovrapponibile a quella gia' esaminata dalla Corte costituzionale, sebbene in via principale e non incidentale, quanto ai principi affermati, nella sentenza n. 168/2014, avente ad oggetto la declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 19, comma 1, lettera b), della legge della Regione Valle d'Aosta n. 3 del 2013, nella parte in cui indica, fra i requisiti di accesso all'edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza» nella Regione da almeno otto anni, maturati anche non consecutivamente». Nella pronuncia in esame - con argomentazioni che, nella parte relativa alla valutazione del principio di ragionevolezza, ben possono essere valutate nel caso in esame, relativo ad un giudizio in via incidentale - il Giudice delle leggi ha ravvisato nel requisito della residenza protratta un'irragionevole discriminazione sia nei confronti dei cittadini dell'Unione, sia nei confronti dei cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. Si legge, difatti, nella citata sentenza: «quanto ai primi, risulta evidente che la norma regionale in esame li pone in una condizione di inevitabile svantaggio in particolare rispetto alla comunita' regionale, ma anche rispetto agli stessi cittadini italiani, che potrebbero piu' agevolmente maturare gli otto anni di residenza in maniera non consecutiva, realizzando una discriminazione vietata dal diritto comunitario (oggi «diritto dell'Unione europea», in virtu' dell'art. 2, numero 2, lettera a, del Trattato di Lisbona, che modifica il trattato sull'Unione europea e il trattato che istituisce la Comunita' europea, firmato a Lisbona il 13 dicembre 2007), in particolare dall'art 18 del TFUE, in quanto determina una compressione ingiustificata della loro liberta' di circolazione e soggiorno, garantita dall' art. 21 del TFUE. Infatti, il requisito della residenza protratta per otto anni sul territorio regionale induce i cittadini dell'Unione a non esercitare la liberta' di circolazione abbandonando lo Stato membro cui appartengono (Corte di giustizia, sentenza 21 luglio 2011, in causa C-503/09, Stewart), limitando tale liberta' in una misura che non risulta ne' proporzionata, ne' necessaria al pur legittimo scopo di assicurare che a beneficiare della provvidenza siano soggetti che abbiano dimostrato un livello sufficiente di integrazione nella comunita' presso la quale risiedono (Corte di giustizia, sentenza 23 marzo 2004, in causa C-138/02, Collins), anche al fine di evitare oneri irragionevoli onde preservare l'equilibrio finanziario del sistema locale di assistenza sociale (Corte di giustizia, sentenza 2 agosto 1993, in cause riunite C-259/91, C-331/91 e C-332/91, Allue'). Non e', infatti, possibile presumere, intermini assoluti, che i cittadini dell'Unione che risiedano nel territorio regionale da meno di otto anni, ma che siano pur sempre ivi stabilmente residenti o dimoranti, e che quindi abbiano instaurato un legame con la comunita' locale, versino in stato di bisogno minore rispetto a chi vi risiede o dimora da piu' anni e, per cio' stesso siano estromessi dalla possibilita' di accedere al beneficio. Sulla base di analoghe argomentazioni, e' agevole ravvisare la portata irragionevolmente discriminatoria della norma regionale impugnata anche con riguardo ai cittadini di Paesi terzi che siano soggiornanti di lungo periodo. L'art. 11 della direttiva n. 2003/109/CE stabilisce, alla lettera f) del paragrafo 1, che il soggiornante di lungo periodo gode dello stesso trattamento dei cittadini nazionali per quanto riguarda «l'accesso a beni e servizi a disposizione del pubblico e all'erogazione degli stessi, nonche' alla procedura per l'ottenimento di un alloggio». Tale previsione, che e' stata recepita dall'art. 9, comma 12, lettera c), del decreto legislativo n. 286 del 1998 (nel testo modificato dal decreto legislativo 8 gennaio 2007, n. 3, recante «Attuazione della direttiva 2003/109/CE relativa allo status di cittadini di Paesi terzi soggiornanti di lungo periodo»), mira ad impedire qualsiasi forma dissimulata di discriminazione che, applicando criteri di distinzione diversi dalla cittadinanza, conduca di fatto allo stesso risultato, a meno che non sia obiettivamente giustificata e proporzionata al suo scopo. La previsione di una certa anzianita' di soggiorno o di residenza sul territorio ai fini dell'accesso agli alloggi di edilizia residenziale pubblica, che si aggiunge al requisito prescritto per ottenere lo status di soggiornante di lungo periodo, costituito dal possesso del permesso di soggiorno da almeno cinque anni nel territorio dello Stato, ove tale soggiorno non sia avvenuto nel territorio della regione, potrebbe trovare una ragionevole giustificazione nella finalita' di evitare che detti alloggi siano assegnati a persone che, non avendo ancora un legame sufficientemente stabile con il territorio, possano poi rinunciare ad abitarvi, rendendoli inutilizzabili per altri che ne avrebbero diritto, in contrasto con la funzione socio-assistenziale dell'edilizia residenziale pubblica. Tuttavia, l'estensione di tale periodo di residenza fino ad una durata molto prolungata, come quella pari ad otto anni prescritta dalla norma impugnata, risulta palesemente sproporzionata allo scopo ed incoerente con le finalita' stesse dell'edilizia residenziale pubblica ... ». La giurisprudenza costituzionale appena richiamata consente di ritenere che anche il requisito di residenza protratta per cinque anni in Lombardia o di svolgimento di attivita' lavorativa (nella medesima regione) nel quinquennio almeno precedente la data di presentazione della domanda non possa giustificarsi in ragione dell'esigenza di evitare di assegnare i servizi abitativi pubblici a persone che non hanno un legame sufficientemente stabile con il territorio, atteso che richiedere una residenza di almeno cinque anni si appalesa in contrasto con le finalita' della legge sull'edilizia residenziale pubblica e risulta irragionevole e del tutto sproporzionato rispetto allo scopo perseguito (essendo, peraltro, previsto come criterio esclusivo per valutare l'esistenza di un determinato livello di radicamento territoriale).
P.Q.M. Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953, ritenutane la rilevanza e la non manifesta infondatezza rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 22, comma 1 lettera b) della L.R. Lombardia n. 16/2016, per contrasto con l'art. 3, nonche' per contrasto con l'art. 117 comma 1 Cost., in relazione alla direttiva n. 2003/109 e, per i titolari di protezione internazionale e di protezione umanitaria, anche per contrasto con l'art. 10 Cost., nella parte in cui annovera, fra i requisiti di accesso all'edilizia residenziale pubblica, quello della «residenza anagrafica o svolgimento di attivita' lavorativa in Regione Lombardia per almeno cinque anni nel periodo immediatamente precedente la data di presentazione della domanda». Sospende il giudizio e dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Ordina che la presente ordinanza sia notificata a cura della Cancelleria alle parti, al Presidente del Consiglio dei Ministri e sia comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Milano, 22 gennaio 2019 Il Giudice: Flamini