N. 478 ORDINANZA (Atto di promovimento) 14 novembre 2006

Ordinanza  emessa  il  14  novembre  2006  dalla  Corte di appello di
Cagliari  -  Sezione  distaccata di Sassari nel procedimento penale a
carico di Sedda Emilio Salvatore

Processo  penale  -  Appello  -  Modifiche  normative - Previsione di
  limiti  al  potere  d'appello  del  pubblico  ministero  contro  le
  sentenze  di  proscioglimento nel giudizio ordinario e nel giudizio
  abbreviato   -   Inammissibilita'   dell'appello   proposto   prima
  dell'entrata  in  vigore  della novella - Disparita' di trattamento
  tra la parte pubblica e le parti private - Violazione del principio
  di  parita'  delle  parti  nel  processo - Contrasto con i principi
  dell'obbligatorieta'   dell'azione   penale   e   della   finalita'
  rieducativa della pena.
- Legge  20 febbraio  2006, n. 46, artt. 1 (sostitutivo dell'art. 593
  del  codice di procedura penale), 2 (modificativo dell'art. 443 del
  codice di procedura penale) e 10.
- Costituzione, artt. 3, 27, comma terzo, 111 e 112.
(GU n.25 del 27-6-2007 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Ha emesso la seguente ordinanza.
    1) All'esito della discussione discussione del processo celebrato
a seguito di appello proposto dalla Procura generale della Repubblica
presso  la  Corte  di  appello  di  Sassari  avverso  la  sentenza di
assoluzione  pronunciata  dal  Tribunale  di Sassari nei confronti di
Sedda  Emilio Salvatore, nato a Carbonia il 18 marzo 1965 e residente
a Nuoro, via Rossini n. 1, imputato del reato di cui agli artt. 624 e
625  n. 7  c.p.  perche', al fine di trarne profitto, si impossessava
dell'autovettura  Wolkswagen  tg.  SS 411227,  sottraendola  a  Sedda
Giuseppe  e  commettendo il fatto su cosa esposta per necessita' alla
pubblica fede (veicolo parcheggiato sulla pubblica via).
    Acc.to in Nuoro il 16 marzo 1997.
    Con la recidiva reiterata specifica infraquinquennale.
    Con  sentenza  del  13 novembre  2003 il Tribunale monocratico di
Sassari   assolveva,   per  insussistenza  del  fatto,  Sedda  Emilio
Salvatore dal reato di cui agli artt. 624 e 625 n. 7 c.p. perche', al
fine  di trarne profitto, si impossessava dell'autovettura Wolkswagen
tg.  SS411227,  sottraendola a Sedda Giuseppe commettendo il fatto su
cosa esposta per necessita' alla pubblica fede.
    Il  giudice,  premesso  che  il 16 mano 1997 l'imputato era stato
fermato  sulla SS 131 alla guida della vettura del Sedda Giuseppe che
ne  aveva denunciato la scomparsa il medesimo giorno, riteneva che il
prevenuto,  dovendosi  recare a Siniscola, avesse preso, senza alcuna
intenzione  di  sottrazione,  le  chiavi  della vettura dell'amico in
virtu'  del  rapporto  di  amicizia esistente tra i due, che lo aveva
convinto del fatto di poter disporre liberamente del veicolo.
    Avverso  la  stessa ha interposto appello il procuratore generale
che  ha  rilevato  che  la tesi del primo giudice non trova riscontro
nelle   risultanze  di  causa,  considerato  che  la  persona  offesa
denuncio'  il furto della propria vettura pur rendendosi conto che la
stessa  non  poteva  essere  stata sottratta che dal Sedda nonche' il
fatto  che  non  emerge  in  alcun  modo  che l'imputato fosse solito
ricevere in prestito ed utilizzare la vettura dell'amico. Poiche', in
ogni caso, anche l'eventuale erroneo convincimento del Sedda, fondato
su mere supposizioni personali, non avrebbe alcun valore scriminante,
e'  stata  sollecitata  la  condanna dell'imputato in ordine al reato
ascrittogli.
    Nella  odierna  udienza il p.g. ha osservato che, a seguito della
entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006, n. 46, applicabile, a
norma  dell'art. 10  di  essa,  anche  ai  procedimenti  in corso, il
gravame  del  procuratore  generale  dovrebbe  essere,  con ordinanza
inoppugnabile  giusta  l'art. 10.2  della  legge  citata,  dichiarato
inammissibile avendo l'art. 2 della medesima legge reso inappellabili
le  sentenze  di  proscioglimento  pronunciate  ad  esito di giudizio
abbreviato,  e  che  tuttavia,  essendo ravvisabile contrasto fra gli
articoli 1,  2  e 10 della legge n. 46/2006 e gli artt. 3 e 111 della
Costituzione,  la  Corte  dovrebbe  rimettere  gli  atti  alla  Corte
costituzionale;
    Sentito il difensore dell'appellato che, sul punto, si e' rimesso
alla decisione della Corte;
                            Os s e r v a
    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non   manifestamente  infondati:  l'art. 111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito   dal  medesimo  articolo 111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con   le   ripetute   pronunce   negative   della   Corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  pubblico  ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p.,
essendo    le    disparita'    derivanti   da   questa   disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il  ricorso  al  rito  abbreviato  e delle peculiarita' di questo. Il
risultato  e'  quello  della  rapida  definizione dei processi penali
conseguita  attraverso  la decisione del processo solo sulla base del
materiale   probatorio   raccolto  dalla  parte  pubblica  fuori  del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato  ad  intervenire  nel delicato momento della formazione
della  prova,  in  vista  del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato  in caso di affermazione di responsabilita'. E tuttavia, se
in  un  quadro  siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di
impugnazione  del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna
(e   pertanto   in   relazione   alla  quantificazione  della  pena),
altrettanto  non  pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze
di  assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante
il  perdurante  interesse della parte pubblica all'accertamento della
verita'   (e   quindi   della   responsabilita'   dell'imputato   che
dall'acclaramento  della verita' possa risultare), come d'altro canto
dimostra  il  fatto  che  e'  stata conservata al p.m. la facolta' di
appellarsi  contro  le sentenze di condanna che modifichino il titolo
del  reato.  A  proposito  del generale interesse del p.m. a proporre
appello   contro   le  sentenza  di  proscioglimento  conserva  piena
validita'  il  richiamo  contenuto nel messaggio del Presidente della
Repubblica  alle  Camere  la'  dove  si  osserva che «la soppressione
dell'appello  delle  sentenze  di  proscioglimento  ... fa si' che la
stessa  posizione  delle  parti  nel  processo  venga ad assumere una
condizione  di  disparita'  che  supera  quella  compatibile  con  la
diversita'  delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le
asimmetrie  tra  accusa  e  difesa costituzionalmente compatibili non
devono   mai   travalicare   i   limiti  fissati  dal  secondo  comma
dell'art. 111 della Costituzione».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore  generale in risposta alle obiezioni che potrebbero farsi
alla  sua  tesi  e  secondo  le  quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.  Il  principio di non colpevolezza implica soltanto il
fatto  che  le conseguenze pratiche della condanna possano discendere
solo  dalla sentenza definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da
esso  circa  l'iter  per  il  quale  si debba pervenire al giudicato.
Quello per il quale la colpevolezza puo' essere affermata solo quando
sia  provata  oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in questo
caso,  un  principio di lettura equivoca, posto che se si sostiene la
inappellabitita'  della  sentenza  con  la  quale  un  giudice  abbia
pronunciato  assoluzione  poiche' l'eventuale successiva condanna non
potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe
altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un
giudizio  d'appello  contro una sentenza di condanna che, ad esito di
un  processo  celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe
pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che  dimostrino  con la stessa
sicurezza la colpevolezza.
    Che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  procuratore generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei,
piu'  che  giusti,  diritti  della  difesa  da  far  valere  tuttavia
nell'ambito del processo e non nel senso che il confronto fra le tesi
debba  essere  evitato  (in  altri termini deve potersi esercitare la
difesa  nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel
giudizio   d'appello   l'imputato   debba   poi   godere   del  pieno
dispiegamento  dei diritti che la legge giustamente gli riconosce: ma
non  si  vede  in  che  cosa  la  celebrazione  del secondo grado del
giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa
compromettere  il  diritto  di  difesa  (diverso  sarebbe  se  ci  si
appellasse  al  principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi
in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato
ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa
Corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle
disposizioni  denunciate  rispetto  all'art. 111  (ed anche, a questo
punto,  all'art. 3)  della Costituzione apparira' ancor piu' evidente
quando   si   osservi   che  nella  stesura  definitiva  della  legge
20 febbraio 2006, n. 46, alla parte civile e' stato invece conservato
il  diritto  d'appello  avverso le sentenze di assoluzione (la genesi
della  locuzione  del  secondo  periodo  dell'art. 576  c.p.p. alinea
nell'attuale  formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata
consista  nell'appello).  Si  deve constatare pertanto che alla parte
pubblica,   portatrice  degli  interessi  rilevantissimi  su  cui  si
tornera'  tra breve, e' stato del tutto ingiustificatamente riservato
un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto  che alle parti private e
questo  dato,  indubitabile,  non  puo'  che far risaltare in maniera
ancor  piu'  evidente  il  vulnus subito, per effetto delle norme che
vengono  sottoposte  al  Giudice  delle  leggi,  dal  principio della
parita' delle parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso  l'imputato  (ed  in  realta',  per quanto le ultime
riforme  in  materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della verita' e, quindi dell'istanza di
giustizia  propria  della  collettivita',  istanza che e' addirittura
pregiuridica,   posto  che  su  di  essa  si  basa  qualsiasi  civile
convivenza  nella  quale  si  voglia  evitare  che i consociati siano
tentati di ricorrere a forme private di giustizia. Di questo primario
interesse   della   collettivita'   e'   espressione   la  previsione
dell'art. 112 della Costituzione e, in definitiva, anche quella circa
l'emenda  del  condannato  sancita dal terzo comma dell'art. 27 della
stessa  Costituzione: dalla lettura coordinata di queste due norme si
ricava che l'ufficio del pubblico ministero (parte pubblica, e quindi
tenuta  al  rispetto  di  comportamenti ispirati a massima corretta e
moralita',  oltre  che  onerata  anche  della  ricerca degli elementi
favorevoli  all'imputato)  non  e' quello di ottuso persecutore degli
incolpati, ma di soggetto che persegue il compito, della cui primaria
importanza  si  e'  detto, di far si' che i soggetti devianti vengano
recuperati  ad  una  convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi
attraverso  i quali l'azione del pubblico ministero, nel rispetto del
principio  di  parita'  delle  parti,  si deve esplicare significa in
definitiva  legiferare  in  contrasto,  anche,  con le due previsioni
costituzionali ora richiamate.
    La  Corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della   questione   di   legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
procuratore   generale  e  ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio
l'ulteriore    questione   di   legittimita'   costituzionale   sopra
illustrata,   riconosciuta   la  impossibilita'  di  addivenire  alla
decisione  del  processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente
dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile  ribaltamento  della decisione di primo grado e la condanna
dell'imputato),   dispone  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale sospendendo il giudizio in corso.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimita'  costituzionale  esposte  in parte motiva, e, sospeso il
processo  in  corso,  ordina l'immediata trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale perche' giudichi:
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto  fra  gli  artt. 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e
gli artt. 3 e 111 della Costituzione;
        della  questione  di  legittimita'  costituzionale  circa  il
contrasto  fra  gli  artt. 1, 2 e 10, legge 20 febbraio 2006, n. 46 e
gli artt. 27, terzo comma e 112 della Costituzione.
    Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza.
        Sassari, addi' 4 novembre 2006
                       Il Presidente: Tabasso
Il consigliere estensore: Cucca
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