N. 627 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 maggio 1999
N. 627 Ordinanza emessa il 25 maggio 1999 dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Venezia nel procedimento penale a carico di Ziggiotto Davide Processo penale - Sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti - Non identificabilita', secondo la consolidata giurisprudenza di legittimita', con la sentenza di condanna - Omessa pronuncia di responsabilita' dell'imputato (e conseguente preclusione della revoca di diritto della sospensione condizionale della pena precedentemente concessa) - Eccesso di delega - Irragionevolezza - Lesione dei principi di eguaglianza, personalita' della responsabilita' penale, presunzione di non colpevolezza, finalita' rieducativa della pena e obbligatorieta' dell'azione penale. Cod. proc. pen. 1988, art. 444, comma 2. Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, 76 e 112.(GU n.46 del 17-11-1999 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Sulla richiesta presentata dalla procura della Repubblica di Venezia, in data 23 marzo 1999, di revoca del beneficio della sospensione condizionale della pena concesso a Ziggiotto Davide con sentenza del tribunale di Vicenza, in data 22 novembre 1995, divenuta esecutiva il 15 dicembre 1995, di applicazione della pena di mesi dieci di reclusione e L. 2.600.000 di multa; A scioglimento della riserva formulata all'esito dell'udienza in camera di consiglio del 25 maggio 1999; O s s e r v a Ziggiotto Davide, con sentenza del 18 novembre 1998, divenuta esecutiva in data 4 gennaio 1999, del g.i.p. del tribunale di Venezia, ha riportato l'applicazione della pena di anni uno e mesi sei di reclusione, senza il beneficio della sospensione condizionale della pena, per i reati di falso in atto pubblico e truffa aggravata commessi rispettivamente il 10 giugno 1993 e 27 gennaio 1994, e percio' in data anteriore al passaggio in giudicato della sentenza del tribunale di Vicenza. La pena complessiva supera gli anni due di reclusione, e di conseguenza, ai sensi dell'art. 168, comma 1, n. 2 c.p. sarebbe obbligatoria la revoca della sospensione condizionale della pena concessa con la sentenza del tribunale di Vicenza. Tale revoca, pero', non puo' essere disposta, alla luce della consolidata giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione, che con due successive sentenze, la prima in data 8 maggio 1996, De Leo, e la seconda del 26 febbraio 1997, Bahrouni, hanno affermato che poiche' la sentenza emessa all'esito della procedura di applicazione pena, (e quella del g.i.p. del tribunale di Venezia, del 18 novembre 1998, e', come si e' detto, sentenza di applicazione pena), non ha natura di sentenza di condanna, non puo' costituire il presupposto al quale l'art. 168 c.p. riconnette la revoca del beneficio della sospensione condizionale. La citata giurisprudenza della Corte di cassazione si applica, naturalmente, in entrambi i casi di revoca di diritto della sospensione, previsti dell'art. 168, comma 1 c.p., sia nell'ipotesi prevista dal n. 1) che in quella del n. 2), dal momento che se il primo comma del citato articolo recita, al n. 1): "commetta un delitto ..." al n. 2), ripete: "riporta un'altra condanna per un delitto anteriormente commesso ...". In entrambe le ipotesi dunque, presupposto della revoca del beneficio e' che il condannato a pena sospesa, commetta un altro reato per il quale riporti sentenza di condanna e le sezioni unite della Corte di cassazione negano che sia tale quella di applicazione della pena. Infatti, a prescindere dalle altre questioni interpretative alle quali pure le sentenze fanno riferimento, pare a questo giudice che centrale e decisiva, nelle argomentazioni della Corte, sia quella della natura che si attribuisce alla sentenza di applicazione pena. Lo riconoscono le stesse sezioni unite, quando, nella sentenza 8 maggio 1996, scrivono che "la soluzione della questione, pertanto, e' condizionata dal convincimento che si viene a formare sul suddetto tipo di sentenza, (di applicazione pena), e cioe' muta in un senso o nell'altro a seconda che si ritenga o no che la sentenza contenga un accertamento della responsabilita' dell'imputato, e quindi un giudizio di colpevolezza ...". Anche nella sentenza del 26 febbraio 1997, la Corte di cassazione premette che: "a quell'affermazione di principio, secondo la quale la sentenza che applica la pena concordata tra le parti... non e' una sentenza di condanna ma a questa e' soltanto equiparata ..., vero e' che quell'affermazione di principio ha presentato soltanto la necessaria premessa ... imposta dall'inequivocabile contenuto della norma prevista dall'art. 445 c.p.p. ..." e, piu' oltre, prosegue "trattasi, (la richiesta di applicazione pena) di una scelta processuale che puo' essere fatta ancor prima che si sia conclusa l'acquisizione degli elementi necessari per giustificare il rinvio a giudizio, scelta che puo' trovare la sua appagante e legittima giustificazione nei piu' disparati motivi tutti confluenti nell'ampia prospettiva degli ampi benefici previsti dal legislatore per chi a quel procedimento faccia ricorso ... il fatto che persista una latente resistenza a recepire, nella sua totale estensione tale conclusione, non puo', certamente indurre questa suprema Corte ad una diversa decisione ...". La Corte di cassazione sostiene, dunque, che la sentenza di applicazione pena, puo' vivere nell'ordinamento giuridico vigente, senza che la deliberazione del giudice, (in base agli ampi poteri che gli sono conferiti ex artt. 444 e segg. c.p.p.), unita alla richiesta delle parti, sia sufficiente ad integrare quel che basta ad attribuirle natura di sentenza di condanna. Ritiene, pero', questo giudice che l'affermazione di tale principio sia in contrasto con gli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, 76 e 112 della Costituzione, contrasta, innanzi tutto con l'art. 76 della Costituzione. L'istituto della applicazione pena e' previsto dall'art. 2 direttiva n. 45 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81, che recita: "previsione che il p.m. col consenso dell'imputato o l'imputato, col consenso del p.m. possano chiedere al giudice ....l'applicazione delle sanzioni sostitutive nei casi consentiti o della pena detentiva irrogabile per il reato ..." senza che nella norma vi si alcunche' che induca a ritenere che si sia inteso conferire al legislatore delegante il potere di introdurre nell'ordinamento un nuovo genere di sentenza, non di condanna e nemmeno di proscioglimento, a meno che non si voglia ritenere tale quella di applicazione della pena. E non pare che il legislatore delegato abbia inteso operare una tale innovativa scelta nella relazione al progetto preliminare del codice e al testo definitivo, si legge che non si tratta di un "beneficio" ma di uno speciale procedimento collegato ad un accordo tra imputato e pubblico ministero sull'applicazione della pena che quindi, riguarda il merito e si riflette sul rito ... "e piu' oltre: ''il nuovo patteggiamento'' esce, dunque dall'ambiguita' che aveva connotato quello della legge n. 689, (e si ricordi che la cassazione, a sezioni unite, con sentenza del 23 novembre 1988, era giunta a qualificare di proscioglimento la sentenza emanata ai sensi dell'art. 77, legge 24 novembre 1981, n. 689). ... La specifica individuazione di queste misure ed anche dei contenuti e degli effetti della sentenza applicativa della pena, ha evitato le ambiguita' teoriche della legge n. 689...". E nell'illustrazione dei singoli articoli si commenta che "si e' ritenuto di non poter consentire al difensore di formulare la richiesta o di dare il consenso, trattandosi di atti personalissimi, che possono incidere sulla sfera della liberta' personale, e su quella patrimoniale dell'imputato, oltre che sull'iter processuale ...". Anche nella relazione al nuovo processo penale a carico dei minorenni si sottolinea che pur essendo evidente l'importanza di tutti gli istituti processuali previsti dal nuovo codice per favorire una rapida uscita dal circuito penale, si e' ritenuto incompatibile col processo minorile il procedimento per decreto come pure l'applicazione della pena su richiesta ... quest'ultimo istituto presuppone, infatti, nell'imputato una capacita' di valutazione e di maturazione che richiede piena maturita' e consapevolezza di scelta..". Esclusione che la Corte costituzionale ha ritenuto non irragionevole, con sentenza del 27 aprile 1995 n. 135, dal momento che l'applicazione della pena si risolve in una sentenza "negoziale" sul contenuto della decisione, che impedirebbe al giudice di definire il processo con tutte quelle misure, (perdono giudiziale, sospensione del processo e messa alla prova, non luogo a procedere per irrilevanza del fatto ...), previste per il recupero del minore. Al di la' della stessa volonta' del legislatore delegato, dunque, la norma assume, nell'interpretazione ormai invalsa, un significato e un valore in chiaro contrasto con la legge delega, contrasta, inoltre, con gli artt. 13, primo comma, 25, secondo comma, 27, primo comma della Costituzione. La liberta' personale che l'art. 13, primo comma, della Costituzione definisce "inviolabile" e' un diritto fondamentale ed indisponibile e tale da non potere essere in alcun modo sacrificato da una richiesta dell'imputato medesimo alla quale non faccia seguito un "accertamento nel merito" (sia pure in forma diversa dall'ordinario dibattimento o dal giudizio allo stato degli atti), da parte del giudice. Affermare che "nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso", significa, naturalmente escludere, a maggior ragione, che qualcuno possa essere punito per un fatto non commesso, e dunque non si vede come si possa applicare una pena, (anche concretamente eseguibile, se non viene richiesta ed applicata la sospensione condizionale della pena), senza il contestuale riconoscimento, (anche implicito o "negoziale") che l'imputato ha commesso quel fatto. E stabilire che "la responsabilita' penale (con la conseguente possibilita' di essere sottoposto all'irrogazione di una sanzione di natura penale) e' personale", comporta non solo che nessuno puo' essere chiamato a rispondere per un fatto altrui, ma anche che nessuno puo' essere chiamato a rispondere se non per un fatto proprio, di cui e', davanti all'ordinamento, responsabile. Una corretta lettura di tali principi implica, a parere di questo giudice, che a nessuno del quale non sia stata ritenuta dal giudice la penale responsabilita', nei modi di legge, (pur se all'infuori di un accertamento giudiziario al termine di un pubblico dibattimento), possono essere inflitte sanzioni di natura penale ed anche detentive. Soltanto la persona che l'ordinamento giuridico ritiene, (al termine di un legale processo), autore del reato, puo' essere chiamato a subirne le conseguenze. Non si dimentichi che il nostro ordinamento giuridico conosce anche il delitto di autocalunnia: l'art. 369 c.p. punisce colui che si dichiari falsamente autore di un reato non avvenuto o commesso da altri; non si vuol dire, naturalmente, che la richiesta di applicazione pena, se l'imputato si sa innocente, possa configurare tale delitto, si vuole solo meglio ribadire come, nel nostro ordinamento, a nessuno sia consentito di "accettare", contrariamente al vero, una sanzione penale, contrasta, anche con l'art. 27, secondo comma della Costituzione, per il quale "l'imputato non e' considerato colpevole fino alla sentenza definitiva" che ne abbia, naturalmente, ritenuto la responsabilita' ed abbia, quindi, natura di sentenza di condanna. La Corte costituzionale, con la sentenza del 2 luglio 1990, n. 313, dopo avere escluso che il giudice richiesto dell'applicazione pena, abbia poteri di carattere "notarile", ovvero che si debba limitare a prendere atto dell'accordo delle parti, ha affermato che "se l'imputato ritiene di possedere elementi per l'affermazione della propria innocenza, nessuno lo obbliga a richiedere l'applicazione di una pena, ed egli ha a disposizione le garanzie del rito ordinario. In altri termini, chi chiede l'applicazione di una pena vuol dire che rinuncia ad avvalersi della facolta' di contestare l'accusa, senza che cio' significhi violazione del principio di presunzione d'innocenza, che continua a svolgere il suo ruolo fino a quando non sia irrevocabile la sentenza". Ma se la sentenza di applicazione pena non contiene alcun accertamento di responsabilita', la presunzione di non colpevolezza non puo' che permanere, pur quando la sentenza e' divenuta definitiva, col risultato che si infligge e si fa espiare, in via definitiva, la pena ad una persona (come a Ziggiotto, che ha patteggiato, davanti a questo giudice, una pena non sospesa), che l'ordinamento presume, con sentenza passata in giudicato, dopo l'espletamento di tutti i gradi di giudizio, non colpevole. E che, a voler trarre tutte le conseguenze dall'affermazione del principio di diritto stabilito dalle sezioni unite, non potrebbe nemmeno beneficiare del divieto di un secondo giudizio, atteso che l'art. 649 c.p.p. stabilisce che non puo' essere di nuovo sottoposto a procedimento penale, l'imputato prosciolto o condannato, laddove il termine "condannato" implica chiaramente un accertamento sulla responsabilita', contrasta, soprattutto, con l'art. 27, terzo comma della Costituzione, il cui principio, che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, ha gia' guidato la Corte costituzionale quando con la citata sentenza del 2 luglio 1990, n. 313, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 444, comma 2 c.p.p., nella parte in cui non prevedeva che il giudice potesse valutare la "congruita'" della pena indicata dalle parti, rigettando la richiesta in ipotesi di sfavorevole valutazione. Nella motivazione della sentenza la Corte ha osservato che "e' anche evidente che nel procedere al riconoscimento delle attenuanti o al giudizio di bilanciamento (il giudice) dovra' necessariamente attenersi ai criteri di cui all'art. 133 c.p., specie per quanto si riferisce alle cosiddette attenuanti non scritte, (art. 62-bis c.p.) che per pacifica ammissione di dottrina e giurisprudenza non hanno altro indice di riferimento se non quello, diretto ed immediato, di cui ai criteri dettati dall'art. 133 c.p.". Tali affermazioni hanno un senso solo se si ritiene che la pena vada applicata, nonostante la peculiarita' del rito, a chi e', alla luce della valutazione che il giudice effettua, responsabile del fatto. Ritenere che il tutto si riduca ad un artificio e che il giudice debba compiere cosi' delicato e complesso giudizio, (sulla sussistenza delle attenuanti e la comparazione con le aggravanti, e la congruita' della pena), "come se l'imputato fosse colpevole", senza che possa dirsi formato sul punto un accertamento giudiziale, ridurre il tutto ad una fictio juris che prescinda da un principio di reale proporzione, giudizialmente accertato, tra la qualita' e la quantita' della sanzione, determinata in base ai criteri di cui all'art. 133 c.p. e la personalita' chi e', per l'ordinamento giuridico, responsabile del fatto reato, appare in stridente contrasto con la norma costituzionale. L'applicazione di una pena a chi non e', di fronte all'ordinamento giuridico, responsabile del reato, non puo' in alcun modo tendere alla sua rieducazione, visto che chi non e' nemmeno ritenuto responsabile di un fatto reato, non ha alcun bisogno di essere rieducato e contrasta, in particolar modo, con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui stabilisce il principio di ragionevolezza e di uguaglianza di trattamento. Non pare razionale un sistema per il quale la sentenza di applicazione pena, in quanto non ha natura di sentenza di condanna, e' ostativa alla revoca del beneficio della sospensione pena, concesso con una precedente sentenza, e pero' puo' comportare, nello stesso tempo, l'esecuzione della pena applicata senza la concessione del beneficio della sospensione, e dunque espiabile. Nel caso di specie Ziggiotto, ha chiesto ed ottenuto, con sentenza del g.i.p. di Venezia, del 18 novembre 1998, l'applicazione della pena di anni uno e mesi sei di reclusione, senza il beneficio della sospensione condizionale, e quindi di una pena che deve espiare. La natura della sentenza, percio', non e' d'ostacolo all'esecuzione della pena applicata e pero', contemporaneamente, proprio tale sua natura, impedisce la revoca del beneficio e l'espiazione della pena applicata con la precedente sentenza del tribunale di Vicenza, del 22 novembre 1995, disciplina della cui ragionevolezza e' lecito dubitare. Inoltre, il complessivo sistema che ne deriva, in materia di sospensione della pena, portata l'affermazione delle sezioni unite alle sue logiche conseguenze, rimane privo di qualsiasi parametro legale ed affidato esclusivamente alla discrezionalita' del giudice con decisa lesione del principio di uguaglianza, e della certezza del diritto. Innanzi tutto, se la sospensione puo' essere concessa solo quando il giudice, avuto riguardo alle condizioni indicate dall'art. 133 c.p., presume che il colpevole si asterra' dal commettere ulteriori reati, se si prescinde da una ipotesi di colpevolezza del richiedente, non si vede in base a quali parametri il giudice potrebbe concedere o rigettare la richiesta ai sensi dell'art. 445, comma 3 c.p.p. Inoltre, alla luce della disciplina dell'art. 164, comma 4 c.p. per il quale il beneficio della sospensione condizionale non puo' essere concesso piu' di una volta e il giudice puo' disporlo una seconda volta, nell'infliggere una "nuova condanna", con la sentenza di applicazione pena, che non e' "condanna", non dovrebbe essere consentita la rinnovazione del beneficio, trovando applicazione esclusivamente il principio generale, per il quale la sospensione puo' essere disposta solo una volta. Ma si puo' fondatamente, sostenere che ricavata la possibilita' di sospendere condizionalmente la pena applicata dall'esplicita previsione dell'art. 444, comma 3 c.p.p., non troverebbe applicazione nessuna delle limitazioni previste dagli artt. 163 e segg. c.p., dal momento che tale disciplina riguarda esclusivamente le sentenze di condanna, e non quelle di applicazione pena, che non lo sono, con la conseguente possibilita' di concedere il beneficio non due, ma piu' e piu' volte a discrezione del p.m. che presta il consenso e del giudice che accoglie l'accordo. Ognuna di tali possibili interpretazioni, sinteticamente enunciate, potrebbe essere sostenuta da adeguate argomentazioni, tutte facenti perno sulla natura della sentenza di applicazione pena, non ritenuta sentenza di condanna. Con effetti discutibili sul piano della razionalita' e della uguaglianza di trattamento, contrasta, infine, con l'art. 112 della Costituzione, che afferma l'obbligatorieta' dell'azione penale, intesa, alla luce dei principi del c.p.p. vigente, nel senso che il p.m. e' tenuto ad esercitarla, tranne che nei casi in cui ritenga la inutilita' del processo, per infondatezza della notizia di reato, (e si richiama la sentenza della Corte costituzionale del 15 febbraio 1991, n. 88), o perche' non risulta identificato il responsabile. Il p.m. ove si convinca che la notizia di reato non e' infondata, ed e' noto l'autore, non ha alcun potere di scegliere se esercitare o meno l'azione penale, (ad esempio in considerazione della scarsa rilevanza del fatto, o della qualita' delle parti o dell'avvenuto risarcimento del danno, o per altre simili considerazioni, ampiamente discrezionali), ma deve esercitarla, ovviamente in vista di una decisione giurisdizionale sull'azione medesima o nel merito dell'accusa. Il p.m. che non deve richiedere l'archiviazione, (per infondatezza della notitia criminis ai sensi dell'art. 405 c.p.p., formula l'imputazione o richiede al giudice il rinvio a giudizio, sempre ed in ogni caso, perche' il giudice decida su ogni fatto reato ascritto ad ogni imputato, non potendo, come si e' detto, sottrarne nessuno, per ragioni meramente discrezionali, al giudizio, ordinario o speciale che sia, e alla decisione che ne consegue. L'esercizio dell'azione penale consiste proprio nella richiesta rivolta al giudice di procedere al giudizio e di emettere una decisione sulla notitia criminis, e non avrebbe senso parlare di obbligatorieta' dell'azione penale, ove si prescindesse dal suo effettivo contenuto, che il giudice si pronunci sulla fondatezza della notizia di reato: il principio espresso dalla norma costituzionale, inteso in senso sostanziale e non meramente formale, rende doverosa la repressione di tutte, e proprio tutte, le condotte violatrici della norma penale, in osservanza dei criteri di legalita' e di uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge penale. Con l'applicazione della pena, intesa come la intende la suprema Corte, il processo si chiude, invece, con una sentenza che, priva come' di qualsiasi accertamento sul fatto e sul suo responsabile, impedisce al giudice, per l'appunto, di pronunciarsi sulla notitia criminis e quindi di esercitare un effettivo controllo sull'azione penale. Se dal punto di vista dell'ordinamento la sentenza di applicazione pena, non contiene nessuna affermazione giudiziale sulla sussistenza del fatto e la responsabilita' dell'imputato, vuol dire che l'ordinamento rinuncia ad ogni pronuncia giurisdizionale in merito a quella notitia criminis, (se e' fondata, se il fatto sussiste e chi lo ha commesso, se e' punibile, etc. ....), e a seguito di una scelta ampiamente discrezionale del p.m. e della parte privata. Con la sentenza del 18 novembre 1998, il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Venezia, ha applicato a Ziggiotto la pena di anni uno e mesi sei di reclusione, (senza il beneficio della sospensione condizionale), per i reati di falso in atto pubblico e truffa, ma, pur essendo la sentenza passata in giudicato, l'ordinamento ignora se quei reati sussistano e se Ziggiotto ne vada ritenuto responsabile. Con l'accordo tra loro, il p.m. e la parte privata, che si e' posta come se fosse il responsabile del fatto, (ma senza che sul punto si sia formata, con la sentenza, un accertamento giudiziale), hanno sottratto, in definitiva, quel fatto e quell'imputato alla decisione del giudice. Il p.m., che per dettato costituzionale, non puo' scegliere, a sua discrezione, quali imputati vanno sottoposti a giudizio e quali no, ma deve sempre e comunque investire il giudice di ogni decisione in proposito, puo' evitare, cosi', semplicemente prestando il consenso all'applicazione della pena, che su quell'imputato e quel fatto cada la cognizione del giudice, che puo' chiamare ad emettere una sentenza che prescinda da ogni valutazione sulla notizia di reato, sulla sua fondatezza e sulla attribuzione di quel fatto a quell'imputato. E tanto non solo prima che abbia compiuto le sue valutazioni sulla fondatezza della notitia criminis, come accade se l'accordo interviene nel corso delle indagini preliminari, ma anche dopo, se la richiesta viene formulata nell'udienza preliminare, o successivamente al rinvio a giudizio. L'imputato medesimo, per "una scelta processuale che puo' essere fatta ancor prima che si sia conclusa l'acquisizione degli elementi necessari per giustificare il rinvio a giudizio, scelta che puo' trovare la sua appagante e legittima giustificazione nei piu' disparati motivi tutti confluenti nell'ampia prospettiva degli ampi benefici previsti dal legislatore per chi a quel procedimento faccia ricorso per usare le parole della Corte di cassazione), e' libero, dal canto suo, di sottrarsi, di fatto, al processo, e alla cognizione del giudice, semplicemente chiedendo ed ottenendo una sentenza di applicazione della pena, che lo mette al riparo da ogni accertamento sulla sua responsabilita'. E non va dimenticato che la pena puo' essere applicata anche all'esito del dibattimento di primo grado, o nel giudizio di impugnazione, ai sensi dell' art. 448, comma 1 parte seconda, c.p.p.. Non varrebbe sostenere che l'imputato non puo' conseguire l'applicazione della pena richiesta ove manchi il consenso del p.m. sia perche' l'azione penale e' obbligatoria, come si e' visto, anche per il p.m. diretto destinatario del precetto costituzionale, sia perche' il giudice puo' applicare la pena anche quando ritenga ingiustificato il dissenso del p.m. nei casi previsti dall'art. 448, comma 1 seconda parte c.p.p.. Con la sentenza di applicazione della pena, (intesa la sentenza come l'intende la Corte di cassazione), il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale viene completamente vanificato dal momento che il p.m. e l'imputato, si limitano, di comune accordo, a chiedere al giudice, ed ottengono dal giudice, una sentenza che, pur non essendo di improcedibilita', non contiene alcun accertamento sul fatto che pure, per il dettato costituzionale, doveva essere obbligatoriamente portato alla sua cognizione. Vi e', in sostanza, solo un "apparente" esercizio dell'azione penale, nel senso che e' il giudice ad emettere la sentenza, che, pero', prescindendo da qualsiasi giudizio sul fatto e sul suo responsabile, si risolve, in realta', nella mancata repressione di una violazione della legge penale, (a meno che non si ritenga che in tale sentenza sia implicito un giudizio di infondatezza della notizia di reato), in accoglimento dell'accordo rimesso alla piena discrezionalita' delle parti e in palese violazione del principio costituzionale, che non attribuisce al p.m. discrezionalita' alcuna nell'esercizio dell'azione penale. La questione e' rilevante ove in difformita' dal consolidato orientamento delle sezioni unite, si attribuisse alla sentenza di applicazione pena, la natura di sentenza di condanna, o comunque di un accertamento giudiziale in punto di responsabilita', benche' diverso da quello di un giudizio ordinario o del giudizio abbreviato, la revoca della sospensione condizionale concessa a Ziggiotto Davide, con sentenza del tribunale di Vicenza, in data 22 novembre 1995, divenuta esecutiva il 15 dicembre 1995, seguirebbe di diritto, ai sensi dell'art. 168, comma 1 n. 2 c.p, al passaggio in giudicato della successiva sentenza di questo giudice, del 18 novembre 1998, e questo giudice potrebbe disporla in via interpretativa delle norme vigenti. Anche la conclusione che la sentenza di applicazione pena e' sentenza di condanna, potrebbe forse essere tentata in via meramente interpretativa, facendo leva soprattutto sulla giurisprudenza della Corte costituzionale, non solo sulla gia' citata sentenza del 2 luglio 1990 n. 313, o sull'ordinanza del 2-6 giugno 1995 n. 230, dove la Corte espressamente afferma che "sul piano sistematico ... lo stesso diritto vivente identifica nella sentenza di applicazione della pena su richiesta una pronuncia di condanna", ma non si puo' dimenticare che la Corte di cassazione, nella sentenza del 26 febbraio 1997, ha ribattuto che "non e' poi in nessun modo condivisibile l'affermazione secondo la quale la Corte costituzionale in numerose occasioni ... sarebbe pervenuta a conclusioni del tutto diverse rispetto a quelle gia' indicate da questa corte nella sentenza dell'8 maggio 1996 ...". La Corte di cassazione, dunque, ha compiuto una valutazione anche della giurisprudenza costituzionale, e l'ha considerata compatibile col principio affermato, sicche' non rimane che riconoscere come nel diritto vivente la sentenza di applicazione della pena ex art. 444 c.p.p. ha preso a vivere e ad essere intesa, per giurisprudenza ormai pacifica e consolidata, come una pronuncia che non contiene nessun accertamento in punto di responsabilita' dell'imputato al quale la pena stessa viene applicata, a sua richiesta o col suo consenso, interpretazione che non puo', allo stato, essere in alcun modo disattesa e che contrasta, a parere di questo giudice con i principi costituzionali sopra indicati. Adeguandosi al principio di diritto affermato dalla Corte di cassazione, si finirebbe col discostarsi, pero', dalle sentenze interpretative della Corte costituzionale in materia, sopra indicate, e in tal caso il giudice non ha "altra alternativa che sollevare nuovamente la questione di legittimita' costituzionale, non potendo mai assegnare alla formula normativa un significato ritenuto incompatibile con la Costituzione", come si e' espressa la Corte di cassazione, a sezioni unite, con le sentenze 29 gennaio 1996, Clarke, e 24 settembre 1998, Gallieri, che hanno configurato, la seconda in particolare, un vero e proprio onere per il giudice, di riproporre, in tal caso, la questione di costituzionalita'. Non si chiede alla Corte costituzionale una sentenza additiva volta ad integrare le cause di revoca di diritto della sospensione condizionale della pena, tassativamente previste dall'art. 168, comma 1 c.p., ragione per la quale la Corte ha piu' volte dichiarato manifestamente inammissibili questioni sollevate in casi analoghi a questo, (e si veda per tutte l'ordinanza del 10-16 dicembre 1998 n. 413), ma una sentenza concettualmente analoga alla sentenza del 28 gennaio 1991 n. 35, con la quale la Corte ha dichiarato incostituzionale l'art. 4, comma 1 n. 7, del decreto-legge 10 luglio 1982 n. 429, nella parte in cui non prevedeva che la condotta dovesse concretarsi in forme artificiose, ritenuta incostituzionale la diversa interpretazione fornita dalla giurisprudenza. Si chiede, in conclusione, alla Corte solo ed esclusivamente di valutare se la natura della sentenza di applicazione pena, cosi' come introdotta e disciplinata nel nostro ordinamento giuridico dagli artt. 444 e segg. del c.p.p. del 1989, e come concretamente viene intesa dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, nelle citate sentenze a sezioni unite, sia in armonia con i principi costituzionali invocati.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953 n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 444 comma 2 c.p.p. nella parte in cui prevede che il giudice applica la pena indicata alla parte della quale non abbia valutato e ritenuto la penale responsabilita', in relazione agli artt. 3, 13, primo comma, 25, secondo comma, 27, primo, secondo e terzo comma, 76 e 112 della Costituzione; Sospende il procedimento; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e manda alla cancelleria per la notificazione al Presidente del Consiglio dei Ministri e per la comunicazione ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato; Dispone che la presente ordinanza sia notificata, inoltre, al p.m. e all'avv.to Enrico Ambrosetti del foro di Vicenza, difensore di fiducia di Ziggiotto Davide. Venezia, addi' 25 maggio 1999. Il giudice: Galasso 99C1124