N. 434 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 gennaio 2007

Ordinanza  emessa  il  23  gennaio  2007  dal  tribunale di Salerno -
Sezione  distaccata  di  Cava  de'  Tirreni nel procedimento penale a
carico di Barbuti Vincenza ed altri

Reati  e  pene  -  Prescrizione  -  Modifiche  normative  -  Previsto
  collegamento  dei  differenti  aumenti dei termini di prescrizione,
  per  interruzione,  allo status soggettivo dell'imputato e non alla
  gravita'  oggettiva  del  fatto  -  Contrasto  con  i  principi  di
  legalita' e della finalita' rieducativa della pena - Violazione del
  principio  di uguaglianza - Lesione del principio di ragionevolezza
  -  Introduzione  di  una amnistia senza il rispetto della procedura
  prevista  per  la  sua  concessione  -  Violazione del principio di
  difesa sociale.
- Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, commi 1 e 4.
- Costituzione, artt. 3, 13, 24, 25, comma secondo, 27 e 79.
(GU n.24 del 20-6-2007 )
                            IL TRIBUNALE

    Esaminata   la   richiesta  avanzata  dai  difensori  di  Barbuti
Vincenza,  Manzo  Maria  e  Cicalese Maria, imputati dei reati di cui
all'art. 368  c.p.  nel  processo  penale n. 205/2001 R. G. Trib., di
emissione  di  sentenza  di  non  doversi  procedere  per intervenuta
prescrizione;  acquisito  il  parere contrario del p.m.; ha emesso la
seguente    ordinanza   di   rimessione   degli   atti   alla   corte
costituzionale.
                          Premessa in fatto
    La difesa degli imputati ha chiesto emettersi declaratoria di non
doversi  procedere  in  ordine  ai reati a questi ultimi ascritti per
intervenuta  prescrizione:  ed  invero,  prescindendo dalla eventuale
dichiarazione  di apertura del dibattimento, resa irrilevante ai fini
dell'applicabilita'  della nuova disciplina ai giudizi di primo grado
in  corso  dalla sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale,
invocando la nuova disciplina normativa introdotta dalla legge n. 251
del 2005, la difesa ha chiesto che fosse pronunciata l'estinzione per
intervenuta    prescrizione    in    ordine   ai   fatti   contestati
nell'imputazione  (falsa  testimonianza),  commessi  in  data 8 marzo
1997,  per  il quale il termine massimo di prescrizione, alla stregua
della nuova normativa, e' di sette anni e sei mesi.

                              Rilevanza

    Alla  stregua  di  quanto  premesso  in fatto, dunque, emerge con
evidenza  la rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale
che  verranno  esposte  in  prosieguo:  al  riguardo,  infatti, giova
osservare  che  la  richiesta avanzata all'odierna udienza imporrebbe
una  sentenza  di non doversi procedere per intervenuta prescrizione,
in  applicazione  delle  disposizioni  di cui agli artt. 6, comma 1 e
comma 4  (che  modifica i termini di prescrizione e l'efficacia degli
atti interruttivi) della legge n. 251/2005.
    La  risalenza  dei  fatti,  del resto, impone a questo giudice di
sollevare  autonoma  questione di costituzionalita' - analoga sebbene
non identica, a quelle gia' sollevate da questo medesimo tribunale in
data  24 gennaio  2006  (presso  la  sezione  distaccata  di Cava de'
Tirreni),  nel  procedimento  a  carico  di  Degli  Esposti  Vittorio
(pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale n. 26 del 28 gennaio 2006), e
13 febbraio  2006  (presso  la  Sezione  distaccata  di  Amalfi), nel
procedimento  a  carico  di  Manzi  Luigi  -  atteso che la questione
tuttora pendente non risulta ancora fissata sul ruolo d'udienza della
Corte  costituzionale,  e  che  pertanto appare opportuno deferire la
questione  di  costituzionalita' ai fine di sospendere il corso della
prescrizione, che altrimenti continuerebbe a maturare.
Rilevanza  ed  ammissibilita'  del  sindacato  sulle  norme penali di
                               favore
    La  prospettazione  di  profili  di illegittimita' costituzionale
delle  norme  di  favore  contenute nella legge n. 251/2005 necessita
tuttavia   di   talune  considerazioni  preliminari  in  ordine  alla
sindacabilita'   delle   norme   penali  in  bonam  partem,  pena  la
dichiarazione  di  inammissibilita'  della  questione  sollevata  per
irrilevanza.
    Invero,  le  peculiarita'  della materia penale - caratterizzata,
per quanto interessa in questa sede, dalla «tirannia dei principi» di
riserva   di   legge  e  di  irretroattivita'  -  hanno  determinato,
soprattutto   in   passato,   un   orientamento   restrittivo   della
giurisprudenza   costituzionale,   secondo   cui   il   principio  di
irretroattivita'  della  norma  piu'  sfavorevole  al  reo (artt. 25,
secondo  comma,  Cost.,  e  2  c.p.)  imporrebbe  una declaratoria di
inammissibilita'  della  questione  concernente il sindacato di norme
penali  di  favore,  necessariamente  irrilevante,  in  quanto, anche
laddove   ne   fosse  stata  pronunciata  l'incostituzionalita',  non
avrebbero comunque potuto trovare applicazione nel giudizio a quo.
    Sollecitata  da un dibattito dottrinale che non mostrava adesione
al  richiamato  orientamento,  tuttavia,  la  Corte costituzionale ha
inaugurato un diverso orientamento con una sentenza di ampio respiro,
che,  per  la  consapevolezza  palesata,  puo'  essere considerata la
leading  decision  in  materia (in termini analoghi, cfr. le sentenze
nn. 167/1993,  194/1993 e 25/1994): sotto il profilo della rilevanza,
infatti,  la  sentenza  n. 148 del 1983 (rel. Paladin) ha evidenziato
che «se e' vero che nessun soggetto puo' essere chiamato a rispondere
per  un  comportamento  che all'epoca del fatto non costituiva reato,
anche  se  la relativa norma permissiva venga privata di efficacia ai
sensi  dell'art. 136  della  Costituzione,  non  per  questo  occorre
concludere  che  le questioni di legittimita' costituzionale di norme
penali  di  favore  sono necessariamente irrilevanti», atteso che «un
eventuale  accoglimento  di  un'impugnativa concernente tali norme si
rifletterebbe  in  ogni caso sul fondamento normativo della decisione
penale  incidendo  sulla  sua  ratio  e  produrrebbe modificazioni al
sistema normativo».
    La   Consulta,  del  resto,  ha  fondato  l'essenzialita'  di  un
sindacato  di  costituzionalita'  a tutto raggio sulla considerazione
che  sottrarre  le  norme  di favore, ovvero che inducano trattamenti
penali  di  favore  nei confronti degli autori di reati, all'area del
sindacato di legittimita' costituzionale rischierebbe di creare delle
«sacche  di  impunita»  e  «di  privilegi»,  proprio allorquando - e'
questo  il  caso della legge n. 251/2005 - le norme di favore vengano
introdotte  in dispregio dei piu' elementari principi costituzionali,
e  soprattutto  di  quello  che la dottrina costituzionalistica ha da
tempo   indicato   come  un  «super-principio  costituzionale»  -  il
principio  di  uguaglianza:  «altro,  infatti,  e'  la garanzia che i
principi  del  diritto  penale-costituzionale  possono  offrire  agli
imputati,  circoscrivendo  l'efficacia  spettante  alle dichiarazioni
d'illegittimita'  delle norme di favore; altro e' il sindacato cui le
norme  stesse  devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone
franche  del  tutto  impreviste  dalla Costituzione all'interno delle
quali  la  legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile (...) le
norme  penali di favore fanno anch'esse parte del sistema, al pari di
qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento».
    La   sentenza   richiamata,   dunque,   riveste   una  importanza
fondamentale per tentare un inquadramento corretto del problema della
sindacabilita'  delle  norme  penali di favore, che, talvolta, ma non
sempre, si intreccia con il problema degli obblighi costituzionali di
tutela penale.
    Le   argomentazioni   della   Corte,   infatti,   forniscono  gli
appropriati   strumenti   concettuali  per  distinguere  i  piani  di
operativita'  dei  principi «penalistici» coinvolti - il principio di
riserva di legge ed il principio di irretroattivita': in particolare,
viene    spostato    il    rilievo   attribuito   al   principio   di
irretroattivita',  che  da  criterio processuale di irrilevanza delle
questioni  in  malam partem assume la corretta dimensione di criterio
sostanziale,   in  grado  di  condizionare,  anche  dopo  l'eventuale
accoglimento   della  questione  di  incostituzionalita',  lo  schema
argomentativo  della  decisione del giudice a quo (condizionandone la
ratio   decidendi,   ovvero  la  formula  di  proscioglimento),  che,
comunque,  dovra'  rispettare  la  regola dell'irretroattivita' della
legge piu' sfavorevole.
    Cio'  che  invece  viene  ribadito  e'  il  limite  derivante  al
sindacato  della  Corte  costituzionale  dal  principio di riserva di
legge,  che impedisce l'adozione di sentenze di accoglimento in grado
di  creare  nuove  norme  penali: profilo che, prendendo le mosse dal
problema  della astratta sindacabilita' delle norme penali di favore,
sfocia  nel  ben piu' ampio problema degli obblighi costituzionali di
tutela penale.
    Come  e'  stato  ben  rilevato, dunque, esistono due questioni di
ammissibilita'   delle  questioni  di  incostituzionalita'  in  malam
partem:  una  ammissibilita' processuale delle questioni dedotte, che
si  fonda  sul  requisito  della  «rilevanza»  previsto dall'art. 23,
comma 2,   legge   n. 87/1953;  ed  una  ammissibilita'  sostanziale,
riconducibile  all'art. 28  della  legge n. 87/1953 («Il controllo di
legittimita' della Corte costituzionale...esclude ogni valutazione di
natura  politica  e  ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale
del  Parlamento»),  che  rinviene la propria matrice «ideologica» nel
principio di riserva assoluta di legge statale in materia penale.
    Per  quanto  concerne  le  disposizioni  della  legge n. 251/2005
sospettate di illegittimita' costituzionale, dunque, va osservato che
la  proposizione  delle  questioni  in  malam partem, soprattutto per
quanto  concerne  la  disciplina  della prescrizione, dovrebbe essere
ritenuta  ammissibile,  in  quanto «rilevante»: al riguardo, infatti,
oltre    alla    richiamata,    e    condivisibile,    giurisprudenza
costituzionale,   la   dottrina   ha   distinto  tra  «rilevanza»  ed
«influenza», nel senso che la prima connota la questione che concerne
una   norma  che  si  presenta  come  astrattamente  applicabile  nel
giudizio,  mentre  la seconda, non necessaria ai fini del giudizio di
ammissibilita'  della questione, riguarda il «risultato», l'influenza
della  sentenza della Corte sulla concreta applicabilita' della norma
denunciata.
    In  tal  senso,  dunque,  la questione di costituzionalita' della
nuova  disciplina, di favore, della prescrizione deve essere ritenuta
ammissibile,   in   quanto   rilevante,   anche   se,   in  concreto,
potenzialmente  priva di «influenza» sul giudizio a quo, salvo quanto
si precisera' in seguito.
    Privato,  dunque, il principio di irretroattivita' dell'impropria
funzione   di  filtro  processuale  dei  giudizi  costituzionali,  va
affrontato,  su  un  piano  differente,  il problema del rispetto del
principio  di  riserva  di  legge  in  materia penale: il rispetto di
questo  fondamentale  principio costituzionale, infatti, si intreccia
con  il problema della prospettabilita', peraltro negata, di obblighi
costituzionali (ora anche comunitari) di tutela penale.
    L'inesistenza  di  obblighi impliciti di incriminazione, infatti,
si  inserisce  in  un quadro ordinamentale che assegna al solo potere
legislativo  la  scelta, assolutamente libera, di apprestare sanzioni
penali,  che  delinea  una  pena  con funzione preventiva, e non gia'
retributiva,  e  che  impedisce  alla  Corte costituzionale qualunque
attivita' «paralegislativa».
    E'   in   questa   dimensione,   dunque,  che  va  inquadrata  la
giurisprudenza  costituzionale  che, anche nei piu' recenti arrets in
materia,  ha  apparentemente  ridimensionato  l'orientamento espresso
nelle  pronunce  nn.  148/1983, 167/1993, 194/1993 e 25/1994: proprio
nella    sentenza    n. 161/2004    (rel.    Flick)   sulla   dedotta
incostituzionalita'  delle  nuove  fattispecie  di falso in bilancio,
infatti,  e'  stato  sancito  che  va  escluso che la Consulta «possa
introdurre  in  via  additiva  nuovi reati o che l'effetto di una sua
sentenza  possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato
gia'  esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva
alla  discrezionalita'  del legislatore»: dunque, il giudice ad quem,
richiamando   esplicitamente  l'art. 25,  secondo  comma,  Cost.,  ha
escluso  che  l'attivita'  caducatoria  costituzionalmente rimessa al
massimo  organo  di  garanzia  possa  introdurre nuove fattispecie di
reato,  ovvero  possa  ampliare la portata o aggravare il trattamento
sanzionatorio di fattispecie criminose gia' esistenti.
    In  tal  senso,  dunque,  la  Corte  costituzionale ha dichiarato
l'inammissibilita' delle questioni prospettate ritenendole infondate,
atteso  che  il  principio di riserva di legge impedisce un sindacato
costituzionale  sull'uso  del potere legislativo, ma, al contempo, ha
riaffermato  l'ammissibilita'  del  sindacato  sulle  norme penali di
favore,  allorquando  «l'eventuale ablazione della norma di favore si
limita  a  riportare  la  fattispecie  gia' oggetto di ingiustificato
trattamento  derogatorio  alla  norma  generale, dettata dallo stesso
legislatore  (fermo  restando,  altresi',  il divieto di applicazione
retroattiva  del regime penale piu' severo ai fatti commessi sotto il
vigore della norma di favore rimossa)».
    Dunque,     un    orientamento    che    giustamente    ribadisce
l'insindacabilita'  sull'uso del potere discrezionale del Parlamento,
soprattutto  in  una  materia,  quella  penale, caratterizzata da una
«lettura  forte» del principio di riserva di legge, ma che non sembra
disconoscere   la   sindacabilita'  delle  norme  penali  di  favore,
soprattutto allorquando ne venga denunciata l'irragionevolezza.
    Con   riferimento,   dunque,   alla   denunciata   illegittimita'
costituzionale   della   nuova  disciplina  della  prescrizione,  una
pronuncia  caducatoria  della  Consulta  sarebbe  idonea  soltanto  a
ripristinare   il  regime  di  «perseguibilita»  dell'azione  penale,
influendo sulle cause estintive dei reati.
    Pertanto,   nessun   profilo  concernente  l'ambito  di  astratta
applicabilita'   della   norma   penale,   nella  sua  dimensione  di
fattispecie  oggettiva  (condotta,  nesso di causalita', evento) e di
fattispecie  soggettiva  (dolo  o  colpa,  sarebbe  coinvolto  da una
sentenza  declaratoria dell'illegittimita' costituzionale delle norme
che  riducono  in  maniera  consistente  i  termini  di prescrizione,
secondo  criteri  di  carattere  eminentemente soggettivo. In termini
dommatici,  si  tratterebbe  di un intervento privo di riflessi sulle
tre   categorie   del   reato   -   tipicita',   antigiuridicita'   e
colpevolezza/responsabilita',  la  cui incidenza sarebbe circoscritta
alla dimensione della punibilita' c.d. «in concreto».
    Dunque,  una  sentenza di accoglimento della Corte costituzionale
non  sembra  essere  in  grado di scalfire il principio di riserva di
legge,   atteso   che   nessuna   influenza  avrebbe  sulle  astratte
fattispecie  incriminatrici:  il profilo coinvolto, infatti, riguarda
il  meccanismo  di estinzione del reato, che, sacrificando molteplici
parametri  costituzionali,  e violando altresi' l'art. 3 Cost., anche
sotto  il profilo della «condizione personale», fa tracimare la nuova
disciplina   nel   gorgo   dell'irragionevolezza,  sindacabile  dalla
Consulta.
    Va  peraltro  aggiunto,  anche  con  riferimento alla «rilevanza»
processuale  della  questione  ed  alla  «influenza» che un eventuale
accoglimento   potrebbe  determinare  sul  giudizio  a  quo,  che  il
principio di certezza del diritto e la possibilita' di «libere scelte
d'azione»  (Corte  cost.,  sent.  n. 364/1988) non sarebbero in alcun
modo    scalfiti,    alla   stregua   della   stessa   giurisprudenza
costituzionale,  che  nell'analoga materia della successione di norme
penali  in  caso  di  decreti-legge  non  convertiti,  ha  dichiarato
l'illegittimita'  dell'art. 2, comma 5, c.p.: dalla motivazione della
sentenza,  infatti,  emerge  che  la  «riespansione»  operativa della
normativa    piu'    sfavorevole,    abrogata   temporaneamente   dal
decreto-legge   successivamente   non  convertito,  limita  i  propri
«effetti negativi» soltanto ai c.d. «fatti pregressi», commessi nella
vigenza  della  norma  che  si  riespande,  e  non  anche  ai  «fatti
concomitanti» alla vigenza del decreto-legge non convertito.
    Mutatis  mutandis, una declaratoria di illegittimita' delle norme
di   favore   contenute  nella  legge  n. 251/2005  consentirebbe  la
riespansione della precedente normativa solo con riferimento ai fatti
«pregressi»,  commessi  prima  dell'entrata  in  vigore  della  legge
ritenuta  incostituzionale,  mentre  comporterebbe  una ultrattivita'
della  medesima  normativa  con riferimento ai fatti concomitanti, in
tal  modo assecondando un bilanciamento tra i principi costituzionali
violati  dalle  norme  censurate  ed  il  principio  di  certezza del
diritto.

                     Non manifesta infondatezza

    Limitando,   ovviamente,   la   prospettazione   dei  profili  di
illegittimita'   costituzionale   alle   norme  rilevanti  in  questo
processo,  ed  obliterando  ogni  valutazione in ordine ai molteplici
aspetti  di  irragionevolezza  della  legge  n. 251 del 2005, occorre
prendere  le  mosse  dalle  norme che, novellando gli artt. 157 e 161
c.p.,  hanno  ridotto i termini di prescrizione secondo criteri che a
questo  giudice  non  appaiono  dotati  innanzitutto del canone della
ragionevolezza.
    Illegittimita'  dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005
per  violazione  degli  artt.  3,  13, 24, 25, secondo comma, 27 e 79
Cost.
    Le norme di cui all'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005,
come  e'  noto, nel modificare gli artt. 157 e 161 del codice penale,
hanno   sancito   una   quasi   generale  riduzione  dei  termini  di
prescrizione:  ed  invero,  il  decorso  del  tempo corrispondente al
massimo  della  pena edittale stabilita dalla legge, e comunque di un
tempo  non  inferiore  a  sei  anni,  e' sufficiente ad estinguere il
reato;  peraltro,  il corso della prescrizione puo' essere interrotto
da  taluni  atti, comportando un aumento frazionario di un quarto del
tempo necessario a prescrivere in caso di soggetti incensurati, della
meta'  in  caso  di  imputati  cui  sia applicabile (o contestata) la
recidiva  infraquinquennale  o specifica (art. 99, comma 2, c.p.), di
due terzi in caso di imputati cui sia applicabile la recidiva plurima
(art. 99,  comma  4 c.p.), del doppio nel caso di imputati dichiarati
delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105
c.p.).
    L'attuale  assetto normativo appare a questo giudice contrario ai
fondamentali principi dettati dalla Costituzione in materia penale ed
all'assetto proprio di uno Stato sociale di diritto.
    La  prescrizione,  come  e'  pacifico,  e' configurata nel nostro
ordinamento  come  causa  di  estinzione del reato (da ultimo, in tal
senso,  Corte  cost.,  sent.  n. 393  del  2006),  come  si evince ad
abundantiam  dall'inserimento  nel  relativo Capo I del Titolo VI del
codice penale.
    Come  e'  altrettanto  noto  e  pacifico,  non  solo  nella ormai
costante  giurisprudenza costituzionale, ma altresi' nella pressoche'
unanime  opinione dottrinale, la Costituzione repubblicana delinea un
ordinamento improntato ai tratti di un «diritto penale del fatto»: la
tesi,  che  riposa pacificamente su una lettura congiunta degli artt.
13,  25  e  27  della  Costituzione  -  norme  che  impongono  che la
privazione  della  liberta'  personale sia consentita solo in seguito
alla commissione di un «fatto» previsto dalla legge come reato, e per
il  quale  deve  essere prevista (a livello normativo) ed irrogata (a
livello  giudiziario)  una  sanzione  che  persegua  la  finalita' di
risocializzazione  del reo (cfr., al riguardo, Corte cost. n. 313 del
1990,  rel.  E. Gallo), oggetto di un rimprovero personale, impedisce
pertanto  di  connotare  le  norme penali secondo i canoni propri del
«diritto  penale  d'autore»,  storicamente  attuati  nell'ordinamento
nazionalsocialista  in  Germania  (cfr.  paragrafo  2 dello StGB come
sostituito  nel  1935)  e  negli  ordinamenti  comunisti  dell'Unione
Sovietica e della ex Jugoslavia.
    L'attuale   normativa,   invece,  rivela  preoccupanti  segni  di
emersione  dei canoni tipici del diritto penale d'autore, ove collega
i  differenti  aumenti dei termini di prescrizione, per interruzione,
non   gia'   alla   gravita'   oggettiva  del  fatto,  come  avveniva
precedentemente,  bensi'  allo  status soggettivo dell'imputato: alla
stregua  della nuova normativa, infatti, e' la personalita' criminale
del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale
o  professionale, a determinare un allungamento ovvero una riduzione,
anche  consistente - nel caso in esame, da 15 anni a 7 anni, e 6 mesi
-, dei termini di prescrizione.
    Tale  impostazione  normativa,  dunque,  prescinde totalmente dal
fatto   di  reato  e  dalla  sua  oggettiva  gravita',  soffermandosi
unicamente sul reo e sulla sua presumibile personalita' criminale.
    La   scelta,  oltre  ad  assecondare  gli  infidi  confini  della
presunzione di pericolosita', appare non soltanto confliggente con il
diritto  penale  del  fatto,  ma  altresi'  schizofrenica, atteso che
l'allungamento  dei termini di prescrizione puo' essere legato ad una
situazione  di  recidiva  maturata  a distanza di anni dal fatto, nel
corso  del  procedimento,  che,  come  e' noto, puo' talvolta subire,
anche  per  la  estrema farraginosita' del sistema processuale, tempi
molto  dilatati:  una  situazione  quindi  del  tutto  absoluta dalla
commissione del singolo fatto di reato, oggetto di giudizio, e legata
magari  alla  mera,  e  casuale,  divaricazione  temporale tra tempus
commissi delicti ed accertamento processuale.
    Del   resto,  appare  quasi  ridondante  richiamare  le  storiche
pronunce  n. 364  e  1085  del  1988 della Corte costituzionale (rel.
Dell'Andro),  che,  nel  rendere  affermazioni  di  alto valore anche
dommatico,  hanno  ancorato,  definitivamente, l'illecito penale alla
concezione  del  personales  Unrecht:  una  visione  del  reato  che,
valorizzando  sia  il  disvalore  della  condotta  che  il  disvalore
d'evento,  e'  strettamente  connessa ad una impostazione «oggettiva»
della colpevolezza.
    Colpevolezza per il «fatto», dunque, e non per «l'autore».
    Non   va   del   resto  obliterata  un'ulteriore  considerazione:
l'assetto  normativo  inaugurato  dalla legge n. 251/2005 asseconda i
canoni  del diritto penale d'autore, anche perche', di fatto, conduce
ad  un  trattamento  sfavorevole della delinquenza c.d. da strada (si
pensi  al  soggetto  condannato  per  piu'  fatti di furto di estrema
esiguita),  e ad un trattamento favorevole della delinquenza dei c.d.
«colletti  bianchi», categoria criminologica, come e' noto, elaborata
da  Sutherland, e dotata di assoluta affidabilita' empirica (si pensi
a  tutti  gli autori di truffe, ovvero di reati contro la p.a. ovvero
in  materia  economica,  di regola «inseriti» nel contesto sociale, e
non gravati da precedenti penali, che, oltre a godere di termini piu'
brevi,  difficilmente  rischiano  di  entrare  nel  circuito  penale,
allorquando vengano prosciolti per prescrizione).
    Tale  considerazione,  relativa  all'impatto  della riforma sulla
prassi  della  giustizia  penale,  sebbene  apparentemente  priva  di
agganci a parametri costituzionali vincolanti in sede di sindacato di
legittimita'  costituzionale,  da'  forma  e  spessore  al  paventato
rischio dell'emersione di un diritto penale d'autore, che, del resto,
appare in contrasto anche con il principio di uguaglianza.
    Infatti,  ove si ritenga che la nuova normativa, con i differenti
termini  di  prescrizione,  non  riveli i tratti di un diritto penale
d'autore,  in  verita'  evidenti,  non si comprenderebbe quale sia il
canone  di  ragionevolezza adoperato per sancire una tale distinzione
legislativa:  la  nuova  normativa,  infatti,  appare censurabile sia
sotto  il  profilo del principio di uguaglianza, sia sotto quello del
principio  di  ragionevolezza,  per violazione dell'art. 3 Cost., che
sancisce  l'illegittimita'  di  trattamenti  normativi  differenti in
ragione  delle  condizioni  personali  del  cittadino;  un  regime di
estinzione  del  reato legato allo status di recidivo, invero, sembra
proprio   introdurre   un   trattamento   normativo   imbevuto  della
riprovazione dell'ordinamento per la condizione personale del reo che
abbia  gia'  subito precedenti condanne, a prescindere dalla gravita'
del  fatto in contestazione, ed anche dei fatti, magari bagattellari,
per i quali si e' gia' riportata condanna.
    La  violazione palese del principio di uguaglianza, del resto, si
scorge agevolmente nel caso, invero frequente, della contestazione di
un  medesimo  reato  a  carico  di una pluralita' di imputati: in tal
caso,  infatti,  si  potrebbe  assistere  ad un esito processuale del
tutto opposto - declaratoria di estinzione del reato per prescrizione
ovvero  condanna - a seconda che i diversi imputati abbiano riportato
o  meno  precedenti  condanne;  l'ipotesi,  oltre ad offendere i piu'
elementari  canoni  di  giustizia,  viola  palesemente  il  principio
costituzionale  di  cui  all'art. 3  Cost.,  che consente trattamenti
diversi soltanto in situazioni diverse.
    La  potenziale  obiezione  alla stregua della quale la situazione
diversa,   in   grado  di  giustificare  il  differente  trattamento,
ricorrerebbe  proprio  per  i  precedenti  penali  che  integrano  la
situazione  di  recidiva  o  di  delinquenza abituale o professionale
lascia   emergere   ictu   oculi   il   profilo   di   illegittimita'
precedentemente  evocato:  far  dipendere  un  differente trattamento
normativo, in materia penale, da uno status soggettivo, e non gia' da
connotati   oggettivi,   riguardanti  la  gravita'  del  fatto-reato,
rappresenta l'emblema del diritto penale d'autore, che tante sciagure
storiche e giuridiche ha assecondato.
    Ed  invero,  i precedenti penali sono ordinariamente valutati dal
giudice  in sede di concreta commisurazione della pena, astrattamente
irrogata,  nell'ambito  di  un giudizio individualizzato che assume a
parametro  i  criteri  finalistici  di  cui  all'art. 27, terzo comma
Cost.,  ma  non  possono  essere assunti a discrimen di un differente
trattamento   normativo,  che,  al  contrario,  deve  intrinsecamente
possedere  i  caratteri  della generalita' ed astrattezza; laddove si
registri una tale situazione normativa, si declina la responsabilita'
penale  secondo  i  canoni  del tipo d'autore, e cio' contrasta con i
principi elementari della Costituzione repubblicana.
    Non  va  infine  sottaciuto  che  la  riforma dettata dalla legge
n. 251/2005,   riducendo   in   maniera   consistente  i  termini  di
prescrizione   determinera'   una  estinzione  generalizzata  di  una
molteplicita'  di  ipotesi  di  reati  (cfr.,  al  riguardo,  i  dati
statistici pubblicati dal Ministero della giustizia - tra l'altro, in
Guida  al  diritto,  Dossier  mensile, 2006, n. 1, cit., p. 34 -, che
rendono la cifra di 212.397 provvedimenti di prescrizione a favore di
221.880 beneficiari, e dalla Corte di cassazione), di solito commessi
dai  «colletti  bianchi»: tale conseguenza, invero, sembra rivelare i
tratti  di  una  amnistia  di fatto, mascherata da un mutamento delle
regole  in materia di prescrizione, e conseguita per il tramite di un
aggiramento dell'art. 79 Cost., che, come e' noto, richiede una legge
approvata   con  una  maggioranza  parlamentare  dei  due  terzi  dei
componenti di ciascuna Camera.
    Tale   considerazione,  del  resto,  pur  riproponendo  il  tema,
risalente  almeno  al  c.d. condono edilizio del 1985, delle amnistie
mascherate,  ed  il  problema  della  ipotizzabilita' di un conflitto
binario  con  l'art.  79  Cost.,  non  puo' essere posta in disparte,
quantomeno  sotto  il profilo argomentativo: la scissione concettuale
tra  dimensione  astratta  della  norma  -  che  delinea una sorta di
rinuncia  alla  punibilita'  rispetto  a  fatti  passati - ed effetti
concreti  -  effetti  estintivi legati alla concretezza della singola
vicenda  penale, e tuttavia di portata amplissima - rischia, infatti,
di assecondare un uso vistosamente distorto del potere normativo.
    Ultimo  profilo  di  illegittimita'  da  considerare  e', secondo
questo  giudice, la violazione del principio costituzionale di difesa
sociale,  che  pur  rinvenendo  un  «aggancio» nell'art. 24 Cost., e'
imminente  all'intero  sistema costituzionale, e tale da giustificare
la  pretesa  punitiva  dello  Stato:  nonostante  l'apparente  scarsa
vincolativita'  del  parametro  di  legittimita'  invocato, che rende
angusto  un  controllo  c.d.  «binario» di legittimita' (tra la norma
sospettata  di  incostituzionalita'  e  la norma costituzionale), non
puo'  essere  sottaciuta  - senza rendere il diritto «vuota maschera»
della  realta'  -  la  considerazione  alla  stregua  della  quale la
riduzione  consistente  dei  termini  di  prescrizione  impedisce, di
fatto,  il perseguimento e la punizione di molteplici fatti di reato,
con  una  obliterazione  della  sicurezza  collettiva,  atteso  che i
consueti   tempi  processuali,  dilatati  all'estremo  da  improvvide
elargizioni  di  pseudogaranzie  prive di reali contenuti difensivi e
dalla asfitticita' dell'organizzazione giudiziaria, non consentono un
reale  esercizio  dell'azione  penale con conseguente affermazione di
responsabilita'  in  termini  cosi'  ridotti:  si  pensi  all'ipotesi
delittuosa,  paradigmatica  a fini dialettici, di false comunicazioni
sociali,  per  desumere  l'assoluta inadeguatezza di sette anni e sei
mesi  per  la definizione del relativo processo, in un tempo, invece,
sufficiente al piu' alla scoperta ed alla conclusione delle complesse
indagini preliminari.
                              P. Q. M.
    Letti  gli  artt. 3,  13,  24,  25,  27,  79  Cost.,  e 23, legge
n. 87/1953;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale   perche'   dichiari  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 6,  commi  1  e  4,  della legge n. 251/2005 per violazione
degli artt. 3, 13, 24, 25, secondo comma, 27 e 79 Cost.;
    Sospende   il  giudizio  in  corso,  ed  i  relativi  termini  di
prescrizione.
    Manda  la  cancelleria  per  gli  adempimenti  di  rito, e per la
notificazione  e  la  comunicazione  al  Presidente del Consiglio dei
ministri ed ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Cava de' Tirreni, addi' 23 gennaio 2007
                        Il giudice: Riccardi
07C0753