N. 898 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 novembre 1997
N. 898 Ordinanza emessa il 13 novembre 1997 dal tribunale militare di Torino nel procedimento penale a carico di Capone Antonio Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Conseguente irripetibilita' delle dichiarazioni indizianti rese al pubblico ministero - Irragionevolezza con incidenza sul diritto di difesa - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' dell'azione penale - Riferimento alle sentenze della Corte costituzionale nn. 254 e 255 del 1992 e 179 del 1994. Processo penale - Dibattimento - Esame di persona imputata in procedimento connesso - Esercizio della facolta' di non rispondere - Lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese da detta persona nel corso delle indagini preliminari - Preclusione per il giudice salvo che la parte non vi consenta - Irragionevolezza - Lesione del principio di indefettibilita' della funzione giurisdizionale e di obbligatorieta' dell'azione penale. (C.P.P. 1988, artt. 210, comma 4, e 513; c.p.p. 1988, art. 513, comma 2, sostituito dalla legge 7 agosto 1997, n. 267, art. 1). (Cost., artt. 3, 24, secondo comma, 25, secondo comma, 101, 102, secondo comma, 111 e 112).(GU n.3 del 21-1-1998 )
IL TRIBUNALE MILITARE Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale nei confronti di Capone Antonio, meglio generalizzato in atti imputato del reato militare di "Truffa militare pluriaggravata", ha pronunciato la seguente ordinanza. Considerato che agli atti non risulta che il signor Piccioni Enrico sia mai stato imputato presso l'autorita' giudiziaria ordinaria per reati comuni e/o militari in concorso con il militare imputato nel presente procedimento, e cio' a prescindere dalla addotta connessione probatoria con altro procedimento per analoga fattispecie di truffa comune; Ordina che stralcio degli atti di causa venga trasmesso al signor procuratore della Repubblica presso il tribunale di Roma per quanto di competenza in ordine all'eventuale reato di concorso in truffa a danno dell'Amministrazione militare ravvisabile a carico del Piccioni e per ogni eventuale ulteriore reato comune; Vista la richiesta del p. m. di considerare acquisiti al fascicolo dibattimentale i verbali dibattimentali delle dichiarazioni rese in altro procedimento da Pitzalis, Incani, Sollini e Piccioni Enrico; Considerato che all'udienza del 2 ottobre 1996 erano state ammesse le prove documentali e i testimoni richiesti e che l'acquisizione dei sopracitati verbali avrebbe potuto essere ammessa solo dopo la citazione anche infruttuosa dei testimoni ex art. 468 n. 4-bis c.p.p.; Rigetta la predetta istanza; Considerato, inoltre, che sulla base delle circostanze indicate dal p.m. nella lista dei testimoni appare fin d'ora indispensabile l'escussione del teste Piccioni Enrico, il quale ha comunicato che intende avvalersi della facolta' di non rispondere e che la difesa ha gia' dichiarato che non intende acconsentire all'acquisizione del verbale delle dichiarazioni rilasciate dallo stesso Piccioni Enrico; Ritenuto che appare rilevante e non manifestamente infondata la emergente questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513 c.p.p., nella formulazione risultante dalle modifiche operate con l'art. 1 legge 7 agosto 1997, n. 267, sollevata d'ufficio all'udienza del 13 novembre 1997; in piena adesione alle identiche questioni recentemente gia' sollevate. O s s e r v a Nel presente procedimento il p.m. chiedeva, fra l'altro, l'escussione del signo Piccioni Enrico, imputato in reato connesso, il quale non si presentava ed, anzi, a mezzo di una missiva inoltrata dal proprio difensore di fiducia, dichiarava di avvalersi della facolta' di non rispondere; il difensore, interpellato sul punto, fin da ora dichiarava di non consentire all'utilizzo del proprio assistito, delle dichiarazioni del Piccioni. Le dichiarazioni rese dal Piccioni, sono ad avviso del tribunale indispensabili per far luce sulle modalita' di rilascio di fatture ad appartenenti alle Forze Armate e sul contenuto della documentazione informatica acquisita presso l'albergo Eton di Roma. Stante il diniego opposto dalla difesa l'acquisizione del verbale dell'interrogatorio in sede di indagini preliminari appare comunque impossibile. Le predette dichiarazioni afferiscono alI'oggetto del processo come e' dimostrato dalla lista testi richiesta dal p.m. Quanto alla rilevanza della questione, tenuto conto della indicazione delle fonti di prova contenuta nel decreto che dispone il giudizlo, dei dati rappresentati dal pubblico ministero nel corso della relazione introduttiva nonche' delle richieste di prova dallo stesso formulate ai sensi dell'art. 493 c.p.p., appare evidente la rilevanza della dedotta questione di legittimita' costituzionale nei limiti in cui viene riferita alla nova formulazione del comma 2 dell'art. 513 c.p.p., trattandosi di processo nel quale l'impianto accusatorio poggia in larga parte sulle dichiarazioni di soggetto che si trova nelle condizioni descritte dall'art. 210 c.p.p. Tali dichiarazioni, in applicazione della impugnata norma, non possono trovare ingresso nel dibattimento, stante l'esercizio, da parte del dichiarante, della facolta' di non rispondere, e l'assenza dell'accordo delle parti in ordine alla acquisizione dei verbali delle dichiarazioni rese dal medesimo nel corso delle indagini preliminari. Quanto alla non manifesta infondatezza, ritiene il tribunale che la norma impugnata abbia sostanzialmente ripristinato quel vizio di manifesta irragionevolezza cui la stessa Corte costituzionale aveva posto rimedio con la sentenza n. 254 del 1992, dichiarando la illegittimita' costituzionale dell'art. 513, comma 2 c.p.p. nella formulazione in allora vigente "nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle dichiarazioni ... rese dalle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si avvalgano della facolta' di non rispondere". In quella occasione, la Corte osservo' che il principio guida dell'oralita' deve essere contemperato con l'esigenza di evitare la perdita, ai fini della decisione, di quanto acquisito prima del dibattimento e che in tale sede sia irripetibile; rimarcando che in tale categoria la stessa legge delega ricomprendeva anche l'indisponibilita' dell'imputato all'esame. E proseguendo nella strada di indicare principi costituzionali certi in materia di acquisizione e di utilizzabilita' della prova la Corte, con una successiva sentenza (n. 255/1992) attribui' esplicitamente rilievo costituzionale al "principio di conservazione della prova", osservando che "... il sistema accusatorio positivamente instaurato ha prescelto la dialettica del contraddittorio dibattimentale quale criterio rispondente all'esigenza di ricerca della verita'; ma accanto al principio della oralita' e' presente, nel nuovo sistema processuale, il principio della non dispersione degli elementi di prova non compiutamente acquisibili con il metodo orale...". Ancora piu' recentemente, sulla base del principio secondo il quale fine centrale del processo e' la ricerca della verita', la Corte con la sentenza n. 179 del 1994 ha confermato il proprio orientamento relativamente alla ipotesi, in tutto e per tutto analoga a quella in esame, dell'esercizio della facolta' di astenersi dal deporre, riservata dall'art. 199 c.p.p. ai prossimi congiunti dell'imputato. Muovendo da una questione di costituzionalita' circa l'applicabilita' della disciplina prevista dall'art. 512 c.p.p. all'ipotesi di prossimo congiunto che, dopo aver reso dichiarazioni in sede di indagini preliminari, si avvalga della facolta' di astenersi solo in sede dibattimentale, la Corte ha dichiarato la questione non fondata, e, con una pronuncia c.d. "interpretativa di rigetto", ha concluso nel senso che "la testimonianza cosi' acquisita e' legittimamente, e soprattutto, stabilmente acquisita" ed "e' certamente fuori di dubbio che l'acquisizione della prova testimoniale legittimamente assunta non puo' essere condizionata dall'eventualita' di una successiva invalidazione da parte del teste, nel caso di un suo tardivo esercizio della facolta' di astensione: non esiste nell'ordinamento alcuna disposizione che autorizzi una interpretazione del genere". La conclusione cui la citata sentenza perviene (ossia la possibilita' di lettura, ex art. 512 c.p.p., delle dichiarazioni in precedenza rese) si pone in linea con quello che deve essere senzaltro definito un caposaldo della elaborazione della giurisprudenza costituzionale dopo l'entrata in vigore del codice di procedura penale del 1988, tendente a "contemperare il rispetto del principio dell'oralita' con l'esigenza di evitare ia perdita, ai fini della decisione di quanto acquisito prima del dibattimento e che sia irripetibile in tale sede". Del resto, diversamente opinando, l'oralita' si atteggerebbe a principio fine a se stesso, al quale verrebbe sacrificato lo scopo essenziale del processo penale, che - come il Collegio non reputa possa revocarsi in dubbio - consiste nella ricerca della verita' e nella pronuncia di una giusta decisione. Per un elementare principio di civilta' giuridica, affermato dalla Corte costituzionale e divenuto patrimonio comune, l'impossibilita' di consentire la dispersione della prova ha imposto al legislatore di prevedere e rendere possibile la lettura di atti formati nelle indagini preliminari, allorche' per qualsivoglia ragione (che puo' consistere anche nel puro arbitrio del soggetto) l'atto non sia ripetibile in dibattimento. E cosi', di fronte al testimone che opponga un irremovibile rifiuto di testimoniare, nell'alternativa tra il disperdere la prova e non fare giustizia e valorizzare invece gli atti formati anteriormente, il legislatore ha operato questa seconda scelta, consentendo la lettura e quindi l'utilizzazione delle dichiarazioni rese. La disciplina dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni predibattimentali dell'imputato in procedimento connesso che si avvalga della facolta' di non rispondere, introdotta dalla stessa Corte costituzionale con la sentenza n. 254 del 1992, tendeva a bilanciare due valori diversi: l'esercizio dell'azione penale, ma soprattutto l'esercizio della funzione giurisdizionale stessa, da un lato, e, dall'altro, l'esercizio del diritto di difesa, che non rimaneva affatto impedito ma soltanto limitato dall'esercizio, da parte del coimputato od imputato in procedimento connesso, del suo diritto di difesa, di non rispondere in dibattimento alle domande di chi, direttamente od indirettamente, aveva accusato. Anche nel caso delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p. si e' in presenza di soggetti che nella fase delle indagini preliminari non si sono avvalse della facolta' di non rispondere e che hanno esercitato tale diritto in dibattimento rendendo l'atto "oggettivamente e imprevedibilmente" irripetibile. Nemmeno appare logico che le dichiarazioni rese in fase di indagini preliminari possano essere utilizzate qualora non sia possibile ottenere la presenza della persona in dibattimento o non sia possibile escuterlo a domicilio o con altra specifica modalita' (art. 513, comma 2, prima parte) e invece occorra l'accordo delle parti qualora la persona si presenti in udienza e rifiuti di rispondere (art. 513, comma 2, seconda parte). In entrambi i casi l'atto e' irripetibile oggettivamente e imprevedibilmente e tanto basta perche' in armonia ai principi costituzionali fissati in materia dalla Corte (sentenze n. 254/1992; n. 255/1992; n. 179/1994), il giudice debba potersene avvalere liberamente al fine di adempiere al precetto costituzionale di cui all'art. 101, comma 2, della Costituzione, pervenendo a una sentenza giusta. Anche da questo punto di vista la disciplina introdotta dalla legge n. 267/1997 pecca di assoluta irragionevolezza, determinando un conflitto irrazionale fra diritto di difesa ed esercizio della funzione giurisprudenziale. Infatti, tutelando sino all'estremo limite, per un verso il diritto al contraddittorio degli imputati e, per altro verso il loro diritto a non sottoporsi all'esame dibattimentale - entrambi espressione del piu' generale diritto di difesa -, la legge finisce per sacrificare l'esercizio della giurisdizione: in nome del suo diritto al contraddittorio ciascuna parte puo' vietare l'utilizzabilita' di dichiarazioni di un altro soggetto (imputato in procedimento connesso) il quale, in nome del suo diritto di difesa, abbia reso impossibile il contraddittorio medesimo avvalendosi della facolta' di non rispondere. Da tale pur sintetica analisi emerge immediatamente per un verso l'irragionevolezza del meccanismo (poiche' gli artt. 2, 3, 25 comma secondo, 101, comma secondo, 102, 111 della Costituzione fondano il principio di indefettibilita' di una giurisdizione penale, ed i particolare di un dibattimento, finalizzati ad assicurare la piena conoscenza da parte del giudice dei fatti oggetto del processo affinche' possa essere emessa una giusta decisione); per altro verso, che il conflitto reale non e' tra diritto di difesa giurisdizione, ma tra i diritti di difesa di cui sono titolari i diversi soggetti; per altro verso ancora, che il conflitto in questione e' stato dal legislatore risolto a danno della giurisdizione. E' evidente che il diritto al sienzio (e la facolta' di menzogna) possono esser indirettamente tutelati in quanto non consentano di bloccare ne' l'esercizio dell'azione ne' l'esercizio della giurisdizione, ma solo come diritto del soggetto di astenersi dal collaborare con gli organi preposti alla verifica della responsabilita' penale. Quindi i contemperamenti volti a risolvere il problema del conflitto degli interessi contrapposi non possono che essere ricercati su altri piani. Ed invero, il processo introdotto nel 1988 - tendenzialmente accusatorio -, ha fatto proprio e valorizzato come principio cardine quello dell'oralita', della formazione della prova in dibattimento, cioe' nel contraddittorio delle parti di fronte al giudice che decide nel merito del processo. Cio', tra l'altro, in armonia con il disposto dell'art. 6, comma 2, lett. d) della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo. Una maggiore salvaguardia del contraddittorio nella formazione della prova, del resto, sembra essere uno deli scopi fondamentali che hanno mosso l'azione del legislatore del 1997. Seppure a mezzo di meccanismi processuali i cui effetti paiono irrazionali, e' evidente l'intenzione di costruire il contraddittorio, sub specie di diritto all'esame e controesame, come diritto delle parti. Tanto premesso, e' evidente che una delle condizioni per lo sviluppo del contraddittorio, quando esso si realizza attraverso l'esame incrociato, e' che il soggetto che vi e' sottoposto sia gravato dell'obbligo di rispondere alle domande che, gli vengono rivolte. Se tale condizione non sussiste, invero, si concede al soggetto in questione il potere di vanificare l'altrui diritto all'esame e controesame. D'altra parte e' scontato, almeno nel nostro ordinamento processuale penale, che elementi di accusa possano provenire da coimputati od imputati in procedimento connesso, peraltro titolari, come tali, della facolta' di non rispondere. Ebbene, mentre la concessione alle parti di un diritto di veto rispetto all'acquisizione delle dichiarazioni rese senza contraddittorio dagli imputati in procedimento connesso divenute irripetibili finisce per ledere irreparabilmente il razionale esercizio dell'azione penale, l'indefettibilita' della giurisdizione e lo scopo stesso del processo, la acquisizione immediata di tali dichiarazioni finisce per ledere il diritto di azione e/o difesa delle parti sub specie di diritto all'esame ed al controesame. Si privano le parti del potere di fare domande, ricevere risposte, dialettizzare, rispetto ad esse, l'elemento di prova acquisito nelle indagini attraverso le contestazioni. Cio' posto - considerando come fondamento della costruzione ordinamentale da un lato la stessa prospettiva del legislatore del 1988 e del 1997 e cioe' l'intangibilita' del diritto al contraddittorio e, dall'altro, i principi di uguaglianza, legalita', obbligatorio esercizio dell'azione penale, funzione conoscitiva del processo e del dibattimento, indefettibilita' della giurisdizione -, diviene irrazionale riconoscere, al coimputato od all'imputato in procedimento connesso che abbiano reso al pubblico ministero dichiarazioni che costituiscono elemento indiziante a carico di determinati soggetti, la facolta' di non rispondere nel dibattimento a carico di quei soggetti. In tali limiti non appare manifestamente infondata, in relazione agli artt. 3 e 24, comma secondo, della Costituzione, la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513, comma 2, c.p.p. E' superfluo sottolineare che un'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme predette e nei limiti suindicati consentirebbe a tutte le parti di esercitare il proprio diritto all'esame - con le correlative ed eventuali contestazioni -, mentre non introdurrebbe per gli imputati in procedimento connesso l'obbligo di dire la verita', con le correlative sanzioni. Dichiarazioni rese in sede di esame e contestazioni sarebbero ovviamente valutabili dal giudice ai fini della decisione. In sostanza, l'unica via razionale aperta alla soluzione del problema in questione - posti i vincoli di principio dell'indefettibilita' della giurisdizione, dell'obbligatorio esercizio dell'azione penale, della funzione conoscitiva del processo, del diritto di difesa degli imputati e degli imputati in procedimento connesso - e' quella di ritenere che, a fronte di dichiarazioni indizianti rese da un soggetto nei confronti di altri, il diritto di difesa del dichiarante si affievolisca di fronte al diritto di difesa dei chiamati in causa, sub specie di diritto ad interrogarlo sulle accuse direttamente od indirettamente rivolte loro. La ragionevolezza di tale affievolimento si apprezza anche in considerazione del fatto che, quando in sede penale - indagini o dibattimento - un soggetto sottoposto ad indagine o un imputato rivolge accuse ad altri compie un atto che ha due effetti: da un lato esercita in quel modo preciso il suo diritto di difesa, con tutti i benefici e gli inconvenienti del caso, dall'altro impone all'autorita' giudiziaria (art. 112 della Costituzione) di approfondire quelle affermazioni, con tutte le conseguenze in termini sia di eventuale sacrificio degli altrui diritti individuali in sede cautelare, sia di dispendio di energie degli organi pubblici preposti all'accertamento. Date le conseguenze di un tale comportamento - universalmente note a qualsiasi cittadino - non e' possibile esimere il dichiarante da una assunzione di responsabilita' che coinporti, quanto meno, l'obbligo di rispondere alle domande rivoltegli in sede di esame e controesame. Del resto, il diritto di difesa del dichiarante non e' del tutto cancellato, posto che egli manterrebbe - in quanto non trasformato in testimone, anche se con i limiti del caso (artt. 367 e ss. c.p.) - la facolta' di dare versioni diverse, ritrattare, perfino mentire, facolta' pure essa ritenuta, fino ad oggi, espressione del diritto di difesa. D'altro canto proprio le virtu' euristiche dell'esame dibattimentale - nelle quali il legislatore mostra di riporre la massima fiducia -, oltre che l'intero sistema processuale nel suo complesso garantiscono piu' che a sufficienza dal pericolo che le menzogne dibattimentali vengono recepite in sentenza o, quanto meno, riducono tale pericolo rispetto al livello che esso attinge quando vengono acquisite dichiarazioni assunte da una parte senza contraddittorio e divenute irripetibili. Al legislatore rimarrebbe, comunque, sia la valutazione se il dichiarante-accusatore debba o no essere equiparato al testimone, sia, in caso contrario, la decisione circa l'introduzione - ovvamente opportuna poiche' costituente una forma di tutela dell'effettivita' del contraddittorio - di un nuovo reato contro l'amministrazione della giustizia avente come fattispecie obiettiva l'omessa risposta a domande rivolte nel corso dell'esame ad imputati in procedimento connesso che abbiano reso dichiarazioni indizianti a carico di altri in loro assenza. La norma impugnata appare altresi' in evidente contrasto con il disposto dell'art. 102, comma secondo, e 112 della Costituzione nella giurisprudenza costituzionale ormai consolidata, infatti, i due canoni finiscono per confondersi l'uno nell'altro laddove portano ad affermare l'inesistenza di un pieno potere dispositivo delle parti in ordine alla prova. Infine, quanto all'irragionevolezza dell'ostacolo frapposto dal nuovo art. 513, comma 2, c.p.p. alla formazione della prova, non sembra superfluo sottolineare che il potere concesso alle parti e' cosi' ampio - si parla infatti di accordo "delle parti" e non gia' delle parti "interessate" - che ciascuna puo' opporsi all'utilizzo di prove irrilevanti rispetto alla sua posizione - ma rilevanti rispetto a posizioni diverse - senz'altro scopo che il porre un impedimento al regolare esercizio della giurisdizione. Ma la situazione si aggrava proprio quando la parte - in particolare l'imputato - si oppone alla lettura di dichiarazioni irripetibili rese direttamente a suo carico. In tal caso infatti - posto che tali dichiarazioni non sono considerate ontologicaniente inaffidabili dal legislatore che, altrimenti, non ne avrebbe consentito la documentazione e l'utilizzo anche in fase di indagini preliminari ed anche a fini cautelari - il meccanismo normativo risulta semplicemente paradossale: i veti incrociati di soggetti privati - quali sono gli imputati e gli imputati in procedimento connesso - possono precludere l'esercizio stesso della giurisdizione e prima ancora quello dell'azione penale. Considerato che i soggetti predetti agiscono, come si notava, per interessi privatissimi e sinanco meramente egoistici, l'ostacolo frapposto all'esercizio della giurisdizione non puo' non essere ritenuto irrazionale. La stessa Corte costituzionale (sentenza n. 111 del 1993) ha infatti considerato illegittimo il potere riconosciuto al pubblico ministero - organo cui pure la Corte riconosce funzioni pubbliche finalizzate esclusivamente all'applicazione della legge (sentenza n. 88 del 1991) - di disporre del processo disponendo della prova (potere riconosciutogli dai giudici di merito remittenti grazie ad una interpretazione dell'art. 507 c.p.p. ritenuta illegittima). A questo punto non si puo' non considerare illegittimo a maggior ragione l'analogo potere riconosciuto dalla legge a soggetti privati - quali sono gli imputati e la parte civile - che, come tali, orientano i loro comportamenti secondo logiche meramente individualistiche. Invero, la Consulta ha piu' volte avuto modo di precisare come il potere di decisione del giudice del merito della causa non possa essere vincolato dall'esercizio meramente discrezionale di un potere delle parti e dalle scelte di carattere processuale, in ipotesi anche immotivate, di costoro. Ebbene, a parere del tribunale, la normativa di cui si tratta, introducendo il potere delle parti di disporre della prova - tale essendo, lo si ripete, in tutta la sistematica codicistica l'elemento raccolto in sede di indagini dal pubblico ministero divenuto imprevedibilmente od irrimediabilmente irripetibile -, consente di sottrarla alla razionale e motivata valutazione del giudice, in tal modo impedendogli di formarsi un convincimento che si avvicini il piu' possibile alla reale verificazione dei fatti e, quindi, impedendo la pronuncia di una giusta decisione. Vale anche notare che, almeno nella materia dell'utilizzabilita' delle prove processuali penali, quando, come nel caso di specie, la legge devolve a privati quali sono gli imputati, gli imputati in procedimento connesso e la parte civile, la decisione ultima e definitiva, oltre che discrezionale, immotivata ed incontrollabile (tali non sono le scelte effettuate nell'ambito dei procedimenti speciali, che hanno sempre come alternativa il giudizio ordinario) sull'utilizzabilita' delle prove, allora appare violata dalla legge stessa la regola secondo cui il giudice e' soggetto solo alla legge: per il tramite formale di una norma giuridica il giudice - nell'esercizio della funzione che gli e' piu' propria, il giudizio - viene fatto soggiacere alle decisioni altrui. E' evidente, infatti, come il precetto di cui all'art. 101, comma secondo, della Costituzione precluda una esasperata ed estremistica applicazione del principio dispositivo del processo penale, in ragione della indisponibilita' degli interessi pubblici e delle posizioni soggettive che di questo costituiscono l'oggetto; la disponibilita' della prova renderebbe disponibile, indirettamente, la stessa res iudicanda. Come chiaramente affermato nella nota sentenza (Corte costituzionale n. 111/1993) relativa alla definizione del potetere istruttorio suppletivo riservato al giudice dibattimentale dall'art. 507 c.p.p., nel nuovo codice di rito "il metodo dialogico di formazione della prova e' stato, invero, prescelto come metodo di conoscenza dei fatti ritenuto maggiormente idoneo al loro per quanto piu' possibile pieno accertamento, e non come strumento per far programmaticamente prevalere una verita' formale risultante dal mero confronto dialettico tra le parti sulla verita' reale: altrimenti, ne sarebbe risultata tradita la funzione conoscitiva del processo, che discende dal principio di legalita' e da quel suo particolare aspetto costituito dal principio di obbligatorieta' dell'azione penale". Se e' vero che un potere dispositivo della prova nel processo e' negato alle parti, a maggior ragione cio' deve valere per chi, come le persone di cui all'art. 210 c.p.p., e per definizione estraneo al processo nell'ambito del quale sia chiamato a rendere dichiarazione. La norma impugnata, al contrario, consente di sottrarre una prova al vaglio dibattimentale, a seguito di un atto meramente discrezionale - e dunque potenzialmente immotivato e capriccioso - compiuto da un soggetto che neppure riveste la qualita' di parte del procedimento, come avviene nel caso in cui la persona esaminata ex art. 210 c.p.p. si avvalga della facolta' di non rispondere. A cio' il legislatore del 1997 ha ritenuto di dover aggiungere un ulteriore sbarramento all'ingresso della fonte di prova, riservando (nel caso in cui il dichiarante, in sede dibattimentale, si sia avvalso della facolta' di non rispondere) la possibilita' di acquisire le precedenti dichiarazioni all'accordo (rectius, al gradimento) delle parti. Nel caso di specie, risulta che Piccioni Enrico si e' rifiutato di rispondere. Egli, ha dunque, usato la sua condizione processuale di "fonte di prova" che nulla ha a che vedere con l'ipotetico esercizio di un diritto di difesa. Nondimeno tali scelte, alla stregua della norma della cui legittimita' in questa sede il Collegio dubita, condizionano l'esercizio della giurisdizione, incidendo in misura determinante sulla liberta' del giudice, nel significato che tale concetto ha assunto nella giurisprudenza costituzionale. Il tribunale rimettente si e', quindi, trovato di fronte ad una situazione in cui l'assunzione della prova e' stata inibita proprio dalla scelta arbitraria (perche' tale e', sul piano processuale, la condotta del Piccioni) del dichiarante. Conseguenze che non vengono scongiurate dalla previsione del meccanismo dell'incidente probatorio - benche', in virtu' del disposto dell'art. 4 legge n. 267/1997, lo stesso sia esperibile indipendentemente dalla sussistenza dei requisiti previsti in via generale, dall'art. 392 c.p.p. - poiche' in tale sede resta comunque ferma la facolta' di non rendere dichiarazioni: e' evidente, percio', come l'adozione di tale meccanismo, lungi dal poter essere considerata alla stregua di "valvola di sicurezza" del sistema, si riduca alla mera anticipazione dei tempi di assunzione di quella prova, senza tuttavia garantirne l'effettiva acquisizione al processo. E' per rimanere al caso di specie, e' ovvio - e comunque niente autorizza a ipotizzare il contrario - che il Piccioni non avrebbe tenuto un diverso attegiamento se si fosse trovato non in dibattimento dinanzi al tribunale ma in sede di incidente probatorio dinanzi al giudice per le indagini preliminari. L'avere riservato alla insindacabile scelta del soggetto di rendere o meno dichiarazioni e alla volonta' delle parti processuali di consentire alla lettura di dichiarazioni in precedenza rese, ha finito per rimettere nella totale disponibilita' delle parti l'ingresso di una prova nel dibattimento e, in definitiva, a condizionare l'esercizio stesso dell'azione penale. E' infine prospettabile, anche alla luce delle precedenti osservazioni, una diretta violazione dell'art. 25, comma secondo, nella parte in cui prevede che i colpevoli debbano essere puniti. E' quanto mai evidente che, condizionando l'utilizzo da parte del giudice di elementi di prova irripetibili raccolti durante le indagini al consenso dell'imputato a carico del quale tali elementi spiegano la loro efficacia probatoria, si consente che l'imputato stesso, mediante una scelta discrezionale, immotivata, insindacabile ed eventualmente ispirata ad interessi non tutelabili, impedisca l'accertamento del fatto e percio' delle sue (eventuali) responsabilita'. In sostanza, si consente all'imputato, disponendo della prova a suo carico, di disporre indirettamente dell'oggetto stesso del processo, in violazione - gia' riconosciuta una volta dalla Corte costituzio'nale nella sentenza n. 111 del 1993 con riferimento all'interpretazione astrattamente formalistica dell'art. 507 c.p.p. recepita dai giudici remittenti - degli artt. 3, 25, comma secondo, 27, comma primo, della Costituzione. Ne' puo' essere richiamato, in contrario avviso, il principio di presunta innocenza dell'imputato, poiche' tale principio, se fosse interpretato nel senso assolutistico di conferimento all'imputato del potere di interdire l'assunzione delle prove a suo carico, renderebbe inutile l'esercizio stesso dell'azione penale e della giurisdizione, annullando il valore dei connessi principi.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ritenute le questioni sopraesposte rilevanti e non manifestamente intonate; Solleva: per violazione degli artt. 3, 24, comma secondo, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale degli artt. 210, comma 4, e 513 c.p.p. nella parte in cui prevedono che l'imputato in procedimento connesso, che abbia reso al pubblico ministero dichiarazioni direttamente od indirettamente indizianti a carico di determinati soggetti, possa avvalersi, nel dibattimento a carico di quei soggetti, della facolta' di non rispondere; per violazione degli articoli 3, 25, comma secondo, 101, 102, comma primo, 111, 112 della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 513, comma secondo, c.p.p. come sostituito dall'art. 1 legge n. 267 del 1997, nella parte in cui subordina esclusivamente all'accordo delle parti la lettura dei verbali contenenti le dichiarazioni rese al pubblico ministero delle persone indicate nell'art. 210 c.p.p., qualora queste si siano avvalse della facolta' di non rispondere o, nel caso di accoglimento della eccezione sub 1), si siano rifiutate di rispondere; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il processo fino all'esito del giudizio di legittimita' costituzionale; Ordina che la presente ordinanza sia notificata, a cura della cancelleria, al Presidente dei Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica ed al Presidente della Camera dei deputati Cosi' deciso in Torino il 13 novembre 1997 Il presidente estensore: Garino 98C0011