N. 183 SENTENZA 5 - 12 giugno 2007

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Corte  dei  conti  -  Giudizi  di responsabilita' - Norme della legge
  finanziaria  2006  -  Soggetti  condannati per fatti commessi prima
  dell'entrata  in  vigore  delle  norme  censurate  -  Facolta'  dei
  soggetti  condannati  in  primo  grado  di  chiedere,  in  sede  di
  impugnazione, la definizione del procedimento mediante pagamento di
  una   percentuale   del   danno   quantificato   nella  sentenza  -
  Possibilita'  per  la  sezione di appello della Corte dei conti, in
  caso  di  accoglimento della richiesta, di determinare la riduzione
  della  somma  dovuta  in  misura  non superiore al 30 per cento del
  danno  quantificato  in  primo  grado  -  Prevista  estinzione  del
  giudizio  a  decorrere  dalla  data  di  deposito della ricevuta di
  versamento  della  somma  dovuta dal condannato - Lamentata lesione
  dei  principi  di buon andamento della pubblica amministrazione, di
  ragionevolezza  e  di  effettivita' della giurisdizione contabile -
  Questioni    sollevate    sulla   base   dell'erroneo   presupposto
  interpretativo  della automaticita' della riduzione del danno - Non
  fondatezza.
- Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, commi 231, 232 e 233.
- Costituzione, artt. 3, 97, 101 e 103.
Corte  dei  conti  -  Giudizi  di responsabilita' - Norme della legge
  finanziaria  2006  -  Soggetti  condannati per fatti commessi prima
  dell'entrata  in  vigore  delle  norme  censurate  -  Facolta'  dei
  soggetti  condannati  in  primo  grado  di  chiedere,  in  sede  di
  impugnazione, la definizione del procedimento mediante pagamento di
  una  percentuale  del  danno  quantificato nella sentenza - Mancata
  previsione  di  analoga  possibilita'  per  il  caso di condanna in
  appello  -  Lamentata  violazione  del  principio  di eguaglianza -
  Questione priva di rilevanza - Inammissibilita'.
- Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, commi 231, 232 e 233.
- Costituzione, art. 3.
Corte  dei  conti  -  Giudizi  di responsabilita' - Norme della legge
  finanziaria  2006  -  Soggetti  condannati per fatti commessi prima
  dell'entrata  in  vigore  delle  norme  censurate  -  Facolta'  dei
  soggetti  condannati  in  primo  grado  di  chiedere,  in  sede  di
  impugnazione, la definizione del procedimento mediante pagamento di
  una   percentuale   del   danno   quantificato   nella  sentenza  -
  Possibilita'  per  la  sezione di appello della Corte dei conti, in
  caso  di  accoglimento della richiesta, di determinare la riduzione
  della  somma  dovuta  in  misura  non superiore al 30 per cento del
  danno quantificato in primo grado - Lamentata limitazione del ruolo
  del  pubblico ministero contabile all'espressione di un parere, con
  violazione  del  diritto  di  difesa  e  del  principio  del giusto
  processo  -  Mancata  verifica  di  altre  soluzioni interpretative
  ipotizzabili - Inammissibilita' delle questioni.
- Legge 23 dicembre 2005, n. 266, art. 1, commi 231, 232 e 233.
- Costituzione, artt. 24 e 111.
(GU n.24 del 20-6-2007 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Franco BILE;
  Giudici:  Giovanni  Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO,
Paolo  MADDALENA,  Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO,
Luigi MAZZELLA, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE,
Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nei  giudizi  di  legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 231,
232  e 233, della legge 23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la
formazione  del  bilancio  annuale  e pluriennale dello Stato - legge
finanziaria   2006),  promossi  con  ordinanze  dell'11  aprile,  del
17 maggio  e  del  13  giugno 2006  dalla  Corte  dei conti - sezione
giurisdizionale  d'appello  per la Regione Siciliana, rispettivamente
iscritte  ai  nn. 351,  352  e  353  del  registro  ordinanze  2006 e
pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, n. 40, 1ª serie
speciale, dell'anno 2006.
    Visto l'atto di costituzione di Leopardi Alfio, La Rosa Leonardo,
Russo Angelo e Coco Giuseppe;
    Udito  nell'udienza pubblica del 17 aprile 2007 e nella Camera di
consiglio del 18 aprile 2007 il giudice relatore Paolo Maddalena;
    Udito  nuovamente  nella  Camera di consiglio del 4 giugno 2007 e
nell'udienza  pubblica  del 5 giugno 2007, rifissate in ragione della
intervenuta  modifica  della  composizione  del  collegio, il giudice
relatore Paolo Maddalena.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  ordinanza in data 11-17 aprile 2006 (reg. ord. n. 351
del  2006), la Corte dei conti, sezione giurisdizionale d'appello per
la  Regione Siciliana, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 97,
101   e   103   della   Costituzione,   questione   di   legittimita'
costituzionale   dell'art. 1,  commi 231,  232  e  233,  della  legge
23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale e pluriennale dello Stato - legge finanziaria 2006).
    L'art. 1, comma 231, della legge n. 266 del 2005 prevede che «Con
riferimento  alle  sentenze di primo grado pronunciate nei giudizi di
responsabilita'  dinanzi  alla  Corte  dei  conti  per fatti commessi
antecedentemente alla data di entrata in vigore della presente legge,
i  soggetti  nei  cui  confronti  sia  stata  pronunciata sentenza di
condanna possono chiedere alla competente sezione di appello, in sede
di  impugnazione,  che  il  procedimento  venga  definito mediante il
pagamento  di una somma non inferiore al 10 per cento e non superiore
al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza».
    Il  successivo comma 232 aggiunge che «La sezione di appello, con
decreto  in  Camera  di consiglio, sentito il procuratore competente,
delibera  in  merito  alla  richiesta  e,  in  caso  di accoglimento,
determina la somma dovuta in misura non superiore al 30 per cento del
danno  quantificato  nella  sentenza  di  primo  grado, stabilendo il
termine per il versamento».
    Il  comma 233  dispone  che  «Il  giudizio  di appello si intende
definito  a  decorrere  dalla  data  di  deposito  della  ricevuta di
versamento presso la segreteria della sezione di appello».
    Premette   il   giudice   rimettente   che  il  procedimento  per
responsabilita'  amministrativa di cui e' investito e' stato promosso
dal  pubblico  ministero  contabile nei confronti di un sottufficiale
appartenente  al  Nucleo  di  Polizia  tributaria  della  Guardia  di
finanza,  il  quale  era  stato  condannato  con  sentenza passata in
giudicato  alla  pena  di  tre  anni  di  reclusione  per il reato di
concussione,  per  avere  preteso  e  ricevuto  il  pagamento  di una
«tangente»  di  lire  venti  milioni  in  occasione  di  una verifica
tributaria;  che,  in  primo  grado, la Sezione giurisdizionale della
Corte  dei  conti per la Regione Siciliana ha condannato il convenuto
al  pagamento  in  favore del Ministero dell'economia e delle finanze
della somma di Euro 10.329,14, oltre accessori; che il sottufficiale,
proposto  appello,  ha  chiesto  che,  in  applicazione  dell'art. 1,
comma 231,  della  legge  n. 266  del  2005,  quanto  dovuto  per  la
definizione  del  procedimento  di appello venisse determinato in una
somma  non  inferiore al dieci per cento e non superiore al venti per
cento  del  danno quantificato nella sentenza impugnata; che, infine,
all'accoglimento di tale istanza si e' opposto il pubblico ministero,
in considerazione della particolare gravita' dell'addebito.
    Tanto  premesso,  il  giudice  a  quo  dubita  della legittimita'
costituzionale  del  sistema  introdotto  dalle  norme  censurate, di
definizione  in appello dei giudizi di responsabilita' amministrativa
mediante  il pagamento di una somma non superiore al trenta per cento
del danno quantificato nella sentenza di primo grado.
    Ad  avviso  del  rimettente,  la  concreta  garanzia dei principi
costituzionali  di  eguaglianza,  di  buon  andamento  della pubblica
amministrazione  e  di  controllo  contabile, i quali sono legati dal
comune  fine  di  assicurare  l'efficienza  e  la  regolarita'  della
gestione   finanziaria   e   patrimoniale  degli  enti  pubblici,  e'
sostanzialmente   affidata  alla  legge  ordinaria.  Sono  riservate,
infatti,  al  discrezionale apprezzamento del legislatore non solo la
determinazione   e   la   graduazione   dei  tipi  e  dei  limiti  di
responsabilita'  che, in relazione alle varie categorie di dipendenti
pubblici o alle particolari situazioni regolate, appaiano piu' idonei
a  garantire  l'attuazione  dei  predetti principi costituzionali, ma
anche  la  possibilita'  di  stabilire  un  limite patrimoniale della
responsabilita' amministrativa.
    Nella   specie,   tuttavia,   le   norme   denunciate   sarebbero
caratterizzate  da una indeterminatezza assoluta in ordine allo scopo
perseguito  dal  legislatore,  tale  da precludere definitivamente la
ricerca  di  una  qualsiasi  ratio normativa che non sia quella della
limitazione  patrimoniale  del  risarcimento  per  se  stessa; con la
conseguenza  che esse, «connotandosi unicamente come effetto premiale
ingiustificato»,  si  paleserebbero  «come  una  negazione illogica e
ingiustificata  dei  principi  del  buon  andamento  e  del controllo
contabile».
    La  norme  censurate violerebbero gli evocati parametri anche per
un  altro aspetto. Nel sistema positivo vigente, l'attenuazione della
responsabilita'  amministrativa,  nei  singoli  casi,  e'  rimessa al
potere  riduttivo  sul  quantum  affidato  al giudice, che puo' anche
tenere  conto  delle  capacita' economiche del soggetto responsabile,
oltre  che del comportamento, del livello della responsabilita' e del
danno  effettivamente  cagionato.  In  contrasto  con questi principi
dell'ordinamento,  sarebbe irragionevole una riduzione predeterminata
e  pressoche' automatica della responsabilita' amministrativa e della
misura  del  risarcimento, senza che possa soccorrere una valutazione
sull'incidenza   del   comportamento  complessivo  e  sulle  funzioni
effettivamente  svolte nella produzione del danno, in occasione della
prestazione che ha dato luogo alla responsabilita'.
    Egualmente   incostituzionale   appare   alla   Corte  rimettente
l'affidamento   al  giudice  contabile  di  un  potere  discrezionale
illimitato  nella  individuazione delle ragioni da porre a fondamento
dell'accoglimento  della  domanda  di riduzione dell'addebito e della
concreta  determinazione  della  misura  del  risarcimento, avendo il
legislatore indicato solo i limiti quantitativi di tale potere fra un
minimo  e  un massimo risultanti dalla norma, senza fissare i criteri
direttivi  ai  quali  il  giudice  stesso  deve  attenersi.  Le norme
denunciate,  essendo  dirette ad introdurre una disciplina limitativa
in  forma  generalizzata  della  responsabilita'  amministrativa  con
riferimento indiscriminato a tutti i pubblici dipendenti e a tutte le
possibili  situazioni,  confliggerebbero  altresi'  con  il principio
secondo  cui  il giudice e' soggetto alla legge, con grave vulnus del
principio   di   separazione   del   potere  legislativo  dal  potere
giudiziario.
    2.  -  Identica  questione  e'  stata  sollevata, con le medesime
argomentazioni,   dalla  Corte  dei  conti,  Sezione  giurisdizionale
d'appello   per  la  Regione  Siciliana,  con  ordinanza  in  data  7
marzo-17 maggio 2006 (reg. ord. n. 352 del 2006).
    Nel  caso  all'esame  del  giudice  rimettente,  il  giudizio per
responsabilita'  amministrativa  e' stato promosso nei confronti, tra
gli altri, di funzionari comunali, i quali avevano espresso il parere
di  regolarita' tecnica e contabile in ordine al rimborso delle spese
legali  in  favore di dipendenti ed amministratori pubblici coinvolti
in  un  processo  penale.  La  Corte  dei  conti,  in primo grado, ha
determinato  il  danno  risarcibile  nella misura del venticinque per
cento  di  quello  contestato.  Proposta impugnazione, gli appellanti
hanno  chiesto  la definizione del procedimento mediante il pagamento
del dieci per cento della somma portata in condanna nella sentenza di
primo  grado,  ed  il  pubblico  ministero ha concluso chiedendo alla
Corte di determinare la somma dovuta nella misura del venticinque per
cento  del  danno  al  quale  gli  istanti  erano stati condannati in
solido.
    3.  -  Con ordinanza in data 21 marzo - 13 giugno 2006 (reg. ord.
n. 353  del  2006),  la  Corte  dei  conti,  Sezione  giurisdizionale
d'appello per la Regione Siciliana, ha sollevato, in riferimento agli
artt. 3,  24,  97,  101,  103  e 111 della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale dell'art. 1, commi 231, 232 e 233, della
legge 23 dicembre 2005, n. 266.
    Nel  caso  all'esame  del  giudice  a  quo,  il  procedimento per
responsabilita'   amministrativa   e'  stato  promosso  dal  pubblico
ministero  contabile  nei  confronti  del  sindaco e di assessori del
Comune  di  Zafferana  Etnea  per  l'aggravio di spese sopportato dal
Comune  in  conseguenza del pagamento di un debito fuori bilancio per
la  maggiore  somma di Euro 71.276,18, in relazione al conferimento a
liberi   professionisti   di   un  incarico  di  progettazione  senza
assunzione  dell'impegno  di  spesa.  La  sentenza  di primo grado ha
condannato  tutti  i  convenuti  al  pagamento  di  una somma pari al
cinquanta  per  cento di quella quantificata dalla Procura regionale,
attesi  i  vantaggi comunque conseguibili dal Comune per il fatto che
il  progetto  era stato effettivamente utilizzato da quest'ultimo. La
Procura regionale ha interposto appello ed i condannati in prime cure
hanno,   a  loro  volta,  proposto  appello  incidentale;  tutti  gli
appellanti  in via incidentale, ad eccezione di uno, hanno chiesto di
essere  ammessi a definire il giudizio di responsabilita' mediante il
versamento   di   una  somma  pari  al  dieci  per  cento  di  quella
quantificata  nella  sentenza  di  condanna  di primo grado, ai sensi
dell'art. 1,  commi 231,  232  e 233, della legge n. 266 del 2005; la
Procura  regionale,  al  riguardo,  ha espresso il prescritto parere,
chiedendo  che  l'addebito  da  porre  a  carico  degli  istanti  sia
determinato  nella misura del trenta per cento del danno quantificato
dalla sentenza di primo grado.
    Ad   avviso   del   rimettente,   le  norme  censurate  sarebbero
caratterizzate  da  una  indeterminatezza  assoluta  circa  lo  scopo
perseguito  dal  legislatore,  tale  da precludere definitivamente la
ricerca  di  una  qualsiasi  ratio  normativa  che  non  sia quella -
puramente  e  semplicemente  -  della  limitazione  del  risarcimento
patrimoniale   del   soggetto  condannato  in  primo  grado;  con  la
conseguenza  che  esse, dando luogo unicamente ad un effetto premiale
ingiustificato,  si  paleserebbero  come  una  negazione  illogica  e
ingiustificata  dei  principi  del  buon  andamento  e  del controllo
contabile.
    A  differenza  dell'istituto  del  cosiddetto condono fiscale nel
procedimento dinanzi alle commissioni tributarie, e dell'applicazione
della pena su richiesta delle parti nel procedimento penale, le norme
sottoposte   a   scrutinio  di  costituzionalita'  non  inciderebbero
minimamente   (in   senso  riduttivo)  sull'entita'  del  contenzioso
contabile,  essendo  destinate  ad  operare esclusivamente in sede di
appello,  nel  cui  ambito il sostituire una pubblica udienza con una
Camera  di  consiglio e una sentenza con un decreto sarebbe di scarso
significato.  D'altra parte, le norme stesse, determinando una minore
entrata   (fra  il  novanta  ed  il  settanta  per  cento  del  danno
quantificato  nella sentenza di primo grado), si risolverebbero in un
irrazionale e incongruo «effetto premiale».
    Le  norme  denunciate contrasterebbero anche con il principio del
libero  convincimento  del  giudice  (art. 101  Cost.),  giacche' non
offrirebbero alcun criterio di orientamento per il giudice contabile.
    Il  principio  di  eguaglianza  sarebbe  violato anche perche' la
normativa  censurata sarebbe applicabile soltanto ai soggetti nei cui
confronti  sia stata pronunciata in primo grado sentenza di condanna,
con la conseguenza che essa, irragionevolmente, sarebbe inapplicabile
ai  soggetti  che,  assolti  in  primo  grado,  vedano  tale sentenza
riformata  in  appello,  a seguito di gravame interposto dal pubblico
ministero.  Secondo il rimettente, sarebbe irrazionale una previsione
legislativa  che  escluda  dal  beneficio della definizione agevolata
quei  soggetti  la  cui posizione - dopo la sentenza di primo grado -
appare chiaramente meno «pesante» di quella dei convenuti condannati.
Ne'  si  potrebbe  pervenire ad una interpretazione adeguatrice: «non
solo  perche',  in  tale  caso, dovrebbe superarsi la "lettera" della
"condanna"  in  primo grado, ma anche perche' si dovrebbe "creare" il
criterio  al  quale  correlare le percentuali» del dieci, del venti o
del trenta per cento previste dalla legge.
    Sarebbe   violato,   inoltre,  l'art. 24,  secondo  comma,  della
Costituzione, perche' il pubblico ministero presso la Corte dei conti
viene  evocato  nel  solo  comma 232 e soltanto per essere sentito in
Camera  di  consiglio quando la Sezione di appello deve deliberare in
merito  alla  richiesta  di definizione agevolata. Infatti, «per tale
funzione,  limitata e marginale (che si sostanzia nell'espressione di
un  "parere"),  del  pubblico ministero, il procedimento regolato dai
commi 231-233  dell'art. 1  della  legge  n. 266 del 2005 non assume,
sostanzialmente, carattere bilaterale, per cui la funzione di "parte"
del  pubblico  ministero  contabile  (nell'ottica - anche del "giusto
processo" -   dell'art. 111   Cost.)   viene,   nella  specie,  quasi
pretermessa  (con  la  conseguenza  - fra l'altro - che, in tal modo,
vengono  pesantemente  compressi  i  diritti  e  gli  interessi della
pubblica   amministrazione,   dei  quali  il  pubblico  ministero  e'
chiaramente     portatore,     in    uno    all'interesse    generale
dell'Ordinamento)».
    3.1.  -  Nel  giudizio  dinanzi  alla  Corte  si  sono costituiti
Leonardo  La  Rosa,  Angelo  Russo, Salvatore Rosano e Giuseppe Coco,
parti  nel  giudizio  a  quo,  concludendo  per  l'inammissibilita' e
l'infondatezza della questione.
    Ad  avviso  della difesa delle parti private, il legislatore, con
le  norme  sottoposte  allo scrutinio di costituzionalita', ha inteso
introdurre  una  sorta  di  «patteggiamento  contabile»,  sul modello
dell'applicazione  della  pena  su  richiesta  delle  parti,  di  cui
all'art. 444   del   codice   di   procedura   penale,  ovvero  della
conciliazione giudiziale prevista dall'art. 48 del d.lgs. 31 dicembre
1992,  n. 546,  per  il  processo tributario. Dato che il legislatore
dispone  di un'ampia potesta' discrezionale nella conformazione degli
istituti   processuali,   la  finalita'  dell'intervento  riformatore
rimarrebbe  estranea al sindacato di legittimita' costituzionale, non
potendo  il  giudizio  di  costituzionalita'  comportare un esame sul
merito   o   sull'opportunita'   delle   norme   censurate   ne'  una
riformulazione  della ponderazione degli interessi che il legislatore
ha compiuto nell'esercizio della sua insindacabile discrezionalita'.
    Si  sostiene  nella  memoria  che  il  meccanismo  introdotto dal
legislatore non preclude al giudice d'appello, valutata la necessaria
sussistenza  dei  presupposti  processuali  e  temporali,  margini di
discrezionalita'  in  ordine  all'adeguatezza  della somma offerta in
pagamento.  Tale meccanismo risponde all'esigenza di una immediata ed
effettiva  esecuzione  della  condanna,  che costituisce uno dei nodi
critici  della  giustizia  contabile.  Il  soddisfacimento  di questa
esigenza  emergerebbe  chiaramente  dall'art. 1,  comma 233,  ove  si
dispone  che  il  giudizio  d'appello  deve ritenersi definito solo a
condizione   dell'effettivo  versamento  della  somma  stabilita.  Il
pagamento  realizza quindi un duplice obiettivo: quello di soddisfare
l'esigenza  di  economia  processuale,  evitando  ulteriori  fasi del
giudizio   contabile;   e,   soprattutto,  quello  di  far  acquisire
tempestivamente  all'ente  danneggiato  il proprio credito, dando una
efficace  risposta  alla  problematica  connessa all'esecuzione delle
sentenze di condanna che da tempo affligge il processo erariale.
    Le  parti private escludono che la responsabilita' amministrativa
abbia  una  funzione  prevalentemente compensativa o sanzionatoria ed
affermano,  a sostegno della ragionevolezza della scelta legislativa,
che  una  condanna  mite  applicata con prontezza ha una efficacia di
prevenzione  indubbiamente  superiore  ad  una condanna piu' grave ma
applicata  a  distanza  di  tempo  ed  incerta  in relazione alla sua
effettiva esecuzione.
    Inammissibile  ed  infondata  sarebbe  la  censura in riferimento
all'art. 97  della Costituzione, dal momento che il principio di buon
andamento  ed  imparzialita' dell'amministrazione riguarda gli organi
di amministrazione della giustizia soltanto rispetto al funzionamento
del  relativo  ordinamento amministrativo. Si sostiene inoltre che il
legislatore  non avrebbe previsto l'applicazione delle norme in esame
anche  nel  corso  del  giudizio  di  primo  grado  per  la  ragione,
eminentemente  pratica, che mancherebbe in questa fase l'accertamento
giudiziale dell'entita' dei danni subiti dall'amministrazione.
    Secondo  le parti private, le difficolta' connesse all'esecuzione
delle  sentenze  di  condanna per danno erariale (confermate dai dati
statistici   di   pubblico  dominio),  con  l'effettivo  incasso  del
risarcimento   dovuto   da  parte  dell'amministrazione  danneggiata,
dimostrerebbero   che   l'applicazione  dell'istituto  in  esame  non
condurrebbe  ad  una  minore entrata rispetto all'importo indicato in
sentenza.
    Ne'  meriterebbe  accoglimento,  infine,  la censura per presunta
violazione dell'art. 103, secondo comma, della Costituzione, giacche'
l'applicazione  dell'istituto  della definizione agevolata in appello
presuppone  la  giurisdizione  contabile ed e' pur sempre subordinata
alla  valutazione della Sezione di appello, chiamata a deliberare sui
presupposti applicativi e sull'entita' della somma da versare.
    Ad  avviso delle parti private, la questione sarebbe in ogni caso
inammissibile,  perche'  il  giudice  rimettente non avrebbe esperito
alcun  tentativo di individuare una interpretazione adeguatrice della
norme denunciate. Il legislatore, infatti, ha introdotto una sorta di
patteggiamento contabile, disciplinandone i presupposti processuali e
temporali   e   lasciando   all'organo   decidente   un   margine  di
discrezionalita'  in  ordine  alla valutazione dell'adeguatezza della
somma  offerta  in pagamento. Non si comprenderebbe per quale ragione
il giudice a quo ritenga che sia stata sottratta all'organo decidente
la  valutazione  sul  comportamento  dell'agente, laddove, secondo le
previsioni   normative   censurate,   esso  e'  chiamato  a  valutare
l'adeguatezza  della  somma  offerta  in  pagamento e, in relazione a
quest'ultimo   aspetto,  il  comportamento  dell'agente  e  tutte  le
circostanze a tal fine rilevanti.
    Irrilevante   sarebbe   la   censura  di  irragionevolezza  delle
disposizioni  denunciate, in considerazione della loro applicabilita'
solo  in  appello  e  esclusivamente nel caso di gravame proposto dal
soggetto  condannato  in  primo  grado,  atteso che, nella specie, la
richiesta  di  definire  il  giudizio  mediante  il versamento di una
percentuale del danno e' stata avanzata in una situazione esattamente
corrispondente al paradigma normativo.
    Ne'  sarebbe  configurabile il denunciato contrasto con l'art. 24
Cost.,  dal  momento  che il pubblico ministero contabile non avrebbe
comunque  alcun  titolo  per  rigettare  la  richiesta di definizione
anticipata  del  giudizio,  dovendosi limitare, invece, ad esporre in
Camera  di  consiglio  le  eventuali  ragioni  per  le  quali ritiene
l'importo  offerto incongruo in relazione al pregiudizio patrimoniale
subito dall'amministrazione.
    3.2.  -  In  prossimita'  dell'udienza,  le  parti  private hanno
depositato una memoria illustrativa.
    Il   principale   obiettivo   perseguito   dal   legislatore  con
l'introduzione  del  cosiddetto  condono  erariale  -  si  sostiene -
sarebbe   quello   di  garantire  ad  ogni  amministrazione  pubblica
l'effettivo  e  sollecito  recupero  di  una  congrua parte del danno
subito.  L'istituto in esame sostituisce alle spese e alle lungaggini
connesse all'esecuzione delle sentenze di condanna della magistratura
contabile  l'adempimento  spontaneo  del  condannato.  Sarebbe  cosi'
giustificata  la  previsione  di  un effetto premiale, analogamente a
quanto  accade  in materia penale con il patteggiamento e con il rito
abbreviato,  tanto  piu'  che le percentuali di effettiva riscossione
dei  risarcimenti  imposti dalla Corte dei conti sono sostanzialmente
irrisorie.  Inoltre,  il  beneficio introdotto dalle norme denunciate
non  sarebbe  applicabile  nei casi di dolo e di frode, ossia proprio
nei casi nei quali e' piu' avvertita l'esigenza sanzionatoria.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Le  questioni  sollevate  dalla  Corte  dei conti, Sezione
giurisdizionale  d'appello  per  la  Regione  Siciliana, investono le
norme  sulla  definizione  in  appello dei giudizi di responsabilita'
amministrativa  dinanzi alla Corte dei conti, introdotte dall'art. 1,
commi 231,   232   e   233,  della  legge  23 dicembre  2005,  n. 266
(Disposizioni  per  la  formazione del bilancio annuale e pluriennale
dello Stato - legge finanziaria 2006).
    Le norme impugnate prevedono:
        che «Con riferimento alle sentenze di primo grado pronunciate
nei giudizi di responsabilita' dinanzi alla Corte dei conti per fatti
commessi  antecedentemente  alla  data  di  entrata  in  vigore della
presente  legge,  i  soggetti nei cui confronti sia stata pronunciata
sentenza  di  condanna  possono  chiedere  alla competente sezione di
appello,  in sede di impugnazione, che il procedimento venga definito
mediante  il  pagamento  di una somma non inferiore al 10 per cento e
non  superiore al 20 per cento del danno quantificato nella sentenza»
(comma 231);
        che  «La  sezione  di  appello,  con  decreto  in  Camera  di
consiglio, sentito il procuratore competente, delibera in merito alla
richiesta  e,  in  caso di accoglimento, determina la somma dovuta in
misura  non  superiore  al  30 per cento del danno quantificato nella
sentenza  di  primo  grado,  stabilendo il termine per il versamento»
(comma 232);
        che  «Il  giudizio di appello si intende definito a decorrere
dalla  data  di  deposito  della  ricevuta  di  versamento  presso la
segreteria della sezione di appello» (comma 233).
    Secondo  tutte  le  ordinanze  di rimessione, le norme denunciate
violerebbero  gli  artt. 3,  97  e  103  della  Costituzione, perche'
sarebbero  ancorate  all'unica  ratio  di  limitare  il  risarcimento
patrimoniale   dovuto  dal  soggetto  condannato  in  primo  grado  e
determinerebbero  percio'  un  effetto  premiale  ingiustificato, con
conseguente  negazione,  illogica  e ingiustificata, dei principi del
buon  andamento  e del controllo contabile; inoltre, in contrasto con
l'art. 101  della  Costituzione,  le  norme  stesse inciderebbero sul
principio  del libero convincimento del giudice, non prevedendo alcun
criterio  di  orientamento  per  il  giudice  contabile,  laddove nel
sistema   positivo   vigente   l'attenuazione  della  responsabilita'
amministrativa,  nei  singoli casi, e' rimessa al potere riduttivo di
tale  giudice  che, a tal fine, puo' tenere conto del comportamento e
del  livello  di  responsabilita', nonche' delle capacita' economiche
del soggetto responsabile.
    Una  delle  ordinanze  di  rimessione (reg. ord. n. 353 del 2006)
prospetta  ulteriori  profili  e  parametri. Con essa, infatti, viene
denunciata  la  violazione,  ancora,  dell'art. 3 della Costituzione,
sotto  il  profilo  del  principio  di  eguaglianza, perche' le norme
censurate   sarebbero   applicabili  soltanto  ai  soggetti  nei  cui
confronti  sia stata pronunciata in primo grado sentenza di condanna,
e  non  anche,  irragionevolmente,  ai  soggetti nei cui confronti la
sentenza  di  assoluzione  in  primo  grado  sia  stata riformata, in
appello,  a seguito di gravame interposto dal pubblico ministero. Con
tale  ordinanza  viene  dedotto,  altresi',  il contrasto delle norme
censurate  con  gli  artt. 24  e  111  della Costituzione, perche' al
pubblico ministero contabile sarebbe assegnata una funzione, limitata
e marginale, di carattere consultivo.
    2.  -  Considerata l'identita' di materia, nonche' la sostanziale
analogia  delle  questioni  prospettate,  i  giudizi  possono  essere
riuniti,  per  essere  esaminati  congiuntamente  e  decisi con unica
sentenza.
    3.   -   Le  ordinanze  di  rimessione  muovono  dal  presupposto
interpretativo  che,  in  presenza  di una istanza di definizione, in
appello,  del giudizio di responsabilita' amministrativa avanzata dal
condannato  in  primo  grado, il potere di cognizione della Corte dei
conti   sia  limitato  alla  verifica  delle  condizioni  formali  di
ammissibilita'  della  domanda.  A fronte di una condanna pronunciata
per  fatti  commessi  antecedentemente alla data di entrata in vigore
della  legge,  il giudice contabile - si sostiene - sarebbe obbligato
ad   accogliere  in  ogni  caso  la  richiesta  di  applicazione  del
beneficio,  potendo unicamente decidere l'entita' del quantum (dieci,
venti  o  trenta  per  cento del danno quantificato nella sentenza in
primo  grado),  ma  in  assenza  di  criteri  idonei  ad orientare la
relativa  determinazione.  In questa prospettiva, le norme denunciate
si risolverebbero in una limitazione della responsabilita' automatica
e predeterminata.
    Tale presupposto interpretativo e' erroneo.
    Contrariamente  a  quanto  mostrano  di  ritenere le ordinanze di
rimessione,  le  disposizioni  censurate  non  limitano  il potere di
cognizione del giudice in sede camerale al mero esame dei presupposti
di  ammissibilita'  dell'istanza di definizione, ma richiedono che il
giudice stesso valuti tutti gli elementi desumibili dall'accertamento
dei  fatti,  gia' compiuto nella sentenza di primo grado (sussistenza
del  dolo,  illecito  arricchimento,  gravita' dei fatti, entita' del
danno,  grado  di intensita' della colpa, condizione patrimoniale del
condannato).
    In  questo senso e', del resto, orientata la giurisprudenza della
Corte dei conti, Sezione centrale d'appello, secondo cui l'ammissione
alla  definizione  presuppone  una valutazione di merito da parte del
giudice  contabile  sul  fatto  che  l'esigenza  di  giustizia  possa
ritenersi   soddisfatta   a   mezzo   della   procedura   accelerata,
escludendosi  che  a  tale definizione possa accedersi in presenza di
dolo del condannato o di particolare gravita' della condotta.
    Si  deve  pertanto ritenere che la sussistenza di un ampio potere
del   giudice  contabile  di  rigettare  l'istanza  in  caso  di  non
meritevolezza  della  definizione  in  via  abbreviata costituisca un
presidio  adeguato  alla  tutela  dei  principi costituzionali - buon
andamento della pubblica amministrazione; ragionevolezza delle scelte
del  legislatore,  alla  luce  del  principio  di responsabilita' dei
pubblici  dipendenti;  effettivita'  della  giurisdizione contabile -
evocati dalle ordinanze di rimessione.
    Inoltre,  la  previsione  concernente la determinazione, ad opera
della  Corte  dei  conti  in sede di appello, della somma dovuta - in
misura  non  superiore  al  trenta  per cento del danno «quantificato
nella  sentenza  di  primo  grado»  -  va inquadrata nel tradizionale
assetto della responsabilita' amministrativa.
    In  tale  sistema, l'intero danno subito dall'Amministrazione, ed
accertato secondo il principio delle conseguenze dirette ed immediate
del  fatto  dannoso,  non  e'  di  per  se'  risarcibile  e,  come la
giurisprudenza contabile ha sempre affermato, costituisce soltanto il
presupposto  per  il  promuovimento  da  parte del pubblico ministero
dell'azione   di  responsabilita'  amministrativa  e  contabile.  Per
determinare  la  risarcibilita'  del  danno,  occorre una valutazione
discrezionale  ed  equitativa  del giudice contabile, il quale, sulla
base  dell'intensita'  della  colpa, intesa come grado di scostamento
dalla  regola  che si doveva seguire nella fattispecie concreta, e di
tutte  le  circostanze  del  caso,  stabilisce quanta parte del danno
subito  dall'Amministrazione  debba  essere addossato al convenuto, e
debba pertanto essere considerato risarcibile.
    Cio'   si  ricava  da  due  norme  fondamentali  della  legge  di
contabilita'  generale  dello  Stato,  poi ribadite in tutte le leggi
successive, secondo le quali la Corte dei conti, «valutate le singole
responsabilita',  puo'  porre a carico dei responsabili tutto o parte
del  danno accertato o del valore perduto» (art. 83, primo comma, del
regio  decreto  18 novembre  1923,  n. 2440),  e,  quando  l'azione o
l'omissione  e'  dovuta al fatto di piu' soggetti, «ciascuno risponde
per  la  parte  che  vi ha preso» (art. 82, secondo comma, del citato
regio decreto).
    Tali  norme, in relazione alle quali si e' impropriamente parlato
di  potere  riduttivo,  distinguono  chiaramente  il  danno accertato
secondo  il  principio di causalita' materiale, cioe' il danno subito
dall'Amministrazione,   dal   danno  addossato  al  responsabile:  la
relativa  sentenza  di  condanna  della  Corte  dei conti e' pertanto
determinativa e costitutiva del debito risarcitorio.
    Le  norme  censurate  non  ignorano  tale  assetto  e, muovendosi
all'interno  del  perimetro  di  detta  discrezionalita' decisionale,
consentono l'accoglimento dell'istanza di definizione in appello solo
se il giudice - avuto riguardo ai criteri in base ai quali egli forma
la  propria  decisione - ritenga congrua una condanna entro il limite
del  trenta  per  cento  del  danno  addebitato al responsabile nella
sentenza di primo grado.
    In  altri  termini,  esse non comportano alcuna deroga al sistema
della  responsabilita' amministrativa. Se, facendo uso dei poteri che
gli  competono,  il  giudice  di appello si convince che l'intensita'
della  colpa  e le altre circostanze del caso fanno ritenere equa una
riduzione  fino  al  trenta  per cento della condanna di primo grado,
egli accogliera' l'istanza; in caso contrario, la respingera'.
    Cosi'  interpretate,  le norme denunciate si sottraggono ai dubbi
di   legittimita'   costituzionale  prospettati  dalle  ordinanze  di
rimessione   in  riferimento  agli  artt. 3,  97,  101  e  103  della
Costituzione.  Esse,  infatti,  non producono alcun ingiustificato ed
automatico  effetto  premiale,  essendo dirette a determinare, con un
rito  abbreviato,  quanto  dovuto dai responsabili in base alle norme
proprie  del  sistema  della responsabilita' amministrativa, ed hanno
una   finalita'   di   accelerazione   dei   giudizi  e  di  garanzia
dell'incameramento certo ed immediato della relativa somma.
    4. - Inammissibili sono le ulteriori censure sollevate.
    La   questione,   sollevata   in   riferimento  all'art. 3  della
Costituzione,  sotto il profilo del principio di eguaglianza, rivolta
ad allargare l'ambito di applicazione dell'istituto della definizione
a  coloro  la  cui  sentenza  di assoluzione in primo grado sia stata
riformata  in  appello,  a seguito di gravame interposto dal pubblico
ministero,  e'  priva  di  rilevanza, giacche' nel giudizio a quo gli
amministratori comunali sono stati condannati in primo grado.
    La  questione  concernente  le  funzioni  del  pubblico ministero
contabile  nel procedimento di definizione che si svolge in Camera di
consiglio,  e'  sollevata dal giudice rimettente, in riferimento agli
artt. 24  e  111  della Costituzione, senza una previa verifica delle
soluzioni  interpretative  ipotizzabili.  L'ordinanza  di rimessione,
infatti,  non  si da' neppure cura di precisare se il procedimento in
Camera  di  consiglio  consenta  o meno la partecipazione di tutte le
parti,  affinche' in esso possano trovare ingresso in contraddittorio
tutte le ragioni a favore e contro la concessione del beneficio della
definizione  del giudizio, o se il procedimento camerale si limiti ad
un  vaglio  dell'istanza  scritta  e  del parere scritto del pubblico
ministero.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Riuniti i giudizi,
    1) dichiara    non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale   dell'art. 1,  commi 231,  232  e  233,  della  legge
23 dicembre 2005, n. 266 (Disposizioni per la formazione del bilancio
annuale   e  pluriennale  dello  Stato  -  legge  finanziaria  2006),
sollevate,   in  riferimento  agli  artt. 3,  97,  101  e  103  della
Costituzione,   dalla   Corte   dei  conti,  Sezione  giurisdizionale
d'appello  per  la  Regione  Siciliana,  con le ordinanze indicate in
epigrafe;
    2)   dichiara   inammissibili   le   questioni   di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 1, commi 231, 232 e 233, della stessa legge
n. 266  del 2005, sollevate, in riferimento agli artt. 3, sotto altro
profilo,  24 e 111 della Costituzione, dalla Corte dei conti, Sezione
giurisdizionale  d'appello per la Regione Siciliana, con l'ordinanza,
indicata  in  epigrafe,  iscritta  al  n. 353  del  2006 del registro
ordinanze.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 5 giugno 2007.
                         Il Presidente: Bile
                       Il redattore: Maddalena
                       Il cancelliere: Milana
    Depositata in cancelleria il 12 giugno 2007.
                       Il cancelliere: Milana
07C0775