N. 211 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 gennaio 1990
N. 211 Ordinanza emessa il 27 gennaio 1990 dal giudice per le indagini preliminari presso il tribunale di Catania nel procedimento penale a carico di Parisi Giuseppe Processo penale - Procedimento in corso vigente il vecchio codice - Istruzione sommaria - Ordine di comparizione rimasto senza effetto - Ritenuta equipollenza da parte del p.m. e rinuncia all'interrogatorio - Richiesta di rito immediato - Rigetto del g.i.p. per mancato interrogatorio e omesso accompagnamento coattivo - Interpretazione non condivisa dal p.m. - Lamentata mancata previsione di impugnabilita' del decreto di rigetto Conseguente disparita' di trattamento rispetto a fattispecie analoghe (decreto di condanna) - Lesione del diritto di difesa (diritto a non presentarsi all'interrogatorio) - Eccesso di delega - Possibile subordinazione del potere del p.m. di scelta del rito processuale ad un comportamento dell'imputato. (C.C.P. 1988, art. 453). (Cost., artt. 3, 24, 76 e 112).(GU n.19 del 9-5-1990 )
IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI Ha pronunciato la seguente ordinanza; Letti gli atti del fascicolo n. 658/89 r.n.r. - 534/89 r.g. g.i.p. nei confronti di Parisi Giuseppe nato a Catania il 18 luglio 1935, imputato dei reati: a) p. e p. dall'art. 1, comma secondo, n. 1, della legge 7 agosto 1982, n. 516, perche', quale amministratore unico della ditta S.r.l. Etna Carni est poscia denominata Giarrese Commercio Carni S.r.l., ometteva d'annotare nelle scritture contabili obbligatorie ai fini delle imposte sui redditti e dell'Iva corrispettivi per L. 2.761.247.283 per l'anno 1982 e per L. 385.518.000 per l'anno 1983. Accertato in Catania il 14 settembre 1988; b) p. e p. dall'art. 4, primo comma, n. 7, della legge 7 agosto 1982, n. 516, perche', nella qualita' sub a), essendo titolare di lavoro autonomo e di impresa, redigeva le scritture contabili obbligatorie, la dichiarazione annuale di reddito ovvero il bilancio e il rendiconto ad essa allegati dissimulando positivi o simulando componenti negativi del reddito, tali da alterare in misura rilevante il risultato della dichiarazione. Luogo e data come sopra; c) p. e p. dall'art. 1, sesto comma, della legge 7 agosto 1982, n. 516, perche' nella qualita' sub a), ometteva di vidimare il libro giornale, il libro inventari, il libro soci e il libro verbali assemblee. Luogo e data come sopra. Vista la richiesta del p.m. in data 18 gennaio 1990 che qui di seguito si riporta: Il p.m. al g.i.p. in sede; Letti gli atti del proc. pen. n. 658/1989 reg. n.r., concernente indagini preliminari nei confronti di Parisi Giuseppe, imputato del delitto p. e p. dell'art. 4, primo comma, n. 7, nonche' delle contravvenzioni di cui agli artt. 1, secondo comma, n. 1, e 1, sesto comma, della legge 7 agosto 1982, n. 516; OSSERVA IN FATTO E IN DIRITTO Con rapporto del 14 settembre 1988, l'ufficio distrettuale delle imposte dirette di Giarre, per non avere costui annotato nelle scritture contabili obbligatorie corrispettive per L. 2.761.247.283 per l'anno 1982 e di L. 185.518.000 per l'anno 1983; nonche' per non aver vidimato il libro giornale, il libro inventario, il libro soci e il libro verbali assemblee e, infine, per avere dissimulato componenti positivi del reddito (mediante l'omissione di annotazione). Il reato veniva contestato, prima della entrata in vigore del d.P.R. 22 settembre 1988, n. 447, con ordine di comparizione rimasto senza effetto. Il procedimento veniva indi attratto, giusta il disposto di cui all'art. 258 del d. lgs. 29 luglio 1989, n. 271, nell'orbita di applicazione del nuovo codice di rito. Ritenendo questo p.m., per il principio di conservazione degli atti processuali, che l'ordine di comparizione suindicato equivalesse all'invito a presentarsi, previsto dall'art. 376 del c.p.p., veniva richiesto il g.i.p. della emissione del decreto di giudizio immediato. L'adito giudice, con decreto depositato il 27 dicembre 1989, rigettava la richiesta, sulla base dell'argomentazione che, non potendosi stabilire nell'art. 453 del c.p.p. la equiparazione tra il primo interrogatorio dell'imputato e l'enunciazione del fatto in un ordine o mandato rimasto senza effetto, cosi' come espressamente previsto dall'abrogato codice, troverebbe applicazione l'art. 376 del c.p.p., che prevede l'accompagnamento coattivo. Con nota del 2 gennaio 1990, questo p.m. ritrasmetteva gli atti all'ufficio del g.i.p. evidenziando, sistematicamente, quanto illustrato negli allegati atti in fotocopia. Gli atti del proc. venivano restituiti dal g.i.p. che, non condividendo la tesi del p.m., affermava che l'indagato (rectius imputato, ex art. 405 del c.p.p.) ha ben il diritto di non rispondere, non sussistendo un dovere di collaborazione processuale, e non gia' "diritto di sottrarsi all'interrogatorio". Tale ultima argomentazione appare non solo di fondamento ed inconducente, ai fini che ne occupa, non tenendo in considerazione ne' il principio di lealta' processuale ne' alcun dovere di collaborazione dell'imputato ed, anzi, si palesa erronea l'affermazione secondo cui l'imputato non avrebbe diritto di sottrarsi all'interrogatorio, costituendo invero tale comportamento manifestazione del diritto di difesa. Questo p.m. ritiene, invero, di dover sollevar questione di legittimita' costituzionale, per i motivi di cui all'allegata richiesta che devono qui ritenersi integralmente ritrascritti e riproposti; P. Q. M. chiede che la s.v., sospeso l'odierno procedimento ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, ordini la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, onde investire il detto consenso della questione come sopra proposto. Catania, addi' 18 gennaio 1990 Il p.m.: GIORDANO Ed, invero, va osservato che l'art. 453 del c.p.p. richiede, come presupposto per l'instaurazione del giudizio immediato oltre alla "evidenza della prova", su cui e' superflua ogni riflessione poiche' la nozione e' stata ampiamente elaborata sotto la vigenza del codice di rito abrogato ne' si vede come possa essere cambiata di significati, anche il "previo interrogatorio dell'imputato". L'art. 454 del c.p.p., poi, limita temporaneamente la possibilita' del p.m. di ricorrere a tale giudizio, entro l'arco di tempo dei novanta giorni dalla iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall'art. 335 del c.p.p. I quesiti fondamentali posti all'attenzione dell'interprete nelle prime battute di applicazione del nuovo codice, relativamente al rito de quo, sono incentrati sulla funzione dell'interrogatorio e sulle conseguenze giuridiche dell'inosservanza del termine oltreche' sui rimedi processuali approntati dall'ordinamento avverso il provvedimento deliberativo della richiesta del p.m. Il problema di gran lunga piu' controverso non e' tanto quello di stabilire se sia sufficiente l'interrogatorio condotto dal p.m. (artt. 364, primo comma, 374, secondo comma, e 388, del c.p.p.) ovvero sia necessario l'interrogatorio espletato dal g.i.p. (art. 294 del c.p.p.), essendo chiaro che la ratio della norma e' di consentire l'eliminazione dell'udienza preliminare e il rinvio dell'imputato al dibattimento, con il noto effetto deflattivo, solo se costui sia stato posto in grado di esporre le proprie discolpe. Dal che deriva l'assoluta fungibilita' dei due interrogatori. Su quest'ultimo punto, e' sufficiente notare: 1) che manca nel nuovo sistema una norma del tipo di quella prevista dall'art. 375 del c.p.p. abrogato, della previa contestazione del fatto, cioe', come condizione per il rinvio a giudizio (correlazione fra sentenza e accusa contestata), sicche' l'interrogatorio svolge oggi solo una funzione di garanzia e di contestazione e non piu' di condizione preliminare per il rinvio a giudizio; 2) che non vi e' una competenza funzionale del g.i.p. in materia di interrogatorio, considerazione che appare chiara attraverso l'uso della formula "l'autorita' giudiziaria" di cui all'art. 65 del c.p.p. Focalizzado questo punto, occorre riflettere su una questione che rischia di introdurre un difficile contenzioso: se possa legittimamente porsi la equipollenza, ai fini della valutazione sulla sussistenza del presupposto in esame, tra interrogatorio e mancata comparizione dell'imputato senza legittimo impedimento. In altri termini, puo' il p.m. richiedere il giudizio immediato, nel concorso degli altri presupposti, qualora l'imputato non si sia presentato spontaneamente (art. 374 del c.p.p.) ne' sia comparso a seguito di invito (art. 375 del c.p.p.) regolarmente notificatogli, pur essendo stato egli posto in grado di difendersi rendendo l'interrogatorio? Ritengo che la soluzione del problema postuli la capacita' di sintonizzarsi con le linee di fondo del nuovo sistema processuale anziche' far ricorso a letture delle norme apparentemente ineccepibili quanto dissonanti e fuorvianti. Al riguardo va, anzitutto, osservato che nessun decisivo argomento puo' desumersi dall'art. 375, n. 2, lett. d), del c.p.p., laddove si prevede che l'invito a presentarsi deve contenere anche "l'avvertimento che il p.m. potra' disporre a norma dell'art. 132 l'accompagnamento coattivo in caso di mancata presentazione e senza che sia stato addotto legittimo impedimento". La previsione, ancora una volta, ha una mera funzione di conoscenza e di garanzia, giacche' e' volta a informare l'imputato che egli e' soggetto alla potesta' coercitiva del p.m. (con o senza l'autorizzazione del g.i.p., a seconda dei casi). Non si puo' ritenere che la norma abbia voluto porre post hoc, propter hoc l'accompagnamento coattivo come normale sbocco processuale della non comparizione dell'indiziato. Non vi puo' essere, infatti, un rapporto consequenziale meramente automatico fra l'una e l'altra fattispecie, giacche' cosi' discorrendo l'accompagnamento coattivo diverrebbe, per il p.m., un atto doveroso, in contrasto peraltro con la lettera della norma "potra' disporre..." . L'accompagnamento coattivo, poi, essendo compreso fra i poteri attribuiti al p.m., da esercitarsi autonomamente (art. 375, secondo comma, lett. d), del c.p.p.) ovvero su autorizzazione del giudice (art. 376 del c.p.p.), deve ricollegarsi unicamente a esigenze di natura processuale (ad es. la necessita' di disporre della presenza dell'indiziato ai fini di un confronto ovvero di una ricognizione) e deve, quindi, avere una giustificazione sua propria, distinta dalla finalita' garantista dell'interrogatorio, in quanto attingibile ad esigenze di natura investigativa. Orbene, nell'ipotesi in cui si debba procedere ad interrogatorio dell'imputato ex art. 453 del c.p.p., ad un atto, cioe', che non ha - nel sistema - necessariamente una finalita' investigativa (di raccolta di elementi o di verifica per lo sviluppo ulteriore delle preliminari indagini) ma e' connotato, come si e' detto, da esigenze garantiste, il ricorso all'accompagnamento coattivo non sarebbe giustificato e si tradurrebbe, in definitiva, nel compimento di una formalita' fine a se stessa ponendosi, come tale, extra moenia del sistema. Inoltre, nel caso che ci occupa, la mancata presentazione dell'imputato equivale, in assenza di un impedimento legittimo, a rinunzia a presentarsi, rinunzia che e' il riflesso della piu' radicale facolta', prevista dalla legge (art. 65 terzo comma), di non rispondere all'interrogatorio. Tale facolta' e' un momento della strategia difensiva e, in buona sostanza, costituisce esternazione del diritto di difesa. E, si badi, tale facolta' viene esercitata nonostante l'avvertimento di cui all'art. 375, secondo comma, lett. d). Se non si ritenesse possibile il ricorso al giudizio immediato senza l'interrogatorio, si dovrebbe conseguentemente ammettere, in tutti i casi, come necessario l'accompagnamento coattivo e cio' non solo finirebbe per convalidare il concetto di automatismo sopramenzionato, ma, quel che e' piu' grave, si arriverebbe alla conclusione (perfettamente legittima) di consentire all'imputato, coattivamente accompagnato, di rifiutarsi poi di rispondere, senza che dal rifiuto possa scaturire alcun effetto giuridico-processuale (ne', sul piano valutativo, ne' sul piano naturalistico). Il che equivarrebbe ad assegnare a siffatti incombenti una funzione emeramente rituale. A meno che non si voglia affermarsi che, in caso di rifiuto di rispondere, non vi sia un interrogatorio; ma questa e' opinione seriamente insostenibile, stante che nella struttura dell'interrogatorio, quale si articola nell'art. 65 del c.p.p., che pone la sequenza contestazione-invito a discolparsi-discolpa, quest'ultima fase e' delineata come eventuale (terzo comma). E' vero che la norma impone che del rifiuto si dia atto in verbale; ma non si tratta, forse, di una disposizione pleonastica? Senza tale menzione, infatti, vi sarebbe un interrogatorio monco ovvero incompiuto e, quindi, la norma attinge la sua ratio ad una ragione di ordine logico, ineludibile sostanzialmente. D'altronde, la facolta' di non rispondere e' costruita dal codice come manifestazione della difesa, manifestazione che non e' comunque idonea a paralizzare l'ulteriore corso del procedimento (art. 64, terzo comma). Ma, allora perche' dovrebbe consentirsi l'esercizio di questa funzione di paralizzazione all'imputato che non compare, dal momento che la comparizione e' in simmetria con il non rispondere all'interrogatorio? L'interpretazione dell'art. 453 del c.p.p. nel senso opposto a quello qui accolto (necessita' dell'accompagnamento coattivo) si porrebbe in contrasto con lo spirito del codice di rito e, in particolare, con il disposto di cui all'art. 2, secondo comma, n. 1, legge 16 febbraio 1987, n. 81, di delega all'emanazione del cod. di proc. pen., ove si afferma il principio (cardine del sistema) della "massima semplificazione nello svolgimento del processo con eliminazione di ogni atto o attivita' non essenziale". Dunque, la tesi qui criticata porta a ritenere come affetta da eccesso di delega e, quindi, inficiata dal sospetto di incostituzionalita', la disposizione dell'art. 453 del c.p.p. nella parte de qua ove si ritenesse obbligatorio il ricorso all'accompagnamento coattivo in caso di mancata presentazione dell'imputato invitato a comparire esclusivamente ai fini del giudizio immediato. E cio' perche' sarebbe quanto mai macchinosa una procedura che imponesse la presenza coattiva dell'imputato per poi autorizzarlo a non rispondere all'interrogatorio| A riprova di quanto fin qui evidenziato, e' d'uopo osservare che la nozione di equipollenza fra interrogatorio e mancata comparizione senza legittimo impedimento non lede il diritto di difesa sancito dall'art. 24 della Costituzione e non interferisce, quindi, con le norme la cui osservanza e' stabilita a pena di nullita' assoluta (art. 179 del c.p.p., laddove si fa riferimento alla "omessa citazione dell'imputato" o alla "assenza del difensore") o di nullita' di ordine generale (art. 178 lett. c), in cui si fa cenno "dell'intervento... dell'imputato"). La tesi della equipollenza non intacca i diritti inviolabili dell'imputato, giacche' non solo egli viene invitato a comparire (il che basta per ritenere come non vulnerato il principio di cui all'art. 178, lett. c), ma anche avvertito della eventualita' della coercizione nei suoi confronti. Semmai e' lesiva del diritto di difesa costituzionalmente garantito l'interpretazione dell'art. 453 del c.p.p. nel senso divisato dal g.i.p. di Catania laddove non si riconosce all'imputato il diritto di sottrarsi all'interrogatorio. Si potrebbe, per ipotesi, congetturare che il principio del previo effettivo interrogatorio dell'imputato sia una norma assolutamente inderogabile in quanto (oltre a cio' che si e' sopra confutato in ordine alla questione della non invalidita' di una richiesta di giudizio immediato senza la preventiva comparizione dell'imputato, sempreche' egli sia stato invitato) ad esempio correlata al concetto di "evidenza" della prova, nel senso che l'interrogatorio dell'imputato sia un momento essenziale, insopprimibile nell'accertamento della evidenza della prova. E' facile obiettare che l'interrogatorio non e' un mezzo di prova ne' un mezzo di ricerca della prova. Semmai mezzo di prova e' l'esame dell'imputato nel dibattimento a sua richiesta (art. 208 del c.p.p.), esame che e' sul piano funzionale e strutturale completamente diverso dall'interrogatorio. E' vero che con l'interrogatorio l'imputato potrebbe addurre mezzi di prova, una volta conosciuti esattamente gli elementi a suo carico ed, eventualmente, anche le fonti di accusa (art. 65 primo comma). Ma e' altresi' indubbio che la semplice notifica dell'invito a presentarsi e' idonea a garantire il diritto alla prova dell'imputato, giacche' l'invito deve contenere, riteniamo questa volta a pena di nullita' ex art. 178, lett. c), del c.p.p. in quanto rileva l'intervento dell'imputato "la sommaria enunciazione del fatto quale risulta dalle indagini fino a quel momento" (art. 375, n. 3). E', infine, utile notare che non vi e' alcun'altra norma che faccia discendere la nullita' dalla inosservanza dell'art. 453 del c.p.p., interpretato nel senso qui respinto. Restano da esaminare alcune questioni connesse. Innanzitutto la eventuale nullita' del decreto di giudizio immediato, emesso dal giudice senza l'interrogatorio effettivo, ma con l'invito rimasto senza effetto sotto il profilo degli artt. 178, lett. b), e 179, primo comma, del c.p.p., cioe' con riguardo, non al diritto di difesa, ma alla "iniziativa del p.m. nell'esercizio dell'azione penale". Ora, non c'e' dubbio che l'azione penale viene esercitata mediante la richiesta di giudizio immediato, ex artt. 50 e 405, primo comma, del c.p.p. Ma, ammessa l'equipollenza di cui sopra, non vi puo' essere alcuna inosservanza di norme processuali che rifluisca sul disposto degli artt. 178, lett. b), e 179, del c.p.p. anche in considerazione del fatto che l'attuale disposizione ricalca, senza discostarsene, quella di cui all'art. 185, n. 2, del c.p.p. nel testo abrogato e, quindi, ancor oggi, costituisce nullita' insanabile solo l'inosservanza di norme processuali od ordinamentali incidenti in modo essenziale sulla partecipazione del p.m. al procedimento, come nell'ipotesi di rappresentante del p.m. sfornito dei requisiti essenziali per ricoprire tale carica ovvero non faccia parte dell'ufficio. Va, ancora osservato, per definitivamente convalidare la tesi della equipollenza, che dal disposto di cui all'art. 184, primo comma, del c.p.p. (la nullita' di una citazione o di un avviso ovvero delle relative comunicazioni e notificazioni e' sanata se la parte interessata e' comparsa o ha rinunziato a comparire), si ricava indirettamente la perfetta equipollenza, sia pure entro i confini della finalita' dell'atto e della non invalidita' degli avvisi e della successiva sanatoria, tra la comparizione e la rinuncia a comparire che, ovviamente, ben puo' essere tacita. Il che dimostra che il concetto di equipollenza non germina da un arbitrio interpretativo, ma discende da una serie di norme legislative (sopra citate). Senza dire che il comportamento acquiescente dell'imputato (che non compare) impedisce, nel prosieguo, che egli possa eccepire la nullita', peraltro insussistente, come gia' detto, della richiesta di giudizio immediato ai sensi dell'art. 183, primo comma, lett. a), del c.p.p. laddove si pone il principio della sanatoria delle nullita' generali (non assolute) allorquando la parte interessata abbia prestato acquiescenza agli effetti dell'atto. E' vero che l'attuale codice non riproduce l'art. 376 del c.p.p. abrogato nella parte in cui espressamente veniva equiparata la contestazione all'ordine o mandato rimasto senza effetto. Ma la considerazione e' priva di forza argomentativa, giacche' non possono confrontarsi sistemi processuali fra loro non omogenei. E, comunque, il riferimento al testo abrogato non puo' sorreggere la tesi della non equipollenza. E' appena il caso di notare, da ultimo, che ove si ritenesse la necessita' dell'interrogatorio (sia che si ammetta l'obbligatorieta' dell'accompagnamento coattivo ovvero la sua discrezionalita', correlata a effettive esigenze endoprocessuali), si giungerebbe a concepire il modo di esercizio dell'azione penale come condizionato dal comportamento processuale dell'imputato, venendo sottratta al p.m. in conseguenza della mancata presentazione dell'imputato la potesta' di scelta del rito, potesta' che invece e' dalla legge assegnata in via esclusa al p.m. Con quanta divergenza dal disposto di cui all'art. 112 della Costituzione e' palese. Ultima questione e' la individuazione dei rimedi processauli avverso il decreto di rigetto del g.i.p. della richiesta formulata dal p.m. nel caso che il g.i.p. non condivida l'impostazione della equipollenza. Scartata la possibilita' di elevare conflitto, non piu' ammissibile per l'abolizione dell'art. 51, secondo comma, del c.p.p. abrogato che prevedeva i cd. conflitti "analoghi", in conseguenza del mutato ruolo del p.m., non rimarrebbe che l'appello o il ricorso per cassazione. Tuttavia, nessuno di tali gravami appare esperibile, per mancanza di previsione espressa, operando il principio di tassativita' dei mezzi di impugnazione (art. 568 primo comma) e non rivestendo il decreto de quo ne' i caratteri della sentenza ne' quelli della ordinanza che decide sulla liberta' personale. D'altronde i provvedimenti del giudice aventi contenuto decisorio o emessi autonomamente dalla sentenza che definisce il giudizio sono eccezionalmente impugnabili (come ad es. nell'ipotesi prevista dall'art. 437 o dell'art. 586). L'art. 455 non pone nemmeno l'onere della motivazione al g.i.p. che rigetti la richiesta di giudizio immediato. Ne consegue che, non essendo nemmeno previsto il meccanismo della "opposizione", tradizionalmente riservato al riesame dei decreti (per es. il decreto di condanna), nessun gravame e' esperibile, nella fattispecie. Si tratta di sapere se siamo di fronte a una lacuna del legislatore, con possibile profilo di incostituzionalita' in riferimento all'art. 3, primo comma, della Costituzione, sembrando netta prima facie la disparita' di trattamento quantomeno rispetto alla fattispecie del decreto di condanna, avverso il quale e' previsto uno specifico mezzo di impugnazione (l'opposizone), ovvero se possa dubitarsi che la potesta' legislativa delegata sia stata razionalmente usata. Certamente elementi di valutazione possono scaturire dall'esame della direttiva n. 44) che concerne il giudizio immediato e in cui non si fa riferimento ad alcuna impugnazione del decreto di rigetto del g.i.p. E' probabile che tale scelta sia dipesa dalla preminente considerazione che ogni "incidente" sulla legittimita' del decreto del g.i.p. avrebbe finito per essere incompatibile con la agilita' del rito immediato e che, per cio' stesso, pare necessario attivare i meccanismi c.d. ordinari (udienza preliminare), ferma restando la non impugnabilita' del decreto di giudizio immediato (del tutto assimilabile all'ordinanza di rinvio a giudizio o, meglio, alla richiesta di citazione a giudizio). Ma il sospetto di incostituzionalita' e' tutt'altro che peregrino. Ne consegue che va sollevata questione di legittimita' costituzionale, con riferimento ai vari profili superiormente espressi. In conclusione, e riannotando le file del discorso fin qui condotto, poiche' il decreto di rigetto della richiesta di giudizio immediato non e' impugnabile e poiche' l'interpretazione data dal g.i.p. all'art. 453 del c.p.p., nella parte in cui non si prevede l'equipollenza fra il previo interrogatorio dell'imputato e la mancata comparizione, senza legittimo impedimento, puo' costituire violazione degli artt. 3, 24, 76 e 112 della Costituzione, sotto i profili della disparita' di trattamento per fattispecie analoghe (per il decreto di condanna e' prevista e non per il decreto di rigetto de quo), della lesione del diritto di difesa (riguardo al fatto che si finirebbe per non consentire all'imputato un comportamento - quale la non presentazione - che e' pura manifestazione del diritto di difesa), dell'eccesso di delega (in quanto tale interpretazione si pone in palese contrasto con l'art. 2, secondo comma, n. 1, della legge n. 81/1987) e dell'azione penale obbligatoria (giacche' accogliendo la tesi del g.i.p., si giungerebbe alla conclusione che un comportamento processuale dell'imputato sarebbe idoneo a spogliare il p.m. della potesta' di scelta del rito, che a tale organo la legge assegna in via esclusiva), e' d'uopo sollevare questione di legittimita' costituzionale. Or, poiche' la questione e' rilevante, tant'e' che si e' determinata una situazione di stallo, e non manifestamente infondata, si chiede, ai sensi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87, che la s.v., sospeso l'odierno procedimento ordini la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, onde investire il detto consesso della questione come sopra proposta. Catania, addi' 18 gennaio 1990 Il procuratore della Repubblica: GIORDANO
P. Q. M. Visto l'art. 25 della legge 11 marzo 1955, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con gli artt. 3, 24, 76 e 112 della Costituzione, dell'art. 453 del c.p.p.; Dispone la sospensione del presente giudizio e l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata all'indagato identificato in atti ed al p.m., al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata al Presidente del Senato della Repubblica ed al presidente della Camera dei deputati; Catania, addi' 27 gennaio 1990 Il giudice per le indagini preliminari: AGLIASTRO 90C0504