N. 43 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 febbraio 2018

Ordinanza del 14 febbraio 2018 della Corte di assise  di  Milano  nel
procedimento penale a carico di C.M.. 
 
Reati e pene - Istigazione o aiuto al suicidio - Incriminazione delle
  condotte di aiuto al  suicidio  in  alternativa  alle  condotte  di
  istigazione - Trattamento sanzionatorio. 
- Codice penale, art. 580. 
(GU n.11 del 14-3-2018 )
 
                    LA I CORTE D'ASSISE DI MILANO 
 
    composta dagli illustrissimi signori: 
        dott. Ilio Mannucci Pacini, Presidente; 
        dott.ssa Ilaria Simi, giudice; 
        sig.ra Lucia Maltese, giud. pop.; 
        sig.ra Anna Carriero, giud. pop.; 
        sig.ra Daniela Pallari, giud. pop.; 
        sig. Mauro Vaghi, giud. pop.; 
        sig. Viviano Maffezzoli, giud. pop.; 
        sig.ra Cecilia Straziota, giud. pop.; 
    ha pronunciato la seguente, ordinanza nella causa penale a carico
di C. M., n. a ... il ... el. dom.to c/o avv. Massimo  Rossi,  piazza
Sant'Ambrogio, 16 - Milano, libero - presente. 
    Difensori: avv. Massimo Rossi, piazza Sant'Ambrogio, 16 - Milano,
avv. Francesco Di Paola, via Mezzacapo, 221/c Sala Consilina; 
    Imputato  del  reato  p.  e  p.  dall'art.  580  c.p.,  per  aver
rafforzato il proposito suicidiario di A. F. (detto F.),  affetto  da
tetraplegia e cecita' a seguito di incidente stradale avvenuto il  13
giugno 2014, prospettandogli la possibilita' di  ottenere  assistenza
al suicidio presso la sede dell'associazione Dignitas, a Pfaffikon in
Svizzera, e attivandosi per mettere in contatto i  famigliari  di  A.
con la Dignitas fornendo loro materiale informativo; inoltre per aver
agevolato il suicidio  dell'A.,  trasportandolo  in  auto  presso  la
Dignitas in data 25 febbraio 2017 dove il suicidio si  verificava  il
27 febbraio 2017; 
    Conclusioni: 
        dei Pubblici Ministeri  dott.ssa  Tiziana  Siciliano  e  Sara
Arduini: 
          assoluzione perche' il fatto non sussiste; 
          in sub. sollevare questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 580 c.p., per violazione degli artt. 2, 3, 13, 32  c.  2  e
117 Cost. quest'ultimo in rel. agli artt. 2, 3 e 8 CEDU. 
    In caso di condanna chiedono  la  trasmissione  degli  atti  alla
Procura della Repubblica  perche'  proceda  nei  confronti  di  altri
soggetti che avrebbero agevolato il suicidio di F. A.; 
        dei difensori avv.ti Massimo Rossi e Francesco Di Paola: 
          assoluzione perche' il fatto non sussiste; 
          in sub. sollevare questione di legittimita'  costituzionale
dell'art. 580 c.p.; 
          in sub. concedere le attenuanti di cui agli artt. 62 n. 1 e
62 bis c.p. con condanna a una pena adeguata al caso concreto. 
    La Corte d'assise di Milano,  all'esito  dell'odierna  camera  di
consiglio, ha pronunciato la seguente ordinanza. 
    La  Corte  ritiene  di  sollevare   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 580 c.p. nella parte  in  cui  incrimina  le
condotte di aiuto al suicidio a prescindere dal loro contributo  alla
determinazione  o  al  rafforzamento   del   proposito   suicidiario,
ritenendo tale incriminazione in contrasto e violazione dei  principi
sanciti agli artt. 3, 13, II comma, 25, II comma, 27, III comma della
Costituzione, che individuano la ragionevolezza della sanzione penale
in funzione dell'offensivita' della condotta accertata. Infatti, deve
ritenersi che in forza dei principi costituzionali dettati agli artt.
2, 13, I comma della Costituzione ed all'art. 117 della  Costituzione
con riferimento agli artt.  2  e  8  della  Convenzione  Europea  dei
Diritti dell'Uomo, all'individuo  sia  riconosciuta  la  liberta'  di
decidere quando e come morire e che di conseguenza solo le azioni che
pregiudichino la liberta'  della  sua  decisione  possano  costituire
offesa al bene tutelato dalla norma in esame. 
Rilevanza della questione. 
    La questione e' rilevante per le seguenti ragioni. 
    A  M.  C.,  a   seguito   dell'ordinanza   d'imputazione   coatta
pronunciata dal G.I.P. di Milano in data 10  luglio  2017,  e'  stato
contestato dalla Procura della Repubblica di Milano il reato  di  cui
all'art. 580 c.p. per aver «rafforzato» il proposito  suicidiario  di
F. A. (detto F.), realizzato attraverso diverse condotte: 
        prospettandogli la possibilita'  di  ottenere  assistenza  al
suicidio  presso  la  sede  dell'associazione  Dignitas,  sita  nella
cittadina di Pfaffikon, in Svizzera; 
        attivandosi per mettere in contatto i familiari di A. con  la
suindicata associazione e fornendo loro materiale informativo. 
    Inoltre, gli e' stato contestato di avere «agevolato» il suicidio
di A., avendolo il 25 febbraio 2017 trasportato  in  auto  da  Milano
(luogo ove A. viveva) a  Pfaffikon,  presso  la  sede  clinica  della
Dignitas, dove il suicidio si e' verificato il 27 febbraio 2017. 
    Dall'istruttoria svolta dinanzi a questa Corte e' emerso  che  M.
C. ha certamente realizzato la condotta di «agevolazione» contestata,
avendo aiutato F. A. a recarsi in Svizzera presso la Dignitas, ma  e'
stato escluso che l'imputato abbia compiuto alcuna delle  condotte  a
lui ascritte di rafforzamento della decisione suicidiaria. 
    V. I., fidanzata di A., C. C., madre dello stesso, e  C.  L.  V.,
suo medico curante, hanno testimoniato che  la  decisione  di  F.  di
rivolgersi alla citata associazione svizzera era intervenuta in  modo
autonomo ed in epoca antecedente ai suoi contatti con C. 
    Piu' in particolare i testimoni  hanno  riferito  che  F.  A.,  a
seguito di un incidente stradale avvenuto  il  13  giugno  2014,  era
rimasto tetraplegico e affetto da cecita' bilaterale  corticale  (che
significa  permanente).   Non   era   autonomo   nella   respirazione
(necessitando,  seppur  non  continuativamente,  dell'ausilio  di  un
respiratore e di periodiche aspirazioni del muco), nell'alimentazione
(era gravemente disfagico con deficit sia della  fase  orale  sia  di
quella degluttitoria, e necessitava di nutrizione  intraparietale)  e
nell'evacuazione (1) . 
    Egli soffriva di  ricorrenti  contrazioni  e  spasmi  (che,  come
illustrato  dal  consulente   del   P.M.,   l'anestesista-rianimatore
dott.ssa M. C. M., erano incoercibili e  gli  provocavano  sofferenze
che non potevano essere completamente lenite  farmacologicamente,  se
non mediante sedazione profonda), ma aveva preservato le sue funzioni
intellettive. 
    Dopo lunghi e ripetuti ricoveri,  cure  e  infruttuosi  tentativi
riabilitativi (le sedute di fisioterapia dopo  i  primi  tempi  erano
proseguite solo a scopo palliativo), nel dicembre 2015 A.  era  stato
accompagnato dalla fidanzata in India per tentare  di  migliorare  le
sue condizioni con il trapianto di cellule  staminali.  Tale  terapia
gli aveva procurato un beneficio molto limitato e solo temporaneo. 
    L'insuccesso di questo  tentativo  e  l'acquisita  consapevolezza
dell'inesistenza di cure per la sua malattia avevano determinato A. a
decidere di porre termine alla sua vita. 
    Nel marzo/aprile 2016 A.  aveva  comunicato  ai  suoi  cari  (che
continuavano ad  assisterlo  a  casa,  prestandogli  ogni  necessaria
assistenza materiale, psicologica, relazionale) di aver deciso di non
continuare la propria vita nelle condizioni  di  sofferenza  continua
sopra descritte, e aveva loro espresso la ferma volonta'  di  morire.
V. I. e la madre avevano tentato di dissuaderlo  da  tale  decisione,
chiedendogli  di   rimandare   l'attivazione   delle   pratiche   per
realizzarla. F., pero', per dimostrare la sua  determinazione,  aveva
rifiutato per alcuni giorni di essere  alimentato  e  di  parlare  (i
testi hanno tutti  riferito  dello  «sciopero»  dell'alimentazione  e
della parola adottato  da  F.  per  indurre  i  propri  congiunti  ad
assecondare la propria irremovibile decisione). 
    Proprio a seguito della decisione assunta, A. aveva anche chiesto
a J. E. M., la persona che affiancava la madre  e  la  fidanzata  nel
provvedere alle sue cure, di «lasciarlo morire»,  in  particolare  di
non provvedere ad aiutarlo  quando  aveva  le  sue  ricorrenti  crisi
respiratorie (crisi particolarmente violente che vennero  documentate
nel filmato in cui Antoniani manifesto' pubblicamente la sua volonta'
di morire) o comunque di commettere «qualche sbaglio» nell'assistenza
medica. E. M. ha riferito  in  dibattimento  di  avere  rifiutato  di
aderire a tale richiesta. 
    Agli inizi di maggio 2016, reperite con l'ausilio  di  V.  I.  le
informazioni sulle strutture svizzere ove era praticata  l'assistenza
al suicidio, sempre per il tramite della fidanzata, F.  contatto'  in
Svizzera alcune di quelle organizzazioni, dapprima la Exit e  poi  la
Dignitas.  In  quel  periodo  contatto'  anche  l'Associazione   Luca
Coscioni, che sapeva svolgere attivita' informativa  sulle  decisioni
del fine vita. Dopo aver pagato la quota associativa  alla  Dignitas,
A. entro' in contatto diretto con M. C. 
    Nello specifico di tale  rapporto,  dai  documenti  acquisiti  al
fascicolo dibattimentale risulta che il 31 maggio  2016  F.  si  fece
rilasciare dal medico curante un certificato che  descriveva  le  sue
condizioni di salute e attestava la sua piena capacita' di  intendere
e volere. In quella stessa data V. I. invio' una mail a M.  C.  nella
quale, dopo essersi presentata come fidanzata di E. A., ne illustrava
le condizioni di salute e riferiva che lo stesso aveva chiesto a  lei
e a sua madre di occuparsi delle pratiche per il suicidio  assistito.
Affermava quindi che  pur  avendo  gia'  preso  contatti  con  alcune
strutture, voleva ora potersi confrontare per telefono  con  lui  per
«avere la possibilita' di esporle alcune domande per serenita' di  F.
e di sua madre». 
    Alcuni giorni dopo C. entro' in contatto con F. A. e nel corso di
alcuni successivi incontri  gli  espose  le  possibilita'  di  essere
sottoposto in Italia alla sedazione profonda, con interruzione  della
respirazione  e  dell'alimentazione  artificiale,  lasciando  che  la
malattia facesse il suo corso. Di fronte alla ferma richiesta  di  A.
di recarsi in Svizzera per porre fine alla sua vita presso una  delle
strutture  che  praticavano  l'assistenza  al  suicidio,   l'imputato
accetto' di accompagnarlo. 
    F. , tramite la fidanzata, stava intanto continuando a seguire le
pratiche per ottenere il «benestare» al suicidio assistito  da  parte
della Dignitas (definito «semaforo verde»),  presupposto  perche'  la
struttura fissasse la data nella quale quella decisione sarebbe stata
attuata, e in quei mesi si lamento' frequentemente  del  lungo  tempo
necessario ad ottenerli. 
    La Dignitas, infine, a seguito della documentazione trasmessa dai
familiari di A., rilascio' il benestare e fisso' per il  27  febbraio
2017 il giorno in cui avrebbe fornito a F. il farmaco per porre  fine
alla sua vita. In quei mesi, successivi alla fissazione  della  data,
A. ribadi' sempre la sua scelta, che comunico' dapprima agli amici  e
poi pubblicamente (si veda il filmato gia' menzionato e l'appello  al
Presidente della  Repubblica),  manifestando  di  viverla  come  «una
liberazione». 
    Due giorni  prima  del  27  febbraio  A.  venne  accompagnato  in
Svizzera a bordo dell'autovettura predisposta per  il  suo  trasporto
con la carrozzina, con alla guida C., e, nella stessa  vettura  o  in
altra di accompagnamento, la  madre,  la  fidanzata  e  la  madre  di
quest'ultima. In Svizzera venne  preso  in  consegna  dal  personale,
dell'Associazione Dignitas e vennero  nuovamente  verificate  le  sue
condizioni di salute, il suo consenso, la possibilita' o meno per lui
di assumere in via autonoma il farmaco letale (pentobarbital sodium). 
    In quegli ultimi giorni i suoi  familiari  e  C.  continuarono  a
stare vicino a F. ed a fargli presente,  ciascuno  di  loro,  che  se
avesse voluto avrebbe potuto decidere di non attuare il proposito  di
suicidarsi e che sarebbe stato da loro riportato in Italia. 
    Dall'istruttoria qui sinteticamente riassunta  e'  emerso  dunque
che C. conobbe A. e  intervenne  per  discutere  con  lui  della  sua
decisione dopo che lo stesso, in piena  autonomia,  con  il  costante
sostegno dei suoi cari, dopo aver verificato  con  numerosi  consulti
medici l'impossibilita' di cura  della  sua  malattia,  aveva  deciso
(manifestando tenacemente la sua ferrea intenzione,  tanto  da  farla
ritenere anche ai suoi familiari irrevocabile) di' porre termine alle
sue sofferenze incoercibili e di porre fine alla sua vita. 
    E' stato altresi'  accertato  che  l'imputato  non  indirizzo'  o
condiziono' la decisione di F. di procedere in  Svizzera  al  proprio
suicidio attraverso le modalita' consentite in quello  Stato,  ma  al
contrario  gli  prospetto'  la  possibilita'  di  farlo   in   Italia
interrompendo le terapie che lo tenevano in vita.  Anche  durante  il
soggiorno in Svizzera,  C.  verifico'  fino  all'ultimo  che  A.  non
volesse desistere dal progetto di suicidio, assicurandogli che in tal
caso lo avrebbe riaccompagnato in Italia. 
    Per  gli  accertamenti  svolti  in  dibattimento,   deve   quindi
concludersi che la condotta di M.  C.  non  ha  inciso  sul  processo
deliberativo di F. A. in relazione alla decisione di porre fine  alla
propria  vita   e,   pertanto,   l'imputato   deve   essere   assolto
dall'addebito di averne rafforzato il proposito di suicidio. 
    E' emerso d'altro canto che C. ha provveduto ad  accompagnare  F.
in Svizzera presso la Dignitas nella consapevolezza di portarlo  dove
avrebbe realizzato il suo progetto suicidiario, che e' poi  avvenuto,
per opera dello  stesso  F.,  con  l'ausilio  degli  operatori  della
Dignitas,  in  conformita'  alla  normativa  svizzera.  La   condotta
dell'imputato e' stata condizione per il realizzarsi del suicidio  e,
di  conseguenza,  secondo  l'interpretazione   dell'art.   580   c.p.
sostenuta dal diritto vivente, tale condotta  risulterebbe  per  cio'
solo integrare l'agevolazione sanzionata da detta disposizione. 
    Ad oggi  l'unica  sentenza  della  Corte  di  cassazione  che  ha
provveduto  a  definire  le  condotte  di  agevolazione   incriminate
dall'art. 580 c.p., ha sottolineato che le stesse sono state previste
come alternative a quelle di istigazione e per cio' sono  punibili  a
prescindere dalla ricaduta sul processo  deliberativo  dell'aspirante
suicida (2) . 
    L'interpretazione  proposta  dalla  Corte  di  cassazione   nella
pronuncia appena citata appare conseguenza della  considerazione  del
suicidio come fatto riprovevole  e  dell'individuazione  della  ratio
della  norma  nella  tutela  «del  bene  supremo  della  vita».  Tali
considerazioni, peraltro, sono ancora diffuse nella giurisprudenza di
legittimita'. Infatti, anche in una piu' recente sentenza della Corte
di cassazione e' stato affermato che «il suicidio,  pur  non  essendo
punito in se' nel vigente ordinamento penale a titolo  di  tentativo,
costituisce pur sempre una scelta moralmente non  condivisibile,  non
giustificabile  ed  avversata  dalla   stragrande   maggioranza   dei
consociati,  a  prescindere  dalle  loro  convinzioni   religiose   e
politiche, siccome contraria al comune modo  di  sentire,  in  quanto
negatrice del principio fondamentale su cui si fonda  ogni  comunita'
organizzata e costituito dal rispetto e dalla promozione  della  vita
in ogni sua manifestazione»  (3) . Ed ancora la Corte di  cassazione,
nella pronuncia sul caso  Englaro   (4)  ,  ha  sostenuto  che  dalla
Costituzione non deriva  «il  diritto  a  morire»,  la  facolta'  «di
scegliere  la  morte  piuttosto  che   la   vita»,   confermando   un
orientamento  che,  ad  avviso  di  questa  Corte  d'assise,  risulta
contrario  ai  principi   di   liberta'   e   di   autodeterminazione
dell'individuo sanciti dalla Costituzione e dalla Convenzione Europea
dei Diritti  dell'Uomo,  che  sono  stati  di  recente  richiamati  e
declinati nella legge n. 219/2017 sul fine vita. 
    L'interpretazione dell'art. 580 c.p. che  risulta  sostenuta  dal
diritto vivente, unitamente all'importanza  dei  diritti  di  cui  si
tratta,   rende   necessario,   dunque,   il   ricorso   alla   Corte
costituzionale alla quale e'  possibile  rivolgersi  «allorquando  il
giudice    remittente    ha    l'alternativa    di    adeguarsi    ad
un'interpretazione che non condivide  o  assumere  una  pronuncia  in
contrasto, probabilmente destinata ad essere riformata» (5) . 
L'interpretazione dell'art. 580 cp secondo il «diritto vivente». 
    L'art. 580 c.p. sanziona chi  sia  intervenuto  nel  processo  di
formazione della decisione suicidiaria (nella forma dell'istigazione)
e chi abbia contribuito alla realizzazione  del  suicidio  sul  piano
materiale (l'agevolazione o aiuto). L'istigazione  comprende  sia  la
condotta di chi determini altri al suicidio, facendogli  assumere  un
progetto e una decisione che prima  non  aveva,  sia  quella  di  chi
rafforzi il proposito ancora non sicuro, non definito  dell'aspirante
suicida. L'aiuto e' integrato dalle condotte di chi  offra  «in  ogni
modo» un'agevolazione alla  realizzazione  della  decisione  di  auto
sopprimersi  dell'aspirante  suicida.  In  entrambe  le  ipotesi,  il
suicidio deve essere  in  rapporto  di  derivazione  causale  con  la
condotta dell'agente, che non  e'  perseguibile  se  il  suicidio  si
verifica indipendentemente dal suo contributo.  Dal  punto  di  vista
soggettivo occorre il dolo generico. 
    La Corte di cassazione, nella prima delle pronunce sopra  citate 
(6) ha affermato che le condotte definite nella norma  sono  previste
in  via  alternativa  e   che   pertanto   integra   la   fattispecie
incriminatrice qualsiasi contributo materiale al suicidio, senza  che
debba avere anche  una  ricaduta  psicologica  sul  soggetto  passivo
alterando il suo processo deliberativo. 
    Per questo motivo la Corte di cassazione ha annullato la sentenza
della Corte di assise di Messina in cui era  stato  affermato  invece
che l'art. 580 c.p. punisce la  condotta  agevolatrice  del  suicidio
soltanto quando questa implica anche un  rafforzamento  del  progetto
suicidiario, ritenendo che in caso  contrario  l'azione  non  sarebbe
«idonea a ledere il bene giuridico tutelato» («nell'ipotesi di doppio
suicidio,  ove  uno  dei  partecipanti  sia  morto  e   l'altro   sia
sopravvissuto, quest'ultimo non e' punibile ex art. 580 cp, quando il
suicida  si  sia  autonomamente  determinato,  senza  essere  da  lui
minimamente influenzato, giacche' anche  l'agevolazione  al  suicidio
sul piano soltanto materiale va ricondotta al fenomeno istigativo  ed
una interpretazione della norme conforme  a  Costituzione  impone  di
circoscrivere le condotte punibili a quelle nelle quali l'aiuto abbia
esercitato un'apprezzabile influenza  nel  processo  formativo  della
volonta'  della  vittima,  che  ha   trovato   nella   collaborazione
dell'estraneo incentivo e stimolo a togliersi la vita»  (7) ). 
    La Corte di cassazione per  contro  ha  sostenuto  non  solo  che
l'incriminazione della condotta di  favoreggiamento  prescinde  dalla
verifica della sua influenza sulla decisione  suicidiaria,  ma  anche
che la nozione di aiuto sanzionata dalla norma in esame  deve  essere
intesa nella forma piu' ampia,  comprendendo  «qualsiasi»  contributo
materiale al progetto suicidiario («La legge, nel prevedere, all'art.
580 c.p.,  tre  forme  di  realizzazione  della  condotta  penalmente
illecita ... ha voluto ... punire sia la condotta  di  chi  determini
altri al suicidio o ne rafforzi il proposito, sia qualsiasi forma  di
aiuto o di agevolazione di altri del proposito di togliersi la  vita,
agevolazione che puo' realizzarsi  in  qualsiasi  modo:  ad  esempio,
fornendo i mezzi per  il  suicidio,  offrendo  informazioni  sull'uso
degli stessi, rimuovendo ostacoli o difficolta'  che  si  frappongono
alla  realizzazione  del  proposito  ecc.,  o  anche   omettendo   di
intervenire,  qualora  si  abbia  l'obbligo  di  impedire   l'evento.
L'ipotesi  della  agevolazione  al  suicidio   prescinde   totalmente
dall'esistenza di  qualsiasi  intenzione,  manifesta  o  latente,  di
suscitare o rafforzare il proposito suicida altrui. Anzi,  presuppone
che l'intenzione  di  auto  sopprimersi  sia  stata  autonomamente  e
liberamente presa dalla vittima, altrimenti vengono  in  applicazione
le altre ipotesi previste dall'art.  580  c.p.  Perche'  si  realizzi
l'agevolazione sanzionata dalla norma «e'  sufficiente  che  l'agente
abbia  posto  in  essere,  volontariamente  e   consapevolmente,   un
qualsiasi comportamento che abbia reso piu' agevole la  realizzazione
del suicidio»). 
    L'interpretazione della norma proposta dalla Corte di  cassazione
e' stata sostanzialmente disattesa dal Tribunale di  Vicenza   (8)  ,
che, pur  non  contestandola  apertamente,  anzi  richiamandosi  alla
stessa, ha ritenuto che, alla luce del tenore letterale della  norma,
l'aiuto al suicidio, definito come la condotta  di  «chi  ne  agevola
l'esecuzione»,  fosse  integrato  solo   dal   contributo   materiale
direttamente e funzionalmente incidente sulla «esecuzione»  dell'atto
anticonservativo. 
    Piu' in particolare  il  G.U.P.  ha  disatteso  la  questione  di
costituzionalita' della norma prospettata dalla difesa  dell'imputato
con riferimento  all'art.  3  della  Costituzione  in  considerazione
dell'identico trattamento sanzionatorio previsto per tutte le diverse
condotte individuate dall'art. 580 c.p., affermando  che  l'effettivo
disvalore della condotta di agevolazione al suicidio poteva cogliersi
«selezionando le condotte punite  alla  luce  del  dettato  letterale
della norma, laddove la condotta tipica stigmatizzata e' precisamente
indicata come di agevolazione  dell'esecuzione  del  suicidio».  Quel
giudice  ha  ritenuto,  quindi,  che  le  condotte  di'  agevolazione
incriminate  fossero  solo  quelle  «direttamente  e  strumentalmente
connesse all'attuazione materiale  del  suicidio»,  condotte  che  si
pongono «essenzialmente come condizione di facilitazione del  momento
esecutivo del suicidio stesso». Di conseguenza ha  affermato  che  la
condotta dell'imputato che aveva accompagnato l'aspirante suicida  in
Svizzera, non integrava «agevolazione» dell'esecuzione del  suicidio,
dovendosi riguardare solo come «agevolatrice della mera potenzialita'
di attuazione del programma ... di  auto  sopprimersi,  senza  alcuna
diretta connessione, se non sul  piano  soltanto  motivazionale,  con
l'esecuzione del suicidio, la quale costitui' (e va riguardata  come)
una fase finale a se stante». 
    La   Corte   di   appello   di   Venezia     (9)    ha    aderito
all'interpretazione della norma sostenuta dal G.U.P.,  affermando  in
primo  luogo  che  i   limiti   individuati   dall'ordinamento   alla
possibilita' di interferire nelle scelte  individuali  relative  alla
salute (art. 32 Cost.) e nelle  fondamentali  scelte  di  vita  delle
persone, conducevano  a  respingere  «qualsiasi  ipotesi  di  lettura
estensiva della norma incriminatrice in questione». Ha soggiunto  che
il  preciso  dettato  letterale  della  norma  imponeva  di  ritenere
sanzionabili solo le condotte che, a prescindere dal  dato  meramente
temporale, risultassero comunque  «in  necessaria  relazione  con  il
momento esecutivo del suicidio, ovvero direttamente e strumentalmente
connesse a tale atto». Ha  ritenuto  pertanto  che  il  comportamento
dell'imputato,  che  si  era  limitato  ad  accompagnare  l'aspirante
suicida in  Svizzera,  fosse  da  considerare  essenzialmente  neutro
(anche «perche' del tutto fungibile», dal momento che  la  donna  era
nelle condizioni per procedere da sola al viaggio che l'aveva portata
presso l'associazione che l'aveva assistita mentre metteva in atto la
sua decisione di porre termine alla sua vita). 
    Sia l'interpretazione proposta dalla Corte di assise di  Messina,
sia quella adottata dal G.U.P. di Vicenza e dalla Corte di appello di
Venezia,   rivelano   l'esigenza   di   evitare    i    profili    di
incostituzionalita'  che  l'interpretazione  ampia  e  indiscriminata
delle condotte costitutive l'aiuto al suicidio incriminato  sostenuta
dalla Corte di cassazione solleva sotto il profilo dell'offensivita'. 
Il bene giuridico tutelato dall'art. 580 cp. 
    Le norme attualmente in vigore sull'omicidio del  consenziente  e
sull'istigazione e aiuto al suicidio sono state introdotte  nel  1930
con il codice Rocco. 
    All'origine dell'incriminazione prevista dall'art.  580  c.p.  vi
era stata la  considerazione  che  il  suicidio  fosse  una  condotta
connotata da elementi di  disvalore  perche'  contraria  ai  principi
fondamentali della societa', quello della sacralita'/indisponibilita'
della vita  in  correlazione  agli  obblighi  sociali  dell'individuo
ritenuti preminenti nel corso del regime fascista  (10)  .  Solo  per
ragioni di politica criminale il legislatore aveva ritenuto  inutile,
se non dannoso punire, chi avesse  tentato  di  realizzarlo   (11)  .
Peraltro, il concorso nell'azione della volonta' del soggetto passivo
aveva fatto ritenere meno  grave  la  condotta  incriminata  rispetto
all'omicidio sotto  il  profilo  dell'intensita'  del  dolo  e  della
personalita' del reo. 
    Allo stato, pero', la disciplina dettata dal  Codice  Rocco  deve
essere interpretata alla luce dei  nuovi  principi  introdotti  dalla
Costituzione, che hanno comportato  una  diversa  considerazione  del
diritto  alla  vita,  che  si  evince  dal  complesso   del   dettato
costituzionale, primariamente dal principio personalistico  enunciato
all'art. 2 e da quello dell'inviolabilita' della liberta' individuale
enunciato all'art. 13. 
    Il diritto alla vita non e' stato  direttamente  enunciato  dalla
Carta costituzionale, ma costituisce il presupposto di  ogni  diritto
riconosciuto  all'individuo  e  si   definisce   attraverso   questi.
Principio cardine della Costituzione e'  quello  personalistico,  che
pone «l'uomo» e non lo Stato al centro della vita sociale  e  afferma
«l'inviolabilita' dei suoi diritti» come  valore  preminente.  Seppur
sull'individuo  incombano   significativi   obblighi   (obblighi   di
solidarieta' politica, economica e sociale come definiti  all'art.  2
Cost.), proprio per  la  preminenza  dell'individuo  nella  struttura
sociale del Paese,  la  vita  umana  non  puo'  essere  concepita  in
funzione di un fine eteronomo rispetto al  suo  titolare.  A  ciascun
individuo e' inoltre  garantita  la  liberta'  personale  rispetto  a
interferenze arbitrarie dello Stato  (art.  13  Cost.)  e  da  questo
diritto primario deriva, per quanto rileva ai fini del decidere,  «il
potere della persona di disporre del proprio corpo»  (12) e  che  «la
persona non possa essere costretta a subire un trattamento  sanitario
non voluto in assenza di una norma che  esplicitamente  lo  imponga» 
(13) . 
    Da questi stessi principi costituzionali deriva la  liberta'  per
l'individuo di decidere sulla propria vita ancorche' da cio'  dipenda
la sua morte. Che il diritto alla liberta' non  trovi  un  limite  in
funzione di considerazioni eteronome rispetto alla vita  (a  esempio,
in funzione di obblighi solidaristici),  si  evince  dall'assenza  di
divieti all'esercizio di attivita' per se' pericolose e  dall'assenza
nella nostra Carta costituzionale dell'obbligo  di  curarsi   (14)  .
L'obbligo a sottoporsi a una  determinata  terapia  puo'  intervenire
solo per legge e solo ai fini di evitare di creare pericolo  per  gli
altri  (15) . Solo in questi limiti puo' essere compresso il  diritto
alla liberta' dell'individuo a decidere sulla propria vita. 
    Il  diritto  alla  liberta'  e   all'autodeterminazione,   che e'
declinato nell'art. 32 della Costituzione con riferimento  ai  limiti
dei doveri/poteri d'intervento dello  Stato  a  tutela  della  salute
delle persone, e' stato affermato in modo chiaro dalla giurisprudenza
costituzionale  e  di  legittimita'   in   materia   di   trattamenti
terapeutici, riconoscendo in modo sempre piu' deciso il  diritto  del
paziente  all'autodeterminazione  nell'individuare  le  cure  a   cui
sottoporsi e l'obbligo di  rispettarne  la  decisione,  anche  se  da
questo possa derivare la sua morte. 
    Per quanto riguarda la giurisprudenza di merito, puo' richiamarsi
la  nota  sentenza  pronunciata  nel  caso  Welby   (16)  ,  in   cui
correttamente si e' osservato che «quando si riconosce l'esistenza di
un   diritto   di   rango    costituzionale,    quale    e'    quello
all'autodeterminazione  individuale  e  consapevole  in  materia   di
trattamento sanitario, non e' poi consentito lasciarlo senza  tutela,
rilevandone, in assenza di  una  normativa  secondaria  di  specifico
riconoscimento,  la  sua  concreta  inattuabilita'  sulla  scorta  di
disposizioni normative di  fante  gerarchica  inferiore  a  contenuto
contrario, quali gli artt. 5 c.c., che vieta gli atti di disposizione
del proprio corpo tali da determinare un danno permanente e 575, 576,
577, n3, 579 e 580 cp, che puniscono in  particolare  l'omicidio  del
consenziente e l'aiuto al suicidio, nonche' quali gli artt. 35  e  37
del codice di deontologia medica ...  .  L'affermazione  nella  Carta
costituzionale del principio che sancisce l'esclusione della coazione
in tema di  trattamenti  sanitari  (e  quindi  della  necessita'  del
consenso   del   malato)   ha   come   necessaria   consecuzione   il
riconoscimento anche  della  facolta'  di  rifiutare  le  cure  o  di
interromperle,  che  a  sua  volta,  non   puo'   voler   significare
l'implicito riconoscimento di un diritto al suicidio, bensi' soltanto
l'inesistenza di un obbligo a curarsi a carico del soggetto.  Infatti
la salute dei cittadini non puo' essere  oggetto  di  imposizione  da
parte  dello  Stato,  tranne  nei  casi  in  cui  l'imposizione   del
trattamento sanitario e' determinato per legge, in conseguenza  della
salvaguardia della salute collettiva e della salute individuale, come
avviene ad esempio, nel  caso  delle  vaccinazioni  obbligatorie.  Il
diritto al rifiuto dei trattamenti  sanitari  fa  parte  dei  diritti
inviolabili della persona, di cui all'art. 32 della  Costituzione,  e
si collega strettamente al principio di liberta' di  autodeterminarsi
riconosciuto all'individuo dall'art. 13 della Costituzione». 
    Il giudice ha dunque individuato correttamente nell'art. 13 della
Costituzione il fondamento del diritto della persona a decidere della
propria vita e del limite al diritto dello Stato a intervenire  sulla
salute  (di  cui  e'  espressione  l'art.  32   Cost).   Ha   inoltre
sottolineato con chiarezza che detto diritto sussiste  a  prescindere
«da una normativa secondaria di specifico riconoscimento». 
    Non si puo' peraltro  omettere  di  riferire  che,  nella  citata
sentenza, il giudice ha rimarcato che dai principi costituzionali non
deriva «un implicito riconoscimento del diritto al  suicidio»  e  che
«in ogni caso l'azione di interruzione di una terapia non puo' essere
concettualmente assimilata all'espletamento di un trattamento diretto
a provocare la morte del paziente, poiche' la prima costituisce  mera
cessazione di una terapia precedentemente  somministrata,  mentre  il
secondo  e'  l'attivazione  ex  novo  di  un  intervento  terapeutico
finalizzato al decesso del paziente». 
    Qualche mese dopo quella sentenza di merito,  pronunciando  nella
vicenda Englaro, la Corte  di  cassazione   (17)  ha  riaffermato  il
diritto  «all'autodeterminazione  terapeutica»  ed  «il  diritto   di
lasciarsi morire», come correlati  al  principio  personalistico  che
anima la Costituzione. 
    La Corte di cassazione ha affermato che «il diritto alla  salute,
come tutti i diritti di liberta', implica la tutela del suo  risvolto
negativo: il diritto di perdere  la  salute,  di  ammalarsi,  di  non
curarsi, di vivere le fasi finali  della  propria  esistenza  secondo
canoni di dignita' propri  dell'interessato,  finanche  di  lasciarsi
morire». 
    Quindi, piu' nello specifico, ha rilevato che  «...  il  consenso
informato ha come correlato la facolta' non solo di scegliere tra  le
diverse possibilita' di trattamento medico, ma anche di eventualmente
rifiutare la terapia, di decidere consapevolmente  di  interromperla,
in tutte le fasi della vita,  anche  in  quella  terminale.  Cio'  e'
conforme  al   principio   personalistico   che   anima   la   nostra
Costituzione, la quale vede nella persona umana un  valore  etico  in
se', vieta ogni strumentalizzazione della  medesima  per  alcun  fine
eteronomo ed  assorbente,  concepisce  l'intervento  solidaristico  e
sociale in funzione della persona e del suo sviluppo e non viceversa,
e  guarda  al  limite -  del  rispetto  della  persona   umana -   in
riferimento al singolo individuo, in qualsiasi momento della sua vita
e nell'integralita' della sua persona, in considerazione  del  fascio
di  convinzioni  etiche,  religiose,  culturali  e  filosofiche   che
orientano le sue determinazioni volitive. 
    Deve escludersi che il diritto all'autodeterminazione terapeutica
del paziente  incontri  un  limite  allorche'  da  esso  consegue  il
sacrificio del bene della vita. Benche' sia stato talora  prospettato
un obbligo per l'individuo di attivarsi  a  vantaggio  della  propria
salute  o  un  divieto  di  rifiutare  trattamenti  o   di   omettere
comportamenti ritenuti vantaggiosi o  addirittura  necessari  per  il
mantenimento o il ristabilimento di essa, il Collegio ritiene che  la
salute  dell'individuo  non  possa  essere  oggetto  di   imposizione
autoritativo-coattiva. Di fronte al rifiuto della cura da  parte  del
diretto  interessato,  c'e'  spazio  ....  per  una  strategia  della
persuasione, perche' il compito dell'ordinamento e' anche  quello  di
offrire  il  supporto  della  massima  solidarieta'  concreta   nelle
situazioni di debolezza e sofferenza, e c'e', prima ancora, il dovere
di verificare che quel rifiuto sia informato, autentico  ed  attuale.
Ma allorche' il rifiuto abbia tali connotati non c'e' possibilita' di
disattenderlo in nome di un  dovere  di  curarsi  come  principio  di
ordine pubblico ... lo si ricava dall'art. 32 della Costituzione, per
il quale i  trattamenti  sanitari  sono  obbligatori  nei  soli  casi
espressamente prevista dalla legge, sempre che il  provvedimento  che
li impone sia volto ad impedire  che  la  salute  del  singolo  possa
arrecare danno alla salute degli altri e  che  l'intervento  previsto
non danneggi, ma sia anzi utile alla salute di chi vi  e'  sottoposto
(Corte costituz., sentenze n. 258 del 1994 e n. 118 del 1996). 
    Soltanto  in  questi  limiti   e'   costituzionalmente   corretto
ammettere limitazioni al diritto del singolo alla salute,  il  quale,
come tutti i diritti di liberta',  implica  la  tutela  del  risvolto
negativo: il diritto di perdere la  salute  ...  di  vivere  le  fasi
finali della propria  esistenza  secondo  canoni  di  dignita'  umani
propri dell'interessato, finanche di lasciarsi morire. 
    Il rifiuto delle terapie medico-chirurgiche, anche quando conduce
alla morte, non puo' essere scambiato per  un'ipotesi  di  eutanasia,
ossia per un comportamento che intende abbreviare la  vita,  causando
positivamente  la  morte,  esprimendo  piuttosto  tale   rifiuto   un
atteggiamento di scelta, da parte del malato, che la  malattia  segua
il suo corso naturale». 
    Anche in quest'ultima  sentenza  e'  stato  dunque  correttamente
individuato il diritto  di  decidere  della  propria  vita,  finanche
scegliendo la morte, correlandolo  al  principio  personalistico  che
informa tutta la Costituzione, salvo poi declinarlo, visto il caso in
esame,  solo  in  rapporto  agli  interventi  sanitari   disciplinati
dall'art. 32 della Costituzione. 
    Peraltro, come si era anticipato, in questa pronuncia,  la  Corte
di cassazione, pur non essendosi soffermata ad approfondire  come  si
configura il diritto a porre fine alla propria esistenza al di  fuori
del rapporto terapeutico, ha fatto esplicito richiamo  alla  sentenza
della CEDU nel caso  Pretty  vs  Regno  Unito  del  29  aprile  2002,
sostenendo di condividere l'affermazione che  il  riconoscimento  del
diritto alla vita non puo' essere interpretato  come  presupposto  di
«un  diritto  di  morire,  ne'  ...  puo'  creare   un   diritto   di
autodeterminazione,  nel  senso  di  attribuire  a  un  individuo  la
facolta' di scegliere la morte piuttosto che la vita». 
La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. 
    La giurisprudenza della Corte Europea dei  Diritti  dell'Uomo  ha
pero' subito una significativa  evoluzione  dalla  pronuncia  Pretty,
citata nella sentenza della Corte di cassazione sul caso Englaro. 
    La CEDU, che ha avuto modo di pronunciarsi piu'  volte  sul  tema
del suicidio  (18)  ,  lo  ha  fatto  riferendosi  alle  norme  della
Convenzione Europea dei  diritti  dell'uomo  (stipulata  nel  1950  e
ratificata e resa esecutiva dall'Italia con la legge n. 848 del 1955)
che salvaguardano rispettivamente il diritto alla vita (art. 2) ed il
diritto  dell'individuo  di  fronte  ad  arbitrarie  ingerenze  delle
pubbliche autorita' nella sua vita privata (art. 8)  (19) , giungendo
ad affermare il «diritto di un individuo di decidere con quali  mezzi
e a che punto la propria  vita  finira'»  e  l'intervento  repressivo
degli Stati in questo campo puo' avere solo la finalita'  di  evitare
«rischi di abuso», ovvero di «indebita influenza»  nei  confronti  di
soggetti particolarmente vulnerabili, come sono le persone che  hanno
perso interesse per la vita. 
    Analizzando in  ordine  cronologico  queste  pronunce,  la  prima
sentenza e' quella Pretty v. Regno Unito del 29 aprile 2002  (20)  in
cui e' stato affermato che, interpretando le disposizioni della CEDU,
non puo' ritenersi riconosciuto il diritto di morire per mano  di  un
terzo o con l'assistenza dello Stato e che gli Stati hanno il diritto
di  controllare,  attraverso  l'applicazione   del   diritto   penale
generale, le attivita' pregiudizievoli per la vita e la sicurezza dei
terzi. 
    Piu' in particolare la Corte ha sostenuto che  il  «diritto  alla
vita» garantito dall'art. 2 non «puo' essere interpretato  nel  senso
che comporti un aspetto negativo» ovvero il diritto di  scegliere  di
continuare o  cessare  di  vivere,  «l'art.  2  non  potrebbe,  senza
distorsione  di  linguaggio,  essere  interpretato  nel   senso   che
conferisce un diritto diametralmente opposto, vale a dire un  diritto
di  morire;   non   potrebbe   nemmeno   far   nascere   un   diritto
all'autodeterminazione nel senso che darebbe  od  ogni  individuo  il
diritto di scegliere la morte piuttosto che la  vita».  La  Corte  ha
dapprima osservato che le norme nazionali che sanzionino  l'aiuto  al
suicidio  non  possono  ritenersi  violazione   dell'art.   3   della
Convenzione che prevede che «nessuno puo' essere sottoposto a tortura
ne' a pene o trattamenti inumani o degradanti». Per  quanto  riguarda
poi la pretesa violazione dell'art. 8 della Convenzione, la Corte  di
Strasburgo  ha  rilevato  che  «la  nozione  di  autonomia  personale
rispecchia un principio importante sotteso all'interpretazione  delle
garanzie  dell'art.  8»  e,  richiamandosi  a  tale   principio,   ha
anticipato le conclusioni adottate poi dalla Corte di cassazione  nel
caso Englaro, sostenendo che «in ambito sanitario, -  anche  se -  il
rifiuto   di   accettare   un   trattamento   particolare   potrebbe,
inevitabilmente, condurre ad un esito  fatale,  l'imposizione  di  un
trattamento medico senza il consenso del paziente,  se  e'  adulto  e
sano di  mente,  costituirebbe  un  attentato  all'integrita'  fisica
dell'interessato che puo' mettere in discussione i  diritti  protetti
dall'art.  8».   Quindi,   analizzando   piu'   specificatamente   la
fattispecie concreta al suo esame, in cui la ricorrente lamentava che
le fosse stato impedito  dalla  legge  di  compiere  una  scelta  per
evitare cio' che, ai suoi occhi, costituiva «un  epilogo  della  vita
indegno e doloroso», ha sostenuto che «la Corte  non  puo'  escludere
che cio' costituisca una  lesione  del  diritto  dell'interessata  al
rispetto della sua vita privata, ai sensi dell'art. 8,  paragrafo  1,
della Convenzione». Ha sottolineato inoltre che, per conciliarsi  con
il paragrafo 2 del suindicato articolo,  l'interferenza  dello  Stato
doveva essere non solo «prevista dalla legge», ma anche  «necessaria»
(«rispondendo ad un bisogno  sociale  imperativo»)  e  «proporzionata
allo scopo legittimamente perseguito», bilanciando le  considerazioni
di  salute  e  sicurezza  pubblica  con  il   principio   concorrente
dell'autonomia personale. La Corte ha rimarcato quindi che gli  Stati
hanno il diritto di controllare, tramite l'applicazione  del  diritto
penale generale, le  attivita'  pregiudizievoli  per  la  vita  e  la
sicurezza  dei  terzi,   individuando   una   disciplina   idonea   a
«salvaguardare la vita, proteggendo le persone deboli e  vulnerabili,
specialmente quelle che non sono in grado di adottare  decisioni  con
cognizione di causa - da atti volti  a  porre  fine  all'esistenza  o
aiutare a morire». 
    La  decisione  in  commento  appare  significativa  perche'   nel
riconoscere il diritto di  ciascuno  Stato  a  vietare  e  sanzionare
l'aiuto al suicidio, ha individuato espressamente la ratio di  queste
norme  nell'esigenza  di  tutelare  appunto  le  persone   deboli   e
vulnerabili. Inoltre, nell'affermare che a fronte di detta necessita'
la disciplina inglese, che sancisce «la natura generale  del  divieto
di suicidio assistito», «non e' sproporzionata», ha sottolineato pure
che il diritto  inglese  prevede  la  possibilita'  «di  valutare  in
ciascun caso concreto tanto l'interesse pubblico ad avviare un azione
giudiziaria, quanto le esigenze giuste  ed  adeguate  del  castigo  e
della dissuasione». 
    Nella sentenza Haas v. Svizzera del  20  gennaio  2011   (21)  e'
stato invece asserito espressamente che «il diritto di  un  individuo
di decidere con quali mezzi ed a che punto la propria vita finira', a
condizione che egli o ella sia in grado  di  raggiungere  liberamente
una propria decisione su questa questione ed agire di conseguenza, e'
uno degli aspetti del diritto al rispetto della vita privata entro il
significato dell'art. 8 della Convenzione». 
    La Corte ha rilevato innanzitutto che nel caso  Pretty  era  gia'
stato affermato incidentalmente che la  scelta  della  ricorrente  di
evitare quello che ai  suoi  occhi  costituiva  una  fine  indegna  e
dolorosa rientrava nel campo di applicazione dell'art. 8. Ha ribadito
a sua  volta  che  l'art.  2  della  Convenzione  impone  agli  Stati
l'obbligo di proteggere «le persone vulnerabili, anche contro  azioni
con cui minaccino la loro stessa vita», attivandosi per  evitare  che
«un individuo  possa  mettere  fine  alla  sua  vita  quando  la  sua
decisione non e' intervenuta liberamente e con piena conoscenza». 
    Nell'affrontare poi il caso al suo esame, la Corte da un lato  ha
dato riconoscimento alla «volonta' del richiedente di  suicidarsi  in
maniera sicura, degna  e  senza  dolore  e  sofferenze  superflue»  e
dall'altro lato ha sostenuto che la previsione  di  una  prescrizione
medica per il  rilascio  di  un  farmaco  letale  fosse  giustificata
perche' finalizzata a «proteggere le persone dal  prendere  decisioni
precipitose» e a prevenire possibili abusi.  La  Corte  ha  affermato
quindi che gli Stati avevano il dovere di «evitare  che  un  paziente
privo di capacita' di discernimento possa ottenere una  dose  mortale
di pentorbital sodico»  (22) e che in considerazione di tale dovere e
della «necessita'» di tutela della salute, della sicurezza pubblica e
della prevenzione di illeciti penali, le restrizioni  all'accesso  al
farmaco letale  trovavano  giustificazione,  puntualizzando  che  «il
diritto alla vita garantito dall'art. 2 della Convenzione obbliga gli
Stati a predisporre una procedura appropriata  a  garantire  che  una
decisione di mettere fine alla propria vita corrisponda  alla  libera
volonta' dell'interessato». 
    Infine, nella sentenza Gross c. Svizzera del 14 maggio 2013  (23)
la Corte ha dato atto del  superamento  della  pronuncia  Pretty  con
l'esplicito riconoscimento «del diritto di un individuo  di  decidere
il mezzo ed il momento in cui la sua vita debba finire» a  condizione
che sia capace di adottare una decisione  libera  e  consapevole.  Ha
rilevato quindi  che  nel  caso  al  suo  esame  la  richiesta  della
ricorrente si  fondava  «sul  suo  diritto  al  rispetto  della  vita
privata», ribadendo che «lo scopo principale dell'art. 8 e' quello di
proteggere  gli  individui  contro  interferenze   arbitrarie   delle
Pubbliche Autorita'», interferenze che  sono  giustificate  solo  nel
caso  di  «previsione  di  legge»  e  solo  in  forza  di  una  delle
«necessita'»  individuate  nel  secondo  paragrafo  di  detta  norma.
Richiamandosi sempre a tali principi la Corte ha proceduto  quindi  a
verificare se «lo  Stato  avesse  fallito  nell'indicare  sufficienti
linee guida che definissero se ed in quali circostanze  il  personale
medico era autorizzato a  rilasciare  una  prescrizione  per  persone
nelle condizioni della ricorrente» ed ha rilevato che le linee  guida
adottate in Svizzera dall'Ordine dei medici riguardavano solo i  casi
relativi a pazienti terminali (la cui malattia li avrebbe  portati  a
morte  in  poche  settimane),  ma  non  anche  la  condizione   della
ricorrente. La Corte ha affermato quindi che «la legge svizzera,  pur
offrendo la possibilita' di ottenere una dose letale di pentobarbital
su  prescrizione  medica,  non  offre  linee  guida  che   assicurino
chiarezza sull'estensione di tale diritto»  ed  ha  ritenuto  in  tal
senso violata la Convenzione  (24) . 
    Anche nelle sentenze piu' recenti  (25)  e' stato  affermato  che
il diritto all'autodeterminazione, implicato e  sotteso  a  tutta  la
Convenzione, si esplica nella facolta' per ogni individuo, che sia in
grado di assumere determinazioni consapevoli e ponderate, di decidere
«se e come porre termine alla sua vita». 
La legge n. 219 del 22 dicembre 2017 
    Il diritto a morire, rifiutando i trattamenti sanitari, e'  stato
di recente riconosciuto dal legislatore italiano con la legge n.  219
del 22 dicembre 2017, nella  quale  vi  sono  espliciti  richiami  ai
principi sanciti agli artt. 2, 13 e  32  della  Costituzione  e  agli
artt. 1, 2 e 3  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
Europea. 
    La legge non ha  introdotto  solo  la  possibilita'  per  ciascun
individuo  di  disporre  anticipatamente  in  ordine  ai  trattamenti
sanitari  a  cui  essere  sottoposto,  ma   ha   anche   riconosciuto
espressamente il diritto di rifiutare l'idratazione o l'alimentazione
artificiale,  ha  vietato  trattamenti  terapeutici   finalizzati   a
prolungare la vita ad ogni costo  e  ha  riconosciuto  al  malato  il
diritto di scegliere di porre fine alla  propria  vita  in  stato  di
sedazione profonda nel caso di «sofferenze refrattarie alle cure». 
    La legge, nella sua premessa programmatica, ha fatto richiamo  ai
«principi di cui agli artt. 2, 13 e 32  della  Costituzione  e  degli
artt. l, 2 e 3  della  Carta  dei  diritti  fondamentali  dell'Unione
Europea», indicandoli come principi cardine nella «tutela del diritto
alla vita, alla salute, alla dignita' e all'autodeterminazione  della
persona», che si puo' esprimere anche con la volonta' di porvi fine. 
    Ha stabilito poi che: 
        ogni persona ha diritto di conoscere le proprie condizioni di
salute e di essere informata in modo completo; 
        ogni persona capace di agire ha il diritto  di  rifiutare  in
tutto o in parte qualsiasi  accertamento  diagnostico  o  trattamento
sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del
trattamento stesso; 
        ai fini della presente  legge  sono  considerati  trattamenti
sanitari la nutrizione artificiale e la idratazione  artificiale,  in
quanto  somministrazione,  su  prescrizione  medica,   di   nutrienti
mediante dispositivi medici; 
        qualora il paziente esprima  la  rinuncia  o  il  rifiuto  di
trattamenti sanitari necessari alla propria sopravvivenza, il  medico
prospetta  le  conseguenze  di  questa  decisione  e   le   possibili
alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente  medesimo,
anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica; 
        il medico e' tenuto a rispettare  la  volonta'  espressa  dal
paziente di rifiutare il trattamento sanitario  o  di  rinunciare  al
medesimo; 
        il paziente non puo' esigere trattamenti sanitari contrari  a
norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone  pratiche
clinico assistenziali; a fronte di queste richieste il medico non  ha
obblighi professionali. 
    All'art. 2 ha previsto  che  «il  medico,  avvalendosi  di  mezzi
appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi  per  alleviarne
le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del  consenso  al
trattamento sanitario indicato dal medico». 
    Ha sancito inoltre  espressamente  «il  divieto»  di  ostinazione
irragionevole nelle cure ed ha individuato come oggetto di tutela  da
parte dello Stato «la dignita' nella fase finale della vita». 
    «In presenza di sofferenze refrattarie a trattamenti sanitari» il
medico, con il consenso del paziente, puo' di fatto sospendere  anche
l'idratazione e l'alimentazione e procedere alla terapia  del  dolore
con sedazione profonda. 
    La legge peraltro non ha in alcun modo limitato i casi in cui  il
paziente ha «diritto» di «rifiutare  trattamenti  sanitari  necessari
alla propria sopravvivenza» e tra questi ha incluso anche quelli tesi
a fornire  nutrimento  alla  persona  (idratazione  ed  alimentazione
artificiali), prevedendo inoltre al primo comma dell'art.  2  che  al
paziente sia  in  ogni  caso  garantita  un'appropriata  terapia  del
dolore. Dai  lavori  preparatori  della  legge  e  dalle  discussioni
parlamentari  emerge  che  il  Parlamento  era  consapevole  che   il
prevedere per il paziente la possibilita' di rifiutare la  nutrizione
artificiale  comportava  di  fatto  riconoscere  il  suo  diritto  di
scegliere di morire non gia'  a  causa  della  malattia,  ma  per  la
privazione di sostegni vitali (ovvero per  una  cosiddetta  eutanasia
indiretta omissiva). Nonostante cio', anche  questa  decisione,  come
tutte  quelle  in  campo  terapeutico,   e'   stata   prevista   come
insindacabile. La norma  prevede  solo  che,  nel  caso  il  paziente
rifiuti un trattamento «salva vita»,  ovvero  scelga  in  pratica  di
morire, debbano essergli prospettate  da  un  medico  le  conseguenze
della sua decisione e le possibili alternative alla  stessa,  nonche'
che sia promossa ogni azione di sostegno, anche psicologico,  in  suo
favore. 
    La legge ha addirittura vietato interventi sanitari che, al  fine
di proteggere «la sacralita' della vita», appaiano, alla  luce  delle
condizioni del paziente, intrinsecamente inutili e sproporzionati. Ha
altresi' ribadito che i trattamenti devono  rispettare  le  decisioni
del paziente nel tutelarne  «la  dignita'  nella  fase  finale  della
vita». 
    Nel caso di malattia, dunque, il diritto a decidere di «lasciarsi
morire» e' stato  espressamente  riconosciuto,  a  prescindere  dalle
motivazioni sottese a tale decisione, a tutti i soggetti  capaci.  Il
fatto che non sia possibile sindacare le ragioni per cui una  persona
addiviene a questa  scelta, e'  chiaro  riconoscimento  dei  principi
stabiliti dagli artt. 2 e 13 della Costituzione, in forza  dei  quali
la liberta' di ogni persona a disporre della propria  vita  non  puo'
essere limitata per fini eteronomi. 
    La legge in esame, peraltro, non ha riconosciuto  il  diritto  al
«suicidio assistito» secondo le modalita' scelte  dai  singoli.  Anzi
all'art. 1 ha specificato che non e' possibile richiedere  al  medico
trattamenti  contrari  a  norme   di   legge   o   alla   deontologia
professionale. Allo stato, pertanto, non e' possibile pretendere  dai
medici del Servizio pubblico la somministrazione o la prescrizione di
un farmaco che procuri la morte. 
    Peraltro, il mancato riconoscimento/regolamentazione da parte del
Legislatore del diritto «al suicidio assistito» non  puo'  portare  a
negare la sussistenza  della  liberta'  della  persona  di  scegliere
quando e come porre termine alla  propria  esistenza,  liberta'  che,
come sopra esposto,  trova  fondamento  nei  principi  cardine  della
Costituzione dettati agli artt. 2 e 13. 
    Il mancato riconoscimento del  diritto  «al  suicidio  assistito»
porta solo ad escludere che si possa richiedere al Servizio Sanitario
Nazionale un trattamento diverso da quello previsto  nella  legge  n.
219/2017 (puo' richiamarsi  in  proposito  la  sentenza  della  Corte
costituzionale n.  185  del  2  maggio  1998  che  nell'affermare  la
illegittimita'  costituzionale  di   alcune   norme   contenute   nel
decreto-legge 17  febbraio  1998  n.  23 -  disposizioni  urgenti  in
materia di sperimentazioni cliniche  in  campo  oncologico  ed  altre
misure in materia sanitaria - ha ribadito la liberta'  dell'individuo
nella scelta delle cure a cui sottoporsi, sostenendo pero'  che  «non
possono ricadere sul  Servizio  Sanitario  Nazionale  le  conseguenze
delle libere scelte  individuali  circa  il  trattamento  terapeutico
preferito,  anche  perche'  cio'  disconoscerebbe  il  ruolo   e   la
responsabilita' dello Stato che le esercita attraverso i suoi  organi
tecnico scientifici»). 
Le condotte sanzionate dall'art. 580 c.p. 
    I principi costituzionali che hanno ispirato,  solo  alcuni  mesi
fa, la formulazione e l'approvazione della  legge  n.  219/17  devono
presidiare, ad avviso di questa  Corte  di  assise,  anche  l'esegesi
della norma in esame orientando l'interprete nell'individuazione  del
bene giuridico tutelato e, di conseguenza, delle  condotte  idonee  a
lederlo.  E  il   riconoscimento   del   diritto   di   ciascuno   di
autodeterminarsi anche in ordine alla fine  della  propria  esistenza
porta a ritenere sanzionabili ai sensi dell'art.  580  c.p.  solo  le
condotte  che  «in  qualsiasi  modo»  abbiano  alterato  il  percorso
psichico del soggetto passivo, impedendogli  di  addivenire  in  modo
consapevole  e  ponderato  a  tale  scelta  (che,  lo  si   ribadisce
rappresenta  l'espressione  piu'   radicale,   ma   anche   la   piu'
significativa della liberta' dell'individuo). 
    Il diritto penale,  alla  luce  dei  principi  costituzionali  ed
eurounitari piu' volte richiamati, deve intervenire a  sanzionare,  e
nel modo piu' severo, le aggressioni da parte di terzi al bene  della
vita altrui ed e' per cio' giustificato l'intervento repressivo anche
quando questo avvenga con il «concorso» della volonta' della vittima,
se tale volonta' sia stata in qualche modo alterata. 
    Si avra' addirittura  un  «omicidio  nel  caso  in  cui  l'altrui
determinazione volitiva si sostituisca a quella della vittima, si  da
far apparire il suicidio come il frutto dell'altrui volonta' e non di
quella cosciente e libera della vittima»  (26) . Inoltre il II  comma
dell'art. 580 cp prevede come aggravante  il  fatto  che  la  persona
istigata o aiutata abbia meno di 18 anni o sia inferma  di  mente,  o
versi in condizioni di deficienza psichica per altra malattia  o  per
l'abuso di sostanze alcooliche o  stupefacenti  (malattia  mentale  e
deficienza psichica che devono ritenersi parziali, dal momento che se
la persona  fosse  priva  della  capacita'  di  intendere  e  volere,
ricorrerebbe, cosi' come nel caso di minori di anni 14,  l'omicidio).
E anche cio' rivela come il focus della norma  sia  la  tutela  della
liberta' e consapevolezza della decisione del soggetto passivo. 
    D'altra parte, il riconoscimento del diritto di ciascun individuo
di autodeterminarsi anche su quando e come porre fine  della  propria
esistenza, rende ingiustificata la sanzione penale nel caso in cui le
condotte di partecipazione al suicidio siano state di mera attuazione
di quanto richiesto da chi aveva fatto la sua  scelta  liberamente  e
consapevolmente.  In  quest'ultima  ipotesi,  infatti,  la   condotta
dell'agente  «agevotatore»  si  pone  solo  come  strumento  per   la
realizzazione di quanto deciso da un soggetto che  esercita  una  sua
liberta' e risulta di  conseguenza  non  lesiva  del  bene  giuridico
tutelato  dalla  norma  in  esame,  salvo  poter  essere   altrimenti
sanzionata  (27) . 
    In ogni caso di suicidio si impone una  indagine  particolarmente
rigorosa sul percorso deliberativo del  soggetto  passivo,  in  primo
luogo sul suo stato di salute mentale, nonche'  sulle  condizioni  in
cui ha vissuto e su tutti i fattori, tra cui il contributo di  terzi,
che possono aver inciso sulla sua decisione. 
    Comportamenti  che  alterano  il  processo  di  formazione  della
volonta' dell'aspirante suicida possono essere  realizzati  non  solo
mediante la persuasione diretta verso questo gesto estremo, ma  anche
mediante interventi che pregiudichino il suo esame  di  realta',  che
impediscano che alla persona vengano fornite tutte  le  informazioni,
prospettate tutte le alternative del caso, attivati tutti i  supporti
per farlo riflettere ed eventualmente desistere dal suo progetto auto
lesivo  (28) . 
    L'azione di chi interviene a supportare il proposito  suicidiario
puo' d'altra parte consistere, cosi' come si e' verificato  nel  caso
in esame, in interventi diretti nei  confronti  di  una  persona  non
isolata, non in stato di abbandono, in grado di attingere sostegno in
tante altre persone  per  ponderare  bene  le  proprie  decisioni,  e
costretta  a  far  ricorso  ad  un  soggetto   terzo   solo   perche'
impossibilitata fisicamente a realizzare da solo quanto deciso. 
    Inoltre, interpretando la norma nel modo piu' ampio, si  dovrebbe
punire, fra gli altri, anche chi abbia fornito  contributi  materiali
al suicidio consistenti, cosi'  come  esemplificato  dalla  Corte  di
cassazione nella sentenza del 1998 citata,  nell'aiutare  l'aspirante
suicida a trovare tutte le informazioni  e  le  soluzioni  per  porre
termine alla sua vita, interventi, quali quelli posti in essere da V.
I., che si erano accompagnati a tentativi di dissuadere F. e  che  si
erano tradotti di fatto in un aiuto a ponderare bene la sua scelta. 
    Si nota infine che, anche seguendo l'interpretazione  restrittiva
della  norma,  la  possibilita'  di   una   indagine   sul   percorso
deliberativo del suicida e la pluralita' delle condotte  che  possono
essere ritenute idonee ad alterarlo, appaiono elementi sufficienti  a
preservare la funzione preventiva dell'art. 580 cp,  proteggendo  «le
persone vulnerabili, anche contro azioni che minaccino la loro vita». 
La pena prevista dall'art. 580 c.p. 
    Gli artt. 3, 13, 25, II comma e 27, III comma della  Costituzione
impongono che la liberta'  dell'individuo  possa  essere  sacrificata
solo a fronte della lesione  di  un  bene  giuridico  altrimenti  non
pienamente tutelabile, che la sanzione sia proporzionata alla lesione
provocata  cosi'  da  prevenire  la  violazione  e  provvedere   alla
rieducazione del reo. In forza  di  questi  canoni  di  offensivita',
ragionevolezza e proporzione della pena interviene il controllo della
Corte costituzionale rispetto alle scelte di politica  criminale  che
sono riservate al Legislatore. 
    Ed e' in relazione a questi principi che questa Corte di  assise,
per tutti  i  motivi  sopra  esposti,  ritiene  che  le  condotte  di
agevolazione dell'esecuzione  del  suicidio,  che  non  incidano  sul
percorso deliberativo dell'aspirante suicida, non siano sanzionabili.
E tanto piu' che non possano esserlo con la pena della reclusione  da
5 a 10 anni prevista dall'art. 580  c.p.  senza  distinzioni  tra  le
condotte di istigazione e quelle di aiuto, nonostante le prime  siano
certamente  piu'  incisive  anche  solo  sotto  il  profilo  causale,
rispetto  a  quelle  di  chi  abbia  semplicemente   contribuito   al
realizzarsi dell'altrui autonoma deliberazione e nonostante del tutto
diversa risulti nei due  casi  la  volonta'  e  la  personalita'  del
partecipe. 
    Un'esegesi dell'art. 580 c.p. che non distingua fra  le  condotte
di aiuto  sanzionate  e  quelle  invece  lecite  appare  pertanto  in
contrasto con la finalita' rieducativa  della  pena  che  impone  una
costante «proporzione tra qualita' e quantita' della sanzione, da una
parte, e offesa, dall'altra»  (29) . 
    A rafforzamento di queste considerazioni appare utile  richiamare
la sentenza della CEDU nel caso Pretty  che  nell'affermare  che  per
prevenire il rischio di abuso, la disciplina  inglese,  che  sancisce
«la natura  generale  del  divieto  di  suicidio  assistito,  non  e'
sproporzionata», ha tuttavia sottolineato che la  stessa  prevede  la
possibilita' «di valutare in ciascun caso concreto tanto  l'interesse
pubblico ad avviare un'azione giudiziaria, quanto le esigenze  giuste
ed adeguate del castigo e della dissuasione». Illuminante  in  questo
senso appare infine la diversificata disciplina sanzionatoria dettata
la  legge  n.  194/78   relativa   all'interruzione   volontaria   di
gravidanza, una legge posta a tutela della donna e nel  contempo  del
diritto alla vita (all'art. 1 e' sancito che lo Stato  garantisce  il
diritto alla procreazione  cosciente  e  responsabile,  riconosce  il
valore della maternita' e tutela la vita umana sin dal  suo  inizio),
una legge che, cosi' come l'art. 580 c.p., sanziona l'intervento  del
terzo in un atto che a certe condizioni e' lecito  (30) . 
Conclusioni. 
    Sulla base di tutte le precedenti  argomentazioni,  questa  Corte
ritiene pertanto che il presente giudizio non possa  essere  definito
indipendentemente   dalla   risoluzione   della    questione    sulla
legittimita' costituzionale dell'art. 580 c.p.  nella  parte  in  cui
incrimina le condotte  di  aiuto  al  suicidio  in  alternativa  alle
condotte di istigazione e quindi a prescindere  dal  loro  contributo
alla determinazione o al rafforzamento del proposito di suicidio. 
    La norma e' cosi' interpretata dal diritto  vivente  in  funzione
del dato letterale dell'art. 580 cp, del suicidio come  un  fatto  in
se' riprovevole e del diritto alla vita come tutelabile a prescindere
dalla volonta' dell'individuo. Questa interpretazione  risulta  pero'
in violazione degli artt. 2, 13, I comma e 117 della Costituzione  in
relazione agli artt. 2 e 8  della  Convenzione  Europea  dei  Diritti
dell'Uomo, in forza dei quali il diritto  a  por  fine  alla  propria
esistenza costituisce una  liberta'  della  persona,  facendo  quindi
ritenere non lesiva di tale bene la  condotta  di  partecipazione  al
suicidio che pero' non  pregiudichi  la  decisione  di  chi  eserciti
questa liberta'. 
    Per questi motivi la sanzione indiscriminata di tutte le condotte
di aiuto al suicidio e la previsione della stessa pena  prevista  per
le condotte di istigazione, risulta in violazione dei principi di cui
agli artt. 3, 13, II  comma,  25,  II  comma,  27,  III  comma  della
Costituzione, che  individuano  la  «ragionevolezza»  della  pena  in
funzione dell'offensivita' del fatto. 
    Pertanto, ai sensi dell'art. 23 della legge n. 87 dell'11  maggio
1983  dispone  l'immediata  trasmissione  degli   atti   alla   Corte
costituzionale e sospende il giudizio in corso. 

(1) Cfr. per la diagnosi, la sintesi anamnestica e le condizioni alla
    dimissione,  quanto  esposto  nella  relazione  alla   dimissione
    dall'Ospedale di Niguarda dell'8 settembre 2016 

(2) Cass. pen. Sez. I, n. 3147 del 6 febbraio 1998 

(3) Cass. sez. I pen., n. 33244 del 9 maggio 2013 

(4) Cass. sez. I pen., n. 217748 del 16 ottobre 2017 

(5) C. cost. n. 240/2016 

(6) Cass. Sez. I pen., n. 3147 del 6 febbraio 1998 

(7) Corte di assise di Messina del 10 giugno 1997, imputato Munao' 

(8) G.U.P. del Tribunale di Vicenza 14 ottobre 2015, imputato Tedde 

(9) Corte d'appello di Venezia, sentenza n. 9/2017, pronunciata il 10
    maggio 2017 

(10) Nella relazione introduttiva del  Presidente  della  Commissione
     Ministeriale Appiani, si afferma «Non vi e' dubbio, per  ragioni
     che non  e'  qui  luogo  a  diffusamente  ripetere,  ma  che  si
     ricollegano con la prevalenza dell'interesse statuale e  sociale
     sull'egoismo individuale,  che  la  vita  umana  e  l'integrita'
     fisica siano beni, di cui  non  si  puo'  liberamente  disporre»
     (vedi in lavori preparatori 1929 pt I , 478) 

(11) La Relazione al Re che aveva accompagnato il progetto definitivo
     del codice penale Rocco nel 1930  sottolineava  la  ratio  della
     norma, che vedeva nel suicidio un atto inutilmente  perseguibile
     ma che voleva sanzionare chiunque concorresse in qualsiasi  modo
     nel fatto altrui, «  il  principio  che  l'individuo  non  possa
     liberamente  disporre  della  propria  vita,  intesto  in  senso
     assoluto e rigoroso,  indusse  taluno  ad  affermare  la  penale
     incriminabilita' del  suicidio  ...  Prevalenti   considerazioni
     politiche, ispirate a ragioni di prevenzione, ossia precisamente
     allo scopo di contribuire alla conservazione del bene  giuridico
     della vita, impedendo che di essa si  faccia  scempio  con  piu'
     meditata  preordinazione  dei  mezzi  e   con   piu'   ponderata
     esecuzione per  tema  di  incorrere  negli  errori  della  legge
     penale, hanno indotto le legislazioni piu' recenti ad  escludere
     il suicidio dal novero dei reati, limitando la punizione ai casi
     di partecipazione all'altrui suicidio» 

(12) Corte Costituzionale n. 471/1990 

(13) La Corte  Costituzionale,  gia'  nella  sentenza  n.  238/96  ha
     infatti  affermato  che  gli  interventi  relativi  alla  salute
     coinvolgono  «un  diritto  inviolabile,  quello  della  liberta'
     personale, rientrante tra i valori supremi, quale  indefettibile
     nucleo essenziale dell'individuo, non diversamente dal  contiguo
     e connesso diritto alla vita ed alla integrita' fisica,  con  il
     quale concorre o creare la matrice prima di ogni  altro  diritto
     costituzionalmente protetto dalla persona» 

(14) Come e' stato piu' volte ribadito  con  riferimento  al  rifiuto
     alle emotrasfusioni espresse dai testimoni di Jeova, cfr.  Cass.
     Sez. 3 n. 4211/07 e Cass. n. 2367 del 15 settembre 2008  in  cui
     e' stato affermato che alla persona e' riconosciuto  il  diritto
     «di indubbia rilevanza costituzionale, di non curarsi, anche  se
     tale condizione la esponga al rischio della vita stessa» 

(15) Cfr. le diverse decisioni sulle  vaccinazioni  obbligatorie  fra
     tutte Corte cost. n 307/1990 

(16) Sentenza del GUP di Roma del 23 luglio 2007 

(17) Cass. civ. sez. I, 16 ottobre 2007 n. 21748 

(18) In forza dell'art. 117  della  Costituzione  «e'  da  respingere
     l'idea che l'interprete non possa applicare la CEDU se  non  con
     riferimento ai casi che siano gia'  stati  oggetto  di  puntuali
     pronunce da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo.  Al
     contrario, l'applicazione e  l'interpretazione  del  sistema  di
     norme della Cedu e' attribuito in prima battuta ai giudici degli
     Stati membri, il cui dovere di evitare violazioni della Cedu  li
     obbliga ad applicarne le  norme,  sulla  base  dei  principi  di
     diritto espressi dalla Corte di  Strasburgo,  specie  quando  il
     caso sia riconducibile a  precedenti  della  giurisprudenza  del
     giudice europeo.  In  tale  attivita'  interpretativa,  che  gli
     compete istituzionalmente ai sensi dell'art. 101, secondo  comma
     Cost., il giudice comune  incontra  il  solo  limite  costituito
     dalla presenza di una normativa nazionale di contenuto contrario
     alla CEDU. In tal caso, la  disposizione  interna  va  censurata
     innanzi alla Corte costituzionale per violazione dell'art.  117,
     primo comma, Cost., ove non sia in alcun modo interpretabile  in
     senso convenzionalmente orientato» (Corte cost. n. 68 del 2017) 

(19) L'art. 2 della Convenzione prevede,  sorto  la  rubrica  diritto
     alla vita, che «il diritto alla vita di ogni persona e' protetto
     dalla legge. Nessuno puo' essere intenzionalmente privato  della
     vita, salvo che in esecuzione di  una  sentenza  capitale  ...».
     L'art. 8 sancisce, sotto la rubrica diritto  al  rispetto  della
     vita privata e  familiare,  che  «ogni  persona  ha  diritto  al
     rispetto della propria vita privata  e  familiare,  del  proprio
     domicilio e  della  propria  corrispondenza.  Non  puo'  esservi
     ingerenza di  una  autorita'  pubblica  nell'esercizio  di  tale
     diritto a meno che tale ingerenza sia  prevista  dalla  legge  e
     costituisca una misura che,  in  una  societa'  democratica,  e'
     necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al
     benessere economico del paese, allo difesa  dell'ordine  o  alla
     prevenzione dei reati, allo  protezione  della  salute  o  della
     morale, alla protezione dei diritti e delle liberta' altrui» 

(20) La  sig.ra  Pretty,  paralizzata  e  affetta  da  una   malattia
     neurodegenerativa (la SLA),  presento'  ricorso  alla  Corte  di
     Strasburgo avverso il rifiuto del rappresentante della  Pubblica
     accusa  inglese  di  accordare  un'impunita'  penale  al  marito
     qualora l'avesse aiutata a suicidarsi e  contro  la  proibizione
     dell'aiuto al suicidio prevista dal diritto  britannico,  che  a
     suo parere violava i diritti garantiti dagli artt. 2, 3, 8, 9  e
     14 della Convenzione 

(21) Il ricorrente, cittadino svizzero, affetto da circa vent'anni da
     un disturbo bipolare, che aveva compiuto negli  anni  precedenti
     due tentativi di suicidio e subito  piu'  ricoveri  in  cliniche
     psichiatriche,  e  che  dal  2004  era  divenuto  membro   della
     Dignitas, si era rivolto invano a diversi  psichiatri  e  presso
     diverse Autorita' per ottenere  l'autorizzazione  a  procurarsi,
     tramite detta associazione, il pentobarbital, per garantirsi  la
     possibilita' di morire senza dolore e rischio di insuccesso 

(22) Nell'affermare questo  principio  la  Corte  faceva  riferimento
     espresso alle restrizioni relative  all'interruzione  volontaria
     della gravidanza 

(23) La ricorrente, un'anziana signora di ottant'anni,  che  non  era
     affetta da una malattia invalidante, caratteristiche, ma  voleva
     porre  fine  alla  sua  vita  non  riuscendo  ad  accettare   il
     decadimento  delle  sue  capacita'  fisiche  e  mentali   legato
     all'invecchiamento, lamentava di non aver potuto ottenere  dalle
     Autorita' svizzere l'autorizzazione a procurarsi una dose letale
     di farmaco per suicidarsi. Sosteneva quindi la lesione  del  suo
     diritto di  decidere  il  momento  ed  il  modo  di  morire,  in
     violazione all'art. 8 della Convenzione 

(24) Il  codice  penale  svizzero  si  limita  a  punire  l'aiuto   o
     l'istigazione al suicidio,  quando  siano  attuati  «per  motivi
     egoistici»  (art.  115  cp).  A   sua   volta   l'omicidio   del
     consenziente (art. 114 cp)  e'  costruito  come  ipotesi  penale
     attenuata  sulla  base  dei  motivi   («chiunque,   per   motivi
     stimabili, e soprattutto per compassione, cagiona la morte di un
     uomo a seguito di una sua richiesta seria e pressante, e' punito
     con pena detentiva sino a tre anni o con la  pena  pecuniaria»).
     Nel diritto svizzero,  le  condizioni  alle  quali  le  sostanze
     letali possono essere  prescritte  sono  contenute  nelle  linee
     guida dell'Accademia Svizzera delle Scienze Mediche, che fungono
     da codice deontologico per i sanitari, ma non provengono da  una
     fonte governativa. Nelle stesse si ammette  la  possibilita'  di
     aiutare il suicidio dei pazienti nella fase terminale della loro
     malattia - e quindi anche di prescrivere la somministrazione  di
     sostanze  letali  -   quando   la   sofferenza   sia   diventata
     intollerabile ed il malato esprima una volonta' in tal senso 

(25) Appare  opportuno  richiamare  incidentalmente  anche   un'altra
     sentenza in materia di suicidio, quella relativa  al  caso  Koch
     contro Germania (provvedimento del 19 luglio 2012),  in  cui  e'
     stato  stabilito  che  il  rifiuto  dei  giudici  nazionali   di
     esaminare nel  merito  la  domanda  del  ricorrente,  svolta  in
     proprio, di ottenere l'autorizzazione all'acquisto di un farmaco
     letale per far  conseguire  una  morte  dignitosa  alla  propria
     consorte, anch'essa ricorrente prima del decesso intervenuto  in
     corso  di  causa,  integrava  una  violazione  del  diritto  del
     ricorrente  alla  tutela  della  propria  vita  privata.   Nella
     sentenza  non  veniva  analizzato  il  diritto  della  donna  ad
     ottenere il farmaco letale, ma solo quello del marito  a  vedere
     verificata  detta  istanza  alla   luce   dei   principi   della
     Convenzione. Nella pronuncia, peraltro, veniva  menzionata  come
     premessa la giurisprudenza della Corte con riferimento  ai  casi
     Pretty e Haas ed e' interessante la sintesi  (o  interpretazione
     autentica)  di  dette  decisioni  soprattutto  con  riguardo   a
     quest'ultima causa in cui, si rileva, «la Corte ha ulteriormente
     sviluppato questa giurisprudenza  -  in  tema  di  tutela  della
     "autonomia personale" - riconoscendo il diritto di un  individuo
     di decidere come e  quando  dovrebbe  finire  la  propria  vita,
     purche' questi fosse in grado di formarsi una volonta'  libera».
     Occorre infine far cenno a due recenti pronunce della  CEDU  con
     riguardo all'obbligo di rispettare lo sciopero della fame  posto
     in essere da alcuni detenuti in cui si e' affermato, in un caso,
     che la  scelta  degli  organi  dello  Stato  di  non  alimentare
     forzosamente il detenuto non  poteva  essere  criticata  essendo
     conseguenza  dell'aver  accettato  il  suo  chiaro  rifiuto   di
     permettere qualsiasi intervento, benche' le  sue  condizioni  di
     salute comportassero un pericolo per la sua vita (cfr  Horoz  v.
     Turchia  del  14  agosto   2014)   e,   nell'altro   caso,   che
     l'alimentazione forzata che era stata praticata doveva ritenersi
     lecita,  in  quanto  lo  sciopero  della  fame  -  poi  peraltro
     interrotto - era stato posto in essere dal detenuto non gia' per
     por fine al suoi giorni, ma per far  pressione  sulle  autorita'
     nazionali  per  ottenere  un  cambio  nella  legislazione  sugli
     stupefacenti  ed  una  riduzione  della  pena,  circostanza  che
     «esclude la rilevanza dell'art. 8 CEDU (cfr Rapaz v Svizzera del
     26 marzo 2013)  

(26) Cfr la sentenza della Corte di assise di Messina citata 

(27) Si  potrebbero  peraltro  configurare  altri  reati,  quale   la
     violazione della legge  sugli  stupefacenti  o  sulle  armi,  la
     ricettazione di farmaci illegittimamente commercializzati, reati
     di pericolo per la collettivita' ... 

(28) Seppure non sussista un dovere di dissuasione e siano limitati i
     casi in cui vige l'obbligo di impedire il suicidio, comunque  le
     condotte che possono alterare il processo decisorio del soggetto
     passivo, cosi' come osservato da  autorevole  dottrina,  possono
     essere le piu'  varie,  come  per  esempio  la  rappresentazione
     falsa,  esagerata  o  tendenziosa  di  mali   o   pericoli,   le
     esortazioni, l'eccitazione ... Nell'individuare la condotta  che
     integra il reato di «concussione per induzione» di cui  all'art.
     317 c.p. la Corte di cassazione ha affermato  che  «l'induzione»
     puo' assumere svariate forme  (piu'  blande  della  costrizione)
     quali «l'inganno, la persuasione, la  suggestione,  l'allusione,
     il   silenzio   o   l'ostruzionismo,   anche    variamente    ed
     opportunamente combinati tra di loro» - cfr.  C.  Cass.  sez.  6
     pen. n. 4958 del 1° ottobre 2003,  nonche'  Cass.  sez.  6  pen.
     17285/2013 

(29) Cfr tra le altre le sentenze della Corte costituzionale  n.  251
     del 2012 e n. 341 del 1994 

(30) La disciplina relativa all'interruzione volontaria di gravidanza
     e' significativa sia perche' indica gli strumenti adottati dallo
     Stato per tutelare il diritto alla vita e per garantire  che  le
     scelto della donna siano coscienti e responsabili,  sia  perche'
     prevede pene  diverse  nelle  differenti  situazioni,  rivelando
     l'esigenza di una diversificazione del regime sanzionatorio  nel
     punire   le   condotte   che    incidono    sul    diritto    di
     autodeterminazione  della  donna,  rispetto  a  quelle  che  non
     garantiscono la tutela del suo  diritto  alla  salute,  rispetto
     infine a quelle che violano i presupposti per l'esercizio  della
     sua scelta. Gli artt. 18 e 19 della legge n. 194/78,  sanzionano
     «chi   cagiona   l'interruzione   volontaria   di    gravidanza»
     rispettivamente senza il consenso della donna, ovvero con il suo
     consenso, ma  senza  l'osservanza  delle  disposizioni  previste
     dalla legge. In questo secondo caso, il legislatore ha stabilito
     sanzioni diverse, a seconda delle norme violate (una pena fino a
     tre anni se e' violato  l'art.  5  che  prevede  un  insieme  di
     attivita' demandate alla struttura socio sanitaria o  al  medico
     dirette ad informare compiutamente la donna ed  a  rimuovere  le
     cause che la porterebbero all'interruzione della gravidanza,  ed
     all'art. 8 che indica chi e' autorizzato a praticarla; una  pena
     da uno a quattro anni se e' violato  l'art.  6  e  7  norme  che
     individuano i casi in  cui  l'interruzione  di  gravidanza  puo'
     essere praticata; un aumento delle pene citate, fino alla meta',
     se la donna e' minore di diciotto anni o  interdetta  o  se  non
     sono state  osservate  le  previsioni  dell'art.  12  o  13  che
     disciplinano come garantire la liberta' della volonta'  espressa
     e la consapevolezza per le donne infra diciottenni o interdette) 
 
                               P.Q.M. 
 
    Ritenuta la rilevanza nel presente giudizio e  la  non  manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
580 c.p. nei termini che seguono: 
        nella parte in cui incrimina le condotte di aiuto al suicidio
in alternativa alle condotte di istigazione e, quindi, a  prescindere
dal loro  contributo  alla  determinazione  o  al  rafforzamento  del
proposito di suicidio, per ritenuto contrasto con gli artt. 3, 13,  I
comma e 117 della Costituzione in relazione agli artt. 2  e  8  della
Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo; 
        nella parte in cui prevede che le  condotte  di  agevolazione
dell'esecuzione  del  suicidio,  che  non   incidano   sul   percorso
deliberativo dell'aspirante suicida, siano sanzionabili con  la  pena
della reclusione da 5 a 10  anni,  senza  distinzione  rispetto  alle
condotte di istigazione, per ritenuto contrasto con gli artt. 3,  13,
25, II comma e 27, III comma della Costituzione. 
    Sospende il presente procedimento a carico di M. C. 
    Dispone la trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale
affinche',  ove  ne  ravvisi   i   presupposti,   voglia   dichiarare
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art.  580  c.p.,  nella  parte
indicata. 
    Dispone che la presente ordinanza sia  notificata  al  Presidente
del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti  delle  due
Camere del Parlamento. 
        Milano, 14 febbraio 2018 
 
                   Il Presidente: Mannucci Pacini 
 
 
                      Il Giudice a latere: Simi