N. 202 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 luglio 2014

Ordinanza del 22 luglio 2014 emessa dalla  Corte  di  cassazione  sul
ricorso proposto da G.M.. 
 
Misure  di  prevenzione  -   Provvedimenti   di   confisca   adottati
  nell'ambito dei procedimenti di prevenzione - Ricorso in cassazione
  -  Ammissibilita'  del  ricorso  limitatamente   al   vizio   della
  violazione di legge - Disparita' di trattamento rispetto  a  quanto
  si  verifica  nel  caso  della  confisca  ex  art.  12-sexies   del
  decreto-legge n. 306 del 1992 (c.d. confisca allargata) - Contrasto
  con il principio di ragionevolezza - Lesione del diritto di difesa. 
- Legge 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma undicesimo; legge 14
  maggio 1965,  n.  575,  art.  3-ter,  comma  secondo  (ora  decreto
  legislativo 6 settembre 2011, n. 159, artt.  10,  comma  3,  e  27,
  comma 2). 
- Costituzione, artt. 3 e 24. 
(GU n.47 del 12-11-2014 )
 
                   LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE 
                        Quinta Sezione Penale 
 
    Composta da: 
        dott. Dubolino Pietro - Presidente - C.C. - 16 maggio 2014; 
        dott. Fumo Maurizio; 
        dott.ssa De Berardinis Silvana; 
        dott. Guardiano Alfredo - Relatore; 
        dott. Positano Gabriele. 
    Ha  pronunziato  la  seguente  Sentenza-  Ordinanza  sul  ricorso
proposto da G. M. nato a Reggio Calabria il 25 novembre 1976, avverso
il decreto emesso dalla corte di appello di  Reggio  Calabria  il  12
aprile 2012; 
    Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; 
    Udita  la  relazione  svolta  dal   consigliere   dott.   Alfredo
Guardiano; 
    Letta la requisitoria del 13 luglio 2012,  con  cui  il  pubblico
ministero nella persona  del  sostituto  procuratore  generale  dott.
Gioacchino Izzo ha concluso per il rigetto del ricorso. 
 
                           Fatto e Diritto 
 
    Con decreto pronunciato il 4 novembre 2011 la Corte di appello di
Reggio Calabria, sezione misure di prevenzione di pubblica sicurezza,
confermava il decreto con cui il tribunale  di  Reggio  Calabria,  in
data 23  febbraio  2011,  aveva  applicato  a  G.  M.  la  misura  di
prevenzione  personale  della  sorveglianza  speciale   di   pubblica
sicurezza per la durata di anni tre, con l'obbligo di  soggiorno  nel
comune di residenza, del versamento della cauzione  di  euro  5000,00
entro dieci giorni dall'inizio della esecuzione della suddetta misura
di prevenzione e con le ulteriori prescrizioni indicate  nel  decreto
in questione. 
    Con il medesimo provvedimento la corte territoriale,  su  appello
proposto dal  pubblico  ministero,  applicava  al  G.  la  misura  di
prevenzione patrimoniale del sequestro e della  confisca,  avente  ad
oggetto i beni immobili indicati nel precedente decreto di  sequestro
n. 18/2010, emesso dal tribunale di Reggio Calabria in data 3  maggio
2010/6 maggio 2010, di cui lo  stesso  tribunale  aveva  disposto  il
dissequestro e la restituzione agli aventi diritto con il  menzionato
provvedimento dei 23 febbraio 2011. 
    2. Avverso il decreto della corte di appello di Reggio  Calabria,
di cui chiede l'annullamento, ha proposto ricorso il G., a mezzo  dei
suoi difensori di fiducia, articolando distinti motivi di ricorso. 
    3. Nel ricorso a firma dell'avv. Vincenzo Nico D'Ascola,  vengono
dedotti tre motivi di ricorso. 
    3.1 Con il primo motivo il ricorrente lamenta  il  vizio  di  cui
all'art. 606, comma 1, lett. b),  c.p.p.,  «per  inesistenza  e  mera
apparenza della motivazione in relazione al giudizio di attualita'  e
pericolosita' sociale  al  fine  dell'applicazione  della  misura  di
prevenzione personale», evidenziando come la corte territoriale,  nel
disattendere  i  motivi  di  appello  «in  punto  di  permanenza   ed
attualita' della pericolosita' sociale» del proposto, da un lato  non
abbia  preso  in  considerazione  il  lungo  periodo  di   detenzione
cautelare sofferta dal G.,«in epoca  successiva  al  fatto  di  reato
contestato  nel  giudizio  penale»,   dall'altro   abbia   reso   una
motivazione meramente apparente, dunque mancante, nell'affermare  che
i rapporti tra l'associazione a delinquere di  stampo  mafioso,  nota
come «c. A.» ed il  suddetto  G.,  sarebbero  proseguiti  anche  dopo
l'attentato incendiario da quest'ultimo subito proprio ad opera della
summenzionata associazione, nel novembre del 2005. 
    In particolare  il  giudice  di  secondo  grado,  ad  avviso  del
ricorrente, non avrebbe indicato gli elementi probatori sui quali  ha
fondato il suo convincimento in ordine a tale circostanza  come  pure
all'ulteriore assunto secondo cui  il  G.  nello  stesso  periodo  di
tempo,  avrebbe  effettuato  delle  operazioni  di  investimento  nel
settore immobiliare nell'interesse della «c.A.» 
    Al riguardo si pone in luce che, tanto nella decisione  di  primo
grado (sentenza n. 150/2010 pronunciata del giudice per  te  indagini
preliminari presso il tribunale di Reggio Calabria in sede di udienza
preliminare), quanto in quella di secondo grado (sentenza n. 10211/11
della  corte  di  appello  di  Reggio  Calabria),   nell'ambito   del
procedimento penale sorto a carico del G., per il delitto di concorso
esterno  in  associazione  di  tipo  mafioso,  in  relazione  ad   un
un'operazione finanziaria di cambio di  dinari  croati  che,  secondo
l'ipotesi accusatoria, la «c. A.» avrebbe concluso per il tramite del
suddetto G., si evidenziava come il rapporto di quest'ultimo con  gli
A.  si  sia  concluso  nel  novembre  del  2005,  peraltro  non   per
circostanze casuali, ma proprio per la ritenuta incapacita' del G., a
rispondere alle aspettative della c., tanto  che  quest'ultima  aveva
deciso di  «punirlo»,  facendolo  oggetto  del  menzionato  attentato
incendiario del novembre  2005;  momento  nei  quale  sarebbe  stato,
quindi, da collocare il definitivo  distacco  del  G.  dal  sodalizio
criminale e dagli obiettivi da esso perseguiti. 
    3.2 Con il secondo motivo di impugnazione, il ricorrente  lamenta
il vizio di cui all'art. 606, comma 1, lett. b), c.p.p., in relazione
agii artt. 2 bis, 2-ter e 3-ter, legge 31 maggio 1965,  n.  575,  con
riferimento   «all'applicazione   della   misura    di    prevenzione
patrimoniale  sotto   il   profilo   dell'indizio   di   appartenenza
all'associazione  A.  in  rapporto  alla   produzione   di   proventi
illeciti». 
    Dopo un'ampia riflessione critica sul complesso sistema normativo
scaturente dalle modificazioni apportate alla disciplina delle misure
di prevenzione patrimoniali dai piu' recenti interventi  legislativi,
il  ricorrente  si   sofferma   sulla   inadeguatezza   dell'apparato
motivazionale del decreto  impugnato,  in  quanto,  a  fronte  di  un
rapporto limitato nel tempo tra  il  G.  e  la  «c.  A.»,  di  natura
estemporanea  ed  occasionale,  circoscritto,  come   sancito   nella
richiamata sentenza n. 10211/11 della  corte  di  appello  di  Reggio
Calabria, all'operazione finanziaria di riciclaggio di dinari  croati
per un valore di circa 200.000 dollari, destinati non al proposto, ma
ad  A.  C.,  indicata  nel  decreto  «quale  fonte  della   provvista
utilizzata per effettuare le operazioni di  investimento  immobiliare
inerenti ai beni  confiscati»,  la  corte  territoriale  non  avrebbe
proceduto   alla   «identificazione   degli   elementi    sintomatici
dell'espletamento  di  un'attivita'  ulteriore,  non  esaminata,  ne'
accertata  in  sentenza  e  produttiva  delle   risorse   finanziarie
ulteriori  rispetto  a  quelle  connesse  all'unica   operazione   di
conversione accertata», venendo meno,  in  tal  modo,  al  dovere  di
«motivare in  maniera  effettiva,  decisa  e  convincente  sui  punto
concernente la provenienza  delle  ingenti  risorse  impiegate  nelle
operazioni di investimento - che si vuole a tutti i costi  attribuire
ad un rapporto collaborativo illecito» tra il proposto e la «c.A.». 
    Il decreto impugnato, pertanto, nella  prospettiva  indicata  dal
ricorrente,  risulterebbe  sorretto  da  una  motivazione   meramente
apparente in ordine alla sussistenza del presupposti dei sequestro  e
della confisca, come fissati dall'art. 2-ter,  comma  2  e  comms  3,
legge 31 maggio 1965, n. 575, che,  con  particolare  riferimento  al
requisito della sproporzione tra il valore dei beni posseduti  ed  il
reddito, dichiarato ai fini delle relative imposte, ovvero  derivante
dalli   attivita'    economica    esercitata,    richiederebbe    una
corrispondenza temporale tra la  formazione  dei  patrimonio  oggetto
delle misure dl prevenzione  reali  ed  i  fatti  dimostrativi  della
pericolosita' sociale del proposto. 
    3.3 Con il terzo motivo di impugnazione, il ricorrente lamenta il
vizio di cui all'art. 606, co. 1, lett. b), c.p.p., in relazione agli
artt. 2-bis, 2-ter  e  3-ter, legge  31  maggio  1965,  n.  575,  con
riferimento   «all'applicazione   della   misura    di    prevenzione
patrimoniale sotto il profilo  della  ritenuta  sproporzione  tra  le
disponibilita' lecite del proposto ed il  valore  degli  investimenti
realizzati». 
    Al  riguardo   il   ricorrente   sofferma   la   sua   attenzione
essenzialmente su due elementi presi in  considerazione  dalla  corte
territoriale per giustificare raccoglimento dell'appello del pubblico
ministero. 
    In relazione al primo (rappresentato dalla mancata  dimostrazione
da parte del proposto di avere accantonato la somma di euro 73.000,00
da utilizzare per i successivi acquisti), rileva il  ricorrente  che,
avendo documentato la difesa l'avvenuta erogazione in favore  del  G.
di un mutuo bancario dell'importo  di  100.000,00  euro  in  data  29
luglio  2004,  di  cui  solo  27.000,00  destinati  alla   estinzione
anticipata di un  mutuo  contratto  in  occasione  dl  un  precedente
investimento immobiliare, allegando  «la  circostanza  dell'ulteriore
utilizzo per finalita' di spesa della porzione rimanente» (pari,  per
l'appunto, a 73.000,00 euro), sarebbe  stato  onere  della  corte  di
appello  indicare  «gli  elementi  probatori  idonei   a   supportare
l'affermazione concernente una diversa destinazione  di  essa,  ossia
conforme  alle  finalita'  (semplicemente)  indicate   in   sede   di
stipulazione del contratto di mutuo», laddove il giudice  di  secondo
grado avrebbe «finito con il  confondere  quella  che  e'  stata  una
semplice  finalita'  indicata  nel  contratto  di   mutuo   ...   con
l'effettiva destinazione  delle  somme  e,  allorquando  ritiene  che
quest'ultima sia certa, in verita' pretende di motivare su un  punto,
il   secondo,   utilizzando   la   certezza   che,   pero',   attiene
esclusivamente al primo». 
     Con riferimento, poi, al secondo elemento (costituito dal valore
dei cespiti acquistati dal G. nel  periodo  2005-2007,  indicato  nei
relativi contratti di compravendita, secondo la  corte  territoriale,
in  misura  inferiore  a  quello  effettivo,  per   motivi   fiscali,
dovendosi, pertanto, ritenere che le somme pagate dal G., a titolo di
prezzo siano state ben maggiori, vale a dire di importo  quanto  meno
pari al valore del cd. montante ipotecario), rileva il ricorrente che
la motivazione del decreto impugnato risulta affetta da una  evidente
«ipoteticita'», che ne disvela la natura meramente apparente, essendo
sganciata da qualsiasi emergenza probatoria. 
    Cio', ad avviso del difensore, appare evidente ove si  consideri:
1) «che non esiste una presunzione generale di  falsita'  dei  valori
dichiarati dalle parti di un contratto di compravendita  immobiliare,
desumibile dalla mera  circostanza  dei  risparmio  fiscale  connesso
all'indicazione di importi ridimensionati»;  2)  «che  valore  di  un
immobile e prezzo  di  vendita  sono  grandezze  non  necessariamente
coincidenti, posto che numerosi e, tra l'altro,  ricorrenti,  sono  i
motivi che possono indurre un soggetto a privarsi di  un  determinato
cespite ad un prezzo inferiore al valore di mercato»; 3) «che il  cd.
montante ipotecario mal si presta a costituire  un  valido  punto  di
riferimento nella quantificazione del prezzo di un  bene  ma,  ancora
prima, nella  ricostruzione  del  suo  valore,  essendo  notorio  che
l'accensione di un'ipoteca avviene, in virtu' di una prassi  bancaria
altrettanto nota, per valori di gran lunga superiori  (quantomeno  il
doppio) rispetto alla somma mutuata», dovendosi,  pertanto,  ritenere
meramente apparente la motivazione del decreto Impugnato nella  parte
in  cui  pretende  di  fondare  su  tale  parametro  la   valutazione
sull'effettivo valore dei beni sottoposti al vincolo reale. 
    3.4 Con motivi nuovi depositati in cancelleria il 2 ottobre 2013,
l'avv. D'Ascola lamenta il vizio di cui all'art. 606, comma 1,  lett.
b), c.p.p., contestando  ancora  una  volta  il  carattere  meramente
apparente (e, quindi, l'inesistenza) della  motivazione  del  decreto
impugnato in relazione al  presupposto  della  disposta  applicazione
delle misure di prevenzione  personale  e  reali,  rappresentato  dal
contributo fornito dal G., alle attivita'  illecite  della  «c.  A.»,
messo in discussione dalla sentenza con cui la Corte  di  Cassazione,
in data 15 febbraio 2013 ha, annullato la menzionata  sentenza  della
corte di appello di Reggio  Calabria  n.  10211/11,  ravvisando  «una
carenza motivazionale  proprio  in  relazione  al  tema  fondamentale
costituito  dalla  ritenuta  sussistenza  dell'associazione  di  tipo
mafioso di cui il G. sarebbe stato concorrente». 
    4. Nel ricorso a firma dell'avv. Lorenzo  Gatto  vengono  dedotti
due motivi di ricorso. 
    4.1 Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta  la
violazione dell'art. 606, comma  1,  lett.  b)  ed  e),  c.p.p.,»  in
relazione all'applicazione dell'art. 1, legge n. 575/65 e  successive
modifiche», per avere la corte territoriale ritenuto  la  sussistenza
in termini di attualita' della  pericolosita'  sociale  del  proposto
sulla  base  di  una  presunzione,  inammissibile  in  considerazione
dell'autonomia  del  procedimento   di'   prevenzione   rispetto   al
procedimento penale, fondata sulla intervenuta sentenza di  condanna,
in primo ed in secondo grado, alla pena di anni tre dl reclusione del
G. per il delitto di concorso esterno nell'associazione a  delinquere
di stampo mafioso nota come «c.A.», con la quale il proposto  avrebbe
collaborato, mettendo a disposizione del sodalizio criminoso  le  sue
competenze in materia finanziaria, grazie alle quali aveva provveduto
all'organizzazione ed alla gestione di operazioni di  riciclaggio  in
valuta estera di somme di denaro oggetto di proventi illeciti. 
    La corte territoriale, rileva il ricorrente, invece di  procedere
ad un «insano» automatismo tra  procedimento  penale  e  giudizio  di
prevenzione, rispondente alla logica  secondo  cui  ad  una  condanna
penale per il delitto di cui agli  artt.  110,  416-bis,  c.p.,  deve
conseguire  necessariamente   l'applicazione   di   una   misura   dl
prevenzione ex legge n. 1423/56 nei confronti dell'imputato,  avrebbe
dovuto verificare in concreto se nei confronti del G., all'atto della
presentazione  della  richiesta  di  applicazione  della  misura   di
prevenzione personale, fosse formulabile un giudizio di pericolosita'
sociale in termini di attualita'. 
    Tale verifica andava svolta -  si  sostiene  -  considerando  una
serie di elementi che, ad avviso del ricorrente,  mal  si  conciliano
con  la  presunzione  di  pericolosita'  sociale  del   G.   ed,   in
particolare, la comprovata capacita' reddituale di  quest'ultimo;  la
mancanza, nei cinque anni successivi alla  consumazione  del  delitto
associativo, trascorsi dal proposto in  stato  di  liberta',  di  una
condotta rivelatrice di una pericolosita' attuale (in  tale  periodo,
infatti, evidenzia il difensore, G. non ha frequentato  pregiudicati,
svolgendo  una  costante  e  regolare   attivita'   lavorativa);   la
cessazione  della  operativita'  della  «c.  A.»   conseguente   alla
detenzione dei componenti  dell'associazione  criminosa.  L'impugnato
decreto risulterebbe, pertanto, assolutamente  carente  e  totalmente
illogico nel suo apparato motivazionale, che  si  pone  in  contrasto
anche con il disposto dell'art. 192, comma  2,  c.p.p.,  in  tema  di
valore  probatorio  degli  indizi,  applicabile  anche  in  sede   di
procedimento di prevenzione. 
    4.2 Con il secondo motivo di impugnazione il  ricorrente  lamenta
il vizio di  cui  all'art.  606,  comma  1,  lett.  b),  c.p.p.,  «in
relazione all'applicazione dell'art. 2-bis e 2-ter legge n. 575/65  e
successive modifiche», in quanto la motivazione del decreto impugnato
al riguardo e' fondata «su mere  congetture,  inaccettabili  sia  sul
piano logico che  su  quello  fattuale,  in  quanto  non  riferite  a
specifici e ben individuati elementi di fatto». 
    In particolare, rileva il ricorrente, la  corte  territoriale  ha
ritenuto che il reale prezzo pagato dal proposto per l'acquisto degli
immobili  sottoposti  alle  misure   di   prevenzione   reali   fosse
notevolmente   superiore   di   quello   indicato   negli   atti   di
compravendita, sulla base di una mera supposizione fondata sul valore
del cd. montante ipotecario. 
    Inoltre, evidenzia il difensore, il giudice di secondo grado  non
avrebbe considerato che tutte le compravendite immobiliari in cui  il
G. figurava come acquirente avevano alla  base  mutui  ipotecari  che
permettevano a quest'ultimo «di bilanciare nell'anno  le  esposizioni
debitorie  e   che   nel   frattempo   garantivano   liquidita'   per
l'investimento successivo», secondo una  logica  speculativa  propria
dell'attivita' di promotore finanziario cui il G. si era dedicato nel
2003, dopo  avere  lasciato  il  lavoro  di  dipendente  della  Banca
Antonveneta, ne'  avrebbe  tenuto  conto  delle  somme  ricevute  dal
proposto nel corso degli  anni,  a  titolo  sia  di  liberalita'  dai
genitori, sia di risarcimento dei danni  derivanti  dalla  morte  del
fratello  a  seguito  di  un  incidente  stradale,  oltre  che  della
buonuscita corrispostagli a seguito della cessazione del suo rapporto
di lavoro. 
    Il provvedimento oggetto di ricorso risulta, pertanto, ad  avviso
del ricorrente, risulterebbe  sfornito  di  adeguata  motivazione  in
relazione  al  profilo  riguardante  l'esistenza  di  una   effettiva
sproporzione tra il reddito dichiarato dal condannato  o  i  proventi
della sua attivita' economica ed il  valore  economico  dei  beni  da
confiscare. 
    5. Nell'affrontare l'impugnazione proposta nell'interesse del  G.
vanno tenute distinte  le  questioni  prospettate  dai  difensori  di
quest'ultimo riguardanti la misura di prevenzione personale da quelle
relative alle misure di prevenzione reali. 
    6.  Con   riferimento   alle   prime,   se   ne   deve   rilevare
l'infondatezza, con conseguente rigetto del ricorso. 
    6.1.  Al  riguardo  giova  rammentare  che   risulta   da   tempo
consolidato in sede di legittimita' l'orientamento giurisprudenziale,
condiviso dal Collegio, in base  al  quale,  in  tema  di  misure  di
prevenzione nei confronti di indiziati di appartenere ad associazione
di  tipo   mafioso,   il   principio   secondo   cui   il   requisito
dell'attualita' della pericolosita' e' da considerare implicito nella
ritenuta attualita' dell'appartenenza opera anche quando quest'ultima
assume la forma del  «concorso  esterno»,  caratterizzato  dalla  non
temporaneita' del contributo prestato al sodalizio e,  quindi,  dalla
presunzione di attualita'  del  pericolo,  salvo  che  non  ricorrano
elementi dai quali si desuma  l'avvenuta  interruzione  del  rapporto
(cfr. Cass., sez. I, 17 maggio 2013, n. 39205, rv.  256769,  nonche',
nello stesso senso, Cass., sez. I,  7  aprile  2010,  n.  16783,  rv.
246943; Cass., sez. VI, 10 aprile 2008, n. 35357, rv. 241251). 
    In tema  di  misure  di  prevenzione,  infatti,  il  concetto  di
«appartenenza» ad una associazione  mafiosa  va  distinto  sul  piano
tecnico da quello di «partecipazione», risolvendosi in una situazione
di contiguita' all'associazione stessa che - pur senza  integrare  il
fatto-reato tipico del soggetto che organicamente e'  partecipe  (con
ruolo direttivo o meno) dei sodalizio mafioso  -  risulti  funzionale
agli interessi della struttura criminale e  nel  contempo  denoti  la
pericolosita'  sociale  specifica   che   sottende   al   trattamento
prevenzionale. 
    Dal che deriva l'ammissibilita' dell'applicazione delle misure di
prevenzione, per l'appunto,  anche  a  quanti  «appartengano»  ad  un
sodalizio mafioso non in qualita'  di  partecipi  ma  di  concorrenti
esterni (cfr Cass., sez. II, 16 febbraio 2006, n. 7616,  rv.  234746;
Cass., sez. II, 16 dicembre 2005, n. 1023, rv. 233169). 
    Proprio l'appartenenza  all'associazione  di  tipo  mafioso,  nel
senso innanzi indicato, dunque, implica di  per  se'  una  latente  e
permanente pericolosita' sociale del  soggetto,  con  la  conseguenza
che,  per  escludere  l'attualita'  di  tale  pericolosita',  occorre
acquisire  il  recesso  personale  da  quella  organizzazione  o   la
disintegrazione di questa (cfr., ex plurimis, Cass., sez. I, 31 marzo
1995, n. 2019, rv. 201459). 
    Peraltro, come  pure  e'  stato  affermato  da  un  condivisibile
orientamento giurisprudenziale, prevalente in sede  di  legittimita',
una volta adeguatamente dimostrata  l'appartenenza  del  proposto  ad
un'associazione a delinquere di stampo  mafioso,  non  e'  necessaria
alcuna particolare  motivazione  del  giudice  in  punto  di  attuale
pericolosita', che potrebbe essere esclusa solo nel caso  di  recesso
dall'associazione, del quale occorrerebbe acquisire positivamente  la
prova, non  bastando  a  tal  fine  eventuali  riferimenti  al  tempo
trascorso dall'adesione o dalla concreta partecipazione ad  attivita'
associative (cfr, Cass., sez, V, 22 marzo 2013, n. 3538, rv.  258658;
Cass., sez. II, 15 gennaio 2013, n. 3809, rv. 254512; Cass., sez. II,
5 luglio 2013, n. 29478, rv. 256178; Cass., sez. VI, 21/11/2008 ,  n.
499, rv. 242379; Cass., sez,  VI,  23  novembre  2004,  n.  114,  rv.
231448). 
    6.2. Vanno del pari condivise le conclusioni  cui  e'  giunta  la
giurisprudenza  della  Suprema  Corte  in  ordine  al  rapporto   che
intercorre tra il procedimento di prevenzione ed il processo  penale,
evidenziandone  le  profonde  differenze  funzionali  e  strutturali,
essendo il secondo ricollegato a un fatto-reato e il primo riferito a
una valutazione di pericolosita', espressa mediante condotte che  non
necessariamente costituiscono reato. 
    Si tratta di procedimenti autonomi e proprio  da  tale  autonomia
deriva che nel procedimento  di  prevenzione  la  prova  indiretta  o
indiziarla non deve essere dotata dei caratteri prescritti  dall'art.
192, c.p.p. (cfr. Cass., sez. II,  30  aprile  2013,  n.  26774,  rv.
256820; Cass., sez. I, 29 aprile 2011, n. 20160, rv.  250278;  Cass.,
sez. V, 28 marzo 2002, n, 23041; Cass., sez. I, 21 ottobre  1999,  n.
5786, rv. 215117). 
    6.3. Conseguenza ulteriore  della  descritta  autonomia  dei  due
procedimenti va individuata nella impermeabilita' del procedimento di
prevenzione alle vicende del processo penale. 
    Nel corso del procedimento di prevenzione,  pertanto, il  giudice
di merito e' legittimato a servirsi di elementi di prova  o  di  tipo
indiziarlo tratti da procedimenti  penali  in  corso,  anche  se  non
ancora definiti con sentenza irrevocabile, e, in  tale  ultimo  caso,
anche a prescindere  dalla  natura  delle  statuizioni  terminali  in
ordine  all'accertamento   della   responsabilita'.   Sicche',   pure
l'assoluzione, anche se irrevocabile, dal reato non comporterebbe  la
automatica  esclusione  della  pericolosita'  sociale,  potendosi  il
relativo scrutinio fondare sia sugli stessi fatti storici  in  ordine
ai quali e' stata esclusa la configurabilita' di  illiceita'  penale,
sia su altri fatti acquisiti o autonomamente desunti nel giudizio  di
prevenzione. 
    Cio' che rileva, e' che il giudizio di pericolosita' sia  fondato
su elementi certi, dai quali possa  legittimamente  farsi  discendere
l'affermazione dell'esistenza della pericolosita', sulla base  di  un
ragionamento immune da vizi. 
    Del resto, che gli indizi sulla cui base formulare il giudizio di
pericolosita'  non  debbano  necessariamente  avere  i  caratteri  di
gravita', precisione e concordanza richiesti dall'art.  192,  c.p.p.,
lo ha affermato anche  la  giurisprudenza  della  Corte  europea  dei
diritti dell'uomo, la quale (Grande Camera, 1° marzo - 6 aprile 2000,
Labita c. Italia) ha ritenuto non in contrasto con i  principi  della
Cedu il fatto che  le  misure  di  prevenzione  siano  applicate  nel
confronti di individui sospettati di  appartenere  alla  mafia  anche
prima della loro condanna, poiche' tendono a impedire  il  compimento
di  atti   criminali;   mentre   il   proscioglimento   eventualmente
sopravvenuto non le priva necessariamente di  ogni  ragion  d'essere:
infatti, elementi concreti raccolti durante  un  processo,  anche  se
insufficienti  per  giungere  a  una   condanna,   possono   tuttavia
giustificare dei ragionevoli dubbi che l'individuo in questione possa
in futuro commettere dei reati (cfr. Cass., sez. II, 28 maggio  2013,
n. 35714; Cass., sez. I, 17 gennaio 2008, n. 6613, rv. 239358; Cass.,
sez. VI, 29 gennaio 1998, n. 332, rv. 210819), 
    6.4.  Tanto  premesso  il  decreto  oggetto  di  ricorso   appare
assolutamente conforme ai principi elaborati dalla giurisprudenza  di
legittimita', sinteticamente indicati nelle pagine che precedono. 
    La corte  territoriale,  infatti,  partendo  dal  dato  oggettivo
rappresentato dalla sentenza di condanna alla pena  di  anni  tre  di
reclusione pronunciata dal giudice per le indagini preliminari presso
il tribunale di Reggio Calabria in data 7 aprile 2010  nei  confronti
del G., perche' ritenuto responsabile del delitto di concorso esterno
nell'associazione a delinquere di stampo mafioso denominata «n.  A.»,
confermata in grado  di  appello  (circostanze,  come  si  e'  visto,
pacificamente ammesse dai difensori del ricorrente),  ha  evidenziato
come l'appartenenza del proposto al suddetto sodalizio criminoso,  in
termini di concorrente esterno, autorizzasse la  formulazione  di  un
giudizio di attuale pericolosita' sociale di quest'ultimo. 
    Tale giudizio si fonda sulla puntuale ricostruzione, operata  dai
giudice di secondo grado, dell'attivita' posta in essere  dal  G.  in
favore  della  menzionata  associazione  mafiosa,   attraverso   ampi
richiami alla motivazione del decreto emesso dal tribunale di  Reggio
Calabria il 23 febbraio 2011, oggetto del giudizio di appello, ed  al
risultati   dell'attivita'   di'   indagine,   dal   quali,   osserva
correttamente la corte territoriale, si desume come il proposto abbia
messo  a  disposizione  degli  interessi  illeciti  della  «c.   A.»,
incontrandosi piu' volte con gli affiliati e con lo storico  capo  A.
C., nel periodo della latitanza di quest'ultimo, la propria capacita'
professionale maturata nel settore economico-finanziario, curando, in
particolare, l'operazione di riciclaggio  di  dinari  croati  per  un
importo di 200.000 dollari, alla quale si  erano  aggiunti  ulteriori
Incarichi aventi sempre ad oggetto il cambio  di  valute  estere  per
importi notevolmente  superiori,  il  ritardo  nell'espletamento  dei
quali aveva determinato  l'irritazione  dei  capi  dell'associazione,
che, per punirlo della inefficienza dimostrata, avevano dato l'ordine
di incendiare l'autovettura del proposto. 
    Con motivazione approfondita  e  dotata  di  intrinseca  coerenza
logica  la  corte  ha  sottolineato  come  l'episodio   dell'incendio
dell'autovettura del G., valorizzato nella prospettiva  difensiva  in
quanto elemento dimostrativo dell'avvenuto  recesso  di  quest'ultimo
dalla «c. A., debba essere interpretato  in  una  luce  completamente
diversa, essendo stato perpetrato proprio allo scopo di richiamare il
proposto «ad attendere ai suoi doveri nei confronti della  cosca  con
maggiore sollecitudine ed efficacia», come si  evince  dal  contenuto
delle conversazioni di A. G., intercettate dal  mese  di  agosto  del
2005 in poi, in una prospettiva, quindi, In cui il legame tra il G. e
la «c. A.» e' ben lungi dall'essere reciso, ma  tende  a  rafforzarsi
ulteriormente,   come   dimostrato    dall'ulteriore    significativa
circostanza che il proposto, anche dopo avere subito l'attentato,  ha
continuato nelle operazioni di Investimento  immobiliare,  finanziate
in parte con i proventi illeciti provenienti dal sodalizio (cfr.  pp.
6-7). 
    In presenza di  una  motivazione  niente  affatto  apparente,  ma
approfondita, immune da vizi e conforme ai principi  elaborati  dalla
giurisprudenza di legittimita' in subiecta materia, anche l'ulteriore
argomento rappresentato dall'avv. D'Ascola nei  motivi  nuovi  appare
privo di rilievo. 
    Cio' in quanto l'indicato arresto della Corte di  Cassazione  del
15 febbraio 2013 (allegato al ricorso), che ha annullato la  sentenza
della corte di appello di Reggio Calabria del  20  aprile  2011,  con
rinvio degli atti per un  nuovo  giudizio,  individuando  un  difetto
motivazionale in ordine alla affermata  sussistenza  della  «n.  A.»,
come nuova compagine associativa, rispetto  a  quella  gia'  ritenuta
operante in passato da precedenti sentenze divenute irrevocabili,  da
un   lato   non   rappresenta   una   statuizione   terminale   sulla
responsabilita' penale del G. per li delitto associativo in  senso  a
lui  favorevole,   dall'altro   costituisce   elemento   sopravvenuto
all'adozione del decreto impugnato, sul quale  la  motivazione  della
corte territoriale per ovvie ragioni non era in grado di soffermarsi,
che, pertanto, non puo' formare oggetto di valutazione per  la  prima
volta in questa sede di legittimita'. 
    7. Passando ad esaminare le questioni  prospettate  relativamente
alle  misure  di  prevenzione  reali  applicate  nei  confronti   del
Grillone, ritiene il Collegio di dovere preliminarmente sollevare, ai
sensi dell'art. 23, comma 3, legge 11 marzo 1953, n. 87, la questione
di legittimita' costituzionale del combinato disposto  dell'art.  10,
comma 3, d. lgs. 6  settembre  2011,  n.  159  (gia'  art.  4,  comma
11, legge 27 dicembre 1956, n. 1423) e dell'art. 27, co. 2, d. lgs. 6
settembre 2011, n. 159 (gia' art. 3-ter,  comma  2, legge  31  maggio
1965, n, 575), in relazione agli arti. 3 e 24 della Costituzione. 
    8. Le ragioni che inducono questa  Corte  a  sollevare  d'ufficio
l'indicata   questione   di   legittimita'   costituzionale   possono
riassumersi nei seguenti termini. 
    8.1. Come e' noto, ai  sensi  dell'art.  4,  comma  11, legge  27
dicembre 1956, n. 1423, avverso il decreto della corte d'appello, che
decide  sulla  impugnazione  avverso  il  provvedimento  con  cui  il
tribunale applica una delle misure di prevenzione personali  previste
dall'art. 3, legge 27 dicembre 1956, n. 1423, e' ammesso  ricorso  in
cassazione per violazione di legge, da parte del pubblico ministero e
dell'interessato. 
    Il   sistema   delle   impugnazioni   avverso   i   provvedimenti
dell'autorita'  giudiziaria   di   applicazione   delle   misure   di
prevenzione personali previste dall'art. 3, legge 27  dicembre  1956,
n. 1423, e' stato esteso, dall'art. 3-ter, comma 2, legge  31  maggio
1965, n. 575, anche al provvedimento con cui  il  tribunale  dispone,
tra l'altro, la confisca dei beni  sequestrati,  ai  sensi  dell'art.
2-ter, legge 31 maggio 1965, n. 575. 
    Ne consegue che anche nei confronti del decreto con cui la  corte
di  appello   decide   sulla   impugnazione   proposta   avverso   il
provvedimento con cui il tribunale applica  la  misura  di  sicurezza
patrimoniale della confisca dei beni (o  del  sequestro)  e'  ammesso
ricorso per cassazione solo per violazione di legge. 
    Orbene  proprio  questa  limitazione   del   vizio   denunciabile
attraverso il ricorso per cassazione alla sola violazione  di  legge,
fa sorgere il dubbio di conformita'  a  Costituzione  della  relativa
previsione normativa, che si badi bene, e'  rimasta  invariata  anche
dopo l'intervenuta abrogazione della legge 27 dicembre 1956, n.  1423
e della legge 31 maggio 1965, n. 575 da parte dell'art. 120, comma 1,
lettera a) e lettera b), del d.lgs. 6 settembre 2011, n. 159. 
    Ed invero, attualmente, l'art. 10, comma 3, d. lgs.  6  settembre
2011, n. 159, riproduce il contenuto dell'art. 4, comma 11, legge  27
dicembre 1956, n.  1423,  mentre  l'art.  27,  comma  2,  d.  lgs.  6
settembre 2011, n. 159, al pari dell'art. art. 3-ter, comma  2, legge
31 maggio 1965, n, 575, nel rimandare alle disposizioni contenute nei
citato art. 10, comma 3, d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159,  ribadisce
il principio secondo cui avverso il  decreto  con  cui  la  corte  di
appello decide  sulla  impugnazione  del  provvedimento  con  cui  il
tribunale ha disposto la confisca dei beni sequestrati,  puo'  essere
proposto ricorso per cassazione solo per violazione di legge. 
    8.2. Al riguardo va preliminarmente rammentato che, nel  definire
la nozione di «violazione di legge», in tutti  i  casi  in  cui  essa
rappresenta l'unico vizio che puo' essere dedotto con il ricorso  per
cassazione, la  giurisprudenza  del  Supremo  Collegio  e'  da  tempo
attestata sul principio secondo  cui  non  rientra  nei  concetto  di
violazione di legge, come indicato negli art. 111 cost. e 606,  lett.
b) e c), c.p.p., la contraddittorieta'  o  la  manifesta  illogicita'
della motivazione, in quanto separatamente previste  come  motivo  di
ricorso dall'art. 606, lett. e), stesso codice (cfr. Cass.,  sez.  I,
27 ottobre 2010, n. 40827, rv. 248468; Cass., sez. V, 8 maggio  1998,
n. 2879, rv. 210934; Cass., sez. I, 9  maggio  2006,  n.  19093,  rv.
234179; Cass., sez. IV, 27 febbraio 2004, n. 20191; Cass., sez. un. ,
28 gennaio 2004, n. 5876, rv. 226710; Cass., sez.  un.  ,  29  maggio
2008, n. 25932, rv. 239692.) 
    8.3 Il tema di cui si discute, inoltre, e' gia' stato  affrontato
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 321 del 5 novembre 2004,
con cui e' stata dichiarata non fondata, in riferimento agli art. 3 e
24, Cost., la questione  di  legittimita'  costituzionale,  sollevata
dalla Corte di Cassazione, dell'art. 4, comma 11, legge  27  dicembre
1956 n. 1423, nella parte in cui, limitando alla sola  violazione  di
legge il ricorso contro ii decreto della corte d'appello  in  materia
di misure di prevenzione, esclude la  possibilita'  di  ricorrere  in
cassazione facendo valere il vizio  di  manifesta  illogicita'  della
motivazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. 
    In particolare il Giudice delle Leggi, premesso  che  il  giudice
remittente «muove dall'assunto che l'impossibilita' di controllare la
congruenza della struttura  logica  della  motivazione  comporti  una
ingiustificata contrazione delle garanzie difensive apprestate in  un
procedimento potenzialmente idoneo, al pari del processo  penale,  ad
incidere sulla liberta' personale,  e  che  la  disciplina  censurata
introduca una ingiustificata disparita'  di  trattamento  rispetto  a
quanto  previsto  per  le  misure  di  sicurezza  e  per  le   misure
contemplate dall'art. 6 della legge n. 401 del 1989»,  osservava  che
«tali  rilievi  tuttavia  si  basano  sul   confronto   tra   settori
direttamente  non  comparabili,  posto   che   il   procedimento   di
prevenzione, il processo penale e il procedimento per  l'applicazione
delle misure di sicurezza sono dotati di  proprie  peculiarita',  sia
sul terreno processuale che nei presupposti sostanziali», aggiungendo
che,  secondo  la  costante   giurisprudenza   della   stessa   Corte
costituzionale, «le forme di esercizio del diritto di difesa  possono
essere diversamente modulate in  relazione  alle  caratteristiche  di
ciascun  procedimento,  allorche'  di  tale  diritto  siano  comunque
assicurati lo scopo e la funzione (v. tra molte ordinanze n. 352 e n.
132 del 2003)», per cui «non  puo'  ritenersi  lesivo  dei  parametri
evocati che i vizi della motivazione siano variamente  considerati  a
seconda del tipo di decisione a cui ineriscono». 
    8.4. La menzionata  decisione  della  Corte  costituzionale,  pur
accennandovi, non prende posizione in ordine  all'esatto  significato
da attribuire alla «violazione di legge» quale vizio  deducibile  con
il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti in tema  di  misure
di prevenzione adottati dalla corte di appello. 
    Non appare revocabile in dubbio, tuttavia, che al riguardo si sia
formato nella giurisprudenza di  legittimita'  un  «diritto  vivente»
secondo cui, essendo ammesso, in materia di  misure  di  prevenzione,
personali e patrimoniali, il  ricorso  per  cassazione  soltanto  per
violazione  di  legge,  giusto  il  disposto  dell'art.  4, legge  27
dicembre 1956 n. 1423, richiamato dall'art. 3-ter, comma 2, legge  31
maggio 1965 n. 575, il  vizio  della  motivazione  del  decreto  puo'
essere dedotto solo qualora se ne contesti l'inesistenza  o  la  mera
apparenza, qualificabili come forme  di  violazione  dell'obbligo  di
provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello dal nono
comma del predetto art. 4, legge n. 1423 del 1956 (oggi comma secondo
dell'art. 10, d. lgs., 6  settembre  2011,  n.  159),  non  potendosi
estendere il ricorso  al  controllo  dell'iter  giustificativo  della
decisione, sicche' e' inammissibile l'impugnazione  con  cui  vengano
denunciati I vizi di contraddittorieta' o  di  illogicita'  manifesta
della motivazione (cfr., ex plurimis, Cass., sez. VI, 27 giugno 2013,
n. 35240, rv. 256263; Cass., sez. VI, 28 febbraio 2013, n. 20816, rv,
257007; Cass., sez. VI, 15 gennaio 2013, n. 24272, rv, 256805; Cass.,
sez. V, 8 aprile 2010, n. 19598, rv. 247514). 
    La  posizione  su  cui  si  e'  attestata  la  giurisprudenza  di
legittimita' in tema  di  sindacato  sulla  motivazione  del  decreto
adottato dalla corte di  appello  nel  procedimento  di  prevenzione,
dunque,  esclude  dal  novero  dei  vizi  deducibili   in   sede   di
legittimita' le ipotesi previste dall'art. 606  comma  1,  lett.  e),
c.p.p., potendosi esclusivamente denunciare con il ricorso il caso di
motivazione inesistente o meramente apparente. 
    Ne deriva, pertanto, come e' stato  evidenziato,  che,  oltre  ai
casi di mancanza assoluta di motivazione, col ricorso per  cassazione
contro i decreti emessi In  materia  di  misure  di  prevenzione,  la
motivazione deve ritenersi censurabile soltanto quando sia priva  dei
requisiti minimi di coerenza, di completezza e di logicita', al punto
da risultare meramente apparente,  o  sia  assolutamente  inidonea  a
rendere comprensibile il filo logico seguito dal  giudice  di  merito
ovvero, ancora, quando le linee argomentative del provvedimento siano
talmente scoordinate e carenti dei necessari passaggi logici da  fare
risultare oscure le ragioni  che  hanno  giustificato  l'applicazione
della misura (cfr. Cass., sez.  I,  21  gennaio  1999,  n.  544,  rv.
212946; Cass., sez. VI, 10 marzo 2008, n. 25795). 
    Orbene, prescindendo dal rilevare come  l'operazione  ermeneutica
sino ad ora sviluppata  dalla  giurisprudenza  di  legittimita',  sia
segnata da una evidente e  «contraddittoria»  tendenza  a  ricondurre
nell'ambito della «motivazione apparente» e, quindi, nel vizio  della
«violazione di legge», deficienze motivazionali che, in alcuni  casi,
andrebbero in  realta'  inquadrate  nelle  categorie  della  carenza,
contraddittorieta'  e  manifesta   illogicita'   della   motivazione,
l'interprete  non  puo'  prescindere  dai  risultato  della  indicata
elaborazione giurisprudenziale, che  non  consente  di  dedurre,  nel
procedimento di prevenzione, con il mezzo del ricorso per  cassazione
avverso il decreto della corte di appello previsto  dal  citato  art.
10, co. 2, d. lgs. 6 settembre 2011, n, 159, i vizi di  cui  all'art.
606, comma 1, lett. e),  c.p.p.,  e,  quindi,  correlativamente,  non
chiedersi se tale limitazione sia giustificabile e  non  costituisca,
piuttosto, violazione del principio di ragionevolezza. 
    8.4. Tale  dubbio  si  rafforza,  poi,  alla  luce  dell'ennesimo
intervento di riforma del Legislatore in  subiecta  materia,  che  ha
rappresentato  l'occasione  per  una  serie   di   interventi   della
giurisprudenza di legittimita' sul  tema,  da  tempo  controverso  in
dottrina ed in giurisprudenza, della natura  della  confisca  cd.  di
prevenzione. 
    Come  e'  noto,  infatti,  l'art.  10,   comma   1,   lett.   c),
decreto-legge 23 maggio 2008 n. 92,  convertito,  con  modificazioni,
nella legge 24 luglio 2008, n. 125, come  successivamente  modificato
dall'art. 2, co. 22, legge 15 luglio 2009, n. 94,  ha  introdotto  un
nuovo comma, il 6 bis, all'art. 2-bis, legge n.  575  del  1965  (ora
riprodotto all'art. 18, comma 1, d.lgs. n. 159 del 2011) in  base  al
quale «le misure di  prevenzione  personali  e  patrimoniali  possono
essere richieste e applicate  disgiuntamente  e,  per  le  misure  di
prevenzione  patrimoniali,  indipendentemente   dalla   pericolosita'
sociale dei soggetto proposto per la  loro  applicazione  al  momento
della richiesta della misura di prevenzione.» 
    Orbene, secondo  un  orientamento  recentemente  formatosi  nella
giurisprudenza di legittimita', il citato intervento  normativo,  non
richiedendo piu' come presupposto necessario per l'applicazione della
misura di prevenzione patrimoniale della confisca che il proposto sia
persona socialmente (ed attualmente) pericolosa,  avrebbe  accentuato
la natura eminentemente sanzionatoria della confisca di  prevenzione,
non rendendola assimilabile alle misure di sicurezza patrimoniali  e,
pertanto, non consentendo dl estendere nei suoi confronti  la  deroga
al  principio  della  irretroattivita'  della  legge  penale  di  cui
all'art. 11 delle preleggi al codice civile, fissata  dall'art.  200,
co. 1, c.p. (cfr. Cass., sez. V, 13  novembre  2012,  n.  14044,  rv.
255042, nonche', nello stesso senso, Cass,, sez. I, 28 febbraio 2012,
n. 11768, rv, 252297, in tema di confisca per  equivalente,  prevista
dal comma 10, dell'art. 2-ter legge  n.  575  del  1965,  cosi'  come
novellato dall'art. 10 comma 1 lett. d) n. 4 del decreto-legge n,  92
del 2008, conv. in legge n. 125 del 2008). 
     Altro orientamento, invero prevalente, e' attestato sull'opposta
tesi,  secondo  la  quale  il  venir  meno  dei   presupposto   della
pericolosita' sociale non ha modificato la natura della  confisca  di
prevenzione di persona indiziata di appartenere ad un'associazione di
stampo mafioso, che, come gia' affermato da tempo dalla Suprema Corte
nella sua espressione piu' autorevole (cfr. Cass, sez. u.,  3  luglio
1996, n. 18, rv. 205262), non ha ne' il  carattere  sanzionatorio  di
natura penale, ne' quello di un provvedimento di prevenzione,  ma  va
ricondotta nell'ambito di  quel  «tertium  genus  costituito  da  una
sanzione amministrativa, equiparabile, quanto  al  contenuto  e  agli
effetti, alla misura di sicurezza della confisca di cui all'art.  240
comma 2 c.p., con la conseguenza che ad essa si applica  il  disposto
dell'art. 200, co.1, c.p. (cfr.,  ex  plurimis,  Cass.,  sez.  I,  17
maggio 2013, n. 39204, rv. 256141; Cass., sez. II, 14 marzo 2012,  n,
21894, rv. 252829; Cass., sez. V, 20  gennaio  2010,  n.  16580,  rv.
246863). Le stesse Sezioni Unite della Corte di Cassazione, peraltro,
con una recentissima decisione, non ancora oggetto  di  massimazione,
sono tornate sull'argomento, ribadendo l'equiparazione della confisca
adottata nell'ambito del procedimento di prevenzione alle  misure  di
sicurezza,  con  conseguente  applicabilita'  in   subiecta   materia
dell'art. 200, c.p. (cfr. Cass., sez, un. , 26  giugno  2014,  S.  ed
altri). 
    8.5.  L'esatta  individuazione  della  natura   giuridica   della
confisca  di  prevenzione,  tuttavia,  non  assume  valore   decisivo
nell'unica prospettiva che rileva in  questa  sede,  riguardante  «il
catalogo» del vizi che possono essere  dedotti  con  il  ricorso  per
cassazione avverso il decreto con cui  la  corte  di  appello  decide
sulla impugnazione del provvedimento dei tribunale applicativo  della
menzionata confisca. 
    Al riguardo non puo' non rilevarsi che,  come  evidenziato  nella
citata sentenza della prima sezione della Suprema Corte n. 11768  del
28 febbraio 2012, sia in sede di' giurisprudenza della Corte  Europea
dei Diritti dell'Uomo, formatasi in particolare  sull'interpretazione
degli artt. 6 e 7 della CEDU, sia nella giurisprudenza  della  stessa
Corte costituzionale, si e' affermata una  tendenza  ad  assoggettare
«tutte  le  misure   di   carattere   punitivo-afflittivo»   (ed   e'
incontestabile che  la  confisca  di  prevenzione  presenti  siffatto
carattere) «alla medesima disciplina della sanzione penale  in  senso
stretto»,  in  una  prospettiva   di   tendenziale   uniformita'   di
trattamento che sarebbe arbitrario limitare al solo principio,  preso
specificamente in considerazione nel menzionato arresto  del  Supremo
Collegio, secondo cui ogni  intervento  sanzionatorio,  quindi  anche
quelli che non appartengono al genus della sanzione penale,  come  le
sanzioni amministrative, richiede che sia «la  legge  a  configurare,
con sufficienza adeguata alla fattispecie, i fatti da punire». 
    In ogni caso, procedendo lungo la strada segnata dalla prevalente
giurisprudenza di' legittimita', della equiparazione  della  confisca
di prevenzione, «quanto al contenuto ed agli effetti», alla misura di
sicurezza di cui all'art.  240,  co.  2,  c.p.,  va  considerato  che
analoga e ben piu'  radicale  equiparazione  e'  ravvisabile  tra  la
suddetta misura di prevenzione patrimoniale e la particolare  ipotesi
di confisca prevista dall'art. 12  sexies,  co.  1,  decreto-legge  8
giugno 1992, n. 306, convertito, con  modificazioni,  nella  legge  7
agosto 1992, n. 356, (cd,  «confisca  penale  allargata»,  ricondotta
dalla  giurisprudenza  di  legittimita'  al  genus  delle  misure  di
sicurezza patrimoniali non  aventi  carattere  sanzionatorio:  Cassa,
sez. VI, 11 ottobre 2012, n. 10887, rv. 254786;  Cass.,  sez.  VI,  6
marzo 2009, n. 25096, rv. 244355), che, nel caso  di  condanna  o  di
applicazione della pena su richiesta  delle  parti,  per  taluno  dei
delitti indicati nei primo e nel  secondo  comma  del  suddetto  art.
12-sexies, prevede come obbligatoria la confisca del denaro, dei beni
o delle altre utilita' di cui il condannato non puo' giustificare  la
provenienza  e  di  cui,  anche  per  interposta  persona  fisica   o
giuridica, risulta  essere  titolare  o  avere  la  disponibilita'  a
qualsiasi  titolo  in  valore  sproporzionato  al  proprio   reddito,
dichiarato  ai  fini  delle  imposte  sul  reddito,  o  alla  propria
attivita' economica». 
    L'equiparazione appare evidente ove si tenga conto,  da  un  lato
che tanto l'art. 12-sexies, co. 1, decreto-legge, 8 giugno  1992,  n.
306, convertito, con modificazioni, nella legge  7  agosto  1992,  n.
356, quanto l'art.  2-ter,  co.  3, legge  31  maggio  1965,  n.  575
(attualmente riprodotto nel testo dell'art. 24, comma 1, prima parte,
d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159),  prescindono  da  una  valutazione
sull'attuale pericolosita'  sociale  del  soggetto  destinatario  del
provvedimento  di  natura  reale  incidente   sul   suo   patrimonio,
prevedendo come comune presupposto per l'applicazione della  confisca
l'esistenza di una «sproporzione» tra il valore dei  beni  posseduti,
direttamente  o  indirettamente,  dall'interessato,   e   i   redditi
risultanti    dalle    dichiarazioni    fiscali    ovvero    comunque
ragionevolmente riconducibili alle attivita'  economiche  esercitate;
dall'altro che in entrambi i casi attraverso l'effetto  ablativo  dei
beni l'ordinamento persegue l'obiettivo di evitare  che  «il  sistema
economico legale sia funzionalmente alterato da anomali  accumuli  di
ricchezza». 
    Ne' va taciuta l'esistenza di una evidente vicinanza  tra  i  due
istituti, sotto il particolare profilo della sequenza  attraverso  la
quale vengono  adottati  i  provvedimenti  in  cui  prende  corpo  la
finalita'  ablativa,  dominata  dal  carattere  giurisdizionale   che
caratterizza  i   relativi   procedimenti,   entrambi   destinati   a
concludersi con provvedimenti definitivi, pur suscettibili di revoca. 
     E' significativo, al  riguardo,  che,  ai  sensi  dell'art.  28,
d.lgs. 6 settembre 2011,  n.  159,  la  revocazione  della  decisione
definitiva sulla confisca, al pari della revisione delle decisioni di
condanna divenute irrevocabili prevista dall'art. 630 del  codice  di
rito, possa essere richiesta «nelle forme previste dall'art. 630  dei
codice di proceduta penale», per ipotesi riconducibili alla  medesima
ratio che ispira i casi di revisione indicati nel  citata  art.  630,
lett. a); c) e d), c.p.p.). 
    Ulteriore sintomo della totale sovrapponibilita', ai fini che qui
interessano, tra la «confisca di prevenzione» e la  «confisca  penale
allargata» va ravvisato, altresi', nel fatto  che,  pur  mantenendosi
nell'alveo di un procedimento giurisdizionale,  la  confisca  di  cui
all'art.  12-sexies  decreto-legge  8  giugno  1992  n.  306,   conv.
nella legge 7 agosto 1992 n. 356,  non  deve  necessariamente  essere
disposta con la sentenza di condanna,  che  ne  rappresenta  solo  il
necessario presupposto. 
    La suddetta, confisca, infatti, secondo  il  noto  e  consolidato
orientamento di questa Corte, puo' essere disposta anche dal  giudice
dell'esecuzione che provvede «de plano», a norma degli art. 676 e 667
comma 4 c.p.p., ovvero all'esito di procedura  in  contraddittorio  a
norma dell'art. 666 c.p.p., salvo che sulla questione non abbia  gia'
provveduto il giudice della cognizione  con  conseguente  preclusione
processuale (cfr., per tutte: Cass. S.U. 30  maggio  2001  n.  29022;
Cass., sez. 1, 9 marzo 2007 n. 22752; Cass. sez. VI, 20 maggio  2008,
n. 27343, rv. 240585; Cass., sez. VI, 15 novembre 2012, n. 49974); ed
e'  assdiutamente  indiscusso   che   anche   il   provvedimento   di
applicazione della confisca ex art.  12-sexies  del decreto-legge  n.
306/2992 adottato «in executivis» e',  secondo  le  regole  generali,
ricorribile per  cassazione  per  tutti,  indistintamente,  i  motivi
previsti dall'art. 606  c.p.p.,  ivi  compresi,  quindi,  i  vizi  di
motivazione. previo preliminare  esperimento  della  opposizione,  ai
sensi dell'art. 667, comma 4, c.p.p. 
    La «comunanza  strutturale,  ontologica  e  funzionale»  dei  due
istituti,   pur   nella   diversita'   dei   rispettivi   presupposti
applicativi, e' stata, infine,  riconosciuta  da  un  recentissimo  e
condivisibile arresto della Suprema Corte, secondo cui la  differenza
tra la «confisca di prevenzione»  e  la  confisca  penale  allargata»
«riguarda esclusivamente la percezione e la ricostruzione di uno  dei
presupposti applicativi, non il modo di atteggiarsi  e  le  finalita'
del sequestro e della confisca, che  restano  pienamente  coincidenti
(cfr. Cass., sez. I, 20 maggio 2014, n. 1528). 
    8.6. Non appare, pertanto, razionalmente  giustificabile  che,  a
differenza di quanto si verifica nel caso della confisca ex  art.  12
sexies del decreto-legge n. 306/1992,  il  provvedimento  applicativo
della confisca c.d. «di prevenzione» possa essere oggetto di  ricorso
per cassazione solo per violazione di legge. E  cio'  tanto  piu'  in
quanto,  fondandosi,  nell'uno  e  nell'altro  caso,  la  misura   in
questione sul requisito della «sproporzione» tra le legittime risorse
economiche del soggetto e il valore  dei  beni  di  cui  egli  abbia,
direttamente o per interposta persona, la disponibilita',  e'  sempre
necessario che la  ritenuta  sussistenza  di  detto  requisito  venga
sostenuta  da  adeguata  motivazione,  nella  quale   si   dia   atto
dell'avvenuta valutazione di' tutti gli  elementi  di  fatto  (spesso
caratterizzati da estrema complessita') idonei a rendere giustificata
la decisione assunta; motivazione che non si vede, quindi, per  quale
ragione possa essere, in un caso,  censurata  senza  limiti  che  non
siano quelli propri  dell'apposito  vizio  di  legittimita'  previsto
dall'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p. e, nell'altro caso, solo  in
quanto si riesca, piu' o meno  faticosamente  e  ricorrendo,  non  di
rado, alle piu' svariate acrobazie  dialettiche,  a  far  passare  il
vizio  di  motivazione  per  inesistenza  o  mera   apparenza   della
motivazione stessa. 
    L'incongruenza, poi, appare, se possibile, ancora piu'  manifesta
ove si consideri che la confisca di prevenzione (come  si  e'  visto)
prescinde non solo, al pari di quella  prevista  dall'art.  12-sexies
del decreto-legge   n.   306/1992,   dal    requisito    dell'attuale
pericolosita' del soggetto, ma anche da quello (richiesto invece  dal
citato art. art. 12-sexies), costituito da una  precedente  pronuncia
di condanna penale (o  di  applicazione  della  pena  su  richiesta);
ragion per cui, semmai, e' proprio  con  riguardo  alla  confisca  di
prevenzione, siccome basata su  un  presupposto  oggettivamente  piu'
«debole» di quello rappresentato  da  una  condanna  penale,  che  il
diritto di difesa, a parita' di conseguenze pregiudizievoli derivanti
dall'applicazione dell'una o dell'altra delle  misure  in  questione,
dovrebbe essere maggiormente garantito. 
    Va osservato a questo punto, per completezza, che nessun problema
di conformita' a Costituzione si pone, invece, con  riferimento  alla
misura di prevenzione patrimoniale  del  sequestro  di  cui  all'art.
2-ter, legge 31 maggio 1965, n. 575 (ora art. 20, d. lgs. 6 settembre
2011, n. 159), in quanto, in questo  caso,  In  considerazione  della
natura «cautelare» e provvisoria di tale misura  di  prevenzione,  la
limitazione dei vizi deducibili con il ricorso  per  cassazione,  non
appare distonica  rispetto  alla  previsione  dl  cui  all'art.  325,
c.p.p., che del pari limita alla sola violazione di' legge i vizi che
possono essere dedotti con  il  ricorso  per  cassazione  avverso  le
ordinanze emesse ai sensi dell'art. 322-bis,  c.p.p.,  dal  tribunale
del  riesame  quale  giudice  di  appello  avverso  i   provvedimenti
cautelaci in materia di sequestro preventivo adottati  nei  confronti
dei beni suscettibili di confisca, ai sensi  dell'art.  321,  co.  2,
c.p.p, 
    Parimenti,   appare   da    escludere    che    la    prospettata
Incostituzionalita' della limitazione del ricorso per cassazione, nel
caso della confisca «di prevenzione», alla soia violazione  di  legge
possa aprire li varco ad un dubbio di costituzionalita'  che  investa
anche l'analoga limitazione che opera con riguardo  ai  provvedimenti
applicativi delle misure di prevenzione personale; e cio'  in  quanto
queste ultime, pur connotate anch'esse da innegabili profili di forte
afflittivita',  hanno  tuttavia  natura  e  conseguenze  tutt'affatto
diverse  da  quelle  delle  sanzioni  penali,  per   cui   ben   puo'
giustificarsi la differenza nel regime delle impugnazioni; differenza
che non trova invece giustificazione - si ripete ancora una  volta  -
con riguardo alla confisca,  giacche'  tanto  quella  di  prevenzione
quanto  quella  ex  art.  12-sexies  del decreto-legge  n.   306/1992
postulano  l'accertamento  delle  medesime  condizioni  di  fatto   e
producono  le  medesime  conseguenze  negative  sul  patrimonio   del
soggetti destinatari. 
    9. A questo punto, si ritiene che possa affermarsi che  risultano
pienamente Integrate le condizioni previste dall'art. 1, legge  cost.
9 febbraio 1948, n. 1, dall'art. 23, legge cost. 11 marzo 1953, n. 87
e dalla elaborazione della giurisprudenza della Corte  costituzionale
per  la  riniessione  della  indicata   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    9.1. Nel richiamare, infatti,  a  sostegno  della  non  manifesta
infondatezza, di detta questione quanto finora  argomentato,  va  ora
osservato che appare sussistente anche il requisito della  rilevanza,
sotto un duplice profilo. 
     Da  un  lato,  infatti,  la  normativa  della  cui  legittimita'
costituzionale si dubita e' senza dubbio  applicabile  alla  presente
fase processuale, in quanto e' proprio il  combinato  disposto  degli
artt. 10, comma 3, e 27, comma 2, d. lgs. 6 settembre 2011, n. 159, a
limitare al solo vizio della violazione di legge il controllo cui  e'
demandata la Corte  di  Cassazione  quale  giudice  dell'impugnazione
avverso  il  decreto  con  cui  la  corte  di  appello  decide  sulla
impugnazione del provvedimento del tribunale  di  applicazione  della
misura di prevenzione  patrimoniale  della  confisca.  D'altro  canto
l'eventuale pronuncia della  Corte  costituzionale  e'  in  grado  di
incidere concretamente  sul  giudizio  principale,  consentendo  alla
Corte di Cassazione di  esaminare  i  vizi  dedotti  con  il  ricorso
proposto nell'interesse  del  G.,  nella  loro  effettiva  natura  di
doglianze che, benche' strumentalmente veicolate sotto  le  «mentite»
spoglie della violazione di legge,  costituita  dalla  pretesa  «mera
apparenza» della motivazione a sostegno del provvedimento  impugnato,
in  realta'  sono  state  declinate  come  veri  e  propri  vizi   di
motivazione, di cui non appare possibile escludere  «ictu  oculi»  la
fondatezza, ma che, d'altra parte, in quanto tali, renderebbero, allo
stato attuale della richiamata normativa, inammissibile il ricorso. 
    Nemmeno puo' costituire ostacolo alla rilevanza  della  questione
di  legittimita'  costituzionale  di  cui  si   discute   l'ipotetica
possibilita' che il ricorso del G. debba  dichiararsi  inammissibile,
in quanto fondato su motivi di  merito  non  deducibili  in  sede  di
legittimita',   perche'   una   tale    conclusione    presupporrebbe
necessariamente, dal punto di vista logico, che fosse comunque  prima
risolta la  questione  della  individuazione  dei  vizi  che  possono
dedursi  con il  ricorso  per  cassazione,  per  poi  verificare  se,
attraverso  le  doglianze   sulla   motivazione   del   provvedimento
impugnato, non fossero state dedotte In realta' questioni di merito. 
    Ne'  la  rilevanza  della  indicata  questione  di'  legittimita'
costituzionale puo' essere esclusa dalla  ritenuta  attualita'  della
pericolosita' sociale del Grillone, dal momento che  non  puo'  farsi
dipendere  la  ragionevolezza  o  meno  della  previsione   normativa
limitatrice con effetti generali della proponibilita' del ricorso per
cassazione in subiecta materia alla sola violazione di  legge,  dalla
mera eventualita' che, nel caso specifico, la confisca  si'  applichi
nei  confronti  di  un  soggetto  da   ritenere   anche   attualmente
pericoloso, per cui solo in presenza di tale condizione  la  suddetta
limitazione sarebbe accettabile. 
    Non si vede, in altri termini, come il collegio,  sol  per  avere
ritenuto corretto il giudizio di' attuale pericolosita'  sociale  del
proposto,  formulato   dai   giudici   di   merito   ai   soli   fini
dell'applicazione della  misura  personale  di  prevenzione,  avrebbe
potuto ritenere ammissibili, e quindi suscettibili di valutazione  ai
fini della loro fondatezza o meno, quelli  che,  come  si  e'  detto,
altro non erano, nella sostanza, se non pretesi vizi di  motivazione,
dei quali doveva quindi pregiudizialmente ritenersi precluso  ogni  e
qualsiasi esame. 
    9.2. Va rilevato, infine, che la rimessione  della  questione  di
legittimita'  costituzionale  si  impone,  non  essendo   praticabile
nessuna interpretazione della indicata normativa in senso conforme  a
Costituzione, in quanto la mancata previsione della  possibilita'  di
dedurre con il ricorso per cassazione anche i  vizi  di  motivazione,
determina  un  vulnus  dei  principi  contenuti  nelle  citate  norme
costituzionali, sanabile solo attraverso un intervento  additivo  del
giudice delle  leggi,  che  non  puo'  essere  escluso  dal  «diritto
vivente»  formatosi  nella  giurisprudenza  di   legittimita'   sulla
estensione della nozione di «violazione di  legge»,  proprio  perche'
tale nozione, pur non  essendo  ridotta  al  ristretto  ambito  della
formulazione testuale della norma, non si estende al  punto  tale  da
farvi ricomprendere i vizi della motivazione carente, contraddittoria
o manifestamente illogica. 
    10. Si impone, pertanto, ai  sensi  dell'art.  23,  co.  4, legge
cost. n. 87/53, la sospensione del giudizio in  corso,  relativamente
alla   intervenuta   applicazione   della   misura   di   prevenzione
patrimoniale della confisca (che assorbe in se' Il  provvedimento  di
sequestro), disponendosi che, a cura della cancelleria,  la  presente
ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio e comunicata  al
Presidenti dei due rami del Parlamento. 
 
                              P. Q. M. 
 
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
costituzionalita' del combinato disposto dell'art. 4, comma 11, della
legge n. 1423/1956 e dell'art. 3-ter, comma 2, della legge n.  575/65
(ora art, 10, comma 3, e art. 27, co. 2, dei decreto  legislativo  n.
159/2011), nella parte in cui limitano alla sola violazione di  legge
la proponibilita' dei ricorso per cassazione avverso i  provvedimenti
di confisca adottati nell'ambito dei procedimenti di prevenzione, per
contrasto con gli artt.  3  e  24  della  Costituzione.  Sospende  li
giudizio in corso, relativamente  alla  disposta  applicazione  della
misura di prevenzione patrimoniale,  e  dispone  che,  a  cura  della
cancelleria, la presente ordinanza sia notificata al  Presidente  del
Consiglio e comunicata ai Presidenti dei  due  rami  del  Parlamento.
Rigetta il ricorso nella parte relativa  alla  disposta  applicazione
della misura di prevenzione personale. 
        Cosi' deciso in Roma il 16 maggio 2014 
 
                       Il Presidente: Dubolino 
 
 
                                             Il Consigliere estensore