N. 216 SENTENZA 4 - 19 aprile 1989
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Espropriazione per pubblico interesse - Ampliamento della tenuta di Castel Porziano - Indennita' - Criteri di stima e determinazione - Finalita' voluttuaria e mancanza di interesse generale - Richiamo alle sentenze nn. 530 e 1022 del 1988, 138/1977 e 1165/1988 - Garanzia di un congruo indennizzo collegato al valore venale dei beni - Non fondatezza. (Legge 23 luglio 1985, n. 372, art. 5, quinto comma). (Cost., art. 3).(GU n.17 del 24-4-1990 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: dott. Francesco SAJA; Giudici: prof. Giovanni CONSO, prof. Ettore GALLO, dott. Aldo CORASANITI, prof. Giuseppe BORZELLINO, prof. Renato DELL'ANDRO, prof. Gabriele PESCATORE, avv. Ugo SPAGNOLI, prof. Francesco Paolo CASAVOLA, prof. Antonio BALDASSARRE, prof. Vincenzo CAIANIELLO, avv. Mauro FERRI, prof. Luigi MENGONI, prof. Enzo CHELI;
ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372 (Rivalutazione dell'assegno personale e della dotazione del Presidente della Repubblica), promossi con quattro ordinanze emesse il 31 maggio 1989 (n. 2 ordinanze), il 7 e il 14 giugno 1989 dalla Corte d'appello di Roma, iscritte rispettivamente ai nn. 672, 673, 674 e 675 del registro ordinanze 1989, pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 2, prima serie speciale, dell'anno 1990; Visti gli atti di costituzione di Manfredi Goffredo, del Consorzio tra i proprietari del comprensorio di "Marina Reale", della s.r.l. Immobiliare Fondazione Capocotta e di Alciati Stefania nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nell'udienza pubblica del 6 marzo 1990 il Giudice relatore Gabriele Pescatore; Uditi gli avvocati Francesco Agati per Manfredi Goffredo, Adolfo Di Majo e Ugo Ennio Venitucci per il Consorzio tra i proprietari del Comprensorio di "Marina Reale", Lionel Ceresi, Pietro Cattaneo, Leonardo Cattaneo e Vincenzo Morone per la s.r.l. Immobiliare Fondazione Capocotta e Nicolo' Mattiello per Alciati Stefania e l'Avvocato dello Stato Giorgio D'Amato per il Presidente del Consiglio dei ministri; RITENUTO IN FATTO 1. - La Corte d'appello di Roma - nel corso di un giudizio di opposizione alla stima - con ordinanza 31 maggio 1989 (R.O. n. 672 del 1989) ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 5, comma quinto, della legge 23 luglio 1985, n. 372, secondo il quale l'indennita' di espropriazione dei beni immobili della tenuta di Capocotta, destinati all'ampliamento della tenuta di Castelporziano in dotazione del Presidente della Repubblica, e' determinata secondo i criteri stabiliti dall'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892: cioe' in base alla media tra il valore venale dei beni e quello dei fitti coacervati dell'ultimo decennio o, in difetto, di quello dell'imponibile netto agli effetti delle imposte su terreni e fabbricati. Nell'ordinanza di rimessione si premette - disattendendo un'eccezione d'illegittimita' costituzionale prospettata dall'opponente - che la scelta del su detto criterio di determinazione dell'indennita' di esproprio non contrasta con l'art. 42 della Costituzione, essendo idoneo a garantire la liquidazione di un indennizzo in misura conforme al dettato della Costituzione, secondo quanto e' stato gia' affermato in altre occasioni da questa Corte (sentenze n. 15 del 1976 e n. 5 del 1960). Si deduce, viceversa, che il criterio di determinazione dell'indennita' di esproprio, stabilito dall'art. 5, quinto comma, della legge n. 372 del 1985, da' origine, "ad una disparita' di trattamento non giustificata da alcun ragionevole fondamento". Si espone in proposito che la legge 25 giugno 1865, n. 2359 aveva stabilito, in sintonia con l'art. 29 dello Statuto albertino, il principio generale secondo il quale l'indennita' di espropriazione deve coincidere con il valore venale realizzabile dalla vendita del bene in una libera contrattazione. L'unitarieta' di detto criterio indennitario, fu intaccata da successive leggi speciali, con le quali furono adottati criteri divergenti da quello del valore venale: la prima, in ordine di tempo e di importanza, e' stata la legge 15 gennaio 1885, n. 2892 per il risanamento della citta' di Napoli. Il processo di diversificazione dei criteri di determinazione dell'indennita' ha avuto, poi, un progressivo ampliamento, attraverso numerose deroghe introdotte in relazione a singole categorie di opere pubbliche alle quali le espropriazioni erano finalizzate. Con l'entrata in vigore delle leggi 22 ottobre 1971, n. 865 e 27 giugno 1974, n. 247 il legislatore era tornato ad unificare il criterio espropriativo - basandolo sul valore agricolo medio delle aree - per tutte le espropriazioni comunque preordinate alla realizzazione di opere o di interventi da parte dello Stato, delle regioni, delle province dei comuni o di altri enti pubblici o di diritto pubblico, anche non territoriali. Intervenuta la sentenza della Corte costituzionale n. 5 del 1980, che ha dichiarato la parziale illegittimita' costituzionale del riferimento, operato dall'art. 16 della legge n. 865/1971, per la quantificazione dell'indennita' di esproprio, per le aree con destinazione edificatoria, a valori agricoli, si e' prodotto un vuoto legislativo. Anche le successive leggi 29 luglio 1980, n. 385; 29 luglio 1982, n. 481 e 23 dicembre 1982, n. 943, che avevano cercato di porvi provvisoriamente rimedio, sono state dichiarate illegittime; secondo il consolidato indirizzo della Corte costituzionale e della Corte di Cassazione, i criteri generali di determinazione delle indennita' di espropriazione, attualmente, sono per le aree con destinazione agricola, quello del valore agrario medio previsto dalla legge n. 865 del 1971; per le aree edificabili, quello del valore venale dell'immobile. Secondo il giudice a quo la norma impugnata contenuta nell'art. 5, quinto comma, della legge 23 luglio 1985, n. 372, facendo rivivere per le espropriazioni preordinate all'ampliamento della tenuta presidenziale di Castelporziano il criterio di determinazione dell'indennita' espropriativa previsto dall'art. 13 della legge n. 2892 del 1885, darebbe "origine ad una discrepanza dalla disciplina generale, la quale, non essendo giustificata da ragionevoli motivi, si risolve in un trattamento arbitrario e discriminatorio che vulnera il principio di uguaglianza". Infatti, con il richiamo alla legge n. 2892 del 1885, la legge n. 372 del 1985 si e' discostata dal principio di unitarieta' del criterio di determinazione dell'indennita', espressamente recepito dalla legge 27 giugno 1974, n. 247; si ritorna, cosi', alla scelta di criteri di volta in volta variabili in funzione dell'opera cui e' preordinata l'espropriazione. In tale sistema la misura del ristoro spettante all'espropriato e' fatta dipendere, non dai valori economici inerenti alla natura e alla destinazione dei beni, ma unicamente dai diversi fini per i quali viene impiegata l'espropriazione. Con la conseguenza che l'espropriazione di beni aventi medesime caratteristiche e destinazione risulta indennizzata in maniera diversa a seconda degli scopi che si intende perseguire. Si precisa al riguardo che detta disparita' di trattamento e' riscontrabile tanto nell'ipotesi in cui i terreni abbiano attitudine edificatoria, quanto nell'ipotesi in cui essi abbiano destinazione agraria. Infatti nel primo caso, secondo il sistema generale, l'indennita' corrisponderebbe al valore venale del bene e, nel secondo, al valore agricolo medio, mentre secondo l'art. 5 della l. n. 372/1985 in entrambi i casi, per i beni compresi nella tenuta di Capocotta, dovrebbe applicarsi il diverso criterio previsto dall'art. 13 della l. n. 2892/1885. Detta disparita' renderebbe la legge illegittima, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, non essendo ragionevole che beni di caratteristiche identiche o analoghe siano indennizzati in maniera diversa a seconda delle finalita' dell'espropriazione. 2. - Davanti a questa Corte e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, col patrocinio dell'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o non fondata. Sotto il primo profilo si afferma che essa e' irrilevante ove debba intendersi come rivolta ad estendere ad ogni tipo di espropriazione il criterio di liquidazione dell'indennita' previsto dalla norma impugnata. Sotto il secondo profilo si osserva che la giurisprudenza costituzionale non ha mai affermato che la liquidazione dell'indennita' deve avvenire, in relazione ad ogni ipotesi di espropriazione prevista dalla legge, secondo il medesimo criterio. Viceversa, fermo restando che l'indennita' deve essere congrua in relazione al valore effettivo del bene, e' rimessa al legislatore "ogni valutazione di carattere sociale ed economico-finanziario" la quale, in relazione alle diverse ipotesi espropriative, possa comportare la fissazione di differenti criteri di determinazione dell'indennita'. Deve anzi escludersi che la determinazione dell'indennizzo possa razionalmente farsi dipendere esclusivamente dal valore del bene espropriato, senza tener conto "degli elementi tecnici, economici, finanziari e politici che vengono in rilievo nella comparazione dell'interesse pubblico e di quello privato nelle diverse situazioni". In particolare il criterio di liquidazione dell'indennita' previsto dalla legge di Napoli, e' stato di recente richiamato dall'art. 4 della legge n. 111/1971 (per gli espropri relativi alla costruzione di alcuni aeroporti) e dall'art. 80 del d.-l. n. 75/1981, convertito nella legge n. 219 del 1981 (per gli espropri inerenti alla ricostruzione di territori colpiti da eventi sismici) ed e' stato piu' volte ritenuto dalla Corte costituzionale conforme a quanto stabilito dall'art. 42 della Costituzione. Si e' costituita pure la parte privata chiedendo che la norma impugnata sia dichiarata costituzionalmente illegittima. Identiche questioni sono state sollevate dalla stessa Corte d'appello di Roma, con altre ordinanze in data 31 maggio 1989 (R.O. n. 673/1989); 7 giugno 1989 (R.O. n. 674/1989) e 14 giugno 1989 (R.O. n. 675/1989). Anche nei giudizi cosi' promossi e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate e si sono costituite le parti private insistendo per la declaratoria d'illegittimita' costituzionale dell'art. 5, comma quinto, della legge 27 luglio 1985, n. 372. Successivamente le parti private hanno depositato memorie, nelle quali hanno considerato i diversi profili della dedotta illegittimita' costituzionale della norma impugnata, sorreggendo e confortando i dubbi proposti dal giudice rimettente. In particolare esse hanno dedotto l'illegittimita' del richiamo operato dalla norma impugnata al criterio stabilito dall'art. 13 della l. n. 2892/1885, in quanto tale legge e' ormai abrogata, nonche' il trattamento discriminatorio, cosi' operato, nella determinazione della indennita' di espropriazione per i terreni facenti parte della tenuta di Capocotta, rispetto a quelli confinanti o vicini. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. - Il giudice a quo ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento all'art. 3 della Costituzione, dell'art. 5, comma quinto, della legge 23 luglio 1985, n. 372, secondo il quale le indennita' di espropriazione dei beni immobili della tenuta di Capocotta - destinati all'ampliamento della tenuta di Castelporziano in dotazione del Presidente della Repubblica - sono determinate in base ai criteri stabiliti dall'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892. Tale norma lederebbe il principio di uguaglianza, regolando la liquidazione delle indennita' relative ai beni anzi detti secondo criteri meno vantaggiosi di quelli vigenti in via generale. Con la proposizione della questione il giudice a quo ha inteso chiedere che questa Corte dichiari l'illegittimita' costituzionale della norma impugnata, cosi' da rendere applicabile alle espropriazioni dei beni immobili della tenuta di Capocotta la disciplina vigente in via generale in materia di liquidazione delle indennita' di espropriazione. Va percio' rigettata l'eccezione d'irrilevanza proposta dal Presidente del Consiglio dei ministri, non ricorrendo il presupposto, dal quale essa muove, che il giudice a quo abbia chiesto, attraverso una sentenza additiva, l'estensione a tutti i procedimenti espropriativi del criterio stabilito dall'art. 5, comma quinto, della legge n. 372/1985. 2. - Nel merito la questione e' infondata. Va premesso che attualmente - dopo che la Corte ha dichiarato l'illegittimita' dell'art. 16, commi quinto, sesto e settimo, della legge n. 865 /1971, come modificati dall'art. 14 della legge n. 10/1977 (sentenza n. 5/1980), nonche' della legge 29 luglio 1980, n. 385 (sentenza n. 223/1983), con riferimento ai criteri di determinazione delle indennita' per le aree con destinazione edificatoria (cfr. sentenze n. 355/1985 e n. 231/1984) - i criteri generali per la liquidazione delle indennita' di espropriazione sono: a) per le aree con destinazione agricola, quello del valore agrario medio previsto dalla legge n. 865 del 1971; b) per le aree a destinazione edificatoria, quello del valore venale del bene, ai sensi dell'art. 39 della legge 25 giugno 1865, n. 2359, che non era stato abrogato, ma solo derogato dalla legge n. 865/1971 (sentenza n. 1022/1988). Va premesso, altresi', che questa Corte, ha costantemente affermato, in tema di indennita' di espropriazione, che l'art. 42 della Costituzione non garantisce all'espropriato il diritto ad un'indennita' esattamente commisurata al valore di mercato del bene. L'indennizzo dovuto a norma dell'art. 42 della Costituzione non deve realizzare, infatti, l'integrale ristoro del sacrificio subito per effetto dell'espropriazione, ma un'adeguata riparazione che, nell'ambito degli scopi di interesse generale, la pubblica amministrazione puo' garantire all'interesse privato (sentenze n. 530 e n. 1022 del 1988 del n. 138/1977). In proposito, purche' l'indennizzo non divenga apparente o simbolico, esistono ampi margini di discrezionalita' legislativa, dato che il valore effettivo del bene viene in rilievo non quale misura, ma come criterio di riferimento per la determinazione dell'indennizzo. Il legislatore, pertanto, legittimamente puo' contemperare il criterio del valore venale con meccanismi conformativi dell'indennizzo a diverso criterio, purche' l'ammontare cosi' determinabile non scenda sotto il livello di congruita' (sentenza n. 231/1984). Sulla base di tali princi'pi, questa Corte ha piu' volte riconosciuto la legittimita' di norme che prevedevano la liquidazione d'indennita' di espropriazione mediando tra il valore di scambio del bene da espropriare e valori stabiliti dalla legge in relazione a criteri diversi. Cosi', di recente (sentenza n. 1165/1988), la Corte ha affermato la legittimita' dell'art. 28 della legge 20 dicembre 1972, n. 31 della provincia di Trento, come modificato dalla legge provinciale 2 maggio 1983, n. 14, nella parte in cui stabilisce che, per le aree a vocazione urbanistica, l'indennita' di espropriazione e' commisurata alla media aritmetica tra il valore venale e il valore che deve essere attribuito all'area quale terreno agricolo, secondo il tipo di coltura in atto al momento della stima o, se anteriore, dell'occupazione d'urgenza. Parimenti, ha affermato la legittimita' (sentenza n. 160/1981) dell'art. 4, comma primo, del r.d.l. 8 luglio 1931, n. 981 e dell'art. 1, comma terzo, del d.l. 29 marzo 1966, n. 128, nelle parti in cui hanno stabilito che gl'indennizzi da corrispondere per le espropriazioni disposte in attuazione dei piani particolareggiati di esecuzione del piano regolatore di Roma, siano determinati sulla base della media tra l'imponibile netto, riferito alla data dell'entrata in vigore del r.d.l. n. 981 del 1931 e capitalizzato ad un tasso dal 3,50 per cento al 7 per cento - secondo le condizioni dell'edificio e la sua ubicazione - ed il valore venale del bene al momento dell'espropriazione. 3. - L'art. 5 della legge 23 luglio 1985, n. 372, nel comma quinto, impugnato, dispone che l'indennita' di espropriazione per i beni indicati nel primo comma, e' determinata "in base all'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892", cosi' commisurandola alla media del valore venale e dei fitti coacervati dell'ultimo decennio o, in difetto, tra il valore venale e l'imponibile netto nell'ultimo decennio agli effetti delle imposte sui terreni e fabbricati. Tale criterio, adottato originariamente per le espropriazioni preordinate ai lavori di risanamento della citta' di Napoli, e' stato esteso da molte leggi posteriori ad espropriazioni finalizzate all'esecuzione di altre opere pubbliche (da ultimo cfr. la legge n. 219/1981) ed e' stato ritenuto da questa Corte (ordinanza n. 607 del 1987; sentenze n. 15/1976 e n. 5/1960) non contrastante ne' con l'art. 42, ne' con l'art. 3 della Costituzione. Esso non viola l'art. 42, in quanto garantisce all'espropriato un indennizzo "congruo", perche' rapportato al valore venale del bene con un meccanismo di correzione che gli assicura, anche nelle ipotesi meno vantaggiose, una indennita' di ammontare intermedio tra la meta' del valore reale del bene ed il suo valore effettivo. 4. - Nelle suesposte valutazioni, inerenti ai criteri di indennizzo fissati dall'art. 13 della legge n. 2892 "pel risanamento di Napoli" o agli stessi ispirati, e' opportuno ora inserire i diversi profili di illegittimita' di tale normativa proposti dal giudice a quo e svolti approfonditamente nelle memorie e nella discussione orale. 4.1. - Il riferimento, che l'art. 5, comma quinto, della legge n. 372 del 1985 fa all'art. 13 della legge n. 2892 del 1885, viene contestato, assumendosi l'inidoneita' della norma ad attribuire vigore alla disciplina in materia di indennizzo posta dalla legge per Napoli. Essendo stata questa abrogata, non si sarebbe potuto richiamarne il contenuto: donde l'incostituzionalita' dell'art. 5, quinto comma, della legge n. 372 "per adozione di legge abrogata". La censura non e' fondata. L'abrogazione e la cessazione degli effetti della norma sull'indennita' posta dalla legge per Napoli non comportano la cancellazione di essa come fatto storico e come atto, caratterizzato da un suo specifico contenuto, anche se ormai sprovvisto di efficacia. Legittimamente, dunque, l'art. 5, comma quinto, della legge n. 372 si appropria di quel contenuto e lo assume come elemento sostanziale della normazione, immettendolo nel tessuto della disciplina regolatrice degli espropri della tenuta di Capocotta: si ripristina cosi' la operativita' del precetto abrogato, al fine di disciplinare l'indennizzo dovuto per realizzare l'ampliamento della tenuta previsto dalla legge. Si tratta di tecnica non frequente, ma sicuramente legittima, in quanto intesa a porre un precetto, anziche' in via diretta, attraverso il richiamo a norma, specificamente individuata, rendendone operante il contenuto in base alla nuova fonte di produzione. 4.2. - I criteri di indennizzo contenuti nell'art. 13 della legge 15 gennaio 1885, n. 2892, richiamati dall'art. 5, comma quinto, della legge n. 372, sono stati, poi, censurati come espressione di una normativa "epocale", inadeguata fin dal tempo in cui veniva in essere; inadeguata, a maggior ragione, nella situazione generale che caratterizza attualmente la materia degli espropri, inadeguata infine con riguardo al carattere specifico dei "particolari" beni, ai quali si riferiscono gli artt. 1, 3 e 5, comma quinto, della legge n. 372/1985. Va in proposito subito osservato che i criteri di indennizzo posti dalla legge "pel risanamento di Napoli" costituirono il risultato di una approfondita valutazione, ampiamente documentata dai lavori parlamentari. Questa valutazione si caratterizzo' per almeno tre elementi: l'attenzione che fu data alle diverse normative vigenti in Europa; l'esigenza di fissare un sistema mediano tra il valore del bene e quello del suo reddito; la necessita' di porre giuste regole per contenere l'eccessiva discrezionalita' della valutazione peritale, dalle quali derivavano aumenti eccessivi del "costo" degli espropri. La sintesi di questi elementi e' contenuta nella replica del relatore della Commissione della Camera dei deputati, De Zerbi, in sede di discussione del progetto della legge del 1885 piu' volte richiamata (Atti parlamentari, legisl. XV, sess. 1882-1884, Discussioni, tornata 21 dicembre 1884): ".... La legge vigente lascia un arbitrio sconfinato ai periti, poiche' vuole soltanto che l'indennita' sia stabilita secondo la perizia. Questa perizia potra' bensi' essere riveduta da un'altra. Ma la legge non da' norma ai periti. Noi abbiamo creduto necessario prescrivere questa norma. E qual e' la possibile norma che si possa prescrivere? Le leggi inglesi dicono il fitto coacervato di dieci anni: i critici tedeschi delle leggi inglesi dicono che questo sia troppo grave, talvolta per l'amministrazione e talvolta per la proprieta' privata; le leggi belghe dicono il valore venale: ma questo valore venale tante volte e' troppo basso ed e' opposto al diritto di privata proprieta'. Allora, secondo la formola felicemente proposta dall'onor. Crispi nella Commissione, abbiamo trovato giusto di indicare la media tra il valore venale ed il reddito coacervato di dieci anni". La norma relativa alla determinazione dell'indennizzo, come le altre contenute nell'art. 13 della legge del 1885, non ebbe alcuna critica nella successiva discussione al Senato (cfr. Atti parlamentari, Senato del Regno, sess. 1882-1884, doc. 155 A e Discussioni, tornata 11 gennaio 1885) e, come sara' rilevato (cfr. n. 4.4), pone criteri sostanziali che sono alla base di normative recenti della materia. 4.3. - Quanto al profilo di illegittimita' del richiamato art. 13 della legge n. 2892 per l'asserita violazione del principio di uguaglianza, e' da porre in rilievo che tale censura e' articolata nel senso che la norma determinerebbe una indennita', caratterizzata dall'attribuzione di "somme diverse per l'espropriazione di beni identici in vista di particolari e non generali finalita'". In sostanza, la censura si appunta sul diverso trattamento che verrebbe fatto per l'ablazione di beni appartenenti ad una categoria omogenea, arbitrariamente diversificati quanto all'indennizzo. Osserva la Corte che l'art, 5 della legge n. 372/1985 individua una intera ed unitaria categoria di beni, quando conferisce (con la norma, primo comma, in relazione al terzo) la tenuta di Capocotta "alla dotazione immobiliare del Presidente della Repubblica", "ad integrazione della adiacente tenuta di Castelporziano". Scopo della norma e' il ripristino dell'originaria unita' del complesso territoriale, di cui i beni, oggetto del nuovo conferimento, costituiscono naturale ed omogeneo complemento. Esattamente ha posto in luce l'Avvocatura generale dello Stato che la tenuta di Capocotta e' legata a quella confinante di Castelporziano da peculiari vincoli storici e ambientali: entrambe furono di pertinenza reale, la prima come bene patrimoniale privato del Re, la seconda come dotazione della Corona. La diversa qualificazione dell'appartenenza non incise sull'"unicita' del bosco, di caratteristiche naturali omogenee". La legge n. 372/1985 ha perseguito, dunque, l'unificazione, in un "insieme" organico, di beni di composizione naturale identica, parti di "un unitario millenario complesso forestale"; tali beni, ai quali si riferiscono conferimento ed esproprio, oggetto della norma censurata (art. 5 legge n. 372 cit.) riacquistano, cosi', la loro funzione unitaria, legittimata dalle loro qualita' strutturali e dalla comune finalita'. Elementi, questi, che operano una identificazione netta, per le cennate caratteristiche, dei beni interessati, in quanto compresi in una specifica area delimitata dall'art. 5 della legge n. 372 e, come tali, oggetto dell'espropriazione, cosi' da giustificare il trattamento unitario e differenziato rispetto agl'immobili esterni al complesso al quale la legge n. 372 si riferisce. Non fondatamente, poi, si lamenta, nella normativa dell'individuazione dei beni sottoposti all'espropriazione, la mancanza del requisito della generalita'. Destinatari della norma sono, invero, tutti coloro che si trovano nelle condizioni indicate: tutti coloro, cioe', che sono insediati nella parte di territorio, descritta nel primo comma dell'art. 5 della legge n. 372, proprietari dei terreni da conferire alla dotazione immobiliare del Presidente e specificata, quanto ai confini, nel terzo comma della stessa norma. La comunanza della qualifica di proprietari di siffatti beni comporta la comunanza dello stato di soggezione alla potesta' ablativa: disuguaglianza ricorrerebbe, invece, se la norma sottraesse all'esercizio di tale potesta' alcuni dei beni nella stessa condizione di quelli espropriati. A dimostrare, poi, l'infondatezza del rilievo della "voluttuaria" finalita' e della mancanza della connotazione dell'interesse generale, che caratterizzerebbe la norma, regolatrice del conferimento dei beni alla dotazione del Presidente, se non fossero sufficienti le considerazioni gia' svolte, si potrebbe richiamare un passo della relazione al disegno di legge governativo n. 2996 del 29 giugno 1985 (Camera dei deputati, IX legislatura - Atti parlamentari, pag. 2), che ha costituito la base della legge n. 372, impugnata dalle ordinanze. L'interesse generale perseguito dalla normativa e' ivi enunciato nella finalita' di ricostituire il "completamento" attraverso l'"accorporamento" dell'originario complesso territoriale, "assicurando la salvezza dal degrado e dall'abusivismo di una zona considerata di particolare importanza sotto il profilo naturalistico-ambientale". Perseguendo tale obiettivo, la norma non contraddice alla finalita', cui e' preordinato l'istituto della dotazione, prevista dall'ultimo comma dell'art. 84 della Costituzione, intesa a garantire l'indipendenza ed il prestigio del Presidente della Repubblica. La protezione ambientale del bene e', infatti, del tutto coerente con gli anzidetti valori di garanzia; che, anzi, ne costituisce una piu' compiuta esplicazione per la sua idoneita' a realizzare anche la finalita', storicamente propria del complesso dei beni conferiti alla dotazione, resa particolarmente acuta ed urgente dal degrado e dall'abusivismo recenti. 4.4 - Altro (ed ultimo) aspetto della censura di irrazionalita' della norma impugnata viene ricollegato all'indirizzo segnato da questa Corte con le sentenze n. 223/1983 e n. 5/1980. Secondo la prospettazione delle ordinanze di rimessione, dato che per tutte le aree a destinazione edificatoria, unico criterio per la determinazione dell'indennita' di espropriazione sarebbe quello del valore venale del bene, ai sensi dell'art. 39 della legge n. 2359 del 1865 e, per tutte le aree a destinazione agraria, quello del valore agricolo medio ai sensi della legge n. 865/1971, il criterio posto dall'art. 13 della legge n. 2892/1865 sarebbe irrazionale e discriminatorio. A dimostrare l'infondatezza anche di questo profilo della censura, va innanzitutto osservato che, come gia' si e' avvertito, attualmente sono in vigore altre leggi, statali e non statali - ritenute legittime da questa Corte - le quali hanno adottato criteri per la determinazione delle indennita' di espropriazione simili a quello previsto dalla legge n. 372/1985. Nell'ordinamento, pertanto, accanto alle regole generali indicate dal giudice a quo (modificabili dal legislatore, nel rispetto dell'art. 42 della Costituzione), permangono regole particolari. Queste, se legittime in relazione all'art. 42, lo sono anche in relazione all'art. 3 della Costituzione giacche' - come questa Corte ha affermato sin dalla sentenza n. 5 del 1960 - il legislatore, nella sua discrezionalita', puo' legittimamente stabilire criteri diversi di determinazione delle indennita' di espropriazione, in relazione agli scopi perseguiti dalle singole leggi ed agl'interessi pubblici e privati da contemperare. Ne deriva che, in relazione a dette finalita', competeva unicamente al legislatore, nel rispetto dell'art. 42 della Costituzione, tenendo conto della situazione di fatto e di diritto, degl'interessi in contrasto e delle risorse economiche disponibili, stabilire il criterio per la determinazione della indennita' di espropriazione, con una scelta legislativa che - essendo rispettosa dell'art. 42 della Costituzione, come riconosce la stessa ordinanza di rimessione - e' legittima e non censurabile. 5. - Deve, pertanto, dichiararsi l'infondatezza della questione di legittimita' della normativa impugnata, sotto tutti i dedotti profili di violazione dell'art. 3 della Costituzione.
PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 5, comma quinto, della legge 23 luglio 1985, n. 372 (Rivalutazione dell'assegno personale e della dotazione del Presidente della Repubblica), sollevata in riferimento all'art. 3 della Costituzione dalla Corte d'appello di Roma, con le ordinanze indicate in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 4 aprile 1990. Il Presidente: SAJA Il redattore: PESCATORE Il cancelliere: MINELLI Depositata in cancelleria il 19 aprile 1990. Il direttore della cancelleria: MINELLI 90C0480