N. 135 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 maggio 2019
Ordinanza del 28 maggio 2019 del Tribunale di sorveglianza di Perugia nel procedimento di sorveglianza nei confronti di P. P.. Ordinamento penitenziario - Benefici penitenziari - Permessi premio - Condannato all'ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art. 416-bis cod. pen. della quale sia stato partecipe - Mancata collaborazione con la giustizia - Preclusione all'accesso di un permesso premio. - Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), art. 4-bis, comma 1.(GU n.34 del 21-8-2019 )
TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA per il distretto della Corte di appello di Perugia Il Tribunale di sorveglianza di Perugia, riunito in Camera di consiglio e composto da: dott. Fabio Gianfilippi, Presidente; dott.ssa Delia Anibaldi, Magistrato sorv. Perugia; dott.ssa Marzia Gervasi, esperto; dott. Federico Giubilei, esperto; ha pronunciato, a scioglimento della riserva di cui al verbale di udienza in data 23 maggio 2019, e preso atto delle conclusioni del P.G. e del difensore, la seguente ordinanza nel procedimento di sorveglianza iscritto al n. SIUS 2018/2080 promosso da P. P., nato a Reggio Calabria il ..., detenuto presso la Casa reclusione di ..., in esecuzione della pena dell'ergastolo di cui al provvedimento di cumulo emesso dalla Procura generale della Repubblica presso la Corte appello Reggio Calabria in data 15 maggio 2014, poi modificato con successivo provvedimento di rideterminazione della pena in data 18 aprile 2019, procedimento avente ad oggetto reclamo avverso provvedimento di inammissibilita' di istanza di permesso premio emesso dal Magistrato di sorveglianza di Spoleto; Osserva Con provvedimento in data 8 novembre 2018 il Magistrato di sorveglianza di Spoleto dichiarava inammissibile l'istanza diretta ad ottenere la concessione di un permesso premio ai sensi dell'art. 30-ter ord. penit. pervenuta da P. P., motivando cio' con la considerazione che l'interessato espia la pena dell'ergastolo con isolamento diurno in relazione ad un provvedimento di cumulo che comprende condanne tutte per delitti rientranti nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., ostative percio' alla concessione del permesso. Si aggiungeva che il P. aveva tentato in passato anche la strada della richiesta di declaratoria di impossibilita' della condotta collaborativa ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1-bis, ord. penit., unica alternativa ad una collaborazione effettiva con la giustizia ex art. 58-ter ord. penit. per superare l'altrimenti assoluta ostativita' alla concessione di benefici, ottenendo pero' una pronuncia negativa sul punto da parte del Tribunale di sorveglianza di Perugia con l'ordinanza in data 19 luglio 2012, che la riteneva ancora praticabile, a fronte di zone d'ombra non completamente chiarite dalle condanne che avevano attinto l'allora istante. La difesa del P. ha reclamato dinanzi al Tribunale di sorveglianza sostenendo che l'interessato si trova oggi in esecuzione di quote di pena per delitti diversi da quelli interamente ostativi ricompresi nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., anche alla luce dell'insegnamento della S.C. per il quale in caso di cumulo giuridico che abbia condotto alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno occorre sciogliere il cumulo in favore del condannato e ritenere che, mediante il predetto isolamento diurno, l'interessato abbia espiato gia' meta' della pena temporanea relativa a delitto ostativo. In subordine, in caso di mancato accoglimento del reclamo nei termini sin qui enunciati, la difesa dell'interessato ha chiesto, e ribadito la richiesta con memoria anche in occasione dell'odierna udienza, che il Tribunale di sorveglianza sospenda la sua decisione in attesa della risoluzione della questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla S.C. con ordinanza n. 57913/2018 circa l'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis codice penale, ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dalla stessa norma, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio, poiche' in caso di declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma, la richiesta di permesso dovrebbe considerarsi comunque ammissibile e, a quel punto, l'interessato meriterebbe, dopo lunga detenzione, la concessione del permesso richiesto. Per le ragioni che si diranno, il presente procedimento deve essere sospeso per rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimita' dell'art. 4-bis, comma 1 ord. penit. nella parte in cui esclude che il condannato alla pena dell'ergastolo in relazione a condanne per delitti commessi al fine di agevolare l'attivita' di associazioni ex art. 416-bis codice penale di cui abbia fatto parte, che non abbia collaborato con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit., possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio. Occorre premettere, anche al fine di evidenziare la rilevanza della questione che si intende sottoporre all'esame del Giudice delle leggi, che non puo' accogliersi la ricostruzione difensiva circa l'ammissibilita' del chiesto permesso premio per avere il P. gia' interamente espiato la quota di pena relativa a delitti ostativi, poiche' rientranti nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. Infatti l'interessato esegue la pena dell'ergastolo con isolamento diurno (gia' svolto) in relazione a quattro condanne, confluite in un provvedimento di cumulo, rispettivamente alla pena di anni 5 di reclusione per partecipazione ad associazione a delinquere ex art. 416-bis codice penale (sentenza Corte appello Messina 17 giugno 2000), dell'ergastolo con isolamento diurno per omicidio commesso nel contesto e per le finalita' della guerra tra cosche di ndrangheta avvenuta nel territorio reggino alla fine degli anni '80, dunque finalizzata all'agevolazione del gruppo criminale di appartenenza (sentenza Corte assise appello Reggio Calabria 23 giugno 2000), di anni 13 di reclusione per estorsione aggravata, fatto commesso nell'anno 1993 (sentenza Corte assise appello Reggio Calabria 3 aprile 2001) e di anni 30 di reclusione nuovamente per associazione a delinquere di stampo mafioso ed omicidio commessi nel contesto della guerra di ndrangheta, fatti del 1989 (sentenza Corte assise appello Reggio Calabria 9 maggio 2001). Da ultimo, pronunciandosi su una richiesta di continuazione da parte dell'interessato, la Corte assise appello Reggio Calabria ha ulteriormente chiarito come gli episodi omicidiari di cui il P. si e' reso protagonista si collegano alle finalita' perseguite dalla cosca, nella quale il condannato, con grado di «sgarrista» (per come ricostruito anche nella gia' citata ordinanza del Tribunale di sorveglianza di Perugia) ricopriva un ruolo attivo nelle attivita' estorsive e nei gruppi di fuoco protagonisti degli scontri con i clan avversi tra la fine degli anni '80 ed i primi anni '90. L'intera pena dell'ergastolo risulta pertanto ostativa alla concessione del permesso premio, ne' l'operazione dello scioglimento del cumulo, per come elaborato dalla giurisprudenza della S.C., puo' in un caso simile comportare alcun vantaggio per l'interessato, in presenza di almeno una condanna ostativa che gia' prevede la pena perpetua. Neppure viene correttamente evocata la giurisprudenza della Cassazione, esemplificata da ultimo nella sentenza n. 988 del 27 settembre 2017, a mente della quale «in materia di richiesta di accesso alle misure alternative alla detenzione del condannato in espiazione dell'ergastolo e di pena detentiva temporanea inflitta per reato ostativo ex art. 4-bis della legge 26 luglio 1975 n. 354 (cd. ordinamento penitenziario), allorche' si debba procedere allo scioglimento del cumulo per la verifica della gia' intervenuta espiazione di quest'ultima - tradottasi, per la concorrenza con la pena perpetua, in applicazione dell'isolamento diurno che sia stato interamente eseguito - si deve avere riferimento alla pena temporanea originariamente inflitta, ridotta della meta'.» poiche' nel caso che ci occupa ad essere ostativa non e' la sola pena temporanea concorrente, ma la stessa pena dell'ergastolo, legata appunto alla commissione di un delitto ostativo. Da tale ricostruzione consegue la correttezza della motivazione sul punto del provvedimento del Magistrato di sorveglianza di Spoleto. Deve essere tuttavia esaminata la richiesta subordinata della difesa dell'istante che, pur evocando una ipotesi di impropria sospensione del procedimento in attesa della decisione di questione di' legittimita' costituzionale da parte della Consulta, che considera rilevante in materia, sostanzialmente richiede al Tribunale di sorveglianza di vagliarne a sua volta la non manifesta infondatezza per poter assumere le decisioni conseguenti. Con l'ordinanza 20 novembre 2018, n. 57913 la S.C. ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis codice penale, o al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio, con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione. Non sembra superfluo a questo Tribunale di sorveglianza ripercorrere i passaggi essenziali dell'ordinanza della S.C., sia perche' condivisi dal Collegio, sia per evidenziarne tratti di non completa sovrapponibilita' con la fattispecie di cui all'odierno procedimento, che pure devono sottoporsi all'esame della Corte costituzionale. Come nell'odierno procedimento, anche in quello all'attenzione della Cassazione, ci si occupa della richiesta di un condannato alla pena dell'ergastolo di fruire di un permesso premiale, rigettata dal magistrato di sorveglianza competente, con decisione confermata in sede di reclamo dal Tribunale di sorveglianza, poiche' si afferma che lo stesso si trova in espiazione di' pena per delitti commessi con la finalita' di agevolazione di una associazione ex art. 416-bis codice penale. In un tale caso, infatti, soltanto la scelta di collaborare con la giustizia, invece non avvenuta, potrebbe comportare la fuoriuscita dal regime di assoluta ostativita'. Nessuna valutazione puo' pero' farsi in concreto sulla pericolosita' sociale del condannato, aggiunge la S.C., perche' la magistratura di sorveglianza deve, di fronte a tale assoluta ostativita', dichiarare soltanto l'inammissibilita' dell'istanza, con la conseguenza della rilevanza per il giudizio sottopostole della questione di legittimita' costituzionale prospettata che, in caso di accoglimento, consentirebbe la rimessione al giudice del merito, come giudice di rinvio, con il compito di verificare l'eventuale meritevolezza del beneficio premiale. Circa le ragioni che sorreggono la questione, viene citato innanzitutto il complesso filone giurisprudenziale formatosi grazie ai ripetuti interventi della Corte costituzionale sui parametri che orientano il giudice nell'applicazione delle misure cautelari personali, in particolare quando si afferma che le presunzioni assolute, ove limitative di diritti fondamentali, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali ovvero «se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit» (Corte cost. sentenza n. 139/2010, tra le altre, e da ultimo sentenza n. 57/2013), con la conseguenza di una declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3 sec. per. codice di procedura penale nella parte in cui «nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis del codice penale ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo, e' applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva altresi' l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure» (sentenza Corte costituzionale n. 57/2013 cit.). Ed infatti «la possibile estraneita' dell'autore di tali delitti a un'associazione di tipo mafioso fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che implichi o presupponga necessariamente un vincolo di appartenenza permanente a un sodalizio criminoso con accentuate caratteristiche di pericolosita' - per radicamento nel territorio, intensita' dei collegamenti personali e forza intimidatrice - vincolo che solo la misura piu' severa risulterebbe, nella generalita' dei casi, in grado di interrompere» (sentenza Corte costituzionale n. 57/2013 cit.). Un indirizzo poi ribadito (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 48/2015) in relazione al concorrente esterno nell'associazione ex art. 416-bis codice penale, nei confronti del quale pure non e' sussistente un vincolo di adesione permanente al sodalizio mafioso che legittima il ricorso esclusivo alla custodia cautelare in carcere «quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell'indiziato con l'ambiente associativo, neutralizzandone la pericolosita'». Sotto tale primo profilo, dunque, secondo la Cassazione, l'assoluta ostativita' alla concessione di benefici penitenziari per il condannato per un delitto commesso con la finalita' di agevolazione di una associazione ex art. 416-bis codice penale, non distinguendo tale posizione da quella degli affiliati, confliggerebbe con i principi affermati dalla Corte costituzionale in materia di presunzioni assolute di pericolosita' sociale. Da questo punto di vista la posizione dell'odierno interessato differisce da quella esaminata dalla Cassazione, poiche' il P. e' stato condannato per delitti commessi al fine di agevolare il gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis codice penale del quale e' stato riconosciuto partecipe con ruolo sviluppatosi nel corso del tempo nelle diverse vicende criminose che lo hanno visto protagonista negli anni compresi tra il 1987 ed il 1993. Si ritiene tuttavia, per le ragioni che saranno meglio in seguito evidenziate, che anche la sua posizione meriti un vaglio circa la pericolosita' sociale realizzato in concreto dal competente magistrato di sorveglianza e non precluso assolutamente, come invece accade a causa dell'ostativita' prevista dalla disposizione normativa della cui legittimita' costituzionale si dubita. La S.C. segnala poi, con la citata ordinanza di rimessione del 20 novembre 2018, n. 57913, con motivazioni che qui si richiamano diffusamente perche' interamente condivise dal Collegio, che a sua volta le sottopone alla Corte costituzionale, un secondo profilo di criticita' della disposizione di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., ricordando l'orientamento della Consulta che ha stigmatizzato piu' volte, nel corso degli ultimi anni, il ricorso alle preclusioni assolute nel campo dell'esecuzione della pena. Con la sentenza Corte costituzionale n. 239/2014 si e' tagliata fuori dal perimetro dell'ostativita' assoluta la misura domiciliare speciale per condannate madri di prole di eta' non superiore a dieci anni di cui all'art. 47-quinquies ord. penit., collegandone la concessione ad un esame di merito che pero' evidenzi l'insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti. Ed infatti si e' affermato che l'omologazione sotto il profilo dell'ostativita' di misure alternative diverse ed eterogenee nelle finalita' risulta lesiva dei parametri costituzionali ed illogica rispetto anche all'obbiettivo di incentivazione della collaborazione: «Un conto, infatti, e' che tale strategia venga perseguita tramite l'introduzione di uno sbarramento alla fruizione di benefici penitenziari costruiti - com'e' di norma - unicamente in chiave di progresso trattamentale del condannato, sbarramento rimuovibile tramite la condotta collaborativa; altro conto e' che la preclusione investa una misura finalizzata in modo preminente alla tutela dell'interesse di un soggetto distinto e, al tempo stesso, di particolarissimo rilievo, quale quello del minore in tenera eta' a fruire delle condizioni per un migliore e piu' equilibrato sviluppo fisio-psichico. In questo modo, il "costo" della strategia di lotta al crimine organizzato viene traslato su un soggetto terzo, estraneo tanto alle attivita' delittuose che hanno dato luogo alla condanna, quanto alla scelta del condannato di non collaborare. La conclusione non muta, peraltro, neppure se si guarda all'altra e concorrente ratio del regime considerato, scrutinata in precedenza con esito positivo da questa Corte e legata piu' direttamente alla funzione rieducativa della pena. La subordinazione dell'accesso alle misure alternative ad un indice legale del "ravvedimento" del condannato - la condotta collaborativa, in quanto espressiva della rottura del "nesso" tra il soggetto e la criminalita' organizzata (nesso, peraltro, a sua volta presuntivamente desunto dal tipo di reato che fonda il titolo detentivo) - puo' risultare giustificabile quando si discuta di misure che hanno di mira, in via esclusiva, la risocializzazione dell'autore della condotta illecita. Cessa, invece, di esserlo quando al centro della tutela si collochi un interesse "esterno" ed eterogeneo, del genere di quello che al presente viene in rilievo.». Tale secondo percorso argomentativo ha trovato un ulteriore passaggio importante nella sentenza Corte costituzionale n. 149/2018 con cui si e' dichiarata l'illegittimita' costituzionale della particolare preclusione contenuta nell'art. 58-quater, comma 4, ord. penit. rispetto ai condannati a pena dell'ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione che abbiano cagionato la morte del sequestrato, per la quale gli stessi non possono accedere ad alcun beneficio indicato nel comma 1 dell'art. 4-bis ord. penit. (lavoro all'esterno, permessi premio, semiliberta' e liberazione condizionale - tenuto conto del rinvio all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. dell'art. 2, decreto-legge n. 152/1991 poi convertito in legge n. 203/1991) se non abbiano effettivamente espiato almeno ventisei anni di reclusione. In quella pronuncia la Consulta chiarisce che i principi della flessibilita' delle pene e della progressione trattamentale costituiscono esplicazioni dell'art. 27 Cost. vanificate da uno sbarramento uniforme e frustrante della necessaria gradualita' negli interventi trattamentali. Richiamato tale secondo filone giurisprudenziale, la Cassazione evidenzia, con argomentazioni che ancora una volta il Collegio fa proprie, come il meccanismo preclusivo di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. identifichi nella collaborazione con la giustizia (vicariata unicamente dall'impossibilita' o inesigibilita' di tale condotta, ove accertata dal Tribunale di sorveglianza competente in via incidentale rispetto ad una richiesta di beneficio penitenziario, per come previsto nel comma 1-bis della disposizione normativa citata), l'unica via per accedere ad una valutazione di merito circa la sussistenza dei requisiti per la concessione dei benefici indicati nell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. E pur dato atto che tale condotta costituisce una manifestazione inequivoca del distacco dell'interessato dal gruppo criminale di riferimento, tuttavia non puo' per cio' solo dirsi che sia davvero l'unica «prova legale esclusiva di ravvedimento», perche' sono plurime la ragioni che possono indurre un condannato a non collaborare (il rischio per la propria incolumita' e per quella dei propri congiunti, il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di' persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla concessione di un beneficio...) senza che da tale rifiuto possa evincersi l'assenza di una significativa progressione trattamentale e senza che, percio', possa inferirsene una perdurante pericolosita' sociale. In materia di permessi premio, in particolare, i dubbi si accrescono, tenendo conto della peculiarita' dell'istituto, per ottenere il quale sono sufficienti requisiti diversi e meno pregnanti del ravvedimento, richiesto per ottenere la liberazione condizionale (fattispecie scrutinata in passato dalla Corte costituzionale rispetto alle ostativita' dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit: cfr. sentenza Corte costituzionale n. 135/2003), e della sua necessita' per favorire ulteriori progressioni trattamentali e soddisfare esigenze di cura di interessi affettivi, culturali o lavorativi. Utilizzando le espressioni della Cassazione, nell'ordinanza di rimessione citata: «l'innalzamento della scelta collaborativa a prova legale non solo di ravvedimento ma anche di assenza di pericolosita', senza alcuna possibilita' di apprezzamento in concreto della situazione del detenuto alla stregua di individualizzazione del trattamento, non tiene conto della diversita' strutturale del permesso premio ex art. 30-ter ord. pen., dalla natura contingente, rispetto alle misure alternative alla detenzione, condizionando negativamente il trattamento del detenuto in violazione dell'art. 27 Cost.», conclusioni ritraibili anche dalla gia' citata sentenza Corte costituzionale n. 149/2018, che escludeva la legittimita' costituzionale di una preclusione all'accesso ai benefici che neghi una valutazione individualizzata del trattamento penitenziario, fondata su esigenze di prevenzione speciale concretamente riscontrate, perche' cio' condurrebbe altrimenti al sacrificio della finalita' rieducativa, costituzionale, della pena. Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ritiene di condividere i dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit. gia' fatti propri dalla Cassazione con l'ordinanza che si e' qui ampiamente richiamata, proponendo a propria volta la questione di legittimita' costituzionale che, pero', deve estendersi alla preclusione alla possibilita' di essere ammesso alla fruizione di un permesso premio per il condannato alla pena dell'ergastolo che abbia commesso delitti con la finalita' di agevolazione di un gruppo criminale ex art. 416-bis codice penale del quale sia stato riconosciuto partecipe. Circa la rilevanza della detta questione in relazione all'odierno procedimento, sembra sufficiente precisare come, a fronte della posizione giuridica dell'interessato, tenuto conto dei delitti per i quali esegue la pena, soltanto l'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale della sin qui descritta preclusione assoluta alla concessione del permesso premio consentirebbe al Tribunale di sorveglianza di non provvedere con rigetto del reclamo per inammissibilita' dell'istanza di permesso premio e di vagliarne invece la meritevolezza nel caso concreto, e cioe' di verificare se sussistano i requisiti di merito indicati nell'art. 30-ter ord. penit. in ordine al mantenimento di una regolare condotta da parte del condannato nel corso della sua detenzione (per come specificato nell'art. 30-ter, ult. comma ord. penit. cio' significa aver manifestato costante senso di responsabilita' e correttezza nel comportamento personale, nelle attivita' organizzate negli istituti e nelle eventuali attivita' lavorative o culturali) nonche', trattandosi appunto di condannato per delitti compresi nell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., il requisito dell'acquisizione di elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata. L'odierno reclamante, infatti, condannato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per delitti compresi nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., e' ininterrottamente detenuto dal marzo 1995, ha dunque vissuto oltre ventiquattro anni di pena effettiva, ha fruito di gg. 2160 di liberazione anticipata per aver partecipato all'opera rieducativa condotta nei suoi confronti (mantenendo tale condotta anche nei sette anni trascorsi in istituti penitenziari ove ha subito condizioni detentive inumane, per come riconosciuto nel provvedimento del Tribunale di sorveglianza di Perugia in data 21 giugno 2018, adito ex art. 35-ter ord. penit.), e soddisfa dunque l'altro requisito di ammissibilita' (raggiunto nell'anno 2005) per la concessione di un permesso premio al condannato alla pena dell'ergastolo, concernente l'aver espiato la quota di pena di almeno anni 10 indicata dall'art. 30-ter, comma 4, lettera d) ord. penit. L'interessato, per come detto, non ha mai collaborato con la giustizia e il Tribunale di sorveglianza di Perugia, con l'ordinanza emessa nell'anno 2012, ha rigettato una richiesta di declaratoria di collaborazione impossibile o inesigibile con la giustizia, ritenendo che nei fatti per i quali sono intervenute sentenze di condanna nei suoi confronti ci siano ancora zone d'ombre da considerarsi passibili di chiarimento da parte sua, secondo il percorso logico seguito nelle motivazioni di quel provvedimento (una valutazione del Tribunale di sorveglianza che si collega alla lettura dei titoli di condanna e, caso per caso, dipende dalla completezza o lacunosita' delle dichiarazioni dei collaboratori, dalla sussistenza di altre fonti di prova, da molti dati eminentemente estrinseci rispetto all'istante che, comunque, non ha mai reso dichiarazioni collaborative). Se fosse accolta la questione di legittimita' costituzionale, non vi sarebbe affatto una automatica concessione del beneficio richiesto, ma si consentirebbe al Tribunale di sorveglianza di vagliare nel caso concreto (in tal senso negli stessi termini indicati con la sentenza Corte costituzionale n. 57/2013, tra le altre), quale sia stato il percorso trattamentale compiuto dal condannato ed esaminare, ancora una volta in modo specifico, quale sia la pericolosita' sociale attuale dello stesso, deducendola, per come piu' volte ribadito dalla S.C., dal suo comportamento intramurario, dall'avvio di un percorso di rivisitazione critica rispetto ai propri trascorsi criminali (vd. da ultimo sentenza Cassazione 11 ottobre 2016, n. 5505), nonche' da tutto il compendio di informazioni acquisite dalle forze dell'ordine sul territorio, ad esempio sull'operativita' ancora attuale del gruppo criminale di appartenenza o di compagini che si siano sviluppate dalle sue ceneri, comprese quelle richieste al comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica ai sensi dell'art. 4-bis, comma 2, ord. penit. Cio' di cui il Tribunale di sorveglianza di Perugia dubita in questa sede, conformemente a quanto sul punto indicato anche dalla Cassazione, e' che sia compatibile con gli articoli 3 e 27 Cost. l'elevazione della collaborazione con la giustizia a prova legale del venir meno della pericolosita' sociale del condannato, impedendo che la magistratura di sorveglianza vagli nel caso concreto la sussistenza di tale comportamento (di sicura centrale importanza), ma al fianco di altri che possono avere particolare importanza nel caso posto alla sua attenzione. Anche oggi, infatti, se pur collaborazione vi e' stata, superata l'ostativita' assoluta ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit., il Tribunale di sorveglianza e' chiamato a verificare in concreto l'evoluzione personologica del condannato e in questo contesto anche le ragioni che lo hanno condotto alla collaborazione. Quel che si chiede e' che cio' possa farsi anche per l'opzione opposta, al fine di valutare nel caso concreto le ragioni che hanno indotto l'interessato a mantenere il silenzio. Premesso che il diritto a mantenerlo, anche di recente scrutinato, pur su altra materia, dalla Corte costituzionale (cfr. ordinanza n. 117/2019) quale principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale e descritto come «corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto di difesa, riconosciuto dall'art. 24 Cost.» e «appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana», quando le proprie dichiarazioni possano rivelarsi autoaccusatorie, entra in significativa frizione con un meccanismo che impedisce l'accesso a ogni misura extramuraria se non vi si rinuncia, e' necessario che si possa tener conto delle ragioni che, anche al di la' delle propalazioni autoaccusatorie, incidono sulla scelta di non collaborare attivamente: timori per la propria e l'altrui incolumita', in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio, non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i reati; rifiuto di causare la carcerazione di altri, con i quali, ad esempio, si abbia o si sia avuto un legame familiare o affettivo, magari a distanza di molti anni dagli eventi; rifiuto di accedere alla collaborazione perche' non si vuole essere tacciati di averlo fatto soltanto per calcolo utilitaristico, per una riduzione di pena o per ottenere un beneficio penitenziario. E al fianco di questo dato si chiede di poter tener conto anche di altri indici che ben possono contribuire ad una valutazione concreta circa l'assenza di una attuale pericolosita' sociale del condannato e che si collegano proprio al trattamento penitenziario nel tempo offertogli, o a comportamenti chiaramente indicativi di dissociazione dalle associazioni criminali di appartenenza o di concreto impegno in favore delle vittime dei reati commessi. Queste considerazioni vengono particolarmente in rilievo rispetto all'istanza di permesso premio per motivi familiari che sta alla base dell'odierno procedimento. Infatti, per come sopra ricordato, l'assoluta ostativita' del comma 1, art. 4-bis, ord. penit. non soltanto impedisce la valutazione degli elementi specifici collegati alla persona, finendo cosi' per travolgere la possibilita' di un vaglio individualizzato del percorso trattamentale seguito ma, non distinguendo tra differenti benefici penitenziari, ne comprime le peculiarita', richiedendo la collaborazione tanto come prova necessaria per dimostrare il ravvedimento del condannato (requisito proprio della sola liberazione condizionale), quanto per un permesso premio che richiede la piu' modesta regolare condotta, seppur ricca di contenuti per come indicato dallo stesso legislatore e dalla giurisprudenza formatasi sul punto. Di piu', l'impossibilita' di approfondire il proprio percorso trattamentale mediante le sperimentazioni esterne finisce di fatto per bloccarne la naturale individualizzata evoluzione. Il permesso premio, infatti, e' uno strumento fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di responsabilita' e nella capacita' di gestirsi nella legalita', e al Magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacita', mediante le stringenti prescrizioni che possono essere imposte, di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale. Tale momento di passaggio stimola, inoltre, l'approfondimento dei risultati raggiunti, aprendo alla possibilita' che il fruirne nel tempo e con regolarita', in assenza di eventuali involuzioni comportamentali, faccia emergere un sempre piu' convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza abbracciato, produca uno sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati, influenzi condotte di aperta dissociazione o, come adombrato dalla Cassazione nell'ordinanza di rimessione del novembre 2018, stimoli condotte collaborative, altrimenti ormai escluse dall'orizzonte volitivo dell'interessato, che rischia di adagiarsi nel trascorrere degli anni in una istituzionalizzazione inerte. L'ammissibilita' del beneficio premiale, strumento di costruzione della responsabilita' del condannato e sprone verso il reinserimento, necessariamente prodromico alla concessione di misure alternative, e' allora anche garanzia che gli operatori penitenziari investano pienamente tempo e risorse sulla osservazione scientifica della personalita' dell'interessato e non finiscano per svuotare, in assenza di una pronuncia che lo sciolga dall'ostativita', il senso del tempo trascorso in detenzione, indefettibilmente tendente, ex art. 27 Cost., alla rieducazione, soprattutto qui dove parliamo di una pena perpetua che, nel caso che ci occupa, e' iniziata oltre ventiquattro anni fa. Il condannato, infatti, tenuto conto della liberazione anticipata, ha gia' maturato persino i termini per una liberazione condizionale ma, a prescindere dalla meritevolezza di quell'ampio beneficio, che sino ad ora nessun provvedimento della magistratura di sorveglianza ha potuto vagliare in presenza della preclusione assoluta, non si e' mai potuto sperimentare nei ridotti spazi di liberta', molto piu' facilmente monitorabili, consentiti dall'istituto del permesso premiale. Lo stesso parere contrario espresso dalla Direzione dell'istituto penitenziario alla concessione di un permesso premio si collega essenzialmente alla presenza di una fattispecie ostativa, in quanto ricompresa nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., mentre l'aggiornamento del programma di trattamento in data 7 maggio 2019, pur ricco di spunti circa gli approfondimenti psicologici ed il percorso intramurario dell'interessato, si apre (e si chiude) con l'espresso riferimento: «al momento per il detenuto non sono prevedibili benefici di legge in ragione dei reati ostativi alla loro concessione», con cio' manifestando quale ostacolo alla valutazione concreta dell'evoluzione personologica del condannato finisca per essere la declaratoria di inammissibilita' del beneficio che ne e' la conseguenza inevitabile. L'istituto del permesso premio, per altro, nel nostro ordinamento ha anche l'obbiettivo peculiare di garantire all'interessato l'esercizio pieno di diritti, altrimenti legittimamente compressi dalla condizione detentiva, ed in particolare il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni con la famiglia. Com'e' noto, e nonostante progetti di modifica normativa non coltivati e volti a superare questa forte limitazione, non e' infatti consentita nell'attuale ordinamento penitenziario la possibilita' di incontri intimi intramurari con i familiari, con cio' impedendosi l'esercizio della sessualita' e di ogni eventuale aspirazione di genitorialita' che, nel caso del condannato all'ergastolo, diventano una privazione senza termine. Piu' in generale i rapporti con gli stretti congiunti fuori dalle mura del carcere sono assolutamente inibiti, salva la concessione di permessi per gravi motivi, abitualmente di pochissime ore, in caso di imminente pericolo di vita di un familiare o di un evento familiare di particolare gravita' (entrambi requisiti valutati con rigore dalla giurisprudenza di legittimita': cfr., tra le altre, sentenze Cassazione n. 57813/2017 e n. 40660/2011), inibendo, per chi e' sottoposto alla pena dell'ergastolo perpetuamente, la presenza del detenuto ai momenti che costituiscono gli snodi fondamentali, pur se non luttuosi, della vita familiare. Sotto tale profilo, evidentemente, considerazioni legate alla pericolosita' sociale individuale del condannato ben possono, e debbono, condurre al rigetto di un beneficio premiale, che quelle esigenze potrebbe assolvere, ma la sussistenza di una preclusione assoluta, sganciata da una valutazione del caso concreto e nel tempo comunque rivedibile, appare maggiormente stridente a fronte dei diritti fondamentali compressi (cfr., ancora una volta, quanto affermato con la sentenza Corte costituzionale n. 239/2014), anche tenuto conto degli interessi «esterni ed eterogenei», per utilizzare le parole della Consulta in quel caso, costituiti qui dalle aspirazioni al mantenimento dell'unita' familiare da parte del coniuge o convivente e dei figli, ma anche dei genitori di eta' inevitabilmente ingravescente, che nell'attuale sistema normativo passa per come visto necessariamente attraverso l'istituto del permesso premio. Si consentono infatti in quel modo rientri periodici nel contesto familiare e il mantenimento delle relazioni familiari, altrimenti nel tempo sottoposte all'acuto rischio di una progressiva erosione (la stessa Corte costituzionale, con la sentenza n. 301/2012 parlava di questo tema descrivendolo come «esigenza reale e fortemente avvertita», «permettere alle persone sottoposte a restrizione della liberta' personale di continuare ad avere relazioni affettive intime, anche a carattere sessuale: esigenza che trova attualmente, nel nostro ordinamento, una risposta solo parziale nel gia' ricordato istituto dei permessi premio, previsto dall'art. 30-ter della legge n. 354 del 1975, la cui fruizione - stanti i relativi presupposti, soggettivi ed oggettivi - resta in fatto preclusa a larga parte della popolazione carceraria»). Ancora, possono in questa sede farsi proprie interamente le considerazioni della Corte costituzionale che hanno condotto alla declaratoria di illegittimita' della preclusione contenuta, per il condannato all'ergastolo per sequestro di persona con morte del sequestrato, nell'art. 58-quater ord. penit., in particolare quando si afferma che: «l'appiattimento all'unica e indifferenziata soglia di ventisei anni per l'accesso a tutti i benefici penitenziari indicati nel primo comma dell'art. 4-bis ord. penit. si pone, infatti, in contrasto con il principio - sotteso all'intera disciplina dell'ordinamento penitenziario in attuazione del canone costituzionale della finalita' rieducativa della pena - della "progressivita' trattamentale e flessibilita' della pena" (sentenza n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n. 257 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995), ossia del graduale reinserimento del condannato all'ergastolo nel contesto sociale durante l'intero arco dell'esecuzione della pena. Tale principio si attua, nel disegno della legge sull'ordinamento penitenziario, nell'ambito di un percorso ideale le cui prime tappe sono rappresentate dall'ammissione al lavoro all'esterno e dalla concessione di permessi premio, volti questi ultimi a stimolare la "regolare condotta" del detenuto, attestata dall'avere questi manifestato "costante senso di responsabilita' e correttezza nel comportamento personale, nelle attivita' organizzate negli istituti e nelle eventuali attivita' lavorative o culturali" - art. 30-ter, commi 1 e 8, ord. penit. -, e gia' definiti da questa Corte, con sentenza n. 403 del 1997, "uno strumento [...] spesso insostituibile per evitare che la detenzione impedisca del tutto di coltivare interessi affettivi, culturali o di lavoro", funzionale a "perseguire efficacemente quel progressivo reinserimento armonico della persona nella societa', che costituisce l'essenza della finalita' rieducativa". Il percorso di progressivo reinserimento sociale dell'ergastolano prosegue poi, in caso di esito positivo di questi primi esperimenti, con la sua ammissione al piu' incisivo beneficio della semiliberta', che comporta l'autorizzazione a "trascorrere parte del giorno fuori dall'istituto per partecipare ad attivita' lavorative, istruttive o comunque utili al reinserimento sociale" (art. 48, primo comma, ord. penit.); ed e' destinato ad avere il suo culmine nella concessione della liberazione condizionale, subordinata all'accertamento che il condannato "abbia tenuto un comportamento tale da far ritenere sicuro il suo ravvedimento" (art. 176, primo comma, codice penale) e caratterizzata dall'integrale sospensione dell'esecuzione della pena residua, che si estinguera' laddove non intervengano cause di revoca nei cinque anni successivi alla sua concessione (art. 177, secondo comma, codice penale). (...) Con il connesso rischio che la semiliberta' - pur in presenza di una continua e fattiva partecipazione all'opera rieducativa in carcere - venga in concreto negata al condannato stesso alla scadenza dei ventisei anni, proprio in ragione dell'assenza di sue previe positive esperienze al di fuori delle mura penitenziarie nel secondo decennio di espiazione della pena, sulla base del costante insegnamento della giurisprudenza di legittimita', secondo cui la semiliberta' - in quanto misura alternativa alla detenzione che consente al detenuto di trascorrere parte del giorno all'esterno, sia pure in attivita' lavorative e socializzanti - non puo' essere deliberata se non all'esito di previe e positive esperienze di concessione di altre misure alternative meno impegnative, nel medesimo contesto territoriale di fruizione della semiliberta' (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 29 settembre 2009, n. 41914 e 14 ottobre 2008, n. 40992); principio che ben potrebbe essere esteso, a maggior ragione, alla stessa liberazione condizionale, alla quale pure il condannato potrebbe teoricamente accedere anche prima dei ventisei anni.» La Corte costituzionale, sempre nella sentenza n. 149/2018, prosegue poi affermando che: «a tale profilo di irragionevolezza intrinseca della disciplina nel prisma della funzione rieducativa della pena denunciato dal giudice rimettente puo', d'altra parte, aggiungersi l'ulteriore considerazione che la disposizione censurata, sterilizzando ogni effetto pratico delle detrazioni di pena a titolo di liberazione anticipata sino al termine di ventisei anni, riduce fortemente, per il condannato all'ergastolo, l'incentivo a partecipare all'opera di rieducazione, in cui si sostanzia la ratio dello stesso istituto della liberazione anticipata (sentenze n. 186 del 1995 e n. 276 del 1990). Al riguardo, va infatti ribadito che l'unica conseguenza pratica delle detrazioni di pena conseguenti alla liberazione anticipata per il condannato all'ergastolo - per il quale potenzialmente il fine pena e' "mai" - consiste proprio nel meccanismo di anticipazione dei termini per la concessione dei singoli benefici; meccanismo che costituisce, sin dal primo semestre di pena, un potente stimolo per l'ergastolano a partecipare al programma rieducativo, in vista - in particolare - del possibile accesso ai primi benefici, una volta raggiunto il traguardo di otto anni dall'inizio della pena (sentenza n. 274 del 1983).» Un'analoga sterilizzazione della valenza dei provvedimenti di liberazione anticipata, pur nel caso di specie copiosamente ottenuta dall'interessato (P. ha avuto una positiva valutazione per quarantotto semestri, pari a 2160 gg. di riduzione pena, nel suo caso pero' senza alcun effetto concreto), si ha nel caso che ci occupa, con conseguente analogo disincentivo alla partecipazione al trattamento, non potendo l'odierno reclamante in alcun modo avvantaggiarsene, neppure per anticipare il momento di fruizione di benefici extramurari. Sotto altro profilo, per come premesso, la posizione soggettiva dell'odierno reclamante e' quella di un intraneo ad un gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis codice penale che, in tale contesto, ha commesso delitti omicidiari volti a consentirne la sopravvivenza ed agevolarne gli scopi illeciti. Si tratta, dunque, di un soggetto per il quale e' particolarmente rilevante l'eventuale collaborazione con la giustizia che, secondo regole di esperienza trasfuse in una costante giurisprudenza della S.C. e della stessa Corte costituzionale, costituisce la piu' forte prova della rescissione del vincolo associativo e dunque del venir meno della pericolosita' sociale dell'interessato. Tuttavia, anche nel caso dell'odierno reclamante, anche dunque nel caso dell'associato ex art. 416-bis codice penale, nella peculiare fase dell'esecuzione penale, la preclusione assoluta alla concessione di' un beneficio penitenziario in assenza di una condotta collaborativa, sembra stridere con i principi costituzionali deducibili dagli articoli 3 e 27 Cost., poiche' impedisce, per come gia' detto, il vaglio di altri elementi che nel caso concreto potrebbero condurre ugualmente ad un giudizio di cessata pericolosita' sociale e di meritevolezza dell'invocato beneficio, non consentendo un giudizio individualizzato e costantemente attualizzato, l'unico in grado di sceverare percorsi intramurari e profili personologici concretamente differenti, rispettando i fondamentali principi di umanizzazione e funzione rieducativa delle pene. Come rilevato dalla Cassazione nell'ordinanza 18 febbraio 2019, n. 9126, di rimessione di altra questione di legittimita' costituzionale, questa volta connessa all'art. 47-ter, comma 1-bis, ord. penit., precluso a tutti i condannati per delitti di' cui all'art. 4-bis, per i reati compresi nel comma 1 di tale articolo il legislatore, con la preclusione assoluta sin qui scrutinata, produce l'effetto di una «mera esasperazione della innegabile sfiducia ordinamentale verso il buon esito di percorsi rieducativi estranei al sistema carcerario» e, se non puo' dubitarsi che i percorsi trattamentali intramurari debbano certamente essere maggiormente approfonditi per essere efficaci a fronte di condannati per delitti tanto gravi (obbiettivo che il legislatore gia' persegue richiedendo ai condannati per delitti di cui all'art. 4-bis ord. penit., l'esecuzione di una piu' lunga parte di pena prima di potervi accedere: ad. es. per quanto concerne i permessi premio almeno dieci anni nel caso dell'ergastolo, o quindici, ove sia stata applicata la recidiva reiterata), impedire una valutazione individualizzata appare compromettere, per come gia' ripetuto, la finalita' rieducativa della pena, cui indefettibilmente ogni esecuzione penale deve tendere. Il Tribunale di sorveglianza non ignora che la Corte costituzionale, pur rispetto a profili di illegittimita' diversi, in larga parte, e soprattutto con riferimento a benefici penitenziari diversi, sia gia' stata chiamata a pronunciarsi nella materia che ci occupa, senza giungere sino ad una declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma, pur circoscrivendone ad esempio i confini rispetto ai percorsi trattamentali gia' intrapresi proficuamente prima della sua introduzione (cfr. sentenze Corte costituzionale n. 504/1995, n. 445/1997, n. 137/1999). Tuttavia, confrontandosi con le pronunce emesse gia' all'indomani dell'introduzione dell'assoluta ostativita' di cui all'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., emerge la consapevolezza che l'opzione utilizzata dal legislatore, «espressione di una scelta di politica criminale», «abbia comportato una rilevante compressione della finalita' rieducativa della pena», con una tendenza alla configurazione di «tipi d'autore per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 306/1993). Una opzione particolarmente critica quando venga meno qualsiasi utilita' pure della liberazione anticipata, per come detto assolutamente irrilevante nell'ipotesi dell'ergastolo c.d. «ostativo». Da allora, pero', la Corte costituzionale ha continuato ad adoperarsi nel disvelamento del «volto costituzionale della pena» ed in particolare, circa la finalita' rieducativa della pena, si e' passati da una lettura che la collocava tra le altre, di prevenzione generale e difesa sociale, senza che potesse «stabilirsi a priori una gerarchia statica ed assoluta che valga una volta per tutte ed in ogni condizione» (cfr. sentenze Corte costituzionale n. 282/1989 e n. 306/1993), sino alla considerazione che la particolare gravita' del reato commesso, ovvero l'esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalita' dei consociati non possano, nella fase di esecuzione della pena, «operare in chiave diatonica rispetto all'imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima, da intendersi come fondamentale orientamento di essa all'obiettivo ultimo del reinserimento del condannato nella societa' (sentenza n. 450 del 1998), e da declinarsi nella fase esecutiva come necessita' di costante valorizzazione, da parte del legislatore prima e del giudice poi, dei progressi compiuti dal singolo condannato durante l'intero arco dell'espiazione della pena.» (cfr. sentenza Corte costituzionale n. 149/2018). Sembra percio' particolarmente necessario tornare a compulsare il Giudice delle leggi sul punto. Occorre ancora richiamare l'insegnamento della sentenza Corte costituzionale n. 149/2018, per il quale: «una volta che il condannato all'ergastolo abbia raggiunto, nell'espiazione della propria pena, soglie temporali ragionevolmente fissate dal legislatore, e abbia dato prova di positiva partecipazione al percorso rieducativo, eventuali preclusioni all'accesso ai benefici penitenziari possono dunque legittimarsi sul piano costituzionale soltanto laddove presuppongano pur sempre valutazioni individuali, da parte dei competenti organi giurisdizionali, relative alla sussistenza di ragioni ostative di ordine specialpreventivo - sub specie di perdurante pericolosita' sociale del condannato -; valutazioni, queste ultime, che non potrebbero del resto non riverberarsi negativamente sulla stessa analisi del cammino di risocializzazione compiuto dal condannato stesso, e che per questo motivo possono ritenersi coerenti con il principio della non sacrificabilita' della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena (sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990). Incompatibili con il vigente assetto costituzionale sono invece previsioni, come quella in questa sede censurata, che precludano in modo assoluto, per un arco temporale assai esteso, l'accesso ai benefici penitenziari a particolari categorie di condannati - i quali pure abbiano partecipato in modo significativo al percorso di rieducazione, e rispetto ai quali non sussistano gli indici di perdurante pericolosita' sociale individuati dallo stesso legislatore nell'art. 4-bis ord. penit. - in ragione soltanto della particolare gravita' del reato commesso, ovvero dell'esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalita' dei consociati.». Compatibili con il quadro costituzionale sin qui riferito sembrano dunque valutazioni soltanto individualizzate che accolgano l'elemento della collaborazione con la giustizia quale segnale eminente della rescissione del vincolo con il contesto criminale organizzato di appartenenza, ma non esclusivo, con l'obbiettivo di garantire alla magistratura di sorveglianza lo spazio per un vaglio approfondito e globale del percorso rieducativo eventualmente condotto dall'istante. Questo approccio appare l'unico compatibile con la considerazione che «la personalita' del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss'anche il piu' orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest'ultima, che chiama in causa la responsabilita' individuale del condannato nell'intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalita', in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non puo' non chiamare in causa -assieme - la correlativa responsabilita' della societa' nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento gia' avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella societa'.» (cfr., ancora una volta, sentenza Corte costituzionale n. 149/2018). In definitiva la peculiarita' della fase dell'esecuzione penale, rispetto a quella cautelare, pur quest'ultima presidiata dalle naturali garanzie connesse alla presunzione di cui all'art. 27, comma 2 Cost., e' che si sviluppa in un tempo che progressivamente si allontana dal reato e, mediante gli effetti del trattamento penitenziario (di cui la fase cautelare non dispone), consente di verificare l'evoluzione personologica del condannato a partire dai pur gravissimi fatti commessi. Tale fase appare per questo profilo radicalmente incompatibile con una preclusione come quella che qui ci occupa e che si limita a fotografare il legame dell'autore del reato con quanto commesso impedendo un vaglio concreto del suo percorso, in cui la collaborazione con la giustizia sia valutata unitamente a tutti gli elementi raccolti nel suo quotidiano penitenziario e nell'evoluzione della sua realta' socio-familiare, inevitabilmente, per altro, tenuto conto dei lunghi tempi previsti dal legislatore per un simile riesame, a notevole distanza temporale dai reati commessi. Anche dalle fonti sovranazionali, d'altra parte, si traggono elementi univoci nel senso che l'esecuzione della pena dell'ergastolo debba essere illuminata dalla funzione rieducativa e dunque da una prospettiva di possibile, concreta, risocializzazione. La Corte europea dei diritti dell'uomo, a far data dalla nota sentenza Grande Chambre Vinter e altri c. Regno Unito 9 luglio 2013, poi ribadita con giurisprudenza costante sul punto sino ai piu' recenti arresti, ha stagliato l'obbligo, a carico degli Stati contraenti, di consentire sempre che il condannato alla pena dell'ergastolo possa contare su un riesame certo della perpetuita' della sua pena, conoscendone dall'inizio dell'espiazione tempi e presupposti, e che sia prevista dunque una periodica verifica dei progressi compiuti dal condannato nel corso del trattamento, al fine di valutare la permanenza dei motivi che ne giustifichino il mantenimento in detenzione. Le Regole penitenziarie europee (Raccomandazione 2006/2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri), poi, nella regola 103 «Implementazione del regime per i detenuti condannati», prescrivono che nei confronti di tutti i condannati, compresi dunque i sottoposti alla pena perpetua, debbano essere redatti programmi di trattamento individualizzati, contenenti anche una strategia per la preparazione alla loro liberazione. Del trattamento loro riservato deve far parte integrante un sistema di permessi mentre, secondo il punto 8 della regola 103, «un'attenzione particolare deve essere prestata al programma di trattamento e al regime dei condannati a vita o a pene lunghe». Tutti gli elementi citati, infatti, sembrano in grado di riempire di contenuti orientati all'obbiettivo risocializzante il tempo della pena, consentendo che lo stesso sia pieno e in grado, con stimoli progressivi, di orientare opportunamente la quotidianita' penitenziaria. Anche attraverso la chiave di lettura offerta da questi ultimi spunti, appare evidente che l'esame individualizzato del percorso rieducativo del condannato ben puo' condurre ad inibire, anche a chi debba espiare la pena perpetua, per un certo tempo, anche molto lungo, e comunque sinche' perdura una incapacita' di capitalizzare le offerte trattamentali che l'istituzione ha l'obbligo di fornirgli, l'accesso a benefici extramurari come i permessi premio. Al contrario un automatismo preclusivo, come quello di cui sin qui ci si e' occupati, finisce per travolgere la possibilita' di verificare in concreto l'evoluzione personale del condannato verso modelli di comportamento socialmente condivisi che anche l'autore dei delitti piu' efferati deve considerarsi in grado di compiere e con cio' si corre il rischio di vanificare l'invece indefettibile tensione di tutta l'esecuzione penale verso la risocializzazione del reo. Alla luce degli elementi sin qui succinti, ritiene il collegio di sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, considerandola rilevante nel presente procedimento e non manifestamente infondata, con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art. 416-bis codice penale della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio. Deve quindi sospendersi il procedimento ex art. 23, legge n. 87/1953, con trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
P.Q.M. Visti gli articoli 134 della Costituzione, 23 e seguenti legge 11 marzo 1953, n. 87; dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975, con riferimento agli articoli 3 e 27 della Costituzione, nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art. 416-bis codice penale della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale. Sospende il procedimento in corso sino all'esito del giudizio incidentale di legittimita' costituzionale. Ordina che a cura della cancelleria la presente ordinanza di trasmissione degli atti sia notificata alle parti in causa ed al pubblico ministero nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai presidenti delle due Camere del Parlamento. Perugia, 23 maggio 2019 Il Presidente est.: Gianfilippi