N. 407 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 marzo 1990
N. 407 Ordinanza emessa il 27 marzo 1990 dal tribunale militare di Padova nel procedimento penale a carico di Misciali Fabrizio Reati militari - Diserzione - Non consentito giudizio in contumacia se non per ordine specifico del procuratore generale militare - Esclusione, a seguito delle sentenze della Corte costituzionale nn. 74/1985 e 503/1989, della legge 5 agosto 1988, n. 330 (nuova disciplina dei provvedimeti restrittivi) e del nuovo codice di procedura penale, della possibilita' di emettere, per i reati di diserzione o di mancanza alla chiamata, una qualunque misura cautelare coercitiva - Conseguenze - Creazione di un ingiustificato privilegio a favore di quanti, astenendosi dal rientrare nel reparto, permangono nella arbitraria assenza sottraendosi cosi' agli obblighi di leva - Procedibilita' rimessa alla valutazione discrezionale del procuratore generale militare in contrasto con il principio della obbligatorieta' dell'azione penale. (C.P.M.P., art. 377). (Cost., artt. 3 e 112).(GU n.26 del 27-6-1990 )
IL TRIBUNALE MILITARE Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa contro Misciali Fabrizio, nato il 19 aprile 1966 a Gallipoli (Lecce), atto di nascita n. 321/A.I., residente a Galatone (Lecce) in via L. Ariosto n. 8, celibe, pavimentatore, censurato; soldato nel 1º Battaglione mot. "S. Giusto" in Trieste, libero, imputato di diserzione (art. 148, n. 2, del c.p.m.p.) perche', trasferito in data 22 agosto 1989 dal carcere militare di Bari Palese al 1º Battaglione ftr. mot. "S. Giusto" in Trieste, ometteva, senza giusto motivo, di presentarvisi restando arbitrariamente assente fino a tutt'oggi; FATTO E DIRITTO Anteriormente all'apertura del dibattimento, il pubblico ministero, dopo aver rilevato che il soldato Misciali non era comparso senza un legittimo impedimento dinanzi a questo tribunale pur essendogli stato ritualmente notificato il decreto di rinvio a giudizio, e che lo stesso risultava accusato di reato di diserzione (art. 148, n. 2, del c.p.m.p.) la cui assenza non era cessata, e infine che non si erano realizzate a norma dell'art. 377 c.p.m.p. le condizioni necessarie per procedere al giudizio, ha eccepito l'illegittimita' del medesimo art. 377 in relazione all'art. 3 della Costituzione. La difesa non si e' pronunciata nel merito della questione di costituzionalita', ed ha comunque chiesto la declaratoria di non procedibilita'. Per giungere all'esame dell'eccezione, occorre preliminarmente descrivere l'attuale situazione normativa, tale per l'appunto da far pervenire la parte pubblica alla conclusione dell'impossibilita' di procedere al giudizio nei confronti del Misciali. Dispone il citato art. 377 che per i reati di diserzione e di mancanza alla chiamata (artt. 148, 149 e 151 del c.p.m.p.) non si puo' procedere a giudizio contumaciale, salvo che vi sia concorso di altro delitto, o che ne sia cessata la permanenza, o che sia diversamente ordinato al procuratore generale militare della Repubblica. E la diserzione del Misciali, perfezionatasi alle ore 24 del 27 agosto 1989, risulta ancora in atto dal momento che il militare non si e' mai presentato al 1º battaglione motorizzato "S. Giusto" in Trieste, e non concorre con alcun altro delitto. Non esiste, d'altra parte, nell'incarto processuale un ordine del procuratore generale militare di procedere comunque al giudizio. E' chiaro che tramite la, relativamente complessa, norma in esame si e' a suo tempo inteso dare una disciplina ad una situazione valutata, a ragione o a torto non importa, di conflitto: tra l'esigenza di una normale punizione dei reati di assenza dal servizio ancora in atto da un lato, e quella di incentivare il piu' possibile (particolarmente per mobilitazioni che si presentavano come probabili) una normale incorporazione e adempimento dell'obbligo militare dall'altro. In questo senso, un giudizio nei confronti del disertore (e del mancante alla chiamata) ancora assente deve essere apparso, coma ha sottolineato parte della dottrina, evenienza in contrasto con il servizio e con la disciplina. E' possibile, inoltre, che abbia anche influito un certo sfavore per il giudizio contumaciale in genere (quale si evince anche da altre norme del codice penale militare), non essendo a quei tempi accettabile che il militare potesse esimersi dal dovere di presentarsi dinanzi ai suoi giudici, ed al tempo stesso suoi superiori. Si legge, infine, nei lavori preparatori che, essendo la diserzione e la mancanza alla chiamata reati permanenti, "la (loro) gravita' puo' considerarsi in continuo crescendo e un giudizio anticipato, prima che lo stato antigiuridico sia venuto a cessare, potrebbe, nei riguardi della pena, non essere esatto e proporzionato all'entita' della lesione giuridica". Per tutte queste ragioni si sono stabilite, per il caso di reati di assenza dal servizio di cui non sia cessata la permanenza, delle condizioni di procedibilita', anzi piu' particolarmente di proseguibilita' dell'azione penale e del giudizio: la concorrenza con altro delitto, o il alternativa un ordine del procuratore generale militare. La disposizione dell'art. 377 e' rimasta, peraltro, operante anche dopo l'entrata in vigore della nuova procedura penale, dal momento che, pur essendo in via di principio intervenuta l'abrogazione di ogni speciale norma processuale (artt. 1 del c.p.p.; 207 d.lgs. 28 luglio 1989, n. 271), l'art. 50 del c.p.p. espressamente esclude quest'effetto per le varie condizioni, comuni o speciali, di promovibilita' e proseguibilita' dell'azione penale. Appare, pertanto, corretta la conclusione del pubblico ministero, e della stessa difesa, secondo cui nella specie andrebbe dichiarata la non procedibilita' nei confronti del Misciale. Del resto, proprio questa e' la soluzione costantemente adottata da questo tribunale e, secondo quanto risulta, da ogni altro organo giudiziario militare, e unanimemente condivisa dal pubblico ministero nelle sue varie articolazioni, cosi' che, a tutt'oggi, non si e' avuta alcuna impugnazione e ricorso al giudice di legittimita'. Tuttavia, per spiegare in che senso l'art. 377 appaia in contrasto con il principio costituzionale dell'art. 3, e' necessario descrivere quali novita', - per effetto della sentenza della Corte costituzionale n. 74/1985, della legge 5 agosto 1988, n. 330, del nuovo codice di procedura penale, e infine della sentenza della Corte costituzionale n. 503/1989 -, siano intervenute nel contesto in cui lo stesso art. 377 e' destinato ad operare. Ci si riferisce alla progressiva erosione della normativa speciale sulla liberta' personale nel procedimento per reati militari, alla cui stregua l'adozione di misure cautelari limitative della liberta' personale era doverosa nei confronti del militare che fosse ancora arbitrariamente assente, e consentita quando fosse trascorsa la flagranza nel reato. La prima citata sentenza ha invalidato l'art. 309 del c.p.m.p. sul fermo di polizia giudiziaria militare; la legge del 1988 ha abrogato l'art. 313 del c.p.m.p. che disciplinava il mandato di cattura obbligatorio; il nuovo codice di procedura penale ha poi determinato l'abrogazione dell'art. 314 del c.p.m.p. che disciplinava il mandato di cattura facoltativo e l'art. 308 del c.p.m.p. in tema di arresto in flagranza di reato; la recente sentenza della Corte costituzionale ha, infine, invalidato il medesimo art. 308, eliminando in radice l'utilita' delle gia' insorgenti dispute sul problema se il nuovo codice di procedura avesse veramente operato la cennata abrogazione. La conseguente applicazione ai reati militari della normativa comune, introdotta dal nuovo codice di procedura penale, comporta che in nessun caso, ne' su iniziativa della polizia giudiziaria militare, ne' del giudice procedente, possa adottarsi nei confronti del militare che si trovi in istato di diserzione (o di mancanza alla chiamata) una misura cautelare personale che ponga termine alla permanenza nel reato. Da un lato, infatti, la nuova disciplina prevede misure cautelari personali coercitive solamente per i reati punibili con l'ergastolo o con la reclusione in quantita' superiore ad un certo limite (artt. 280, 380, primo comma, 381, comma primo e 384 del c.p.p.), categoria da cui al reato di diserzione (come quello di mancanza alla chiamata) rimane escluso sia perche', a differenza di reati militari piu' gravi, e' punibile con la reclusione militare; sia perche', anche volendo in contrasto con il principio di tassativita' stabilito dall'art. 13 della Costituzione, estendere alla reclusione militare le norme riguardanti la reclusione, esso e' punibile, anche quando ricorrano aggravanti ad effetto speciale, con la reclusione militare in quantita' inferiore al limite stabilito. Dall'altro, deve essere data risposta negativa anche al quesito se almeno sia ammissibile, giusto per far cessare la permanenza nel reato, un accompagnamento coattivo al reparto militare in adempimento del dovere di impedire che i reati vengano portati a conseguenze ulteriori, configurato dall'art. 55 del c.p.p. - Quest'ultima, infatti, e' mera norma di sintesi (come si puo' affermare sulla base della giurisprudenza formatasi sull'analogo art. 219 del codice abrogato), da cui non e' certo possibile desumere che alla polizia giudiziaria militare siano attribuiti in tema di liberta' personale poteri piu' estesi di quelli delineati dalle gia' citate specifiche norme. Del resto, non a caso e' regolata da apposita specifica disposizione la facolta' di arresto per determinati reati, tra cui non figurano quelli militari di assenza dal servizio, "quando ricorra la necessita' di interrompere l'attivita' criminosa" (art. 381, comma secondo, del c.p.p.). Sulla base di tutte queste premesse, ora e' ben possibile cogliere appieno la situazione normativa costituente il presupposto dell'eccezione di legittimita' costituzionale sollevata dal pubblico ministero. Dal momento che nel caso di diserzione (e di mancanza alla chiamata) non sono adottabili misure cautelari personali coercitive, la cessazione della permanenza in questo reato non puo' realizzarsi coattivamente ad opera della polizia giudiziaria militare, bensi' solamente per spontaneo rientro al reparto militare del disertore, o successivamente per provvedimento dell'autorita' che riconosca il venir meno di ogni obbligo militare (di regola il 31 dicembre dell'anno in cui si compiono i quarantacinque anni di eta', a norma dell'art. 9 del d.P.R. 14 febbraio 1964, n. 237). Di conseguenza, a differenza di quanto si verificava sulla base delle speciali norme procedurali ora abrogate o caducate dalla Corte costituzionale, il militare in istato di diserzione (o di mancanza alla chiamata) attualmente puo' stabilire, senza timore di interferenze da parte della polizia giudiziaria militare o del magistrato inquirente, di permanere nell'arbitraria assenza e cosi' di sottrarsi all'obbligo militare; per cio' stesso, salvo un improbabile (per le ragioni che saranno esposte piu' avanti) intervento del procuratore generale militare, a norma dell'art. 377 rende impossibile il giudizio e l'irrogazione della pena. Questa gli sara' inflitta solamente alla cessazione di ogni obbligo militare e quindi, se si tratta di militare in servizio di ferma, dopo circa venticinque anni. Di fronte a questa situazione, il pubblico ministero non si duole del fatto che sia venuta meno, in tema di liberta' personale e sotto ogni altro profilo, la specialita' del procedimento penale militare, ne' del fatto che ora la misura cautelare personale sia ammessa, come stabilisce l'art. 13 della Costituzione, solo in casi eccezionali. Del resto, non e' frutto di improvvisazione o del caso quest'adeguamento del procedimento penale militare a quello comune ed ai principi della Costituzione. E, d'altra parte, proprio da questo tribunale sono a suo tempo venute le iniziative che hanno portato alla dichiarazione di illegittimita' degli artt. 308 e 309 del c.p.m.p. Il problema, come ha sottolineato lo stesso pubblico ministero, sta invece nella sopravvivenza dell'art. 377, che nella nuova situazione normativa comporta le descritte conseguenze. Ma, pur in questo ambito, non viene proposta un'eccezione intesa a censurare un'insufficiente tutela penale di un bene di rilievo costituzionale (la presenza alle armi, strumentale alla prestazione del servizio militare, a sua volta mezzo di adempimento del "sacro" dovere di difesa della Patria). Il legislatore non puo' di certo essere costituzionalmente vincolato a tutelare un bene giuridico con lo strumento della sanzione penale, e pertanto, sotto questo profilo, potrebbe anche essergli consentito di sperimentare quanto, in mancanza di adeguate sanzioni di questo tipo, l'obbligo del servizio militare perda in effettivita', e persino di intraprendere la via di una surrettizia abolizione dell'obbligo medesimo. La questione di legittimita' costituzionale si incentra, piuttosto, sulla violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della Costituzione. Come si e' gia' detto, i direttori (ed i mancati alla chiamata) che permangano nell'arbitraria assenza, oltre che sottrarsi all'obbligo del servizio militare, evitano l'immediato giudizio e l'irrogazione della pena. Al contrario, la giustizia segue normalmente il suo corso nei confronti dei militari che, gia' in stato di arbitraria assenza per un periodo sufficiente ad integrare un reato di assenza dal servizio, per le ragioni piu' varie (intima adesione alla norma violata, ignoranza della vigente normativa, timore di una sanzione che comunque non manchera' al compimento del quarantacinquesimo anno di eta', necessita' di ottenere in tempi brevi la certificazione di militesenza, ecc.) siano rientrati al reparto militare entro il quinto giorno cosi' ponendo in essere il reato di allontanamento illecito (art. 147 del c.p.m.p.), o oltre quel termine cosi' realizzando il reato di diserzione o di mancanza alla chiamata (artt. 148 e 151 del c.p.m.p.). L.art. 377 del c.p.m.p., com'e' evidente, costituisce un ingiustificato privilegio a favore di quanti, astenendosi dal rientrare al reparto, permangano nell'arbitraria assenza. Il suesposto ordine di idee, comprovante l'apparente fondatezza della questione di legittimita' sollevata dal pubblico ministero, potrebbe essere parzialmente smentito dall'osservazione secondo cui non sarebbe poi cosi' assoluta l'improcedibilita' per il reato di assenza dal servizio ancora in atto, dal momento che lo stesso art. 377 dispone che si proceda al giudizio quando vi sia un ordine in tal senso del procuratore generale militare. Si e' voluto, in effetti, come risulta dai lavori preparatori, dare rilievo a "... evidenti motivi di opportunita' che possono, in determinate circostanze, far considerare necessaria l'esemplarita' dell'effettiva applicazione della sanzione, anche se la permanenza del reato non sia cessata". E l'ultima giurisprudenza al riguardo, risalente al 1946, ha poi correttamente precisato che al procuratore generale militare e' cosi' attribuito "un insindacabile potere discrezionale di carattere politico-amministrativo, il cui uso non puo' essere oggetto di censura in sede di ricorso di legittimita'" (19 febbraio 1946, in Mass. sentenze del t.s.m., 1942-51). In realta', si tratta di un potere (a suo tempo del procuratore generale militare presso il t.s.m. ed ora trasferitosi al corrispondente organo presso la Corte di cassazione o la corte militare d'appello) che, dopo il sopra citato caso, non risulta sia stato mai esercitato. E l'obiettiva ragione di questa costante prassi va sicuramente individuata nell'incostituzionalita' non solo genericamente dell'intero art. 377, ma piu' specificamente del medesimo nella parte in cui ritiene di poter limitare il regime dell'improcedibilita' tramite l'attribuzione di siffatto potere al procuratore generale militare. Non v'e' dubbio che, anche considerato in questa sua parte, l'art. 377, mentre conferma la sua globale incostituzionalita', anche piu' specificamente risulta, per quella previsione di valutazione politica di competenza del procuratore generale militare, in contraddizione con l'art. 3 della Costituzione, ed ancor piu' con il principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale sancito dall'art. 12 della Costituzione. Poco importa che con l'esercizio del potere sarebbe conseguito il risultato della procedibilita', che e' conforme ai principi costituzionali. Ai fini della censura di incostituzionalita', appare invece decisivo che il procedimento per reati di assenza dal servizio ancora in atto transiti, o meno, alla fase del giudizio a seguito di una discrezionale valutazione del vertice della parte pubblica del procedimento medesimo. In definitiva, deve essere denunciata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 377 del c.p.m.p., non solo, come ha suggerito il pubblico ministero, in relazione all'art. 3, ma anche in relazione all'art. 112 della Costituzione. Questo giudice, avuto riguardo alla natura processuale della norma impugnata, ritiene che la questione possa essere nel merito affrontata dalla Corte senza l'interferenza di eccezioni di irrilevanza basate sull'ultrattivita' del regime sostanziale piu' favorevole. Tuttavia, per l'eventualita' che nella norma medesima dovesse individuarsi una prevalente dimensione di carattere sostanziale, a sostegno della permanenza dell'ammissibilita' della questione si richiama alle chiare ed esaurienti argomentazioni contenute nella sentenza n. 148/1983 della Corte costituzionale.
P. Q. M. Letto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 377 del c.p.m.p., in relazione agli artt. 3 e 112 della Costituzione; Dispone la sospensione del procedimento e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Dispone che la presente ordinanza sia notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente dei due rami del Parlamento. Padova, addi' 27 marzo 1990 Il presidente-estensore: ROSIN 90C0800