N. 94 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 giugno 2006
Ordinanza emessa il 13 giugno 2006 (pervenuta alla Corte costituzionale l'8 febbraio 2007) dalla Corte di appello di Cagliari - Sezione distaccata di Sassari, nel procedimento penale a carico di Pirrolu Pietro Antonio Processo penale - Appello - Modifiche normative - Previsione di limiti al potere d'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento nel giudizio ordinario e nel giudizio abbreviato - Disparita' di trattamento tra la parte pubblica e le parti private - Violazione del principio di parita' delle parti nel processo - Contrasto con i principi dell'obbligatorieta' dell'azione penale e della finalita' rieducativa della pena. - Legge 20 febbraio 2006, n. 46, artt. 1 (sostitutivo dell'art. 593 del codice di procedura penale), 2 (modificativo dell'art. 443 del codice di procedura penale) e 10. - Costituzione, artt. 3, 27, comma terzo, 111 e 112.(GU n.11 del 14-3-2007 )
LA CORTE DI APPELLO Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale a carico di Pirrolu Pietro Antonio, nato a Tempio Pausania il 10 novembre 1963, ivi residente frazione Nuchis, localita' Giuannettu, imputato del delitto di cui all'art. 612, commi 1 e 2 c.p. per avere mediante l'uso di un fucile subacqueo, minacciato a Lai Mario un male grave e ingiusto, tentando di colpirlo. In Torre di Vignola (Aglientu) il 16 agosto 2002; Ritenuto che, tratto al giudizio del tribunale di Tempio per rispondere del reato in rubrica, il Pirrolu venne, con sentenza del 9 febbraio 2006, mandato assolto per insussistenza del fatto. Contro questa decisione si e' appellato il p.m. presso il tribunale di Tempio chiedendo l'affermazione di responsabilita' del Pirrolu e la sua condanna; Ritenuto che, a norma dell'art. 10 legge 20 febbraio 2006, n. 46, dovrebbe dichiararsi la inammissibilita' della impugnazione proposta dal p.m. restando a questo la possibilita' di proporre ricorso per cassazione giusta il disposto del comma terzo del medesimo art. 10; Ritenuto che vi e' tuttavia motivo di dubitare della conformita' della legge anzidetta alla Costituzione e che il procuratore generale presso questo ufficio ha ritenuto ravvisabili i profili di incostituzionalita' gia' denunciati da questa Corte in casi analoghi. O s s e r v a L'art. 111 della Costituzione garantisce il principi della parita' delle parti nel processo, e questo principio, nella previsione costituzionale, non soffre di eccezioni di sorta (come invece puo' avvenire per altri principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio pure stabilito dal medesimo art. 111). L'esclusione della possibilita' che il pubblico ministero possa gravarsi contro le sentenze di proscioglimento con lo stesso mezzo riconosciuto all'imputato avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione nel sistema delle impugnazioni di una evidente irragionevole disparita' di trattamento che contrasta con il richiamato principio della parita' delle parti nello svolgimento del processo. Ad avviso di questa Corte l'enunciato ora espresso non confligge con le ripetute pronunce negative della Corte costituzionale chiamata ad esprimersi sulle limitazioni al potere d'appello del pubblico ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p., essendo le disparita' derivanti da questa disposizione ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con il ricorso al rito abbreviato e delle peculiarita' di questo. Il risultato e' quello della rapida definizione dei processi penali conseguita attraverso la decisione del processo solo sulla base del materiale probatorio raccolto dalla parte pubblica fuori del contraddittorio, e pertanto con una correlativa rinuncia dell'imputato, in vista del miglior trattamento sanzionatorio a lui riservato in caso di affermazione di responsabilita', ad intervenire nel delicato momento della formazione della prova. E tuttavia, se in un quadro siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di impugnazione del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna (e pertanto in relazione alla quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante il perdurante interesse della parte pubblica all'accertamento della verita' (e quindi della responsabilita' dell'imputato che dall'acclaramento della verita' possa risultare), come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata conservata al p.m. la facolta' di appellarsi contro le sentenze di condanna che modifichino il titolo del reato. E a proposito del generale interesse del p.m. a proporre appello contro le sentenza di proscioglimento conserva piena validita' il richiamo contenuto nel messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere la' dove si osserva che «la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento ... fa si' che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibile con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art. 11 della Costituzione». Ne' appaiono decisive le obiezioni che potrebbero farsi alla tesi qui sostenuta e secondo le quali la soppressione della facolta' d'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento risponderebbe ad esigenze di celerita' del processo, e sarebbe per altro verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o con il precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni giustamente si e' ricordato che le esigenze di celerita' non hanno impedito la conservazione della facolta' di cui all'art. 443.3 c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita' ad essere sacrificate quando, nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il processo ritornera' in primo grado con la prospettiva della celebrazione (anche) del giudizio d'appello in caso di condanna dell'imputato. Il principio di non colpevolezza implica soltanto che gli effetti pratici della condanna possano discendere solo dalla sentenza definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa l'iter per il quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il quale la colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in questo caso, un principio di lettura equivoca, posto che se si sostiene la inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna non potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad esito di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe pronunciata sulla scorta di prove che dimostrino la colpevolezza con lo stesso grado di sicurezza. E' stato peraltro espresso l'avviso che l'esclusione della appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte della accusa pubblica sia coerente all'esplicazione dei diritti della difesa: deve in proposito osservarsi che insopprimibile funzione del processo penale e' quello dell'accertamento della verita', e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei diritti della difesa da far valere tuttavia nell'ambito del processo e non gia' nel senso che il confronto fra le tesi debba essere evitato (in altri termini: deve esercitarsi la difesa nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che anche nel giudizio d'appello l'imputato debba godere del pieno dispiegamento dei diritti che la legge gli riconosce: ma non si vede in che cosa la celebrazione del secondo grado del giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa compromettere il diritto di difesa (diverso sarebbe se ci si appellasse al principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione). A tutte le notazioni sopra svolte puo' aggiungersi che il contrasto delle disposizioni denunciate rispetto all'art. 111 (ed anche, a questo punto, all'art. 3) della Costituzione apparira' ancor piu' evidente quando si osservi che nella stesura definitiva della legge 20 febbraio 2006, n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato il diritto d'appellare le sentenze di assoluzione (la genesi della locuzione del secondo periodo dell'art. 576 c.p.p. alinea nell'attuale formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata consista nell'appello, tanto piu' che non sono state dettate disposizioni sull'eventuale regime transitorio in materia di impugnazioni della parte civile). Si deve constatare pertanto che alla parte pubblica, portatrice degli interessi rilevantissimi su cui si tornera' tra breve, e' stato del tutto ingiustificatamente riservato un potere di impugnazione piu' ridotto che alle parti private e questo dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme che vengono sottoposte al giudice delle leggi, dal principio della parita' delle parti. Oltre a tutto quanto sopra enunciato, partendo dal rilievo che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono, in uno Stato di diritto, apprezzabili quanto quelli delle altre parti, compreso l'imputato (ed in realta', per quanto le ultime riforme in materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il riequilibrio della posizione dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione di questo era stata reputata sottovalente rispetto a quella degli interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al pubblico ministero il potere di appellarsi contro le sentenze di assoluzione o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa l'attuazione della ricerca della verita' e, quindi dell'istanza di giustizia propria della collettivita', istanza che e' addirittura pregiuridica, posto che su di essa si basa qualsiasi civile convivenza nella quale si voglia evitare che i consociati siano tentati di ricorrere a forme private di giustizia. Di questo primario interesse della collettivita' e' espressione la previsione dell'art. 112 della Costituzione e, in definitiva, anche quella circa l'emenda del condannato sancita dal comma terzo dell'art. 27 della stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di queste due norme si ricava che il pubblico ministero (parte pubblica, e quindi tenuta al rispetto di comportamenti ispirati a massima correttezza e moralita', oltre che onerata anche della ricerca degli elementi favorevoli all'imputato) non e' un ottuso persecutore degli incolpati, ma soggetto che persegue il compito, della cui primaria importanza si e' detto, di far si' che i devianti vengano recuperati ad una convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi attraverso i quali l'azione del pubblico ministero, nel rispetto del principio di parita' delle parti, si deve esplicare significa in definitiva legiferare in contrasto, anche, con le due previsioni costituzionali ora richiamate. La Corte, riconosciuta pertanto la non manifesta infondatezza delle sopra illustrate questioni di legittimita' costituzionale, riconosciuta la impossibilita' di addivenire alla decisione del processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme denunciate impedirebbe infatti la definizione del processo con il possibile ribaltamento, quanto agli aspetti penalistici, della decisione di primo grado e la condanna dell'imputato), dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sospendendo il giudizio in corso.
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87, dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di legittimita' costituzionale esposte in parte motiva, e, sospeso il processo in corso, ordina l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale perche' giudichi: della questione di legittimita' costituzionale circa il contrasto fra gli artt. 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e gli artt. 3 e 111 della Costituzione; della questione di legittimita' costituzionale circa il contrasto fra gli artt. 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e gli artt. 27, comma terzo e 112 della Costituzione. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza. Sassari, addi' 12 giugno 2006 Il Presidente estensore: Tabasso 07C0269