N. 114 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 aprile 2019
Ordinanza dell'8 aprile 2019 del Tribunale di sorveglianza di Venezia nel procedimento di sorveglianza nei confronti di B. A.. Ordinamento penitenziario - Modifiche all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975 - Inserimento di determinati reati contro la pubblica amministrazione tra i reati ostativi alla concessione di alcuni benefici penitenziari - Applicabilita' ai delitti di cui agli artt. 318, 319, 319-quater e 321 cod. pen. commessi anteriormente all'entrata in vigore della novella. - Legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), art. 1, comma 6, lettera b), modificativo dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta').(GU n.34 del 21-8-2019 )
TRIBUNALE DI SORVEGLIANZA per il distretto della Corte di appello di Venezia In data 2 aprile 2019 il Tribunale di Sorveglianza di Venezia, riunito in Camera di Consiglio nelle persone dei componenti del collegio: 1 - dott. Giovanni Maria Pavarin, Presidente; 2 - dott. Fabio Fiorentin, Giudice relatore; 3 - dott.ssa Emanuela Russo, Esperto; 4 - dott. Giovanni Masotto, Esperto; nel procedimento di sorveglianza relativo a: affidamento in prova al servizio sociale promosso da: B. A., nato a... il..., residente a..., via... in relazione alla pena di anni tre (residua: anni due, mesi tre e giorni dodici) di reclusione applicati con la sentenza della Corte di Appello di Venezia del 12 novembre 2015 per i reati di cui agli articoli 110, 81, comma 2, 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi dal 2002 al 2011; Difeso dall'avv. Bortoluzzi Tommaso del foro di Venezia; Visti gli atti del procedimento di sorveglianza sopra specificato; Esaminate le risultanze delle documentazioni acquisite, delle investigazioni e degli accertamenti svolti, della trattazione e della discussione di cui a separato processo verbale; ha pronunciato la seguente ordinanza 1. Il condannato in epigrafe generalizzato, attualmente libero per sospensione dell'ordine di esecuzione ai sensi dell'art. 656 comma 5, c.p.p., ha formulato in via principale istanza di affidamento in prova al servizio sociale in relazione alla pena di anni 3 (residua: anni 2, mesi 3 e giorni 12) di reclusione irrogatigli con la sentenza della Corte di Appello di Venezia del 12 novembre 2015 per i reati di cui agli articoli 110, 81, comma 2, 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi dal 2002 al 2011. Si e' trattato, nella specie, di fatti di corruzione e induzione indebita a dare o promettere utilita', poiche' il B... quale..., operando in Comune di Venezia, per conto dei committenti corrispondeva somme di denaro a pubblici funzionari per agevolare ed accelerare alcune pratiche edilizie, trattenendo per se' una percentuale delle somme versate dai clienti. 2. La difesa allega che l'interessato ha trascorso un lungo periodo sottoposto a regime cautelare, dapprima carcerario e quindi domiciliare, mantenendo sempre un comportamento regolare ed osservante delle prescrizioni; che ha risarcito gli enti territoriali - pur non costituiti parti civili - ai quali appartenevano i pubblici funzionari coinvolti (Comune di Venezia e Regione Veneto) con la somma di euro 125.000, versata prima dell'apertura del giudizio abbreviato; che ha versato ulteriori 3.000 euro a titolo di donazione all'Associazione «Libera»; che le persone offese del reato di concussione (originariamente contestato all'istante) non si sono costituite parti civili ne' hanno altrimenti avanzato pretese risarcitorie; che dalla data di commissione dei reati e fino ad oggi il soggetto - che attualmente opera in Venezia nell'ambito di uno studio di architettura come coordinatore di cantiere e coadiuva la moglie nella gestione di alcune strutture ricettive alberghiere in citta' - ha sempre osservato regolare condotta; che domicilia con la famiglia, i cui componenti sono esenti da pregiudizi penali, al Lido di Venezia, in abitazione di proprieta'; che ha tenuto una condotta collaborativa con gli inquisenti, rilasciando dichiarazioni auto ed etero accusatorie rese nel corso del giudizio, che gli hanno consentito, tra l'altro, di accedere prima ai domiciliari e poi alla ancor meno afflittiva cautela dell'obbligo di presentazione alla p.g. Con memoria integrativa del 15 marzo 2019, il difensore prende posizione sulle ricadute dell'entrata in vigore - nelle more del presente procedimento - della legge 9 gennaio 2019 n. 3, a cui mente l'istanza di affidamento in prova al servizio sociale risulterebbe affetta da inammissibilita' sopravvenuta, in difetto di collaborazione dell'interessato con la giustizia. Per effetto dell'art. 1, comma 6, lett. b), della ricordata novella legislativa, i delitti di cui agli articoli 318, 319, 319-quater e 321 c.p., dei quali il B... e' stato giudicato colpevole con la sentenza di condanna in esecuzione, sono stati inseriti nel «catalogo» dei reati che precludono in termini assoluti - salva la collaborazione con la giustizia, effettiva (art. 58-ter ord. penit. o art. 323-bis c.p.), o «impossibile» ai sensi del comma 1-bis, dell'art. 4-bis della medesima legge) - l'accesso ai benefici penitenziari (tra cui l'affidamento in prova al servizio sociale richiesto nel presente procedimento). 3.1. Al riguardo, la difesa ritiene, innanzitutto, che alla luce di una interpretazione «convenzionalmente orientata» fondata sul principio affermato dall'art. 7 CEDU ed affermato altresi' dalla giurisprudenza europea (viene citata la sentenza della Corte di Strasburgo 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c/ Spagna), le disposizioni che regolano la fase esecutiva della pena assumerebbero natura sostanziale e non processuale, del che dovrebbe valere, nel caso di specie, il principio di' irretroattivita' in malam partem sancito dall'art. 2 c.p., trattandosi di esecuzione penale relativa a fatti-reato commessi anteriormente al vigore della disciplina piu' severa introdotta dalla «legge spazzacorrotti». 3.2. Qualora non si condividesse tale ermeneusi, il difensore ritiene che, anche accedendo alla tesi della natura «processuale» delle norme di matrice esecutiva e penitenziaria, la corretta applicazione della regola tempus regit actum dovrebbe necessariamente condurre alla medesima soluzione di non ritenere applicabili al caso in esame le nuove piu' restrittive disposizioni, considerando che la sentenza di condanna de qua e' divenuta definitiva il 12 ottobre 2017 e che il relativo ordine di esecuzione e' stato emesso (e contestualmente sospeso) anteriormente alla data di vigenza della legge n. 3/2019 (31 gennaio 2019), cosi' che esso non potrebbe piu' essere revocato proprio perche' tempus regit actum. La stessa istanza di applicazione della misura alternativa, dalla quale si e' originato il presente procedimento, e' stata avanzata prima dell'entrata in vigore della normativa di sfavore. Si tratterebbe, in definitiva, di un procedimento incardinatosi antecedentemente alla vigenza delle piu' severe disposizioni introdotte con vigenza 31 gennaio 2019 e pertanto ad esso tale piu' aspra disciplina non potrebbe applicarsi. 3.3. Se anche tale impostazione non fosse condivisa, varrebbe comunque - ad avviso del difensore - il principio di «non regressione trattamentale» affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 137/1999, in forza del quale eventuali modifiche peggiorative sopravvenute che rendono piu' difficile o precludono l'accesso ai benefici penitenziari non possono trovare applicazione nei confronti di coloro che, alla data di vigenza di tali piu' restrittive disposizioni, abbiano gia' maturato i requisiti per accedere alle misure risocializzanti, avendo gia' raggiunto un grado di' rieducazione compatibile con i detti benefici extramurari. Sarebbe, invero, ingiustificata alla luce del principio rieducativo scolpito nell'art. 27, comma 3, Cost., ogni preclusione normativa ai benefici penitenziari non addebitabile alla condotta colpevole dell'interessato. Piu' recentemente, tale assunto e' stato ribadito dal Giudice delle leggi con la sentenza n. 149/2018 che ha riaffermato il principio della non sacrificabilita' della funzione rieducativa della pena sull'altare di ogni altra pur legittima, finalita' della medesima (in primis quella generalpreventiva). Tale evocato principio opererebbe anche nella fattispecie, che pure coinvolge un soggetto libero, poiche' - cosi' argomenta la difesa - nel caso di soggetti destinatari della sospensione dell'ordine di esecuzione ai sensi dell'art. 656, comma 5, c.p.p., il dies a quo del percorso rieducativo si situerebbe nel momento in cui il condannato «libero sospeso» presenta al Tribunale di sorveglianza, nei trenta giorni a sua disposizione, l'istanza per la concessione di iena misura alternativa alla detenzione (art. 656, commi 5 e 6, c.p.p.), poiche' sarebbe a partire da tale atto che la persona condannata viene presa in carico dall'UEPE ed entra quindi nell'orbita dell'esecuzione penale esterna (nel caso di specie, l'interessato ha presentato la domanda di affidamento in prova al servizio sociale il giorno 10 maggio 2018). Il difensore puntualizza, inoltre, come, al momento di entrata in vigore della legge n. 3/2019, il B... avesse gia' ampiamente avviato il percorso rieducativo, avendo, fin dalle primissime fasi delle indagini a suo carico, avviato un percorso di collaborazione con l'autorita' giudiziaria e di rivisitazione critica, ottenendo per il proprio atteggiamento improntato a collaborazione con l'autorita' giudiziaria l'«ammorbidimento» delle misure cautelari a suo carico e, successivamente, il riconoscimento della liberazione anticipata per tali periodi di custodia cautelare. E' evidente quindi, ad avviso della difesa, che l'interruzione di tale percorso rieducativo, destinato «naturalmente» a sfociale nell'applicazione di una misura alternativa, si palesa come ingiustificata, cosi' contrastando con le coordinate costituzionali e convenzionali. 3.4. Se, tuttavia, neppure questa prospettazione fosse condivisa dal Collegio, il difensore chiede che il Tribunale proceda al preliminare riconoscimento, in capo all'interessato, della avvenuta positiva collaborazione con la giustizia ovvero all'accertamento della sussistenza, nel caso in esame, della collaborazione c.d. «impossibile». Allega, al proposito, la difesa che il proprio assistito ha reso dichiarazioni ampiamente confessorie ed eteroaccusatorie nel corso del giudizio, che gli hanno consentito, tra l'altro, di ottenere la progressiva mitigazione del regime cautelare. Tale condotta, che pure non e' valsa al B... per la concessione della speciale attenuante di cui all'art 323-bis c.p., ha, peraltro, dato luogo a un ulteriore procedimento penale, al cui esito egli e' stato condannato. La difesa assume che l'interessato avrebbe prestato all'autorita' procedente tutte le informazioni di cui era in possesso: pur non essendo cio' valso a consentire all'odierno istante di beneficiare dell'attenuante a effetto speciale di cui al comma 2, art. 323-bis, c.p., nondimeno tale condotta collaborativa ben potrebbe essere valutata nella presente sede ai fini dell'accertamento, in capo al condannato, della collaborazione positiva o, quantomeno, «impossibile» (comma 1-bis, art. 4-bis, ord. penit). 3.5. In via ulteriormente subordinata, la difesa sollecita questo Tribunale a sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett. b), legge 9 gennaio 2019, n. 3, che ha incluso i reati contro la Pubblica Amministrazione tra quelli «ostativi» all'applicazione di alcuni benefici penitenziari e misure alternative alla detenzione, ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1, legge 26 luglio 1975 n. 354, per ritenuto contrasto con gli articoli 3, 25 comma 2, 27 comma 3 e 117 Cost., 7 CEDU, nella parte in cui non prevede un regime intertemporale, limitando pro futuro l'applicabilita' della disciplina di nuovo conio introdotta con la legge n. 3/2019. La quaestio e' prospettata con riguardo ad una articolata serie di motivi: innanzitutto, la disposizione dubitata di incostituzionalita' violerebbe il canone della ragionevolezza e dunque contrasterebbe con l'art. 3 Cost., dal momento che le nuove fattispecie delittuose in materia di reati contro la P.A. inserite nel «catalogo» di delitti ostativi alla concessione dei benefici penitenziari non sarebbero omogenee a quelle gia' esistenti sotto il profilo della presunzione di pericolosita' intrinseca in capo agli autori di detti illeciti, cosi' violando anche l'art. 27, comma 3, Cost., nella misura in cui la disposizione censurata introduce un'ingiustificata cesura nel trattamento rieducativo non correlata ad un comportamento colpevole del condannato. Un secondo profilo di incostituzionalita' sarebbe, inoltre, costituito dall'assenza di disposizioni di diritto transitorio. Un terzo motivo di contrasto con i canoni costituzionali e' prospettato dalla difesa sulla premessa che la giurisprudenza di legittimita' attribuisce alle disposizioni che regolano la fase dell'esecuzione penale e penitenziaria natura processualistica, che ne sottrae la dinamica al divieto di applicazione retroattiva in malam partem sancito dall'art. 25, comma 2, Cost. e dall'art. 2 c.p., in favore del principio tempus regit actum, operando dunque anche in relazione a condanne poste in esecuzione per fatti-reato commessi anteriormente alla vigenze delle modifiche peggiorative (Sez. Un. 30.05.06, n. 24561, Aloi, Rv. 233976; Cass., I, 3.02.16, n. 37578; Cass., I, 5.02.13, n. 11580). Tale lettura formalistica contrasta, tuttavia, con l'approccio sostanzialistico seguito dalla Corte di Strasburgo, che amplia la «materia penale», ricomprendendovi settori dell'ordinamento prima ad essa ritenuti estranei, estendendo ad essi alcuni fondamentali principi, tra cui quello del nulla poena sine lege iscritto nell'art. 7 CEDU, ritenendo che soggiacciano al divieto di retroattivita' (anche) le modifiche peggiorative delle modalita' esecutive della pena qualora incidano in maniera significativa sulla pena da scontare (Corte edu, Grande Chambre, 21.10.2013, Del Rio Prada c. Spagna). Alla luce di tale indirizzo, autorevolmente espresso dalla Corte alsaziana nella sua piu' alta composizione, pertanto, sarebbe ricompresa nella «materia penale» coperta dal divieto di applicazione retroattiva in pejus la disciplina delle misure alternative alla detenzione incisa dall'art. 1, comma 6, lett. b), legge n. 3/2019. Quest'ultima disposizione, infatti, connota il regime esecutivo delle condanne per i delitti di corruzione ivi indicati, trasformandolo da pena detentiva da scontare - ricorrendo i presupposti - in forma alternativa alla detenzione a pena da espiare sempre in regime detentivo ordinario (salva la collaborazione con la giustizia), cosi' violando gli articoli 117 Cost., art. 7 CEDU. 4. II Tribunale rileva preliminarmente che la condanna posta in esecuzione a carico dell'interessato porta una pena detentiva relativa a delitti che - per effetto dell'art. 1, comma 6, lett. b) della legge 9 gennaio 2019, n. 3 («Misure per il contrasto dei reati contro la, pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici», c.d. «legge spazzacorrotti»), vigente al 31 gennaio 2019 - sono stati inseriti nei «catalogo» dei reati del comma 1, art. 4-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354. Con una ratio ispiratrice palesemente sospinta da finalita' di contrasto e repressione di episodi corrottivi che coinvolgono la pubblica amministrazione e tesa a potenziare l'effetto persuasivo delle pene applicate in relazione agli stessi, la «nuova» formula del primo comma dell'art. 4-bis ord. penit. include: il peculato, escluso quello d'uso (art. 314, comma 1, c.p.), la concussione (art. 317 c.p.), la corruzione impropria (art. 318 c.p.), la corruzione propria, semplice e aggravata (art. 319 e 319-bis c.p.), la corruzione in atti giudiziari (art. 319-ter c.p.), l'indebita induzione a dare o promettere utilita' (art. 319-quater, comma 1, c.p.), la corruzione di incaricato di pubblico servizio (art. 320 c.p.), la corruzione attiva (art. 321 c.p.), l'istigazione alla corruzione (art. 322 c.p.), il peculato, la concussione, l'induzione indebita dare o promettere utilita', la corruzione e l'istigazione alla corruzione di membri della Corte penale internazionale o degli organi e funzionari dell'Unione europea e di Stati esteri (art. 322-bis c.p.). Con l'eccezione della liberazione anticipata, tali ipotesi delittuose costituiscono pertanto attualmente altrettante fattispecie «assolutamente ostative» alla concessione dei benefici penitenziari (tra cui l'affidamento in prova ai servizio sociale), salva la collaborazione positiva con la giustizia da parte dell'interessato ai sensi dell'art. 58-ter ord. penit. e dell'art. 323-bis c.p. e salva, altresi', la' ricorrenza delle ipotesi di collaborazione «inesigibile» di cui al comma 1-bis dell'evocato art. 4-bis della legge penitenziaria. 5. Con riguardo alle questioni dedotte dalla difesa del condannato, necessariamente preliminari all'esame del merito, il Collegio ritiene, innanzitutto, che non possa essere condiviso l'assunto per cui la gia' intervenuta sospensione dell'ordine di esecuzione ai sensi del comma 5 dell'art. 656 c.p.p. in relazione alla condanna de qua abbia sottratto l'intera vicenda esecutiva all'applicazione della piu' severa disciplina medio tempore introdotta, atteso il duplice rilievo che il diritto vivente non e' affatto consolidato nel ritenere - in questa ipotesi - preclusa al pubblico ministero la revoca dell'ordine di esecuzione sospeso (registrandosi anzi, su tale controverso profilo operativo, prassi affatto difformi sul territorio nazionale); ne', del resto, e' possibile considerare unitariamente la fase procedimentale di impulso del P.M. governata dall'art. 656 c.p.p., e quella che si incardina successivamente (e solo eventualmente, nel caso di istanza dell'interessato o del suo difensore) avanti al Tribunale di sorveglianza, per ritenere che - tempus regit actum - eventuali modifiche peggiorative introdotte successivamente all'emissione (e contestuale sospensione) dell'ordine di esecuzione non possano riverberarsi nell'instaurato procedimento camerale di sorveglianza relativo alla decisione sulla istanza di misura alternativa relativa alla pena provvisoriamente sospesa. La fase procedimentale della vicenda esecutiva che si apre con l'emissione da parte del P.M. dell'ordine di esecuzione e la sua contestuale sospensione e', infatti, destinata a completarsi o con la revoca della sospensione stessa in caso di inerzia del condannato, ovvero, nel caso in cui questi presenti un'istanza di misura alternativa, con la trasmissione della medesima al competente Tribunale di sorveglianza. Tale passaggio procedimentale scandisce l'avvio della fase propriamente giurisdizionale della vicenda esecutiva, nella quale si dispiega l'apprezzamento discrezionale del giudice di sorveglianza in relazione ai presupposti e alle condizioni che consentono; o no, l'accesso del condannato a forme di esecuzione qualitativamente diverse dalla pena detentiva carceraria, costituendo una fase procedimentale affatto diversa e distinta dalla precedente sia dal punto di vista degli organi giudiziari coinvolti che sotto l'aspetto logico-giuridico e della disciplina processuale applicata. Tale ricostruzione trova solida base nella giurisprudenza di legittimita' (Sez. Un., sent. n. 27919/2011), che afferma il 'principio per cui la norma sopravvenuta non Possa operare retroattivamente, posta la regola che «ad ogni atto corrisponde una sola norma», ed e' stato recentemente ripreso da un indirizzo di merito (ordinanza del Tribunale di Napoli, Sez. VII, del 28 febbraio 2019) che - pur non contestando l'assunto interpretativo tradizionale di attribuzione della natura processuale alle norme sull'esecuzione penale e penitenziaria - ha affermato il principio che gli ordini di esecuzione gia' sospesi anteriormente all'entrata in vigore della legge n. 3/2019 non possono essere revocati in quanto la loro efficacia si consuma con la sospensione. Deriva da tale cornice giuridico - normativa che eventuali modifiche normative o overruling giurisprudenziali che intervengano successivamente alla conclusione della fase di impulso governata dall'art. 656 c.p.p., pur non inficiando la legittimita' e validita' degli atti compiuti nella detta fase (tempus regit actum), devono necessariamente essere valutati in sede di procedimento giurisdizionale innanzi al giudice di sorveglianza. In tale senso e', del resto, la giurisprudenza della Cassazione (emblematica ex multis e' la decisione di Cass., Sez. 1, sent. n. 52578 dell'11 novembre 2014 Cc. (dep. 18 dicembre 2014), Rv.262199-01, che ha applicato direttamente le modifiche introdotte nella disciplina dell'espulsione dello straniero dal territorio dello Stato, ritenendo, appunto, immediatamente applicabili a tutti i rapporti esecutivi non esauriti le disposizioni normative medio tempore intervenute). 6. Del pari problematico appare, al Tribunale, invocare nel caso in esame il principio di matrice costituzionale che salvaguarda, nel caso di modifiche peggiorative sopravvenute, la gia' realizzata progressione trattamentale del condannato, vietando l'immotivata regressione qualora non dovuta ad una condotta colpevole dell'interessato. Nella fattispecie si tratta, invero, di persona che, al momento dell'entrata in vigore della disciplina di maggior rigore contenuta nella legge n. 3/2019, non si trovava sottoposta al trattamento penitenziario cui fa riferimento la Corte costituzionale, laddove si riferisce alla «progressivita' trattamentale e flessibilita' della pena» (Corte cost., sentenza n. 255 del 2006; in senso conforme, sentenze n. 257 del 2006, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995), ovvero al graduale reinserimento del condannato nel contesto sociale durante l'intero arco dell'esecuzione della pena (Corte cost., sent. 149 del 2018); ne' risulta convincente l'assunto che ['interessato fosse gia' coinvolto in un rapporto di natura trattamentale con l'UEPE (in questo senso appare, invero, non condivisibile l'assunto che individua dies a quo del percorso rieducativo nel giorno di presentazione della domanda per l'applicazione di una misura alternativa alla detenzione). Va osservato, al proposito, che la sentenza costituzionale n. 445 del 1997, nel riferirsi al trattamento penitenziario eventualmente in corso, sembra implicare necessariamente un effettivo e non episodico rapporto con gli organi della esecuzione (UEPE o equipe degli educatori) laddove afferma che «quando la condotta penitenziaria del detenuto ha consentito di accertare il raggiungimento di uno stadio del percorso rieducativo adeguato al beneficio da conseguire, la innovazione legislativa che vieta la concessione di misure alternative alla detenzione finisce per atteggiarsi alla stregua di un meccanismo a connotazioni ablative, riproducendo cosi' quei caratteri di «revoca» non fondata sulla condotta colpevole del condannato che questa Corte ha gia' censurato e sulla medesima linea si pone il successivo arresto n. 137/1999 che sviluppa con riguardo ai permessi premio i medesimi principi gia' affermati dalla pronuncia n. 445/1997. Anche a ritenere che principio di non regressione trattamentale possa estendersi ai condannati liberi, dei resto, non sembrano sussistere nella fattispecie quegli elementi che gia' consentirebbero di formulare una valutazione sicuramente positiva dei progressi trattamentali messi a segno dall'interessato, attesa la recentissima segnalazione che ha attinto il B... per violazione dell'art. 388 c.p. (commesso, nell'ipotesi accusatoria, il 23 dicembre 2018). 7. Quanto alla istanza di accertamento, della collaborazione positiva con la giustizia ovvero della collaborazione «impossibile», nei termini sopra precisati, che consentirebbe di superare lo sbarramento della preclusione in esame, il Tribunale ritiene che l'interessato non abbia collaborato con l'autorita' giudiziaria in termini di efficacia tale da soddisfare i requisiti indicati nell'art. 58-ter, ord. penit., ovvero quelli di cui all'art. 323-bis, comma 2, c.p. Nella sentenza della Corte di Appello di Venezia, invero, si afferma esplicitamente che sussistevano certamente conseguenze ulteriori dei reati commessi che l'interessato non ha provveduto a (cercare di) elidere: la Corte di appello, pur prendendo atto che il soggetto aveva versato 100.000 euro al comune di Venezia e 25.000 euro alla regione Veneto a titolo risarcitorio, non ha, infatti, riconosciuto al condannato la speciale attenuante di cui al n. 6 dell'art. 62 c.p., perche' egli non aveva risarcito le persone offese del reato di concussione (in prime cure ascrittogli), il risarcimento dei danni era stato solo parziale anche a fronte degli ingenti guadagni realizzati dall'interessato con alcune operazioni immobiliari favorite dall'attivita' delinquenziale posta in essere e, in definitiva, assumendo che le dazioni del B... fossero « (...) poca cosa rispetto ai profitti conseguiti dai reati, se si tengono presenti i beni immobili acquistati e i redditi dichiarati dal B... elencati nella prima sentenza alle pagine 6 e 7 alle quali si rinvia integralmente» (sent. Corte Appello di Venezia, cit., p. XCVI). Piu' oltre, la Corte nega, altresi', al condannato il riconoscimento dell'attenuante di cui all'art 323-bis c.p., poiche' « (...) in particolare, con riferimento alla individuazione degli altri responsabili va richiamato che dalle intercettazioni eseguite prima delle due prime ordinanze emesse il 21 marzo 2011 nei p.p. 8115/10 RGNR e 1009/11 RGNR erano gia' stati identificati tutti gli altri autori dei reati, che ragionevolmente il B... non avrebbe ammesso gli addebiti se non fossero state sequestrate rubriche e agende con testualmente all'esecuzione delle misure cautelari e che dall'esistenza di questa riservata contabilita' era emersa prova gia' durante le intercettazioni. Da ultimo, non si e' adoperato al fine del rintraccio dell'agenda del 2008. Le ammissioni negli interrogatori sono state parziali non avendo il B... contribuito a svelare i dettagli delle condotte degli altri imputati pertinenti ai capi in cui si contestavano specifiche condotte ed interventi dei pubblici ufficiali, funzionari e dipendenti.» (sent. Corte Appello di Venezia, cit., p. XCVI). Alla luce di tale quadro emerge dunque che in favore dell'interessato non puo' riconoscersi l'accertamento della collaborazione prestata ai sensi degli articoli 58-ter, ord. penit. o 323-bis, c.p., poiche' le ammissioni e dichiarazioni rese dall'odierno istante sono state solo parziali, sono residuati profili non accertati delle condotte criminose realizzate dagli altri imputati nella complessa vicenda corruttiva ed egli non ha agito se non in modesta misura per elidere le conseguenze dannose dei reati commessi. Per tali motivi, non vi sono neppure i presupposti per il riconoscimento della «impossibilita'» della collaborazione per l'integrale accertamento dei fatti, dal momento che il B... sicuramente avrebbe potuto contribuire a chiarire gli ulteriori, numerosi profili fattuali che sono rimasti tuttora oscuri delle complesse vicende che lo hanno visto protagonista dei fatti delittuosi descritti nella sentenza della Corte di appello veneziana. 8. Da quanto sopra consegue che la concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale, appare preclusa dalla attuale formulazione dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit., vigente al momento della presente decisione. Nell'intento di superare tale sbarramento, la difesa ha affacciato una lettura «convenzionalmente orientata» della sopra richiamata disposizione penitenziaria, assumendo le modifiche restrittive introdotte dalla legge n. 3/2019 non applicabili in via retroattiva, in mancanza di norme di diritto transitorio, prospettando al Tribunale la natura «sostanziale» e non «processuale» della norma di nuova introduzione, e chiedendo, in applicazione dei principi espressi nell'art. 25 Cost., nell'art. 2 c.p. e nell'art. 7 CEDU (quest'ultimo letto alla luce della giurisprudenza europea), la declaratoria di irretroattivita' della legge penale piu' sfavorevole in relazione alle condanne per fatti-reato commessi in epoca antecedente all'entrata in vigore della normativa deteriore costituita, in questo caso, dalla modifica dell'art. 4-bis ord. penit., intervenuta ad opera dell'art. 1, comma 6, lett. b), legge n. 3/2019). 9. Riguardo a tale profilo, il Collegio e' ben consapevole che la tesi secondo cui le disposizioni normative che disciplinano la fase dell'esecuzione penitenziaria e, segnatamente, quelle che regolano presupposti e condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione, hanno natura sostanziale e il relativo corollario della inapplicabilita' di disposizioni peggiorative introdotte successivamente alle condanne per fatti-reato commessi anteriormente, pur trovando ormai ampio consenso nella piu' autorevole dottrina e riscontro in qualche indirizzo - anche recentissimo - della giurisprudenza di merito non e', invece, condiviso dalla giurisprudenza di' legittimita'. Quest'ultima, infatti, con orientamento costante, consolidatosi a partire dalla sopra citata pronuncia delle Sezioni unite (n. 24561/2006, ric. Aloi, Rv. 233976), ha affermato il principio che le disposizioni concernenti l'esecuzione delle pene detentive e le misure alternative alla detenzione, non riguardando l'accertamento del reato e l'irrogazione della pena ma soltanto le modalita' esecutive della stessa, non hanno carattere di norme penali sostanziali e pertanto, «in assenza di una specifica disciplina transitoria», soggiacciono al principio «tempus regit actum» e non alle regole dettate in materia di successione di norme penali nel tempo dall'art. 2 c.p. e dall'art. 25 della Costituzione, con la conseguenza che «un'eventuale modifica normativa che introduca una piu' severa disciplina e' immediatamente applicabile a tutti i rapporti esecutivi che non siano ancora esauriti» (Cass., Sez. 1, n. 46649 del 11/11/2009, Nazar, Rv. 245511; Cass., Sez. 1, n. 11580 del 05/02/2013, Schirato, Rv. 255310). Siffatta linea interpretativi e' stata seguita dalla Cassazione con riguardo all'introduzione del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione di cui alla lett. c) dell'art. 656, comma 9, c.p.p. per effetto della n. 251 del 2005 (Cass., Sez. 1, sent. n. 33062 del 19/09/2006, Cc, dep. 04/10/2006, Rv. 234384; conforme a Cass., Sez. I, n. 25113 e n. 29508/2006); in materia di estensione dell'espulsione dello straniero come misura alternativa alla detenzione, prevista dall'art. 16, comma quinto, del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286, operata con l'art. 6, comma 1, lett. a) del decreto-legge 23 dicembre 2013, n. 146, convertito nella legge 21 febbraio 2014, n. 10 (Cass., Sez. 1, sent. n. 52578 del 11/11/2014 Cc. (dep. 18/12/2014), Rv.262199 - 01); in tema di aggravante ad effetto speciale di cui all'art. 628, comma 3, 3-quinquies, c.p., che impedisce, ai sensi degli articoli 4-bis, ord. penit., e 656, comma 9, c.p.p., la sospensione dell'esecuzione della pena, anche se la circostanza sia entrata in vigore successivamente alla commissione del fatto, «avendo essa natura mista in forza della quale non produce solo effetti sostanziali, soggetti, pertanto, al principio di irretroattivita', ma anche processuali, come il divieto di concessione di benefici penitenziari.» (Cass., Sez. 1, sent. n. 18496 del 31/01/2018 Cc., dep. 27/04/2018, Rv. 273070 - 01). Piu' recentemente, tuttavia, una pronuncia di legittimita' (Cass., Sez. 6, 14 marzo 2019, n. 12541, ric. Ferraresi), ha aperto una breccia in tale ermeneutica, fino ad oggi inscalfibile, prendendo le distanze da quella posizione, definita da autorevole dottrina come frutto di un criticabile «bizantinismo classificatorio», per allinearsi all'approccio «sostanzialistico» adottato dalla giurisprudenza della Corte EDU sulla «materia penale». La Cassazione ha richiamato, precisamente, la decisione della Corte edu, Grande Chambre, 21 ottobre 2013, Del Rio Prada c. Spagna, che ha ritenuto violato l'art. 7 par. 1 della CEDU da parte del governo spagnolo, sotto il profilo del «principio di affidamento» di una persona detenuta rispetto ad un mutamento in pejus introdotto per effetto della applicazione giurisprudenziale («doctrina Parot») nella disciplina relativa ad un istituto spagnolo affine alla nostra liberazione anticipata, affermando che, ai fini del rispetto dell'evocato principio di affidamento del condannato circa la «prevedibilita' della sanzione penale», occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua concreta esecuzione (nel caso esaminato dalla Corte europea, l'istituto dell'ordinamento iberico aveva diretta incidenza sulla durata della pena da espiare). Facendo applicazione di tale criterio sostanzialistico, la Cassazione e' giunta a ritenere, con riferimento alle modificazioni in pejus introdotte dalla legge n. 3/2019 «(...) non manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere le "carte in tavola" senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformita' con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art. 117 Cost., la' dove si traduce, per il [ricorrente], nel passaggio - "a sorpresa" e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata "senza assaggio di pena" ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il gia' rilevato operare del combinato disposto degli articoli 656, comma 9 lett. a), codice procedura penale e 4-bis ord. penit.», ma non sollevando la relativa questione dal momento che essa «(...) afferisce non alla sentenza di patteggiamento oggetto del presente ricorso, ma all'esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza, dunque ad uno snodo processuale diverso nonche' logicamente e temporalmente successivo, di talche' ai fini della decisione di questa Corte non rileva, potendo se del caso essere riproposta in sede di incidente di esecuzione» ( Cass., Sez. 6, 14.03.2019, n. 12541, cit.). Sulle medesime coordinate interpretative, sensibili alla necessita' costituzionale di una lettura delle disposizioni dell'ordinamento interno conformi ai principi vigenti nell'ordinamento convenzionale europeo si collocano - come si e' ricordato - alcuni recentissimi arresti di merito, tra cui l'ordinanza del GIP di Como dell'8 marzo 2019 che - in sede di incidente di esecuzione avverso un ordine di esecuzione pena non sospeso - ha adottato una interpretazione conforme ai principi convenzionali, annullando il provvedimento impugnato, ritenendo non necessario adire il Giudice delle leggi attraverso la rimessione della questione alla Corte costituzionale. Secondo il giudice Iariano, invero, «quelle che vengono considerate norme meramente processuali, perche' attinenti alle modalita' di esecuzione della pena, sono in realta' norme che incidono sostanzialmente sulla natura afflittiva della pena» e, pertanto, una loro eventuale applicazione retroattiva «significa violare l'art. 117 Cost., integrato dall'art. 7 CEDU nonche' gli art. 25, comma 2 Cost. e l'art. 2 c.p., norme il cui raggio di operativita' non puo' non estendersi a tutte le disposizioni che, a prescindere dalle etichette, abbiano, come nel caso di specie, un contenuto afflittivo o intrinsecamente punitivo». 10. Questo Tribunale, condividendo nelle sue linee essenziali il percorso logico-giuridico seguito sia dalla Cassazione con la sentenza n. 12541/2019, sia dalla giurisprudenza di merito sopra richiamata, valuta necessario sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett. b), della legge n. 3/2019, ritenendo di non adottare la via dell'interpretazione conforme a Costituzione, alla luce della posizione tuttora predominante, nei diritto vivente, contraria alla possibilita' di applicare il principio di non retroattivita' della legge penale sfavorevole qualora si verta in materia di misure alternative alla detenzione. 11. Nel caso che qui occupa, invero, la questione della applicabilita' ad una condanna relativa a fatti-reato commessi anteriormente alla entrata in vigore della piu' restrittiva disciplina introdotta dalla legge n. 3/2019 e' certamente rilevante trattandosi, nella fattispecie, di domanda di concessione dell'affidamento in prova al servizio sociale in rapporto a una pena detentiva applicata in forza di condanna per fatti commessi anteriormente alla modifica introdotta nell'art. 4-bis, ord. penit., 1, comma 6, lett. b) della legge n. 3/2019. Nel caso in esame, inoltre, per un verso deve escludersi - per i motivi sopra illustrati - la possibilita' di superare il profilo di inammissibilita' dell'istanza medesima indotta dalla preclusione di cui al comma 1, art. 4-bis, ord. penit., estesa dalla legge «spazzacorrotti» anche ai delitti per i quali il B... e' stato condannato e, per l'altro verso, le gia' acquisite risultanze istruttorie offrono elementi che consentirebbero, nel merito, di addivenire ad una pronuncia favorevole all'interessato (eventualmente anche nei termini di una misura diversa da quella espressamente richiesta), considerando la regolare condotta tenuta dalla persona nel regime cautelare, il principio di risarcimento effettuato, la positiva situazione personale sotto il profilo socio-familiare e lavorativo, le prospettive che una messa alla prova possa favorire la risocializzazione della persona piu' efficacemente di una eventuale carcerazione dell'interessato. 12. Cio' posto in tema di rilevanza, questo Tribunale ritiene che la questione sia anche non manifestamente infondata, sotto i profili che di seguito si illustrano. 1) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1. comma 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 per contrasto con gli articoli 25, comma 2, 117 Cost., 7 CEDU (violazione del principio di irretroattivita' della legge penale): stabilisce l'art. 7, paragrafo 1, CEDU: «Nessuno puo' essere condannato per una azione o una omissione che, al momento in cui e' stata commessa, non costituiva reato secondo il diritto interno o internazionale. Parimenti, non puo' essere inflitta una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso.» Viene in evidenza, ai fini che qui interessano, il secondo periodo della disposizione, il cui disposto riecheggia quanto stabiliscono, nell'ordinamento interno, l'art. 25 Cost., e l'art. 2 c.p.: nessuna conseguenza penale afflittiva introdotta con legge successiva puo' incidere sulla vicenda penale scaturita dalla commissione di un fatto-reato commesso anteriormente. A questo fine di civilta' giuridica, baluardo contro possibili abusi da parte dell'autorita' statale, e', invero, istituito il principio di non retroattivita' della «legge penale» sfavorevole. Seguendo un condivisibile approccio «sostanzialistico», la Corte edu ha riconosciuto che istituti, pur formalmente non classificati come «penali» e inseriti nel contesto della normativa di matrice penitenziaria, non possono essere considerati alla stregua di mere «modalita' di esecuzione della pena» (e dunque sottratti al principio di irretroattivita'), qualora incidano su quest'ultima in termini di sostanziale modificazione quantitativa ovvero qualitativa della pena stessa. E' questo il caso delle misure alternative alla detenzione che, attuando il disposto costituzionale laddove esso prefigura un sistema in cui «le pene» devono tendere alla rieducazione del reo (art. 27, comma 3 Cost.), ammette la possibile diversificazione tipologica del trattamento sanzionatorio, realizzabile, soprattutto in seguito all'introduzione dell'ordinamento penitenziario del 1975, anche in sede esecutiva post iudicatum. E proprio lo sviluppo della fase esecutiva sotto il governo della «giurisdizione rieducativa» amministrata da un giudice specializzato ha comportato il venir meno della stessa concezione del giudicato penale quale dato immutabile e cristallizzato al momento della definitivita' della condanna, per lasciare spazio ad un modello che, in vista dell'obiettivo della risocializzazione della persona condannata, ammette ed anzi impone la duttile flessibilita' della pena stessa nelle tipologie piu' idonee al perseguimento del fine costituzionalmente assegnato alla stessa. Tali modifiche, anche se attuate in forza di norme processuali o relative all'esecuzione della pena hanno, dunque, effetti che incidono sulla qualita' essenziale della pena stessa, trasformando ad esempio una pena detentiva in una sanzione non detentiva. In altri termini, non si tratta gia' di mere «modalita' di esecuzione della pena» bensi' di modifiche tali da comportare una vera e propria sostituzione della specie della pena stessa, comportando una sostanziale decompressione della liberta' personale rispetto alla prospettiva della esecuzione della pena detentiva. Una eventuale modifica normativa (o giurisprudenziale) sopravvenuta che operi in senso restrittivo della disciplina dei presupposti e condizioni di accesso alle misure alternative alla detenzione incide, quindi, il profilo di garanzia «coperto» dall'evocato art. 7 CEDU, poiche' essa viene a modificare la natura stessa della sanzione penale applicata, come gia' sopra si e' rilevato, escludendo «ora per allora» che pene relative a determinati reati possano essere eseguite con tipologie diverse dalla pena detentiva carceraria. La giurisprudenza costituzionale ha, del resto, da tempo riconosciuto che, a differenza degli istituti del trattamento penitenziario (quali, a es., i permessi premio), le misure alternative alla detenzione, «nell'estinguere lo status di detenuto, costituiscono altro status diverso e specifico rispetto a quello di semplice condannato» (Corte cost., sentenza n. 188 del 1990) tale da sospendere o interrompere il rapporto giuridico di esecuzione della pena detentiva, pur costituendo pur sempre sanzioni (negative) penali (anche se concedono ampi spazi di liberta') ma sostituendo al rapporto esecutivo della pena carceraria altro, diverso rapporto esecutivo, attinente, appunto, alla particolare misura alternativa applicata. In altri termini, nella prospettiva della Corte, «le misure alternative partecipano della natura della pena, proprio per il loro coefficiente di afflittivita': esse, pertanto, sono alternative non alla pena in generale ma alla pena detentiva, trattandosi di diverse forme di penalita'» (Corte cost. sentenza n. 349/1993). Per questa ragione, e' ben chiara la distinzione tra mere modalita' esecutive della pena e misure alternative ad essa, al punto che «L'Amministrazione penitenziaria puo' adottare provvedimenti in ordine alle modalita' di esecuzione della pena (rectius: della detenzione), che non eccedono il sacrificio della liberta' personale gia' potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna, e che naturalmente rimangono soggetti ai limiti ed alle garanzie previsti dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza fisica e morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari ai senso di umanita' (art. 27, terzo comma), ed al diritto di difesa (art. 24). Ma e' certamente da escludere che misure di natura sostanziale che incidono sulla qualita' e quantita' della pena, quali quelle che comportano un sia pur temporaneo distacco, totale o parziale, dal carcere (c.d. misure extramurali), e che percio' stesso modificano il grado di privazione della liberta' personale imposto al detenuto, possano essere adottate al di fuori dei principi della riserva di legge e della riserva di giurisdizione specificamente indicati dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione.» (Corte cost. sentenza n. 349/1993, cit.). Ed ancor piu' eloquente, in questa ottica, e' il successivo passaggio: «Vi e' infatti una distinzione sostanziale tra modalita' di trattamento del detenuto all'interno dell'istituto penitenziario - la cui applicazione e' demandata di regola all'Amministrazione, anche se sotto la vigilanza del magistrato di sorveglianza (v. art. 69 Ordinamento Penitenziario), o con possibilita' di reclamo al Tribunale di sorveglianza (v. art. 14-ter Ordinamento Penitenziario) - e misure che ammettono a forme di espiazione della pena fuori dal carcere (previste, per lo piu', al Capo VI del Titolo I dell'Ordinamento Penitenziario, "Misure alternative alla' detenzione": affidamento in prova al servizio sociale, detenzione domiciliare, semiliberta', liberazione anticipata, licenze; ma anche l'assegnazione al lavoro esterno o i permessi premio previsti al Capo III) le quali sono sempre di competenza dell'Autorita' Giudiziaria (v. articoli 21, 30, 30-ter, 69 e 70 dell'Ordinamento penitenziario) proprio perche' incidono sostanzialmente sull'esecuzione della pena e, quindi, sul grado di liberta' personale del detenuto.» (Corte cost. 349/1993, cit.). Appare difficile, alla luce di tale quadro, continuare a seguire l'affermazione della giurisprudenza di legittimita' per cui si tratterebbe, in tali ipotesi, di norme "processuali" non afferendo le medesime ai profili di accertamento del reato e di irrogazione della pena, poiche' proprio di questo in effetti le disposizioni in materia di misure alternative alla detenzione (e non solo) si occupano. Si osserva, del resto, che il leading precedent delle Sezioni Unite del 2006 muoveva, per abbracciare la tesi della natura processuale delle disposizioni penitenziarie, anche dalla constatazione che «il problema non risulta affrontato specificamente dalla dottrina. Ma in linea generale questa e' propensa a estendere il principio di irretroattivita' delle norme penali di cui all'art. 25 Cost., comma 2, a tutte le disposizioni limitative dei diritti di liberta', tra le quali rientrano indubbiamente anche quelle che escludono la sospensione della carcerazione e l'applicazione di misure alternative alla detenzione. Diametralmente opposta e' pero' la soluzione adottata dalla costante giurisprudenza di legittimita' (...)». Che la questione meriti, oggi, una approfondita riflessione tale da indurre un revirement, lo aveva gia' segnalato, del resto, lo stesso Giudice delle leggi nella sentenza n. 306 del 1993, quando osservava: «Circa il presupposto da cui i giudici a quibus muovono, e cioe' che detto principio [il principio di irretroattivita' della norma penale sfavorevole, n.d.r.] sia dettato, oltre che per la pena, anche per le disposizioni che ne regolano l'esecuzione, puo' astrattamente ipotizzarsi - nel caso che tale assunto, che potrebbe meritare una seria riflessione, fosse riconosciuto valido - che il divieto di introdurre siffatte innovazioni sia fatto risalire, alternativamente: o al momento della commissione del reato; o al momento del passaggio in giudicato della sentenza di condanna; o al momento dell'inizio dell'esecuzione; o, ancora, al momento della maturazione dei presupposti ovvero a quello della concessione della misura alternativa.» In quell'occasione, tuttavia, la Corte non aveva preso in considerazione la dedotta censura poiche' «(...) i sei casi descritti nelle ordinanze concernono la revoca della semiliberta' (cui si accede dopo l'espiazione di meta' della pena) nei confronti dei condannati per i delitti di cui all'art. 630 del codice penale (cinque casi) o all'art. 74 del decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990, per i quali sono previsti livelli di pena assai elevati; che la disciplina della semiliberta' ha subito nel tempo modificazioni in tema di preclusioni oggettive alla sua concessione; che, infine, le ordinanze di rimessione non contengono i riferimenti in fatto idonei a precisare quale fosse la legge applicabile in ciascuno dei predetti momenti. Di conseguenza, al di fuori dell'ipotesi in cui debba farsi riferimento all'ultimo di questi, l'indagine sul quesito principale circa l'applicabilita' dell'art. 25, secondo comma, Cost. nella materia in esame, dovendo necessariamente muovere dalla premessa della sua sicura rilevanza nei giudizi a quibus, non puo' essere compiuta perche' rischia di restare astratta.» Nella fattispecie, come si e' sopra illustrato, la rilevanza della questione e' invece concreta. Nel caso in valutazione, atteso che - per le considerazioni sopra esposte - modifiche che comportano una sostanziale modificazione nel grado di privazione della liberta' personale non possono considerarsi fenomeno privo di rilievo sotto il profilo costituzionale (Corte cost., sent. 306 del 1993), la violazione costituzionale sembra dunque al Collegio si concretizzi nell'assenza di una disposizione di natura transitoria che faccia decorrere - in aderenza ai principi iscritti negli artt. 25, comma 2, 117 Cost. e 7 CEDU - l'efficacia delle piu' restrittive disposizioni introdotte, in un contesto normativo che assume natura "sostanziale", dalla data di vigenza della legge n. 3/2019, non applicandosi cosi' le modifiche sfavorevoli alle pene relative a fatti commessi anteriormente. A conferma della necessita' costituzionale di una tale disposizione giova ricordare che il legislatore aveva introdotto una norma transitoria con l'art. 4 della legge 12 luglio 1991, n. 203, di conversione del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152, che ha circoscritto l'applicabilita' della norma limitativa della concessione dei benefici penitenziari per taluni delitti (di cui all'art. 58-quater, quarto comma, della legge n. 354 del 1975) ai condannati per delitti commessi dopo l'entrata in vigore del predetto decreto. Con tale disposizione, il legislatore sembra aver dunque implicitamente riconosciuto la valenza del principio di irretroattivita' della norma penale meno favorevole anche con riferimento al regime della pena, indicando che il divieto di retroattivita' vale ogni qualvolta si voglia introdurre un nuovo e piu' sfavorevole regime. Ricorda a tal proposito il Tribunale che, tutte le volte in cui il legislatore non ha fatto applicazione di tale principio, e' dovuta intervenire la Corte costituzionale reiteratamente affermando quello che nella prassi della giurisdizione rieducativa viene chiamato «principio di non regressione per fatto incolpevole del trattamento», dichiarando cioe' l'illegittimita' delle norme sopravvenute nella parte in cui esse non prevedono che i benefici in esse indicati possano essere concessi nei confronti dei condannati che abbiano gia' raggiunto sulla base della normativa previgente un grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti (Corte cost. n. 79/2007; n. 257/2006; n. 137/1999; n. 445/1997). Osserva, altresi', il Tribunale quale sia l'estrema labilita' dei confini cui per tale via il giudice delle leggi ha inteso restituire all'apprezzamento discrezionale della giurisdizione rieducativa la valutazione dell'avvenuto raggiungimento del «grado di rieducazione adeguato ai benefici richiesti», laddove e' noto come il margine tra ammissibilita' dell'istanza e merito della decisione ha rischiato nella prassi di assumere connotati di sostanziale impercettibilita'. 2) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6. lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 per contrasto con li articoli 25, comma 2, 117 Cost., 7 CEDU (violazione del principio di affidamento): La modifica in pejus del quadro normativo sostanziale di riferimento sembra, altresi', ledere il "principio di affidamento" tutelato dal principio di irretroattivita' in materia penale, sancito dagli articoli 25, comma 2, 117 Cost., 7 CEDU. Invero, anche nell'ipotesi in cui non si ritenesse dogmaticamente condivisibile la tesi per cui il momento della commissione del reato costituisce il momento in cui si cristallizza non solo il trattamento sanzionatorio dal punto di vista dell'entita' della pena che potra' essere irrogata ma anche la qualita' tipologica della stessa, la piu' autorevole dottrina ha comunque affermato che tale "punto fermo" del quadro sanzionatorio non potrebbe comunque essere fissato oltre la data del passaggio in giudicato della sentenza di condanna, poiche' e' (quantomeno) da tale passaggio formale che si rende concreta nei confronti del reo la potesta' punitiva dello Stato, cosi' che lederebbe [e legittime aspettative del condannato ogni eventuale modifica che rendesse piu' severo il trattamento sanzionatorio, aggravando in tal modo la pena stabilita dal giudice in relazione alla condotta penalmente illecita accertata in capo al soggetto. Tale legittimo affidamento non puo' che comprendere tanto l'an, quanto la tipologia, quanto ancora la dimensione quantitativa della sanzione penale che lo Stato promette di irrogare al colpevole se quel determinato reato verra' accertato. In questa prospettiva, del resto, la Corte europea ha interpretato principio iscritto nell'art. 7 della Convenzione edu nel senso che quest'ultimo codifichi il divieto per gli Stati di imporre una pena piu' grave di quella applicabile al momento in cui il reato e' stato commesso, secondo un criterio che identifica la "legge" nei contorni di "regola di giudizio accessibile e prevedibile" nei cui confronti il consociato nutre un legittimo affidamento. Con una ormai numerosa serie di pronunce, la Corte di Strasburgo ha, invero, adottato una giurisprudenza consolidata su tali coordinate, censurando le disposizioni degli ordinamenti interni che introducevano ipotesi di applicazione retroattiva di pene (intese in senso sostanziale) piu' severe. Si allude, a titolo di esempio, alla sentenza Gurguchiani c. Spagna, che ha affermato l'illegittimita' dell'espulsione, prevista obbligatoriamente in sostituzione della pena detentiva da una nuova normativa successiva alla commissione del fatto (laddove la legge vigente al momento della commissione del reato stabiliva la detta sostituzione in via meramente eventuale ad opera del giudice); e alla sentenza M. c. Germania (ric. n. 19359/04) che ha censurato l'applicazione retroattiva del nuovo e piu' duro regime di durata della «custodia di sicurezza» (Sicherungsverwahrung), misura personale che, in base ad una legge introdotta successivamente alla commissione del fatto, non era piu' limitata, nel massimo, a dieci anni; e alla gia' ricordata sentenza Del Rio Prada c. Spagna che ha ritenuto parte integrante dei "diritto penale materiale" l'istituto della redencion de penas por trabajo del diritto spagnolo (istituto affine alla nostra liberazione anticipata). Tale arresto europeo, in particolare, afferma il principio che la "prevedibilita'" cui si riferisce l'art. 7 CEDU non riguarda soltanto la sanzione, ma anche la sua esecuzione e che, a tali fini, non e' determinante il settore ordinamentale nazionale sul cui versante si colloca l'espiazione, se di diritto sostanziale o di diritto processuale. E sulla stessa linea "sostanzialista" pare, del resto, orientarsi la giurisprudenza di legittimita' nel ritenere ipotesi di palese violazione del principio dell'affidamento quando le concrete ricadute negative previste da una disposizione normativa conseguano non alla condotta dell'imputato/condannato, bensi' dipendano da fattori esterni, aleatori, del tutto sottratti alla sua sfera di controllo (Sez. Un. , 12 luglio 2007, n. 27614), escludendo - per tali motivi - la modifica retroattiva in pejus di misure cautelari (Sez. Un. , sent. 14 luglio 2011, n. 27919, cit.), evidenziando che, in ordine alle norme processuali, occorre adottare un approccio sostanzialistico, valutandone in concreto l'effettivo impatto sui diritti fondamentali (in primis, sulla liberta' personale). Il fondamentale e qui rilevante profilo che involge il rispetto dell'affidamento del consociato si individua nella posizione del condannato, ai cui occhi l'eventuale condanna per il fatto-reato commesso non avrebbe comportato necessariamente una pena carceraria, poiche' la pena sarebbe stata sospesa (come in effetti e' avvenuto) e il giudice di sorveglianza avrebbe potuto applicare una misura alternativa alla pena detentiva (come si sarebbe, in effetti, potuto in assenza della normativa piu' sfavorevole introdotta ex abrupto nel quadro giuridico - normativo vigente al momento della commissione dei delitti e del passaggio in giudicato della relativa condanna): tale affidamento e' stato, tuttavia, irrimediabilmente travolto dalla immediata vigenza delle disposizioni di cui all'art. 1, comma 6, lett. b) della legge n. 3/2019. La legge «Spazzacorrotti» ha, infatti, inciso - per dichiarata volonta' dei suoi promotori - proprio sull'inasprimento del trattamento sanzionatorio per i colpevoli dei delitti contro la P.A. ivi previsti, con il preciso intento di politica criminale di rendere effettivo l'ordinario ricorso alla pena detentiva carceraria in quelle ipotesi in cui, nella normalita' dei casi, i condannati potevano aspirare dallo status libertatis alla concessione di una pena non detentiva. Non si tratta, quindi, di modifiche intervenute sulle mere modalita' esecutive della pena detentiva (come potrebbero essere quelle, in ipotesi, introdotte per limitare il numero di telefonate o di colloqui esterni per i corruttori), ma di una vera e propria trasformazione della tipologia di pena eseguibile (che da meramente limitativa della liberta' diventa radicalmente privativa della liberta' personale), con l'obiettivo di un inasprimento della sanzione stessa. Alla luce del quadro costituzionale e convenzionale sopra delineato, le disposizioni della legge n. 3/2019 che rendono piu' severo il trattamento sanzionatorio delle condotte illecite in materia di taluni reati contro la P.A. si configurano come un mutamento imprevedibile e indipendente dalla" sfera di controllo del soggetto, tale da modificare in senso sostanziale il quadro giuridico - normativo che il soggetto aveva di fronte a se nel momento in cui si e' determinato nella sua scelta delinquenziale, con piena consapevolezza delle relative conseguenze, cosi' da poterne adeguatamente ponderare i benefici e gli svantaggi. Tra i benefici, in primo luogo, l'applicazione di una misura alternativa alla detenzione, L'estinzione della pena e delle pene accessorie una volta espiata la pena con l'affidamento al servizio sociale, alla stregua della originaria disciplina e, infine, la completa riabilitazione una volta decorsi tre anni dall'integrale esecuzione della pena. Ebbene, tutti questi punti fermi sono stati travolti dalla legge «Spazzacorrotti», che - "cambiando le carte in tavola" - ha trasformato radicalmente la risposta sanzionatoria, prevedendo quale soluzione ordinaria l'esecuzione della pena in carcere, e tempi molto piu' lunghi per il conseguimento degli effetti estintivi sopra indicati (c.d. "daspo per i correttori"), determinando un vulnus nel principio di affidamento convenzionalmente e costituzionalmente tutelato (art. 25, comma 2, 117 Cost., art. 7 CEDU), di cui e' titolare anche il condannato nel caso che qui occupa. Sulla esigenza costituzionale di salvaguardare il principio di affidamento, del reato, pare orientarsi anche la piu' recente elaborazione della Corte costituzionale che - con una recente pronuncia (sentenza n. 223 del 2018), con una sintesi ermeneutica chiaramente ispirata all'approccio sostanzialistico seguito dalla CEDU - ha riconosciuto l'estensione dell'"ombrello garantistico" approntato dall'art. 25, comma 2, Cost. (incluso dunque il divieto di applicazione retroattiva di una legge che punisca piu' severamente un fatto gia' precedentemente sanzionato) "anche al diritto sanzionatorio amministrativo, al quale pure si estende, come pure questa Corte ha gia' in piu' occasioni riconosciuto (sentenze n. 276 del 2016 e n. 104 del 2014), la fondamentale garanzia di irretroattivita' sancita dall'art. 25, secondo comma, Cost., interpretata anche alla luce delle indicazioni derivanti dal diritto internazionale dei diritti umani, e in particolare della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo relativa all'art. 7 CEDU", precisando ancora che «[a]nche rispetto alle sanzioni amministrative a carattere punitivo si impone infatti la medesima esigenza, di cui tradizionalmente si fa carico il sistema penale in senso stretto, di non sorprendere la persona con una sanzione non prevedibile al momento della commissione del fatto». 3) Illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6. lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 per contrasto con gli articoli 3 e 27 comma 3, Cost.: L'assenza, nella fattispecie, di una disposizione di natura transitoria limitativa dell'efficacia delle disposizioni piu' restrittive alle esecuzioni relative a fatti-reato posteriori vulnera, inoltre, il principio di ragionevolezza e del canone rieducativo iscritto nell'art. 3 e 27, comma 3, Cost. La disciplina piu' severa, incidendo su esecuzioni relative a fatti commessi anteriormente, produce, infatti, una irragionevole disparita' di trattamento tra soggetti che giudicati colpevoli dei medesimi delitti, abbiano visto decisa dal giudice di sorveglianza la propria istanza di misura alternatiVa prima della vigenza della legge n. 3/2019 o successivamente a tale data, per mera casualita' o per il difforme carico dei tribunali di sorveglianza sul territorio nazionale che, secondo dato di comune esperienza, vede soggetti correi nel medesimo reato accedere all'esecuzione della pena (detentiva o extramuraria) con tempistiche diverse dovute appunto a circostanze casuali o comunque indipendenti dalla [oro volonta', determinando in modo irrazionale gli esiti processuali indipendentemente dal coefficiente di meritevolezza dei singoli condannati. Tale situazione viola, altresi', per i medesimi motivi, il principio sancito dal comma 3, art. 27 Cost., nella misura in cui incide in senso deteriore sulla liberta' personale dei condannati e sui connessi percorsi rieducativi senza alcuna correlazione con un giudizio sulla personalita' dei medesimi e sul grado di rieducazione da essi raggiunto (Corte cost., sent. 204/1974). Invero, come ha affermato in piu' occasioni il Giudice delle leggi, anche le misure alternative alla detenzione, in quanti variante tipologica delle "pene" cui si riferisce l'art. 27 della Carta fondamentale, devono uniformarsi ai principi di proporzionalita' e individualizzazione della pena, cui l'esecuzione deve essere improntata (Corte cost., sentenze n. 50 del 1980 e n. 203 del 1991), nel senso che eguaglianza di fronte alla pena significa proporzione della medesima alle personali responsabilita' ed alle esigenze di risposta che ne conseguono (Corte cost., sentenze n. 299 del 1992 e n. 306 del 1993). La recente sentenza costituzionale n. 149/2018 - ha ribadito la prevalenza della funzione rieducativa della pena sulle altre finalita' della stessa, attribuendole i caratteri di «imperativo costituzionale», «finalita' ineliminabile, che deve sempre essere garantita anche nei confronti di autori di delitti gravissimi», ontologicamente incompatibile con previsioni di automatiche preclusioni applicative delle misure alternative alla detenzione, ricavando da tale principio coronario per il quale vige «il principio della non sacrificabilita' della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena (sentenze n. 78 del 2007, n. 257 del 2006, n. 68 del 1995, n. 306 del 1993 e n. 313 del 1990)». Ne consegue, anche sotto tale profilo, il contrasto della disposizione dell'art. 1, comma 6, lett. b) della legge n. 3/2019 con gli evocati parametri costituzionali nella parte in cui, ammettendo una applicazione retroattiva delle neointrodotte preclusioni in materia di misure alternative alla detenzione relative ai delitti in materia di corruzione anteriormente commessi, incide in modo irragionevole sul percorso rieducativo, senza che tale vulnus sia ricollegabile a comportamento colpevole del condannato e senza che, per tale ragione, sia consentita al giudice specializzato una valutazione individualizzata atta a verificare, nel caso concreto, la sussistenza dei presupposti per l'applicazione delle misure a piu' alta valenza risocializzante. 13. La questione di costituzionalita' e' dunque, nei termini e per i motivi sopra illustrati, rilevante e non manifestamente infondata. 14. Tribunale di sorveglianza ritiene, pertanto, di sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, si applica anche in relazione ai delitti di cui agli articoli 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge, per contrasto con gli articoli 3, 25 comma 2, 27 comma 3, 117 Cost., art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950; 15. Ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, deve essere dichiarata la sospensione del presente procedimento con immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
P. Q. M. Sentiti il parere del P.G. e la difesa, che ha concluso come in atti; Visti gli articoli 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, 666 e 678, c.p.p., Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 6, lett. b), della legge 9 gennaio 2019, n. 3, nella parte in cui, modificando l'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354, si applica anche in relazione ai delitti di cui agli articoli 318, 319, 319-quater e 321 c.p., commessi anteriormente all'entrata in vigore della medesima legge, per contrasto con gli articoli 3, 25 comma 2, 27 comma 3, 117 Cost., art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950; Dichiara la sospensione del presente procedimento. Manda alla Cancelleria per la notifica di copia della presente ordinanza all'interessato, al suo difensore, al Procuratore Generale presso la Corte di appello di Venezia, al Presidente del Consiglio dei ministri, per la comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica e dispone l'immediata trasmissione degli alla Corte costituzionale. Venezia, cosi' deciso il 2 aprile 2019 Il Presidente: Pavarin Il Magistrato estensore: Fiorentin