N. 434 ORDINANZA (Atto di promovimento) 23 gennaio 2007
Ordinanza emessa il 23 gennaio 2007 dal tribunale di Salerno - Sezione distaccata di Cava de' Tirreni nel procedimento penale a carico di Barbuti Vincenza ed altri Reati e pene - Prescrizione - Modifiche normative - Previsto collegamento dei differenti aumenti dei termini di prescrizione, per interruzione, allo status soggettivo dell'imputato e non alla gravita' oggettiva del fatto - Contrasto con i principi di legalita' e della finalita' rieducativa della pena - Violazione del principio di uguaglianza - Lesione del principio di ragionevolezza - Introduzione di una amnistia senza il rispetto della procedura prevista per la sua concessione - Violazione del principio di difesa sociale. - Legge 5 dicembre 2005, n. 251, art. 6, commi 1 e 4. - Costituzione, artt. 3, 13, 24, 25, comma secondo, 27 e 79.(GU n.24 del 20-6-2007 )
IL TRIBUNALE Esaminata la richiesta avanzata dai difensori di Barbuti Vincenza, Manzo Maria e Cicalese Maria, imputati dei reati di cui all'art. 368 c.p. nel processo penale n. 205/2001 R. G. Trib., di emissione di sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione; acquisito il parere contrario del p.m.; ha emesso la seguente ordinanza di rimessione degli atti alla corte costituzionale. Premessa in fatto La difesa degli imputati ha chiesto emettersi declaratoria di non doversi procedere in ordine ai reati a questi ultimi ascritti per intervenuta prescrizione: ed invero, prescindendo dalla eventuale dichiarazione di apertura del dibattimento, resa irrilevante ai fini dell'applicabilita' della nuova disciplina ai giudizi di primo grado in corso dalla sentenza n. 393 del 2006 della Corte costituzionale, invocando la nuova disciplina normativa introdotta dalla legge n. 251 del 2005, la difesa ha chiesto che fosse pronunciata l'estinzione per intervenuta prescrizione in ordine ai fatti contestati nell'imputazione (falsa testimonianza), commessi in data 8 marzo 1997, per il quale il termine massimo di prescrizione, alla stregua della nuova normativa, e' di sette anni e sei mesi. Rilevanza Alla stregua di quanto premesso in fatto, dunque, emerge con evidenza la rilevanza delle questioni di legittimita' costituzionale che verranno esposte in prosieguo: al riguardo, infatti, giova osservare che la richiesta avanzata all'odierna udienza imporrebbe una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, in applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 6, comma 1 e comma 4 (che modifica i termini di prescrizione e l'efficacia degli atti interruttivi) della legge n. 251/2005. La risalenza dei fatti, del resto, impone a questo giudice di sollevare autonoma questione di costituzionalita' - analoga sebbene non identica, a quelle gia' sollevate da questo medesimo tribunale in data 24 gennaio 2006 (presso la sezione distaccata di Cava de' Tirreni), nel procedimento a carico di Degli Esposti Vittorio (pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 26 del 28 gennaio 2006), e 13 febbraio 2006 (presso la Sezione distaccata di Amalfi), nel procedimento a carico di Manzi Luigi - atteso che la questione tuttora pendente non risulta ancora fissata sul ruolo d'udienza della Corte costituzionale, e che pertanto appare opportuno deferire la questione di costituzionalita' ai fine di sospendere il corso della prescrizione, che altrimenti continuerebbe a maturare. Rilevanza ed ammissibilita' del sindacato sulle norme penali di favore La prospettazione di profili di illegittimita' costituzionale delle norme di favore contenute nella legge n. 251/2005 necessita tuttavia di talune considerazioni preliminari in ordine alla sindacabilita' delle norme penali in bonam partem, pena la dichiarazione di inammissibilita' della questione sollevata per irrilevanza. Invero, le peculiarita' della materia penale - caratterizzata, per quanto interessa in questa sede, dalla «tirannia dei principi» di riserva di legge e di irretroattivita' - hanno determinato, soprattutto in passato, un orientamento restrittivo della giurisprudenza costituzionale, secondo cui il principio di irretroattivita' della norma piu' sfavorevole al reo (artt. 25, secondo comma, Cost., e 2 c.p.) imporrebbe una declaratoria di inammissibilita' della questione concernente il sindacato di norme penali di favore, necessariamente irrilevante, in quanto, anche laddove ne fosse stata pronunciata l'incostituzionalita', non avrebbero comunque potuto trovare applicazione nel giudizio a quo. Sollecitata da un dibattito dottrinale che non mostrava adesione al richiamato orientamento, tuttavia, la Corte costituzionale ha inaugurato un diverso orientamento con una sentenza di ampio respiro, che, per la consapevolezza palesata, puo' essere considerata la leading decision in materia (in termini analoghi, cfr. le sentenze nn. 167/1993, 194/1993 e 25/1994): sotto il profilo della rilevanza, infatti, la sentenza n. 148 del 1983 (rel. Paladin) ha evidenziato che «se e' vero che nessun soggetto puo' essere chiamato a rispondere per un comportamento che all'epoca del fatto non costituiva reato, anche se la relativa norma permissiva venga privata di efficacia ai sensi dell'art. 136 della Costituzione, non per questo occorre concludere che le questioni di legittimita' costituzionale di norme penali di favore sono necessariamente irrilevanti», atteso che «un eventuale accoglimento di un'impugnativa concernente tali norme si rifletterebbe in ogni caso sul fondamento normativo della decisione penale incidendo sulla sua ratio e produrrebbe modificazioni al sistema normativo». La Consulta, del resto, ha fondato l'essenzialita' di un sindacato di costituzionalita' a tutto raggio sulla considerazione che sottrarre le norme di favore, ovvero che inducano trattamenti penali di favore nei confronti degli autori di reati, all'area del sindacato di legittimita' costituzionale rischierebbe di creare delle «sacche di impunita» e «di privilegi», proprio allorquando - e' questo il caso della legge n. 251/2005 - le norme di favore vengano introdotte in dispregio dei piu' elementari principi costituzionali, e soprattutto di quello che la dottrina costituzionalistica ha da tempo indicato come un «super-principio costituzionale» - il principio di uguaglianza: «altro, infatti, e' la garanzia che i principi del diritto penale-costituzionale possono offrire agli imputati, circoscrivendo l'efficacia spettante alle dichiarazioni d'illegittimita' delle norme di favore; altro e' il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione all'interno delle quali la legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile (...) le norme penali di favore fanno anch'esse parte del sistema, al pari di qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento». La sentenza richiamata, dunque, riveste una importanza fondamentale per tentare un inquadramento corretto del problema della sindacabilita' delle norme penali di favore, che, talvolta, ma non sempre, si intreccia con il problema degli obblighi costituzionali di tutela penale. Le argomentazioni della Corte, infatti, forniscono gli appropriati strumenti concettuali per distinguere i piani di operativita' dei principi «penalistici» coinvolti - il principio di riserva di legge ed il principio di irretroattivita': in particolare, viene spostato il rilievo attribuito al principio di irretroattivita', che da criterio processuale di irrilevanza delle questioni in malam partem assume la corretta dimensione di criterio sostanziale, in grado di condizionare, anche dopo l'eventuale accoglimento della questione di incostituzionalita', lo schema argomentativo della decisione del giudice a quo (condizionandone la ratio decidendi, ovvero la formula di proscioglimento), che, comunque, dovra' rispettare la regola dell'irretroattivita' della legge piu' sfavorevole. Cio' che invece viene ribadito e' il limite derivante al sindacato della Corte costituzionale dal principio di riserva di legge, che impedisce l'adozione di sentenze di accoglimento in grado di creare nuove norme penali: profilo che, prendendo le mosse dal problema della astratta sindacabilita' delle norme penali di favore, sfocia nel ben piu' ampio problema degli obblighi costituzionali di tutela penale. Come e' stato ben rilevato, dunque, esistono due questioni di ammissibilita' delle questioni di incostituzionalita' in malam partem: una ammissibilita' processuale delle questioni dedotte, che si fonda sul requisito della «rilevanza» previsto dall'art. 23, comma 2, legge n. 87/1953; ed una ammissibilita' sostanziale, riconducibile all'art. 28 della legge n. 87/1953 («Il controllo di legittimita' della Corte costituzionale...esclude ogni valutazione di natura politica e ogni sindacato sull'uso del potere discrezionale del Parlamento»), che rinviene la propria matrice «ideologica» nel principio di riserva assoluta di legge statale in materia penale. Per quanto concerne le disposizioni della legge n. 251/2005 sospettate di illegittimita' costituzionale, dunque, va osservato che la proposizione delle questioni in malam partem, soprattutto per quanto concerne la disciplina della prescrizione, dovrebbe essere ritenuta ammissibile, in quanto «rilevante»: al riguardo, infatti, oltre alla richiamata, e condivisibile, giurisprudenza costituzionale, la dottrina ha distinto tra «rilevanza» ed «influenza», nel senso che la prima connota la questione che concerne una norma che si presenta come astrattamente applicabile nel giudizio, mentre la seconda, non necessaria ai fini del giudizio di ammissibilita' della questione, riguarda il «risultato», l'influenza della sentenza della Corte sulla concreta applicabilita' della norma denunciata. In tal senso, dunque, la questione di costituzionalita' della nuova disciplina, di favore, della prescrizione deve essere ritenuta ammissibile, in quanto rilevante, anche se, in concreto, potenzialmente priva di «influenza» sul giudizio a quo, salvo quanto si precisera' in seguito. Privato, dunque, il principio di irretroattivita' dell'impropria funzione di filtro processuale dei giudizi costituzionali, va affrontato, su un piano differente, il problema del rispetto del principio di riserva di legge in materia penale: il rispetto di questo fondamentale principio costituzionale, infatti, si intreccia con il problema della prospettabilita', peraltro negata, di obblighi costituzionali (ora anche comunitari) di tutela penale. L'inesistenza di obblighi impliciti di incriminazione, infatti, si inserisce in un quadro ordinamentale che assegna al solo potere legislativo la scelta, assolutamente libera, di apprestare sanzioni penali, che delinea una pena con funzione preventiva, e non gia' retributiva, e che impedisce alla Corte costituzionale qualunque attivita' «paralegislativa». E' in questa dimensione, dunque, che va inquadrata la giurisprudenza costituzionale che, anche nei piu' recenti arrets in materia, ha apparentemente ridimensionato l'orientamento espresso nelle pronunce nn. 148/1983, 167/1993, 194/1993 e 25/1994: proprio nella sentenza n. 161/2004 (rel. Flick) sulla dedotta incostituzionalita' delle nuove fattispecie di falso in bilancio, infatti, e' stato sancito che va escluso che la Consulta «possa introdurre in via additiva nuovi reati o che l'effetto di una sua sentenza possa essere quello di ampliare o aggravare figure di reato gia' esistenti, trattandosi di interventi riservati in via esclusiva alla discrezionalita' del legislatore»: dunque, il giudice ad quem, richiamando esplicitamente l'art. 25, secondo comma, Cost., ha escluso che l'attivita' caducatoria costituzionalmente rimessa al massimo organo di garanzia possa introdurre nuove fattispecie di reato, ovvero possa ampliare la portata o aggravare il trattamento sanzionatorio di fattispecie criminose gia' esistenti. In tal senso, dunque, la Corte costituzionale ha dichiarato l'inammissibilita' delle questioni prospettate ritenendole infondate, atteso che il principio di riserva di legge impedisce un sindacato costituzionale sull'uso del potere legislativo, ma, al contempo, ha riaffermato l'ammissibilita' del sindacato sulle norme penali di favore, allorquando «l'eventuale ablazione della norma di favore si limita a riportare la fattispecie gia' oggetto di ingiustificato trattamento derogatorio alla norma generale, dettata dallo stesso legislatore (fermo restando, altresi', il divieto di applicazione retroattiva del regime penale piu' severo ai fatti commessi sotto il vigore della norma di favore rimossa)». Dunque, un orientamento che giustamente ribadisce l'insindacabilita' sull'uso del potere discrezionale del Parlamento, soprattutto in una materia, quella penale, caratterizzata da una «lettura forte» del principio di riserva di legge, ma che non sembra disconoscere la sindacabilita' delle norme penali di favore, soprattutto allorquando ne venga denunciata l'irragionevolezza. Con riferimento, dunque, alla denunciata illegittimita' costituzionale della nuova disciplina della prescrizione, una pronuncia caducatoria della Consulta sarebbe idonea soltanto a ripristinare il regime di «perseguibilita» dell'azione penale, influendo sulle cause estintive dei reati. Pertanto, nessun profilo concernente l'ambito di astratta applicabilita' della norma penale, nella sua dimensione di fattispecie oggettiva (condotta, nesso di causalita', evento) e di fattispecie soggettiva (dolo o colpa, sarebbe coinvolto da una sentenza declaratoria dell'illegittimita' costituzionale delle norme che riducono in maniera consistente i termini di prescrizione, secondo criteri di carattere eminentemente soggettivo. In termini dommatici, si tratterebbe di un intervento privo di riflessi sulle tre categorie del reato - tipicita', antigiuridicita' e colpevolezza/responsabilita', la cui incidenza sarebbe circoscritta alla dimensione della punibilita' c.d. «in concreto». Dunque, una sentenza di accoglimento della Corte costituzionale non sembra essere in grado di scalfire il principio di riserva di legge, atteso che nessuna influenza avrebbe sulle astratte fattispecie incriminatrici: il profilo coinvolto, infatti, riguarda il meccanismo di estinzione del reato, che, sacrificando molteplici parametri costituzionali, e violando altresi' l'art. 3 Cost., anche sotto il profilo della «condizione personale», fa tracimare la nuova disciplina nel gorgo dell'irragionevolezza, sindacabile dalla Consulta. Va peraltro aggiunto, anche con riferimento alla «rilevanza» processuale della questione ed alla «influenza» che un eventuale accoglimento potrebbe determinare sul giudizio a quo, che il principio di certezza del diritto e la possibilita' di «libere scelte d'azione» (Corte cost., sent. n. 364/1988) non sarebbero in alcun modo scalfiti, alla stregua della stessa giurisprudenza costituzionale, che nell'analoga materia della successione di norme penali in caso di decreti-legge non convertiti, ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 2, comma 5, c.p.: dalla motivazione della sentenza, infatti, emerge che la «riespansione» operativa della normativa piu' sfavorevole, abrogata temporaneamente dal decreto-legge successivamente non convertito, limita i propri «effetti negativi» soltanto ai c.d. «fatti pregressi», commessi nella vigenza della norma che si riespande, e non anche ai «fatti concomitanti» alla vigenza del decreto-legge non convertito. Mutatis mutandis, una declaratoria di illegittimita' delle norme di favore contenute nella legge n. 251/2005 consentirebbe la riespansione della precedente normativa solo con riferimento ai fatti «pregressi», commessi prima dell'entrata in vigore della legge ritenuta incostituzionale, mentre comporterebbe una ultrattivita' della medesima normativa con riferimento ai fatti concomitanti, in tal modo assecondando un bilanciamento tra i principi costituzionali violati dalle norme censurate ed il principio di certezza del diritto. Non manifesta infondatezza Limitando, ovviamente, la prospettazione dei profili di illegittimita' costituzionale alle norme rilevanti in questo processo, ed obliterando ogni valutazione in ordine ai molteplici aspetti di irragionevolezza della legge n. 251 del 2005, occorre prendere le mosse dalle norme che, novellando gli artt. 157 e 161 c.p., hanno ridotto i termini di prescrizione secondo criteri che a questo giudice non appaiono dotati innanzitutto del canone della ragionevolezza. Illegittimita' dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005 per violazione degli artt. 3, 13, 24, 25, secondo comma, 27 e 79 Cost. Le norme di cui all'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005, come e' noto, nel modificare gli artt. 157 e 161 del codice penale, hanno sancito una quasi generale riduzione dei termini di prescrizione: ed invero, il decorso del tempo corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge, e comunque di un tempo non inferiore a sei anni, e' sufficiente ad estinguere il reato; peraltro, il corso della prescrizione puo' essere interrotto da taluni atti, comportando un aumento frazionario di un quarto del tempo necessario a prescrivere in caso di soggetti incensurati, della meta' in caso di imputati cui sia applicabile (o contestata) la recidiva infraquinquennale o specifica (art. 99, comma 2, c.p.), di due terzi in caso di imputati cui sia applicabile la recidiva plurima (art. 99, comma 4 c.p.), del doppio nel caso di imputati dichiarati delinquenti abituali (artt. 102 e 103 c.p.) o professionali (art. 105 c.p.). L'attuale assetto normativo appare a questo giudice contrario ai fondamentali principi dettati dalla Costituzione in materia penale ed all'assetto proprio di uno Stato sociale di diritto. La prescrizione, come e' pacifico, e' configurata nel nostro ordinamento come causa di estinzione del reato (da ultimo, in tal senso, Corte cost., sent. n. 393 del 2006), come si evince ad abundantiam dall'inserimento nel relativo Capo I del Titolo VI del codice penale. Come e' altrettanto noto e pacifico, non solo nella ormai costante giurisprudenza costituzionale, ma altresi' nella pressoche' unanime opinione dottrinale, la Costituzione repubblicana delinea un ordinamento improntato ai tratti di un «diritto penale del fatto»: la tesi, che riposa pacificamente su una lettura congiunta degli artt. 13, 25 e 27 della Costituzione - norme che impongono che la privazione della liberta' personale sia consentita solo in seguito alla commissione di un «fatto» previsto dalla legge come reato, e per il quale deve essere prevista (a livello normativo) ed irrogata (a livello giudiziario) una sanzione che persegua la finalita' di risocializzazione del reo (cfr., al riguardo, Corte cost. n. 313 del 1990, rel. E. Gallo), oggetto di un rimprovero personale, impedisce pertanto di connotare le norme penali secondo i canoni propri del «diritto penale d'autore», storicamente attuati nell'ordinamento nazionalsocialista in Germania (cfr. paragrafo 2 dello StGB come sostituito nel 1935) e negli ordinamenti comunisti dell'Unione Sovietica e della ex Jugoslavia. L'attuale normativa, invece, rivela preoccupanti segni di emersione dei canoni tipici del diritto penale d'autore, ove collega i differenti aumenti dei termini di prescrizione, per interruzione, non gia' alla gravita' oggettiva del fatto, come avveniva precedentemente, bensi' allo status soggettivo dell'imputato: alla stregua della nuova normativa, infatti, e' la personalita' criminale del reo, desunta dalla recidiva o dallo stato di delinquente abituale o professionale, a determinare un allungamento ovvero una riduzione, anche consistente - nel caso in esame, da 15 anni a 7 anni, e 6 mesi -, dei termini di prescrizione. Tale impostazione normativa, dunque, prescinde totalmente dal fatto di reato e dalla sua oggettiva gravita', soffermandosi unicamente sul reo e sulla sua presumibile personalita' criminale. La scelta, oltre ad assecondare gli infidi confini della presunzione di pericolosita', appare non soltanto confliggente con il diritto penale del fatto, ma altresi' schizofrenica, atteso che l'allungamento dei termini di prescrizione puo' essere legato ad una situazione di recidiva maturata a distanza di anni dal fatto, nel corso del procedimento, che, come e' noto, puo' talvolta subire, anche per la estrema farraginosita' del sistema processuale, tempi molto dilatati: una situazione quindi del tutto absoluta dalla commissione del singolo fatto di reato, oggetto di giudizio, e legata magari alla mera, e casuale, divaricazione temporale tra tempus commissi delicti ed accertamento processuale. Del resto, appare quasi ridondante richiamare le storiche pronunce n. 364 e 1085 del 1988 della Corte costituzionale (rel. Dell'Andro), che, nel rendere affermazioni di alto valore anche dommatico, hanno ancorato, definitivamente, l'illecito penale alla concezione del personales Unrecht: una visione del reato che, valorizzando sia il disvalore della condotta che il disvalore d'evento, e' strettamente connessa ad una impostazione «oggettiva» della colpevolezza. Colpevolezza per il «fatto», dunque, e non per «l'autore». Non va del resto obliterata un'ulteriore considerazione: l'assetto normativo inaugurato dalla legge n. 251/2005 asseconda i canoni del diritto penale d'autore, anche perche', di fatto, conduce ad un trattamento sfavorevole della delinquenza c.d. da strada (si pensi al soggetto condannato per piu' fatti di furto di estrema esiguita), e ad un trattamento favorevole della delinquenza dei c.d. «colletti bianchi», categoria criminologica, come e' noto, elaborata da Sutherland, e dotata di assoluta affidabilita' empirica (si pensi a tutti gli autori di truffe, ovvero di reati contro la p.a. ovvero in materia economica, di regola «inseriti» nel contesto sociale, e non gravati da precedenti penali, che, oltre a godere di termini piu' brevi, difficilmente rischiano di entrare nel circuito penale, allorquando vengano prosciolti per prescrizione). Tale considerazione, relativa all'impatto della riforma sulla prassi della giustizia penale, sebbene apparentemente priva di agganci a parametri costituzionali vincolanti in sede di sindacato di legittimita' costituzionale, da' forma e spessore al paventato rischio dell'emersione di un diritto penale d'autore, che, del resto, appare in contrasto anche con il principio di uguaglianza. Infatti, ove si ritenga che la nuova normativa, con i differenti termini di prescrizione, non riveli i tratti di un diritto penale d'autore, in verita' evidenti, non si comprenderebbe quale sia il canone di ragionevolezza adoperato per sancire una tale distinzione legislativa: la nuova normativa, infatti, appare censurabile sia sotto il profilo del principio di uguaglianza, sia sotto quello del principio di ragionevolezza, per violazione dell'art. 3 Cost., che sancisce l'illegittimita' di trattamenti normativi differenti in ragione delle condizioni personali del cittadino; un regime di estinzione del reato legato allo status di recidivo, invero, sembra proprio introdurre un trattamento normativo imbevuto della riprovazione dell'ordinamento per la condizione personale del reo che abbia gia' subito precedenti condanne, a prescindere dalla gravita' del fatto in contestazione, ed anche dei fatti, magari bagattellari, per i quali si e' gia' riportata condanna. La violazione palese del principio di uguaglianza, del resto, si scorge agevolmente nel caso, invero frequente, della contestazione di un medesimo reato a carico di una pluralita' di imputati: in tal caso, infatti, si potrebbe assistere ad un esito processuale del tutto opposto - declaratoria di estinzione del reato per prescrizione ovvero condanna - a seconda che i diversi imputati abbiano riportato o meno precedenti condanne; l'ipotesi, oltre ad offendere i piu' elementari canoni di giustizia, viola palesemente il principio costituzionale di cui all'art. 3 Cost., che consente trattamenti diversi soltanto in situazioni diverse. La potenziale obiezione alla stregua della quale la situazione diversa, in grado di giustificare il differente trattamento, ricorrerebbe proprio per i precedenti penali che integrano la situazione di recidiva o di delinquenza abituale o professionale lascia emergere ictu oculi il profilo di illegittimita' precedentemente evocato: far dipendere un differente trattamento normativo, in materia penale, da uno status soggettivo, e non gia' da connotati oggettivi, riguardanti la gravita' del fatto-reato, rappresenta l'emblema del diritto penale d'autore, che tante sciagure storiche e giuridiche ha assecondato. Ed invero, i precedenti penali sono ordinariamente valutati dal giudice in sede di concreta commisurazione della pena, astrattamente irrogata, nell'ambito di un giudizio individualizzato che assume a parametro i criteri finalistici di cui all'art. 27, terzo comma Cost., ma non possono essere assunti a discrimen di un differente trattamento normativo, che, al contrario, deve intrinsecamente possedere i caratteri della generalita' ed astrattezza; laddove si registri una tale situazione normativa, si declina la responsabilita' penale secondo i canoni del tipo d'autore, e cio' contrasta con i principi elementari della Costituzione repubblicana. Non va infine sottaciuto che la riforma dettata dalla legge n. 251/2005, riducendo in maniera consistente i termini di prescrizione determinera' una estinzione generalizzata di una molteplicita' di ipotesi di reati (cfr., al riguardo, i dati statistici pubblicati dal Ministero della giustizia - tra l'altro, in Guida al diritto, Dossier mensile, 2006, n. 1, cit., p. 34 -, che rendono la cifra di 212.397 provvedimenti di prescrizione a favore di 221.880 beneficiari, e dalla Corte di cassazione), di solito commessi dai «colletti bianchi»: tale conseguenza, invero, sembra rivelare i tratti di una amnistia di fatto, mascherata da un mutamento delle regole in materia di prescrizione, e conseguita per il tramite di un aggiramento dell'art. 79 Cost., che, come e' noto, richiede una legge approvata con una maggioranza parlamentare dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera. Tale considerazione, del resto, pur riproponendo il tema, risalente almeno al c.d. condono edilizio del 1985, delle amnistie mascherate, ed il problema della ipotizzabilita' di un conflitto binario con l'art. 79 Cost., non puo' essere posta in disparte, quantomeno sotto il profilo argomentativo: la scissione concettuale tra dimensione astratta della norma - che delinea una sorta di rinuncia alla punibilita' rispetto a fatti passati - ed effetti concreti - effetti estintivi legati alla concretezza della singola vicenda penale, e tuttavia di portata amplissima - rischia, infatti, di assecondare un uso vistosamente distorto del potere normativo. Ultimo profilo di illegittimita' da considerare e', secondo questo giudice, la violazione del principio costituzionale di difesa sociale, che pur rinvenendo un «aggancio» nell'art. 24 Cost., e' imminente all'intero sistema costituzionale, e tale da giustificare la pretesa punitiva dello Stato: nonostante l'apparente scarsa vincolativita' del parametro di legittimita' invocato, che rende angusto un controllo c.d. «binario» di legittimita' (tra la norma sospettata di incostituzionalita' e la norma costituzionale), non puo' essere sottaciuta - senza rendere il diritto «vuota maschera» della realta' - la considerazione alla stregua della quale la riduzione consistente dei termini di prescrizione impedisce, di fatto, il perseguimento e la punizione di molteplici fatti di reato, con una obliterazione della sicurezza collettiva, atteso che i consueti tempi processuali, dilatati all'estremo da improvvide elargizioni di pseudogaranzie prive di reali contenuti difensivi e dalla asfitticita' dell'organizzazione giudiziaria, non consentono un reale esercizio dell'azione penale con conseguente affermazione di responsabilita' in termini cosi' ridotti: si pensi all'ipotesi delittuosa, paradigmatica a fini dialettici, di false comunicazioni sociali, per desumere l'assoluta inadeguatezza di sette anni e sei mesi per la definizione del relativo processo, in un tempo, invece, sufficiente al piu' alla scoperta ed alla conclusione delle complesse indagini preliminari.
P. Q. M. Letti gli artt. 3, 13, 24, 25, 27, 79 Cost., e 23, legge n. 87/1953; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale perche' dichiari l'illegittimita' costituzionale dell'art. 6, commi 1 e 4, della legge n. 251/2005 per violazione degli artt. 3, 13, 24, 25, secondo comma, 27 e 79 Cost.; Sospende il giudizio in corso, ed i relativi termini di prescrizione. Manda la cancelleria per gli adempimenti di rito, e per la notificazione e la comunicazione al Presidente del Consiglio dei ministri ed ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cava de' Tirreni, addi' 23 gennaio 2007 Il giudice: Riccardi 07C0753