N. 685 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 maggio 1999
N. 685 Ordinanza emessa l'11 maggio 1999 dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto da Bigoni Maria Anna contro la regione Emilia-Romagna ed altri Impiego pubblico - Impiego negli enti locali - Divieto di assunzione negli uffici comunali, provinciali e nei consorzi di comuni e province di persone condannate per determinati delitti (nella specie, delitti contro la fede pubblica) - Irragionevole automatismo dell'esclusione dall'accesso all'impiego negli enti locali degli autori dei delitti contro la fede pubblica rispetto agli autori di delitti di pari o maggiore gravita' - Disparita' di trattamento rispetto alla disciplina della destituzione dei pubblici dipendenti in seguito alla sentenza della Corte costituzionale n. 971/1988 - Incidenza sul diritto all'accesso ai pubblici impieghi - Riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 249/1997 di non fondatezza di analoga questione ritenuta superabile dal giudice rimettente. R.D. 3 marzo 1934, n. 383, art. 8, alinea n. 7. Costituzione, artt. 3, primo comma e 51, primo comma.(GU n.51 del 22-12-1999 )
IL CONSIGLIO DI STATO Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello n. 5866 del 1993, proposto da Bigoni Maria Anna, rappresentata e difesa dagli avv. Roberto Gilli e Giorgio Natoli, elettivamente domiciliata presso il secondo, in Roma, via Cicerone n. 28; Contro la regione Emilia-Romagna, in persona del presidente pro-tempore della Giunta regionale, non costituita in giudizio; e nei confronti del comune di Lagosanto, in persona del sindaco pro-tempore non costituito in giudizio; di Bacilieri Giovanna, non costituita in giudizio; per l'annullamento della decisione del Tribunale amministrativo regionale dell'Emilia-Romagna Bologna, sez. II, 12 settembre 1992, n. 452, con la quale e' stato respinto il ricorso proposto per l'annullamento del provvedimento 27 giugno 1989, n. 22422/1 del Comitato regionale di controllo sugli atti degli enti locali della regione Emilia-Romagna, a sua volta recante annullamento della deliberazione della Giunta comunale di Lagosanto 11 maggio 1989, n. 162, di nomina della ricorrente, quale vincitrice di concorso, nel posto di bibliotecaria del comune; Visto il ricorso con i relativi allegati; Vista la memoria prodotta dall'appellante; Vista la propria ordinanza 2 ottobre 1993, n. 1458, con la quale e' stata respinta la domanda di sospensione dell'esecutivita' della sentenza appellata; Vista la propria sentenza non definitiva 13 maggio 1996, n. 537, con la quale e' stato accolto in parte l'appello; Vista la propria ordinanza 13 maggio 1996, n. 538, con la quale e' stata sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7, del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con r.d. 3 marzo 1934, n. 383, in relazione agli artt. 3, primo comma e 51, primo comma della Costituzione; Vista la sentenza della Corte costituzionale 18 luglio 1997, n. 249, che ha dichiarato non fondata la predetta questione di legittimita' costituzionale; Visti gli atti tutti della causa; Udita alla pubblica udienza dell'11 maggio 1999 la relazione del consigliere Giaccardi e udito, altresi', l'avv. Luigi Manzi, per delega dell'avv. Natoli, per l'appellante; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue; F a t t o L'odierna appellante, Bigoni Maria Anna, si classifico' prima nella graduatoria del concorso pubblico per un posto di assistente di biblioteca indetto dal comune di Lagosanto con deliberazione di Giunta 23 marzo 1987, n. 195. Avendo ella dichiarato, nella domanda di partecipazione al concorso, di non aver riportato condanne, mentre dal suo certificato del casellario risultava iscritta una condanna alla pena della multa per emissione di assegni a vuoto, il comune soprassedette alla nomina e fece rapporto all'autorita' giudiziaria. Ne segui' una condanna alla pena di L. 100.000 di multa per il reato di false dichiarazioni su qualita' personali, previsto dall'art. 496 del codice penale; dopo di che la Giunta municipale, con deliberazione 11 maggio 1989, n. 162, procedette ugualmente alla nomina (con decorrenza 1 giugno 1989), sul ritenuto presupposto che, a seguito della sentenza della Corte costituzionale 14 ottobre 1988, n. 971, si fosse reso inapplicabile il divieto di assunzione di persone condannate per delitti contro la fede pubblica, sancito dall'art. 8, n. 7 del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (T.U.L.C.P.). L'atto di nomina fu annullato dal Co.re.co. della regione Emilia-Romagna, sezione di Ferrara, con atto 27 giugno 1989, n. 22422/2, sul rilievo della perdurante vigenza dell'art. 8 cit., insuscettibile come tale di disapplicazione a seguito dell'intervenuta declaratoria di illegittimita' costituzionale di altre disposizioni di legge, relative alla diversa materia della destituzione di diritto (in particolare, l'art. 247 T.U.L.C.P.). Nel provvedimento tutorio si osservava altresi' che il posto messo a concorso non poteva comunque essere coperto nel 1989, in ragione dei limiti legislativi alle assunzioni previsti dalla legge 29 dicembre 1988, n. 554. L'atto di annullamento fu impugnato dinanzi al T.A.R. dell'Emilia-Romagna con due distinti ricorsi, rispettivamente proposti dalla Bigoni e dal comune di Lagosanto. In ambedue i ricorsi veniva dedotta, in via principale, la non operativita' del divieto automatico di assunzione ex art. 8 cit., a seguito dell'intervenuta decisione della Corte costituzionale in materia di destituzione di diritto; in subordine veniva sollevata questione di legittimita' costituzionale della suddetta disposizione di legge, ove ritenuta rigidamente preclusiva all'assunzione, per violazione degli artt. 3, 4, 25 e 97 Cost. Con sentenza n. 452 del 1992 il tribunale adito, riuniti i due ricorsi, li ha dichiarati inammissibili per omessa deduzione di censure nei confronti dell'autonomo capo del provvedimento di controllo concernente l'impossibilita' di procedere alla nomina per l'anno 1989, ritenuto di per se' sufficiente a sorreggere il disposto annullamento tutorio. Avverso tale decisione ricorre in appello l'interessata, censurando la declaratoria di inammissibilita' del ricorso di primo grado e riproponendo sia la questione dell'applicazione dell'art. 8 del T.U.L.C.P. alla fattispecie in esame, sia la subordinata eccezione di illegittimita' costituzionale della disposizione anzidetta. Con sentenza non definitiva n. 537/1996 questa sezione ha accolto in parte l'appello, ritenendo che il rilievo dell'organo di controllo relativo al divieto di far decorrere la nomina dal 1989 non comportasse di per se' l'annullamento della delibera controllata, rimanendo comunque integro l'interesse della ricorrente a beneficiare della nomina, sia pure con decorrenza successiva al 1989. Con la stessa decisione e' stata altresi' ritenuta infondata la tesi relativa all'inapplicabilita' del divieto di assunzione sancito dall'art. 8 del T.U.L.C.P. Con ordinanza n. 538/1996, in pari data, la sezione ha quindi sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7, del testo della legge comunale e provinciale, approvato con r.d. 3 marzo 1934, n. 383, in relazione agli artt. 3, primo comma e 51, primo comma della Costituzione. Con sentenza 18 luglio 1997, n. 249, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondata la predetta questione di legittimita' costituzionale. L'appello e' quindi tornato in decisione dinanzi a questa sezione alla pubblica udienza dell'11 maggio 1999. D i r i t t o 1. - Come risulta dalla premessa esposizione in fatto, nel corso del presente giudizio d'appello la Corte costituzionale e' gia' stata investita, con ordinanza n. 538/1996 di questa sezione, della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7, del r.d. 3 marzo 1934, n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale), in relazione agli artt. 3, primo comma e 51, primo comma Cost. Veniva evidenziato, nella suddetta ordinanza di rimessione, un unico profilo di non ragionevolezza della scelta legislativa con la quale si e' vietato, con rigido automatismo e senza possibilita' di valutazione discrezionale del caso di specie, l'assunzione ai pubblici impieghi di persone condannate per determinati reati. Piu' precisamente, si assumeva da parte della sezione - con espresso ed immediato riferimento alla ben nota giurisprudenza costituzionale in tema di destituzione di diritto: sentenza n. 971/1988 e successive - "che il titolo di reato, al quale soltanto si riferisce la disposizione sospettata di incostituzionalita' (come gia' quella sulla destituzione) puo', nei singoli casi, classificare fatti, insignificanti dal punto di vista della pericolosita' sociale e della capacita' a delinquere, del tutto diversi dal tipo di fatti che la coscienza collettiva comunemente vi associa, e rispetto ai quali il divieto di assunzione nei pubblici uffici puo' costituire misura sproporzionata. 2. - In relazione a tale (limitata) prospettazione, la Corte costituzionale, con sentenza n. 249 del 1997, ha dichiarato non fondata la questione sollevata, osservando: a) che non puo' essere invocato un parallelismo tra l'ipotesi dell'assunzione e quella della destituzione, mancando nel primo caso la possibilita' di dar corso al procedimento disciplinare che consente la valutazione della gradualita' delle sanzioni per fatti penalmente rilevanti addebitati al dipendente, con correlativa limitazione della discrezionalita' della pubblica amministrazione; b) che l'automatismo del divieto di assunzione derivante da condanna per determinati reati - specialmente quando questi abbiano riguardo alle funzioni che il dipendente e' chiamato a svolgere - appare in armonia con i principi costituzionali, ponendosi come filtro di ammissione e previa garanzia del buon andamento dell'amministrazione e della dignita' di quanti sono chiamati a ricoprire uffici pubblici; c) che la diretta previsione normativa dei casi di esclusione garantisce anche un'applicazione uniforme di criteri, ad ulteriore garanzia dei principi di eguaglianza e di buon andamento. 4. - In sintesi, la sentenza della Corte ha dunque ritenuto, in coerenza con la prospettazione offerta alla questione dall'ordinanza di rimessione, che la sussunzione sotto un unico titolo di reato di fatti tra loro marcatamente eterogenei e tali da riflettere gradi di pericolosita' sociale e capacita' a delinquere notevolmente diversi, non sia di per se' indicativa di irragionevolezza della previsione legislativa che annette alle condanne riportate per tali fatti valenza rigidamente ed automaticamente preclusiva all'assunzione a pubblici impieghi. Come la stessa Corte sottolinea nella parte conclusiva della propria sentenza, peraltro, un diverso aspetto - non denunziato dall'ordinanza di rimessione, e quindi non esaminato ex professo - e' quello relativo alla selezione operata dal legislatore dei vari reati per i quali sia previsto l'automatismo: profilo, questo, attinente alla discrezionalita' del legislatore, il cui esercizio puo' essere sindacato solo ove si ravvisi nella scelta una manifesta irragionevolezza. Sotto tale profilo, ad avviso della sezione, suscita non manifestamente infondati dubbi di illegittimita' costituzionale, tali da giustificare una seconda rimessione degli atti al giudice delle leggi, la specifica previsione contenuta nell'art. 8, alinea n. 7, del r.d. n. 383/1934 che esclude dalla nomina agli uffici comunali e provinciali, e a quelli dei relativi consorzi, "Êi condannati... per delitti contro la fede pubblica". Come noto, il titolo VII del codice penale racchiude sotto la voce "delitti contro la fede pubblica" una variegata e disparata pluralita' di reati, suddivisi in quattro diversi capi aventi rispettivamente ad oggetto la falsita' in monete, carte di pubblico credito e valori di bollo, la falsita' in sigilli, strumenti o segni di autenticazione, certificazione o riconoscimento, la falsita' in atti e le c.d. falsita' personali. Ulteriori ed eterogenee figure di delitti contro la fede pubblica si trovano poi catalogati in leggi speciali e di settore: fra gli altri, si ritiene per lo piu' che anche il reato di emissione di assegni a vuoto, all'epoca dei fatti sanzionato dall'art. 116 del r.d. 21 dicembre 1933, n. 1736, sia ascrivibile alla categoria di delitti in esame. Orbene, l'odierna appellante ha riportato due condanne ostative all'assunzione all'impiego comunale, entrambe per delitti contro la fede pubblica: la prima, per un remoto episodio di emissione di assegno a vuoto, la seconda per il delitto di "false dichiarazioni sulla identita' o su qualita' personali proprie o di altri", di cui all'art. 496 cod. pen., subita per non aver dichiarato l'esistenza della precedente condanna in occasione della stesura della domanda di partecipazione al concorso pubblico da cui ebbe a scaturire la nomina successivamente annullata dall'organo di controllo. Ambedue le condanne hanno comportato l'applicazione di una mite pena pecuniaria, segno evidente di valutazione, da parte del giudice penale, di limitata offensivita' del fatto-reato e ridotta capacita' a delinquere del reo. Cio' nonostante, l'appellante si e' vista automaticamente e definitivamente precludere l'accesso al pubblico impiego comunale, cui legittimamente aspirava in qualita' di vincitrice di concorso, per il solo fatto che i suddetti episodi - pur catalogabili alla stregua della coscienza sociale in un'ampia zona grigia di confine tra i fatti che meritano una pena e quelli che non e' ragionevole assoggettare a sanzione punitiva - si trovano inseriti, al pari di gravi fatti criminosi, come tali ben altrimenti percepiti dalla coscienza sociale (quali, ad esempio, la fabbricazione e spaccio di monete false, la contraffazione del sigillo dello Stato destinato ad essere apposto sugli atti del Governo, ovvero la falsita' materiale ed ideologica commessa da pubblico ufficiale in atti pubblici), nella categoria legislativa dei "delitti contro la fede pubblica". E dunque, nella fattispecie in esame, la flagrante irragionevolezza dell'automatismo nell'esclusione della ricorrente dall'accesso al pubblico impiego a cui aspirava deriva non solo, e non tanto, dalla riconducibilita' ai singoli titoli di reato per i quali la stessa ha riportato condanna di fatti materiali di lievissima entita' e potenzialita' lesiva, quanto piuttosto dalla stessa previsione da parte del legislatore di un'unica vastissima e proteiforme categoria di reati - i delitti contro la fede pubblica - dotati di livelli di offensivita' sociale tra loro enormemente diversificati, come reso evidente dalla graduazione delle rispettive pene edittali. E poiche', in tale variegata congerie di ipotesi di reato (talune delle quali, non a caso, depenalizzate dalla piu' recente legislazione) si rinvengono anche figure delittuose punibili (ed in concreto punite) con la sola pena pecuniaria, o comunque con sanzioni di esigua entita', accanto ad altre sanzionate con pesantissime pene detentive, sembra sussistano seri elementi di dubbio in ordine alla compatibilita' di siffatta indiscriminata scelta legislativa con il canone della ragionevolezza, costituente, come ricorda la stessa Corte, limite invalicabile anche per la c.d. discrezionalita' del legislatore. Sotto questo (diverso) profilo si ritiene quindi non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7, del r.d. n. 383/1934, nella parte in cui contempla quale causa ostativa di assunzione all'impiego presso enti locali l'aver riportato condanna per (qualsivoglia) delitto contro la fede pubblica, in relazione all'art. 3, primo comma Cost., nonche', di riflesso, in relazione all'art. 51, primo comma Cost., relativo al diritto dei cittadini di accedere agli uffici pubblici. 5. - Sempre in relazione ai parametri costituzionali sopra ricordati appare, infine, non manifestamente infondato anche un ulteriore profilo di illegittimita' costituzionale dell'intero art. 8, alinea n. 7, cit., non sollevato dalla precedente ordinanza di rimessione, e peraltro espressamente dedotto nelle difese scritte dell'appellante. Come noto, mentre la normativa regolatrice del rapporto di pubblico impiego presso gli enti locali conteneva due distinte disposizioni, rispettivamente afferenti alle condanne ostative alla nomina agli uffici (art. 8 T.U.L.C.P.) e a quelle comportanti la destituzione di diritto (art. 247 T.U.L.C.P.), una tale distinzione non era invece presente nella normativa regolatrice dell'impiego statale, ove la tipologia delle condanne penali ostative all'assunzione in servizio veniva desunta indirettamente, in via interpretativa, dalla previsione afferente le condanne comportanti la destituzione di diritto (art. 85, lettera a), d.P.R. n. 3/1957). Orbene, tale diverso assetto formale delle legislazioni - pur fra loro sostanzialmente coincidenti - rispettivamente regolatrici l'impiego statale e quello locale, ha fatto si' che la portata caducante delle pronunzie della Corte costituzionale in tema di destituzione di diritto abbia esplicato inizialmente conseguenze alquanto diverse nei due comparti di impiego pubblico. In particolare, mentre nell'ambito dell'impiego locale e' stata abrogata la sola disciplina relativa alla destituzione di diritto di cui all'art. 247 T.U.L.C.P., mentre e' rimasta operante, fino alla successiva espressa abrogazione da parte dell'art. 64 della legge 8 giugno 1990, n. 142, la disciplina relativa alle cause automatiche di esclusione dalla nomina di cui all'art. 8 dello stesso t.u., viceversa nell'ambito dell'impiego statale l'abrogazione della norma (unica) in tema di destituzione di diritto ha comportato altresi' l'immediato travolgimento della speculare disciplina (desunta, come detto, in via meramente interpretativa) in tema di condizioni ostative all'accesso all'impiego. Ne deriva, per il periodo antecedente all'abrogazione dell'art. 8 T.U.L.C.P. (nel quale si colloca la fattispecie attualmente in decisione) un'evidente ed irragionevole disparita' di trattamento tra gli aspiranti all'impiego locale e gli aspiranti all'impiego statale che abbiano riportato condanne per un identico titolo di reato (quale, in particolare, un delitto contro la fede pubblica), subendo gli uni, e non invece gli altri, l'effetto automaticamente preclusivo all'assunzione derivante dalla norma residuata all'abrogazione da parte delle pronunzie costituzionali. Ed e' appena il caso di rilevare che, tra i due settori posti a raffronto, sarebbe stato se mai ragionevole mantenere una disciplina di maggior rigore e garanzia per l'accesso all'impiego statale, anziche' per quello locale, in esatta antitesi con l'assetto normativo scaturito dagli interventi caducatori della Corte, fin tanto che il legislatore del 1990 non e' intervenuto a porvi rimedio, rendendo nuovamente omogenee le rispettive discipline di settore. Anche sotto tale aspetto deve quindi ritenersi non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7, del T.U.L.C.P., in relazione agli artt. 3, primo comma e 51, primo comma Cost., stante l'evidente ed ingiustificata disparita' di trattamento penalizzante - nell'arco di tempo considerato - gli aspiranti ad impiego presso ente locale, quale l'odierna appellante, rispetto agli aspiranti ad impiego statale. 6. - Quanto alla rilevanza delle prospettate questioni, vengono integralmente richiamate e ribadite le considerazioni gia' sviluppate dalla precedente ordinanza di rimessione di questa sezione, che la sentenza n. 249/1997 della Corte ha ritenuto condivisibili. Poiche', infatti, la sentenza parziale n. 537/1996 di questa sezione, nel riformare la decisione di inammissibilita' dell'originario ricorso resa in primo grado dal t.a.r., si e' altresi' pronunziata negativamente sulla principale doglianza dedotta con il terzo motivo di ricorso, affermando l'applicabilita' alla fattispecie in esame dell'art. 8, alinea n. 7, del T.U.L.C.P., cosi' come motivatamente ritenuto dall'impugnato provvedimento dell'organo di controllo, ne discende che soltanto l'eventuale caducazione di detta norma per effetto di una pronunzia della Corte che ne ravvisi l'incompatibilita' con il dettato costituzionale puo' consentire un esito favorevole del giudizio per l'odierna appellante.
P. Q. M. Visti gli artt. 1 e seguenti della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, 23 e seguenti della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 8, alinea n. 7, del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con r.d. 3 marzo 1934, n. 383, in relazione agli artt. 3, primo comma e 51, primo comma della Costituzione, sotto i profili e nei limiti di cui ai punti 4 e 5 della motivazione che precede; Ritenuta altresi' la rilevanza della predetta questione; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sospende il giudizio in corso, per la parte non definita con sentenza parziale n. 537/1996; Ordina che, a cura della segreteria della sezione, la presente ordinanza sia notificata alle parti in causa ed al Presidente del Consiglio dei Ministri, e comunicata ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica. Cosi' deciso in Roma, nella camera di consiglio, palazzo Spada, il giorno 11 maggio 1999. Il presidente: Iannotta Il consigliere, est.: Giaccardi 99C2208