N. 245 ORDINANZA (Atto di promovimento) 4 ottobre 2017
Ordinanza del 4 ottobre 2017 della Corte d'appello di Torino nel procedimento civile promosso da Confente Assunta, n.q. di curatore speciale di A. R.F. contro A. M. e P. F.T.. Filiazione - Impugnazione del riconoscimento del figlio naturale per difetto di veridicita' - Esclusione della legittimazione a promuovere l'azione nel caso di consapevolezza della non veridicita' del riconoscimento - Mancata previsione. - Codice civile, art. 263.(GU n.3 del 15-1-2020 )
LA CORTE D'APPELLO DI TORINO Sezione per la famiglia Riunita in Camera di Consiglio nelle persone dei magistrati: dott. Enrico Della Fina - Presidente; dott.ssa Daniela Giannone - consigliere; dott. Mauro Vella - consigliere relatore; Visti gli atti del procedimento civile n. 1088/2016 R.G. promosso in grado di appello dall'avv. Confente Assunta del foro di Torino, nella qualita' di curatore speciale della minore A. R. F., tale nominata con decreto 6 maggio 2013 del Tribunale di Torino, domiciliata presso il proprio studio professionale in Torino - via Ettore de Sonnaz n. 11 - con atto di citazione notificato in data 16 maggio 2016 - ammessa al patrocinio a spese dello Stato; appellante nei confronti di A. M., elettivamente domiciliato in Torino - via Bligny n. 15 - presso l'avv. Alessandro Bertolotto del foro di Torino che lo rappresenta e difende per delega a margine dell'atto di citazione in primo grado; appellato e P. F. T., in primo grado elettivamente domiciliata in Torino - via Papacino n. 2 - presso i difensori avv.ti Luigia Di Giovine e Maria Federica Nicola contumace avverso la sentenza n. 1970/2016 - cron. n. 5757/16 in data 21 marzo 2016, depositata il 7 aprile 2016 e notificata a mezzo pec in data 18 aprile 2016; Ha pronunciato la seguente ordinanza. I. - A. M., come e' pacifico e incontestato in atti, conobbe la signora P. F. T. nell'anno 2001; all'epoca, R. F. figlia della P., era gia' nata; la bambina, infatti, riconosciuta dalla sola madre, era nata il 13 aprile 2000. L'A. e la P. intraprendevano una relazione sentimentale con tanto di convivenza la cui «solidita'» induceva l'A. al riconoscimento della bambina; cio' avveniva nel corso dell'anno 2004 con sostituzione, disposta dal Tribunale per i minorenni di Torino, del cognome materno della bambina (P.) con quello «A.». Da quel momento la convivenza del nucleo familiare «di fatto» si protraeva sino al 2006; cessata la convivenza con la P., il sig. A. aveva tuttavia continuato a provvedere spontaneamente alle esigenze di R. F., fornendole assistenza morale, anche per quanto riguardava l'educazione, nonche' materiale, mediante la corresponsione di un assegno mensile di euro 250,00. Tale situazione aveva termine nell'agosto del 2010 allorche' l'A. interrompeva ogni rapporto con la bambina. Nel dicembre 2012 il sig. A. conveniva in giudizio la minore R. F., in persona della madre, P. F., chiedendo fosse dichiarato il difetto di veridicita' del riconoscimento da lui effettuato nei confronti della minore stessa con conseguenti annullamento a' sensi dell'art. 263 del codice civile e relative annotazioni sui registri dello stato civile; vinte le spese. Si costituiva la sig.ra P. per conto della figlia minore nonche' in proprio, con atto di intervento volontario e, confermato come R. F. non fosse effettivamente la figlia naturale dell'A., evidenziava come costui, al momento del riconoscimento, ne fosse perfettamente al corrente sicche' chiedeva che, da tale circostanza, il Tribunale traesse le conseguenze di legge e dispiegava domanda riconvenzionale affinche' la minore conservasse il cognome «A.» ed affinche' l'A. fosse condannato al risarcimento dei danni morali, patiti e patiendi dalla minore, per l'aver fatto venir meno una figura di riferimento per la minore stessa; chiedeva altresi' che l'attore fosse condannato al pagamento dell'assegno di mantenimento che il medesimo aveva cessato di corrispondere spontaneamente fin dal 2010. L'integrazione del contraddittorio nei confronti della minore veniva assicurata mediante la nomina di curatore speciale (nella persona della attuale appellante, avv. Assunta Confente). Costituitasi in giudizio, la curatela chiedeva il rigetto della domanda attorea per carenza di legittimazione attiva del sig. A. alla proposizione dell'azione di cui all'art. 263 del codice civile avendo egli effettuato il riconoscimento nella palese (e incontestata) consapevolezza della non corrispondenza alla verita' «biologica» di siffatto riconoscimento; chiedeva pertanto al Tribunale di sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 236 del codice civile per contrasto con gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione in relazione all'art. 9 della legge n. 40/2004, nella parte in cui, diversamente dall'art. 9 della legge citata, non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento pur conoscendone la non corrispondenza al vero, non sia legittimato ad impugnare detto riconoscimento; chiedeva altresi' che la questione di costituzionalita' per contrasto con gli stessi articoli 2, 3 e 30, fosse sollevata anche in relazione agli articoli 315 del codice civile e 244 del codice civile laddove l'art. 263 del codice civile non prevede, per l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicita', lo stesso termine di decadenza previsto per il disconoscimento di paternita' ex art. 244 del codice civile (peraltro tale eccezione veniva abbandonata perche' in corso di causa era intervenuta l'equiparazione dei termini per procedere alla modifica dello status dei figli legittimi e di quelli naturali); la curatela chiedeva altresi' dichiararsi il diritto della minore a mantenere - comunque - il cognome «A.». La intervenuta P., si associava alle domande della curatela e chiedeva dichiararsi l'obbligo dell'A. di corrisponderle una complessiva somma corrispondente al contributo mensile di euro 250,00 che quest'ultimo avrebbe cessato di corrisponderle dall'agosto 2010. Con ordinanza 24 gennaio 2014 veniva dichiarata manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla curatela; veniva successivamente disposta CTU genetica onde verificare la possibile esclusione del rapporto di filiazione fra l'A. M. e la minore R. F.; la CTU non poteva essere espletata stante il rifiuto opposto dalla minore (cosi' come esplicitato dalla curatela); analoga sorte aveva una successiva CTU. Veniva effettuata istruttoria orale e, successivamente, il Collegio rimetteva la causa sul ruolo onde consentire agli esercenti la responsabilita' genitoriale sulla minore di esprimersi in ordine al consenso o al diniego a sottoporsi a prelievo di materiale biologico della minore onde effettuare la CTU; all'udienza prefissata, i genitori della minore davano il proprio assenso a tale prelievo tuttavia la sig.ra P. evidenziava come, comunque, la minore (quattordicenne) fosse fermamente intenzionata a non sottoporsi alla indagine genetica; ovviamente anche la «nuova» CTU non poteva aver luogo e, precisate le conclusioni, la causa veniva trattenuta a decisione. II. - Tribunale adito pronunciava sentenza in data 21 marzo 2016 con la quale confermava il gia' espresso giudizio di manifesta infondatezza della sollevata questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 263 del codice civile osservando che: a) quanto alla lamentata violazione del principio di eguaglianza fra figli «naturali» e figli «legittimi» (uguaglianza consacrata con la novella legge n. 219/2012) determinata dal fatto che l'azione di disconoscimento della paternita' del figlio legittimo e' soggetta a termine annuale di decadenza (v. art. 244 del codice civile) mentre l'azione di impugnazione del riconoscimento (del figlio naturale) per difetto di veridicita', e' imprescrittibile (v. art. 263 del codice civile): l'unanime giurisprudenza (di legittimita' e costituzionale) ha escluso una irragionevole disparita' di trattamento in quanto, nel caso della impugnazione del riconoscimento del figlio naturale (art. 263 del codice civile), il legislatore (nell'esercizio del suo legittimo potere discrezionale) avrebbe inteso dare prevalenza al «favor veritatis», senza che alcun rilievo possa avere l'elemento soggettivo (ossia la buona o la mala fede del soggetto che ha operato il riconoscimento) mentre nel diverso caso del disconoscimento, da parte del marito, del figlio concepito nel matrimonio (art. 244 del codice civile) lo stesso legislatore avrebbe inteso dare prevalenza al «favor legitimitatis», quale espressione della presunzione di paternita' rispetto al figlio concepito nel matrimonio; inoltre il decreto legislativo n. 154 del 28 dicembre 2013 ha pur sempre mantenuto una differenziazione fra il figlio concepito nel matrimonio e quello concepito fuori del matrimonio in quanto, nel caso del secondo, ha introdotto il termine annuale (ed, in alcuni casi, quello quinquennale) per l'impugnazione del riconoscimento, cosi' dimostrando di voler appunto mantenere una distinzione concettuale fra status di figlio legittimo e status di figlio naturale, il che legittima la prevalenza del «favor legitimitatis» per il primo e del «favor veritatis» per il secondo; b) quanto alla lamentata violazione del principio di ragionevolezza sotto il profilo della illogica possibilita' di impugnare il riconoscimento, per difetto di veridicita', concessa dall'art. 263 del codice civile anche a colui che tale riconoscimento abbia effettuato in perfetta mala fede e della antitetica preclusione ad esercitare l'azione di disconoscimento di paternita' prevista dall'art. 9 della legge n. 40/2004 nei confronti del coniuge o del convivente che, consapevolmente, abbia acconsentito alla fecondazione eterologa, effettuata («contra legem») dall'altro coniuge o convivente, situazioni perfettamente equivalenti sotto il profilo della perfetta consapevolezza del soggetto agente di non essere il padre biologico: la legge n. 104/2004 e' «lex specialis» e, come tale, disciplinante una situazione affatto speciale, rispetto alla quale, soltanto, il legislatore ha scelto di privilegiare la tutela (speciale e rafforzata) del bambino (quello nato dalla, pur vietata, fecondazione eterologa), lasciando intatta la previsione generale delle azioni di stato quale rielaborata dal decreto legislativo n. 154/2013 (e che, come detto, conserva lo status di figlio naturale concettualmente distinto da quello di figlio legittimo, assicurando al primo il «favor veritatis» ed al secondo il «favor legitimitatis») sicche' «appare riconoscibile - anche proprio alla luce dell'ultimo citato intervento legislativo, pur improntato ad una rafforzata tutela della filiazione ed al "favor minoris" - una perdurante volonta' discrezionale del legislatore di non introdurre, quale principio generale dell'ordinamento in tema di status, l'elemento della mala fede del soggetto agente il riconoscimento, intesa quale circostanza di fatto escludente l'azionabilita' del successivo disconoscimento/impugnazione per difetto di veridicita', evidentemente ritenendo ancora prevalente il "favor legitimitatis" (in un caso) o il "favor veritatis" (nell'altro)». Il Tribunale riteneva pertanto sussistente la legittimazione attiva dell'A. a proporre l'azione ex art. 263 del codice civile e, quanto al merito, dato atto che l'assenza di qualsiasi legame biologico fra l'attore e la minore non era contestata ne' dalla curatela ne' dalla intervenuta madre della minore stessa posto che, a detta di tutti, la relazione fra l'A. e la P. era iniziata quando la bambina era gia' nata, motivava nel senso che, comunque, la assunta prova testimoniale aveva confermato che l'A. e la P. si erano conosciuti ed avevano iniziato a frequentarsi nel corso del 2001 (ossia in epoca successiva alla nascita della bambina) sicche', pur in assenza di una CTU, riteneva provata la domanda attorea nel senso del non essere, l'A., il padre biologico di R. F. sicche' dichiarava il difetto di veridicita' del riconoscimento effettuato dall'A. M. nei confronti della A. R. F. che, pertanto, annullava, dando ordine all'ufficiale di stato civile del Comune di Torino di provvedere alle relative annotazioni; riteneva inammissibile la domanda della curatela in ordine alla conservazione del cognome «A.» in quanto l'attore non aveva domandato la cancellazione del cognome della minore ed, in quanto, in ogni caso, anche in presenza del disconoscimento di paternita', la cancellazione del cognome non consegue automaticamente (la materia e' regolata dal decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000, prevedente autonomi e diversi procedimenti); riteneva altresi' inammissibile la domanda di condanna al pagamento di quanto non corrisposto dall'A. azionata dalla P. in quanto l'intervento della stessa, processualmente, era attinente, esclusivamente, allo «status» della minore e non alla proposizione di autonoma domanda di restituzione sicche' farebbe difetto ogni connessione oggettiva tale da giustificare il simultaneo processo; in ogni caso la accolta domanda ex art. 263 del codice civile avrebbe effetto «ex tunc». Il Tribunale compensava le spese della curatela e condannava la terza intervenuta, P., alla rifusione delle spese all'attore A. M. III. - Avverso la sentenza ha interposto tempestivo appello, mediante atto di citazione nei confronti dell'A. M. e della P. F T., la curatela della minore chiedendo: a) annullarsi e/o riformarsi la sentenza appellata; b) accertarsi e dichiararsi la carenza di legittimazione attiva del sig. A. e, conseguentemente, dichiararsi l'improcedibilita' e/o l'inammissibilita' della domanda proposta in primo grado; c) in via di subordine: dichiararsi non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 263 del codice civile, con riferimento all'art. 9 della legge n. 40/2004, perche' in contrasto con gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua falsita', non sia legittimato ad impugnare per falsita' tale riconoscimento; d) in ogni caso: respingersi ogni avversa domanda; e) con vittoria di spese, diritti e onorari di lite, per entrambi i gradi di giudizio, oltre rimborso forfettario, spese generali del 15%, CPA ed IVA come per legge. In estrema sintesi, l'appellante lamenta che la sentenza sia viziata da nullita' perche' il giudizio si e' svolto senza che mai si sia proceduto alla audizione della minore nonostante la medesima abbia ormai sedici anni; il tutto in aperta violazione dell'art. 336-bis del codice civile; lamenta altresi' la carenza della motivazione della sentenza impugnata, sia perche', in parte, destinata ad escludere la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 263 del codice civile in relazione all'art. 244 del codice civile, nonostante la decadenza dell'attore dalla azione ex art. 263 del codice civile non fosse mai stata eccepita, sia perche', in parte, basata esclusivamente su argomentazioni relative alla residua questione di legittimita' costituzionale (inerente la legittimazione attiva dell'attore). In punto di diritto, l'appellante motiva nel senso che, da una lettura costituzionalmente orientata dell'art. 263 del codice civile, non puo' che trarsi la conseguenza logico-giuridica della esclusione della legittimazione attiva dell'A. quale autore di un riconoscimento c.d. «per compiacenza» ossia nella piena consapevolezza della sua non veridicita'. L'evoluzione dottrinaria, normativa e giurisprudenziale, infatti, secondo l'appellante, consentirebbe di ritenere che l'ordinamento vigente veda nel suo interno la presenza «di un canone di irreversibilita' degli effetti determinativi dello status della persona rispetto allo stesso soggetto che li abbia compiuti» (v. pag. 20 di atto di citazione) sicche' «deve ritenersi che l'impugnativa del riconoscimento ex art. 263 del codice civile non possa spettare a chi consapevolmente ha riconosciuto il figlio nella consapevolezza dell'assenza di paternita' biologica [...] un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 263 del codice civile conforme alla evoluzione della giurisprudenza e della normativa di diritto interno e sovranazionale [...] conduce in primo piano il rapporto familiare instaurato di fatto rispetto al rapporto puramente biologico» (v. pag. 20 di atto di citazione). Inoltre la stessa nuova formulazione dell'art. 263 del codice civile conferma la preferenza accordata dal legislatore al «favor minoris» nei confronti del «favor veritatis»: l'avere lasciato la imprescrittibilita' dell'azione al solo figlio riconosciuto e l'avere invece assoggettato al termine di decadenza di un anno (o, comunque, di non oltre cinque anni) l'azione esercitata dall'autore del riconoscimento, dimostra la volonta' del legislatore di riservare alla iniziativa del solo soggetto «debole» (il figlio) il perdurare dell'incertezza sul suo «status», limitando la facolta' dell'altro soggetto (quello che ha effettuato il riconoscimento) di mantenere nell'incertezza tale «status», sicche', alla luce del mutato regime di decadenza della domanda ex art. 263 del codice civile, «l'interesse alla tutela della verita' biologica non puo' oggi in alcun modo ritenersi assoluto, neanche nei casi in cui l'autore del riconoscimento sia in totale buona fede in quanto, egli, una volta decorso il termine massimo di cinque anni dalla annotazione del riconoscimento sull'atto di nascita, non e' piu' titolato ad agire ex art. 263 del codice civile» (v. pag. 23 di atto di citazione in appello). In altri termini, lo stato della evoluzione normativa e giurisprudenziale consente di dire che l'interesse del minore alla tutela della propria identita' e del proprio status, prevale sull'interesse - spesso contrastante - alla tutela della verita' biologica. Nel caso di specie, si appalesa evidente l'interesse della minore alla propria identita' biologica, contrapposto a quello dell'autore del riconoscimento alla tutela della verita' biologica in quanto, nel dare prevalenza al secondo, si finisce per imporre alla minore «un danno esistenziale gravissimo a cui si deve aggiungere un pregiudizio altrettanto grave a livello economico. Il minore, infatti non potra' godere dell'apporto economico-patrimoniale di uno dei due genitori con tutte le conseguenze che ne derivano»; ne consegue che «soltanto ove l'interesse alla ricerca della verita' biologica di cui si fa portatore colui che impugna il riconoscimento, non contrasti con l'interesse del minore alla propria identita', sara' possibile riconoscere legittimazione attiva all'autore del falso riconoscimento» (v. pag. 25 di atto di citazione); in altri termini, sembra sussistere il principio secondo il quale, in materia di rapporti di filiazione, l'interesse del minore deve essere ritenuto sempre e comunque prevalente: interesse che, nel caso di specie, appare evidentissimo alla luce delle dichiarazioni della bambina (il «ripensamento»/«ripudio», di colui che ella, da sempre, conosceva come il proprio padre, a tutti gli effetti, le ha provocato un grave pregiudizio; lei non voleva rinunciare a riconoscere il sig. A. come il proprio vero e unico padre anche dopo la «separazione» dalla madre e dopo aver saputo della azione da costui intrapresa, percepita come un vero e proprio «ripudio»). L'appellante ripropone poi la questione della illegittimita' costituzionale dell'art. 263 del codice civile per contrasto con gli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione in riferimento all'art. 9 della legge n. 40/2004 evidenziando come le situazioni considerate dai due articoli siano accomunate dalla consapevolezza della non corrispondenza tra il rapporto di filiazione dichiarato e la relazione biologica e come, irrazionalmente, il legislatore abbia offerto due soluzioni difformi ed antitetiche. Si e' costituito l'A. M. che, facendo riferimento alla richiamata giurisprudenza di legittimita' e di merito e riservato il diritto di agire in separato giudizio ex articoli 95 e 96 del decreto del Presidente della Repubblica n. 396/2000, chiede respingersi l'appello avversario e confermarsi integralmente l'impugnata sentenza, con vittoria di spese per entrambi i gradi di giudizio. L'appellato eccepisce la non applicabilita' della norma di cui all'art. 336-bis del codice civile e comunque la superfluita' di una audizione della minore; eccepisce che lo stato della giurisprudenza, costituzionale, di legittimita' e di merito, sancisce il principio che la tutela della identita' del minore presuppone necessariamente la tutela della verita' biologica (v. sentenze Corte costituzionale numeri: 216/1997 - 112/1997 - 322/2011 e 7/2012; Cass. civ. 2 febbraio 2016, n. 1957; Cass. civ. 26 marzo 2015, n. 6136; Tribunale di Arezzo 15 gennaio 2014) ossia il principio della preminenza del «favor veritatis» rispetto al «favor minoris», «atteso che senza il primo non vi puo' essere il secondo» e posto che tutte le azioni di stato trovano il loro cardine nel «favor veritatis»; analogo principio della prevalenza del «favor veritatis» sul «favor minoris» lo si evince dalla giurisprudenza comunitaria (v. sentenza n. 034/2017 del 24 gennaio 2017 C.E. D.U); eccepisce l'infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sotto il profilo del richiamo all'art. 9 della legge n. 40/2004: tale norma, infatti, e' tassativa e di stretta interpretazione e, pertanto, non puo' essere invocata nel senso prospettato dall'appellante; col «nuovo» art. 236 del codice civile il legislatore ha effettuato scelte politico-legislative che si sottraggono al sindacato della Corte costituzionale; la questione di incostituzionalita' prospettata dalla curatela appellante mancherebbe inoltre del requisito della novita' in quanto il provvedimento n. 7/2012 della Corte costituzionale, la Corte di cassazione e la giurisprudenza di merito, non ultima quella di Torino, ne hanno escluso la fondatezza; la stessa questione di incostituzionalita', sotto il profilo della «ragionevolezza», sarebbe inammissibile anche per mancanza del requisito della omogeneita' della norma di raffronto: in questo caso, l'art. 9 della legge n. 40/2004 non possiede appunto tale requisito; l'art. 236 del codice civile, infatti, nella vecchia e nella nuova formulazione, costituisce norma di carattere generale laddove l'art. 9 della legge n. 40/2004, e' norma tassativa, applicabile ad una situazione affatto particolare, e pertanto di stretta interpretazione, insuscettibile di interpretazione estensiva o analogica: la conoscenza della «falsita' della dichiarazione di riconoscimento di paternita'» e' circostanza che non e' in alcun modo presa in considerazione dall'art. 9 cit. mentre essendo l'art. 263 del codice civile relativo a diritti indisponibili, «non rilevano [...] eventuali stati di buona o mala fede del dichiarante» (Cass. civ. n. 5886/1991) (v. pag. 14 di comp. conclus. A.); l'appellato richiama inoltre l'ordinanza n. 7/2012 della Consulta secondo cui «il potere di stabilire la natura, la durata e la modulazione del termine per la proposizione dell'impugnazione, spetta al legislatore al quale solo e' consentito di operare [...] il necessario bilanciamento del rapporto tra tutela della appartenenza familiare e tutela della identita' individuale»; eccepisce ancora l'appellato che il richiesto intervento della Consulta eccede i poteri della medesima ed il limite della discrezionalita' legislativa, cosi' come, in materia di imprescrittibilita' della impugnazione e rilevanza della buona o mala fede dell'autore del riconoscimento, ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 58/1967 e la ordinanza n. 7/2012 («[...] il potere di stabilire la natura, la durata e la modulazione del termine per la proposizione dell'impugnazione spetta al legislatore [...]»): da qui l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 236 del codice civile (v. anche sentenza n. 6221/2012 Tribunale di Torino - Sezione VIII). IV. - Premesso che nel caso di specie non si fa questione del rispetto del termine di decadenza, nella proposizione dell'azione, da parte dell'A., posto che tale azione e' stata proposta nella vigenza della pregressa disciplina (imprescrittibilita' dell'azione) e che, in ogni caso, l'art. 104, comma 10 del decreto legislativo che ha innovato il regime dell'art. 236 del codice civile prevede una normativa transitoria che consente all'attore di beneficiare del termine annuale con decorrenza dalla entrata in vigore del decreto, e premesso altresi' come non possa essere messo in discussione l'esercizio, da parte del legislatore, di un potere discrezionale nel dare, alla materia in questione, quella veste giuridica che esso meglio crede, ritiene la Corte che la sentenza impugnata sia perfettamente conforme al tessuto normativo vigente e che l'interpretazione che di tale tessuto normativo e' stata data dal Tribunale, sia perfettamente corretta ed aderente alla lettera della legge e che altra interpretazione non sia accettabile. Non convincono infatti, i rilievi dell'appellante: la contestualizzazione normativo-giurisprudenziale della norma dell'art. 236 del codice civile proposta dall'appellante (passaggio da una fase di assoluta preminenza del principio del «favor veritatis» ad una fase di progressivo affievolimento, sancito dalla sentenza Cass. civ. 16 marzo 1999, n. 2315 e dall'art. 9 della legge n. 40/2004, e poi ancora ad una fase di riconosciuta centralita' dell'interesse del figlio con riconosciuto rilievo della buona o mala fede del dichiarante, sancita dalle fonti internazionali e da autorevole dottrina, nonche' il progressivo riconoscimento del diritto del minore - prevalente anche sulla pretesa punitiva dello Stato - a conservare il proprio «status» ed a vivere nella propria famiglia mantenendo un rapporto equilibrato e continuativo con entrambi i genitori e poi, ancora, l'affermarsi di una giurisprudenza di merito che, sulla base del principio di responsabilita', ha ritenuto non essere ammissibile «avvalersi, per conseguire risultati voluti, di atti illeciti in precedenza commessi, tanto piu' laddove gli effetti si ripercuotano su terzi (il figlio) incolpevoli» (v. pag. 19 comp. atto di citazione) e, infine, la modifica introdotta dal decreto legislativo n. 154/2013) non appare, infatti, idonea ad autorizzare la individuazione di un principio generale che, in materia, imponga di dare rilievo allo stato soggettivo (buona o mala fede) di colui che effettua il riconoscimento, con prevalenza sull'interesse alla salvaguardia della verita' biologica; il dato normativo, anche da ultimo ribadito dal legislatore, che - con l'innovazione del termine di decadenza dell'azione ex art. 263 del codice civile - ha mostrato di nulla voler innovare al regime della legittimazione ad impugnare, conferma, allo stato del diritto positivo, l'irrilevanza dello stato soggettivo (buona o mala fede) del genitore che era stato consapevole della non veridicita' del proprio riconoscimento, cosi' come del resto esattamente ritenuto dal Tribunale (in tal senso si condivide il rilievo di parte appellata secondo cui «semmai il nuovo art. 263 del codice civile testimonia come il legislatore abbia inteso dare risposta alle problematiche nel tempo sollevate con riguardo al vecchio art. 236 del codice civile confermandone l'azionabilita' anche in caso di consapevole non veridicita'» (v. pag. 5 di memoria di replica A.) e secondo cui «[...] non si comprende come si possa affermare che la predisposizione di nuove condizioni per l'impugnazione costituisca - o corrisponda - ad un divieto, quando proprio i nuovi limiti - peraltro non opponibili al signor A. e riguardanti esclusivamente il tempo entro cui agire e non lo stato soggettivo dell'agente - testimoniano la proponibilita' dell'azione, che diversamente il legislatore avrebbe espressamente vietato» (v. pag. 7 di memoria di replica A.). Aggiungasi che gli arresti giurisprudenziali citati hanno natura troppo generica e scarsa incidenza, a fronte della specificita' e peculiarita' della normativa vigente in materia, per imporre una lettura di tale normativa nel senso che l'interesse del minore alla propria identita' familiare (comunque realizzatasi) debba essere sempre considerato prevalente. Quanto, poi, alla eccezione di nullita' della sentenza a causa del mancato interpello della minore, si osserva che la normativa dell'art. 336-bis del codice civile e' stata introdotta dopo l'avvio della causa da parte dell'A. sicche' non sembra invocabile nel presente giudizio; soprattutto si osserva che - comunque - attraverso il deposito della memoria 28 luglio 2014 della curatela, l'«ascolto» della minore ha avuto piena attuazione (tant'e' che, proprio in considerazione del suo atteggiamento, si e' soprasseduto alla effettuazione della CTU); lo stato soggettivo della minore, i suoi desideri, le sue esigenze personali e morali hanno avuto piena esplicitazione in corso di causa sicche' una ulteriore «esplorazione» dei medesimi, oltre che dolorosa, sarebbe stata del tutto superflua (e tale rimane anche nel presente grado). Dunque, l'interpretazione ed applicazione che il Tribunale ha dato del complesso normativo vigente in materia, e' del tutto corretto; ne conseguirebbe che solo in presenza di un esercizio del proprio potere discrezionale, da parte del legislatore, in violazione dei principi costituzionali di eguaglianza e ragionevolezza ossia solo in presenza di una riconosciuta illegittimita' costituzionale della norma in questione, si imporrebbe la auspicata riforma della sentenza impugnata. V. - Cio' premesso, ritiene la Corte che sussistano motivi per ritenere non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 263 del codice civile in relazione all'art. 9 della legge n. 40/2004 ed agli articoli 2, 3 e 30 della Costituzione. Come gia' detto, non e' in discussione il potere del legislatore di legiferare con piena discrezionalita', dando alle varie situazioni il «trattamento» che meglio crede; cio' non toglie che occorre evitare che nell'esercizio di detta discrezionalita', il legislatore possa violare i principi della carta costituzionale. Orbene, in relazione alla contemporanea vigenza dell'art. 263 del codice civile (come ridisegnato dal decreto legislativo n. 154/2013) e dell'art. 9 della legge n. 40/2004, si osserva che le situazioni fattuali cui le due disposizioni di legge fanno riferimento - sotto il profilo soggettivo di colui che pone in essere l'atto determinativo dello «status» del nato, quale figlio proprio - (ossia sotto il profilo soggettivo di colui che abbia acconsentito alla procreazione assistita eterologa da parte del coniuge o convivente - v. art. 9 della legge n. 40/2004 - e di colui che abbia effettuato il riconoscimento in difetto di veridicita' ossia nella piena consapevolezza della inesistenza di una relazione biologica - v. art. 236 del codice civile) - appaiono assolutamente identiche. In entrambi i casi, infatti, vi e' la incontestabile consapevolezza di non essere il padre biologico del riconosciuto e la, altrettanto incontestabile, volonta' di assumere, consapevolmente, la paternita' e la responsabilita', quale genitore a tutti gli effetti, di un figlio che si sa non essere biologicamente il proprio. In entrambi i casi, a monte del riconoscimento, vi e' un atto, consapevole e «contra legem» (il consenso alla pratica di procreazione assistita di tipo eterologo, nel caso dell'art. 9 della legge n. 40/2004, e la violazione dell'art. 567 del codice penale, nel caso del riconoscimento c.d. «di compiacenza»). Cio' nonostante, l'art. 9 della legge n. 40/2004 preclude l'esercizio dell'azione di disconoscimento della paternita' e l'impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicita' di cui all'art. 263 del codice civile mentre l'art. 623 del codice civile - per effetto della norma del decreto legislativo n. 2013/154 che si limita ad affidarla a diversi e piu' severi termini di decadenza - mostra di perpetuare, a favore dell'autore del non veritiero riconoscimento, l'azione per l'impugnazione del riconoscimento medesimo. La «ratio» sottesa al divieto dell'art. 9 della legge n. 40/2004, e' evidente: occorre tutelare il principio - deducibile dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali (v. Convenzione dei diritti del fanciullo di New York del 20 novembre 1989; Convenzione europea sui diritti dei fanciulli adottata dal C.d'E. a Strasburgo il 25 gennaio 1996, la carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 7 dicembre 2000) - entrato a far parte integrante dell'ordinamento interno italiano - secondo il quale, in ogni provvedimento legislativo o amministrativo o giudiziario che, in qualche modo, riguardi anche un minore, l'interesse di quest'ultimo deve sempre essere considerato preminente; occorre altresi' impedire che colui che, consapevole della difformita' dalla realta' biologica, altrettanto consapevolmente ha scelto di instaurare con un minore un formale rapporto di filiazione (con conseguente nascita di una serie di benefici per quest'ultimo ed un evidente interesse a conservare lo «status» di figlio), possa successivamente, sacrificare detti benefici ed interessi del minore semplicemente perche' la riconsiderazione dei propri interessi (la natura dei quali neanche e' tenuto a rappresentare) lo ha indotto a ritrattare il gia' prestato riconoscimento, accampando quale causa quello di cui fin dal principio egli era perfettamente consapevole, ossia la non veridicita' del riconoscimento medesimo (la curatela appellante cosi' opportunamente si esprime: «Qual e' la differenza fra il caso in cui un bambino nato in seguito a fecondazione medicalmente assistita di tipo eterologo venga ripudiato dal padre per non esserne genitore biologico (ipotesi espressamente vietata dall'art. 9 della legge n. 40/2004) e il caso in cui il bambino, gia' nato, venga riconosciuto da colui che e' ben consapevole della non corrispondenza tra lo "status" falsamente dichiarato e la verita' biologica, nell'ipotesi in cui l'autore del riconoscimento decida d'un tratto di non voler piu' occuparsi del bambino (ipotesi non espressamente esclusa dall'art. 263 del codice civile)?»). La situazione che viene in considerazione nell'ambito dell'art. 236 del codice civile sembra, a questa Corte, essere sostanzialmente identica a quella considerata dall'art. 9 della legge n. 40/2004 ed identica dovrebbe essere la «ratio» cui le due disposizioni di legge dovrebbero ispirarsi: cio' nonostante la disciplina prevista dalle due disposizioni di legge e' diametralmente opposta e la tutela, accordata al minore dall'art. 9 della legge n. 40/2004, nel caso dell'art. 236 del codice civile, appare sostanzialmente nulla. Il tutto induce a ritenere che non sia manifestamente infondata l'ipotesi che tale disparita' di trattamento sia viziata da incostituzionalita' (riferita all'art. 263 del codice civile), sia in relazione al principio di uguaglianza e ragionevolezza sancito dall'art. 3 della Costituzione, sia anche in relazione al principio di responsabilita' individuale e di solidarieta' sociale nonche' a quello della tutela dell'identita' personale che trovano espressione nell'art. 2 della Costituzione; a tale proposito, infatti, non e' superfluo notare come l'identita' personale trovi il suo elemento caratterizzante proprio nel «nome», quale autonomo segno distintivo della identita' personale, e come proprio l'acquisizione del «nome» sia l'effetto piu' rimarchevole e di piu' immediata percezione nel contesto sociale, del riconoscimento di paternita' tant'e' che la sentenza n. 13/1994 della Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 165 del regio decreto n. 1238/1939, in relazione all'art. 2 della Costituzione, nella parte in cui, in caso di rettifica degli atti dello stato civile, non consente all'interessato di far valere il suo diritto a mantenere il cognome originario allorche' il medesimo cognome sia diventato un autonomo segno distintivo della sua identita' personale. Orbene, nel caso di specie, sia in considerazione dell'eta' della minorenne, della sua volonta', ampiamente manifestata, di non rinunciare allo «status» di figlia dell'A., del considerevole lasso di tempo durante il quale, pubblicamente, si e' «manifestata» la «paternita'» dell'A., non v'e' dubbio che il cognome «A.» sia divenuto autonomo segno distintivo della identita' personale della minore. Non sembra invece, a questa Corte che si possano intravedere profili di incostituzionalita' in relazione all'art. 30 della Costituzione in quanto tale articolo riserva al legislatore la disciplina per «la ricerca della paternita'» e si limita a prevedere il diritto e dovere dei genitori di educare i figli (anche solo naturali) ed il diritto di questi ultimi di godere di ogni tutela giuridica e sociale: il tutto sull'ovvio presupposto dell'esistenza di uno «status» di figlio e dell'esistenza di un rapporto di «paternita'» effettivamente esistente e riconosciuto come tale. Da ultimo, si ritiene di dissentire dalle contestazioni mosse da parte appellata alla richiesta di dichiarare non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 263 del codice civile. Tali contestazioni investono, in primo luogo, il requisito della «novita'» della questione proposta, in quanto, sulla medesima, gia' si sarebbe espressa la Corte costituzionale (nel senso della insussistenza di qualsiasi estremo di incostituzionalita') con le sentenze n. 134 del 1985 e n. 158 del 1991 che affermano il principio secondo cui «a prescindere dalla difficolta' di stabilire un razionale "dies a quo" per il termine invocato [...] sta la decisiva considerazione che non la Corte, ma solo il legislatore, potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all'imprescrittibilita' disposta dall'art. 263 del codice civile» (v. sentenza n. 134/1985) e secondo cui «non il giudice delle leggi, ma solo il legislatore potrebbe stabilire la durata del termine da sostituire all'imprescrittibilita' disposta dall'art. 263 del codice civile» (v. sentenza n. 158/1991). In realta' la questione presa in considerazione dalle due suddette sentenze, e' affatto diversa da quella attuale atteso che, la prima questione, cui ha dato risposta la prima sentenza, riguardava la sostituzione della imprescrittibilita' dell'impugnazione ex art. 263 del codice civile con «termini brevi di decadenza», mentre la questione, cui ha dato risposta la seconda sentenza, riguardava la disparita' di trattamento, rispetto ai termini di proposizione dell'azione di cui all'art. 244 del codice civile e di cui all'art. 263 del codice civile, fra il figlio naturale riconosciuto (permanentemente esposto alla perdita del proprio «status», data l'imprescrittibilita' dell'azione ex art. 263 del codice civile), ed il figlio legittimo, per il cui disconoscimento il padre dispone di azione sottoposta a termine di decadenza annuale ex art. 244 del codice civile (sicche' nel caso dei figli nati fuori del matrimonio, il legislatore avrebbe dato la prevalenza al c.d. «favor veritatis» mentre, per i figli legittimi, avrebbe dato prevalenza al c.d. «favor legitimitatis»). E difetto di novita' nemmeno e' ravvisabile con riferimento alla ordinanza n. 7/2012 con la quale la Corte costituzionale ha ribadito il principio che «il potere di stabilire la natura, la durata e la modulazione del termine per la proposizione dell'impugnazione in esame, spetta al legislatore, al quale solo e' consentito di operare, anche in ragione dell'evolversi della coscienza collettiva, il necessario bilanciamento del rapporto tra tutela della appartenenza familiare e tutela della identita' individuale [...]». Anche in questo caso infatti, trattasi, appunto, della natura, durata e modulazione del termine per la proposizione dell'impugnazione dell'art. 263 del codice civile: articolo della cui legittimita' il giudice remittente dubita «nella parte in cui non sottopone ad un termine annuale di decadenza il diritto del genitore di esperire l'azione di impugnazione del riconoscimento di figlio naturale per difetto di veridicita'». In tutti i casi, dunque, cio' di cui si fa questione e' il termine di decadenza per la proposizione dell'impugnazione e non gia' la legittimazione alla impugnazione medesima. Altra contestazione investe la possibilita' di assumere l'art. 9 della legge n. 40/2004 quale norma di raffronto per non essere dotata del requisito della omogeneita' con l'art. 263 del codice civile in quanto quest'ultimo avrebbe portata ordinaria e generale mentre il primo costituirebbe norma tassativa, di stretta interpretazione ed insuscettibile di interpretazione estensiva o analogica. Invero, come detto a chiare lettere dalla ordinanza n. 7/2012 della Corte costituzionale, il divieto del disconoscimento della paternita' o di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicita', comminato al coniuge o al convivente consenziente in caso di procreazione medicalmente assistita eterologa, «configura una ipotesi di intangibilita' "ex lege" dello "status", la quale (come tale) incide non gia' sul profilo della imprescrittibilita' dell'azione di cui alla norma censurata, quanto piuttosto su quello completamente diverso (e qui non censurato) della legittimazione alla impugnazione medesima» (ed e' appunto la legittimazione di colui che impugna il riconoscimento che viene in considerazione nel presente processo e non gia' la imprescrittibilita' dell'azione). Quanto alla contestazione di parte appellata secondo cui la questione di incostituzionalita' sarebbe inammissibile perche' si tradurrebbe nella richiesta di una inammissibile pronuncia della Corte costituzionale «additiva di principio» o di «mera abrogazione dell'art. 263 del codice civile» «atteso che, nel primo caso, si lascerebbe troppo spazio al potere discrezionale del giudice, nel secondo, si creerebbe un inammissibile - anche alla luce delle predette interpretazioni della norma in esame - vuoto normativo», non resta che osservare che la fattispecie dell'art. 9 della legge n. 40/2004 coincide con quella del presente caso, per un requisito assolutamente specifico, ossia per il requisito della consapevolezza della non corrispondenza tra il rapporto di filiazione dichiarato e la effettiva relazione biologica; l'irragionevole disparita' di trattamento operata dal legislatore nei due casi, dovrebbe e potrebbe essere costituzionalmente «sanata» mediante l'esclusione della legittimazione ex art. 236 del codice civile del solo soggetto che ha operato un riconoscimento c.d. «compiacente»; tutto il resto rimarrebbe intatto e non si verificherebbe alcun vuoto normativo. Quanto infine alla possibilita' che da una pronuncia di incostituzionalita', nel senso auspicato dalla curatela appellante, si verifichino effetti di irragionevole disparita' con soggetti che, nella stessa condizione dell'A., abbiano agito dopo l'entrata in vigore del decreto legislativo 12.07/13.12.2013 che ha sottoposto l'esercizio dell'azione di cui all'art. 263 del codice civile ai termini di decadenza, non resta che osservare, con la curatela appellante, che «l'accoglimento della questione di legittimita' costituzionale prospettata, determinerebbe l'inammissibilita', in via generale, e senza distinzioni di sorta, non soltanto della domanda azionata dal sig. A., ma anche di tutte le impugnazioni ex art. 263 del codice civile azionate, in ogni tempo, dagli autori di riconoscimenti consapevolmente falsi». Infine, questa Corte non ignora la pronuncia della Suprema Corte di cassazione n. 5886/91 secondo cui l'azione di impugnazione del riconoscimento per difetto di veridicita' e' ammessa in ogni caso in cui il riconoscimento sia obiettivamente non veridico, a nulla rilevando eventuali stati soggettivi di buona o mala fede dell'autore del riconoscimento e quindi anche nel caso in cui il riconoscimento sia stato effettuato con la consapevolezza dell'altrui paternita'. E' appena il caso, tuttavia, di accennare al fatto che i profili di diritto che sono sottesi alla richiamata sentenza nulla hanno che vedere con i profili di incostituzionalita' prospettati nel presente giudizio. La questione di incostituzionalita' dell'art. 236 del codice civile, sollevata dalla curatela appellante, appare, dunque, non manifestamente infondata e la sua soluzione si prospetta come indispensabile ai fini del decidere la presente causa in quanto l'esito della stessa e' direttamente correlato al giudizio di legittimita' costituzionale della norma in questione.
P.Q.M. Rimette sul ruolo la causa civile d'appello n. 1088/2016 R.G.; Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953; dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di incostituzionalita' dell'art. 263 del codice civile, come sopra proposta dalla appellante curatela della minore A. R. F., e, per l'effetto, solleva questione di legittimita' costituzionale dell'art. 263 del codice civile con riferimento all'art. 9 della legge n. 40/2004 perche' in contrasto con gli articoli 2 e 3 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il padre che ha effettuato il riconoscimento nella consapevolezza della sua non veridicita', non sia legittimato a promuovere la relativa azione; dispone la sospensione del processo in corso; ordina la notificazione della presente ordinanza ai procuratori delle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e la comunicazione della stessa ai Presidenti della Camera dei deputati e del Senato; ordina la trasmissione della presente ordinanza alla Corte costituzionale insieme con gli atti del giudizio e con la prova delle avvenute notificazioni e comunicazioni prescritte. Cosi' deciso in Torino il 18 luglio 2017. Il Presidente: Della Fina Il consigliere estensore: Vella