N. 829 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 aprile - 12 novembre 1997
N. 829 Ordinanza emessa il 21 aprile 1997 (pervenuta alla Corte costituzionale il 12 novembre 1997) dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto dal comune di Roma contro Ghezzi Maria Rita Impiego pubblico - Dipendente condannato in sede penale - Possibilita' di destituzione all'esito di procedimento disciplinare - Termine perentorio di novanta giorni per la conclusione di detto procedimento - Asserita impossibilita' per la pubblica amministrazione di porre in essere tutti gli atti endoprocedimentali previsti a difesa dell'incolpato - Dedotta inadeguata valutazione dei fatti - Irragionevolezza - Lesione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione. (Legge 7 febbraio 1990, n. 19, art. 9, comma 2). (Cost., artt. 3 e 97).(GU n.49 del 3-12-1997 )
IL CONSIGLIO DI STATO Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello (n. 3336/1996) proposto dal comune di Roma, in persona del sindaco pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Riccardo Marzolo, elettivamente domiciliato presso l'Avvocatura comunale in Roma, via del Tempio di Giove n. 21, contro la sig.ra Maria Rita Ghezzi, rappresentata e difesa dall'avv. Luigi Medugno e presso di lui elettivamente domicilia in Roma, via Guido d'Arezzo n. 18, per l'annullamento della sentenza del tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione seconda-bis, 8 marzo 1996 n. 468, resa inter partes; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'appellata; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti gli atti tutti della causa; Vista l'ordinanza di rimessione della sezione quinta n. 148 del 1997; Uditi, alla pubblica udienza del 21 aprile 1997, relatore il consigliere Filippo Patroni Griffi gli avv.ti Riccardo Marzolo e Luigi Medugno; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: F a t t o La signora Maria Rita Ghezzi ha impugnato innanzi al tribunale amministrativo regionale per il Lazio la destituzione disposta dalla giunta comunale di Roma nei suoi confronti con provvedimento del 18 luglio 1995, a seguito di condanna penale e all'esito del procedimento disciplinare iniziato in data 16 novembre 1994. Il tribunale amministrativo, con sentenza 8 marzo 1996 n. 469, ha annullato il provvedimento, sul rilievo, ritenuto assorbente di ogni altra dedotta censura, che il procedimento disciplinare si e' concluso oltre il termine di novanta giorni dal suo inizio, previsto dall'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19. Propone appello il comune di Roma. Resiste la signora Ghezzi. Con ordinanza n. 148 del 1997, la sezione quinta ha devoluto l'affare dell'Adunanza plenaria delle sezioni giurisdizionali di questo Consiglio di Stato. All'udienza del 21 aprile 1997, la causa e' stata trattenuta in decisione. D i r i t t o 1. - Il tribunale amministrativo ha annullato il provvedimento disciplinare sul rilievo della natura perentoria del termine di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, termine non rispettato nella specie. Tale censura e' stata ritenuta assorbente dal tribunale amministrativo di ogni altro profilo di illegittimita' dedotto in primo grado. Ne consegue che, in sede di gravame, il motivo di appello con il quale si contesta la statuizione di primo grado va necessariamente esaminato per primo, potendo eventualmente trovare ingresso nel giudizio le altre censure contenute nell'originario ricorso solo a seguito dell'accoglimento di tale motivo di appello e di riforma in parte qua della sentanza impugnata. 2. - La questione di diritto sulla quale l'affare e' stato devoluto a questa adunanza plenaria concerne dunque la portata del medesimo art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in forza del quale nei confronti del pubblico dipendente, condannato in sede penale, "la destituzione puo' sempre essere inflitta all'esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l'amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile e concluso nei successivi novanta giorni". 3. - Come e' stato posto in evidenza nell'ordinanza di rimessione, tale norma ha dato luogo a notevoli difficolta' di ordine interpretativo. 3.1. - In sede di prima applicazione, alcune sentenze dei tribunali amministrativi regionali hanno ritenuto che e' senz'altro viziato da violazione di legge il provvedimento di destituzione adottato dopo la scadenza del termine di novanta giorni, previsto per la conclusione del procedimento. Tale tesi si fonda sul testo della norma, che ha adoperato un'espressione ("deve essere... concluso") da cui si evince la volonta' del legislatore di delimitare l'esercizio del potere disciplinare, sotto il profilo temporale. Si e' pertanto qualificato come "perentorio" il termine di conclusione del procedimento disciplinare. Altre sentenze dei tribunali amministrativi regionali hanno invece attribuito carattere "ordinatorio" al medesimo termine, rilevando che la previgente normativa sul procedimento disciplinare (e in particolare le disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del 1957) prevede varie fasi procedimentali, che mirano ad equilibrare i poteri dell'amministrazione con le esigenze della difesa del dipendente: non puo' ritenersi che il rispetto dei distinti termini previsti per tali fasi renda illegittimo il provvedimento disciplinare, pur adottato dopo novanta giorni dalla contestazione degli addebiti. 3.2. - Questo consiglio, sia in sede consultiva che giurisdizionale, ha costantemente ritenuto che non sia di per se' viziato il provvedimento disciplinare adottato dopo la scadenza del termine di novanta giorni. La commissione speciale del pubblico impiego, con parere 11 novembre 1991 n. 275, ha rilevato le manifeste incongruita' derivanti dalla previsione di tale termine, poiche' l'art. 9, comma 2, - introdotto per dare attuazione ai principi espressi dalla pronuncia della Corte costituzionale 14 ottobre 1988 n. 971, che dichiarava illegittima la destituzione automatica - non ha previsto alcuna norma di coordinamento con la legislazione precedente. La commissione, sul presupposto che in sede di esame dei quesiti proposti al Consiglio di Stato in sede consultiva non possono essere sollevate questioni di costituzionalita' innanzi alla Corte costituzionale, ha rilevato che: l'amministrazione deve comunque rispettare il termine di novanta giorni concludendo il procedimento, essendovi il pubblico interesse alla corretta e rapida definizione della situazione conseguente alla condanna penale dell'impiegato; il superamento del termine non comporta sempre l'estinzione del procedimento disciplinare, poiche' si deve accertare se esso risulti giustificato, nel singolo caso di specie, dal documentato svolgimento delle fasi endoprocedimentali fissate dal testo unico n. 3 del 1957, purche' queste ultime siano state espletate nel rigoroso rispetto dei termini specificamente previsti dalla legge. 3.3. - La successiva giurisprudenza di questo Consiglio, in sede giurisdizionale, ha per lo piu' condiviso le conclusioni cui e' giunta la commissione speciale, verificando di volta in volta se risultassero sussistenti "adeguate ragioni giustificatrici" della conclusione del procedimento disciplinare oltre il prescritto termine di novanta giorni. La sentenza impugnata si e' adeguata a tale giurisprudenza, rilevando che, in concreto, nessuna particolare ragione giustificava l'adozione del provvedimento di destituzione dopo il superamento del termine di novanta giorni, decorrente dalla comunicazione degli addebiti. Altre volte, questo consiglio ha qualificato come "ordinatorio" il medesimo termine, ritenendo di per se' irrilevante il suo superamento. 4. - Rileva l'adunanza plenaria che, a distanza di oltre sette anni dall'entrata in vigore della legge n. 19 del 1990, non si e' ancora formato un "diritto vivente" sull'effettivo ambito di operativita' dell'art. 9, secondo comma. Cio' e' dovuto al fatto che il suo tenore letterale, malgrado la sua sintetica linearita', non e' apparso coerente (alla commissione speciale e alle singole sezioni di questo consiglio) con la precedente normativa sul procedimento disciplinare e, in particolare, con le disposizioni contenute nel testo unico n. 3 del 1957 e negli altri ordinamenti di settore. Tali disposizioni, che sviluppano i principi garantistici tradizionalmente enunciati in materia fin dal secolo scorso dal Consiglio di Stato, ha previsto alcune "fasi endoprocedimentali", delimitando i poteri istruttori e punitivi dell'amministrazione e contemperandoli con le esigenze di difesa dell'incolpato. L'art. 9, comma 2, della legge n. 19 del 1990, nel prevedere che il procedimento disciplinare deve essere iniziato entro centottanta giorni dalla condanna e concluso nei successivi novanta giorni, si puo' dunque prestare a una duplice interpretazione: a) o si ritiene che il legislatore abbia disposto l'indefettibile conclusione del procedimento disciplinare entro il medesimo termine, potendo l'amministrazione comunque adottare l'atto punitivo prescindendo dalle regole procedimentali sancite in primis dal testo unico n. 3 del 1957: e allora si devono ritenere abrogate per incompatibilita' tutte le norme che hanno articolatamente previsto le varie fasi endoprocedimentali, poste a difesa dell'incolpato e che non possono svolgersi durante i novanta giorni; b) o si ritiene che il legislatore, come ha osservato la commissione speciale nel richiamato parere, ha fissato un termine la cui violazione non comporta di per se' l'illegittimita' dell'atto punitivo, potendo il giudice amministrativo di volta in volta, in presenza di specifiche censure dell'interessato, valutare se siano o meno sussistenti "adeguate ragioni giustificatrici" che possono spiegare il superamento del termine. 5. - L'Adunanza plenaria ritiene che questa seconda linea interpretativa debba essere esclusa, per le seguenti ragioni: a) il dato letterale dell'art. 9, secondo comma, e' chiaro nel disporre che la conclusione del procedimento disciplinare debba aver luogo senza deroghe entro il termine di novanta giorni dal suo inizio (in tal senso, v. anche il punto 3 della motivazione della sentenza della Corte costituzionale 6 novembre 1991, n. 415); b) la sua ratio e' stata per il legislatore l'esigenza che sia prontamente definita la particolare situazione in cui versa il pubblico dipendente, a tutela tanto di questi quanto dell'amministrazione; c) non puo' ammettersi che, in una materia tanto delicata, nella quale sono in discussione aspetti delicatissimi attinenti alla personalita' del dipendente e alla prosecuzione della sua attivita' lavorativa (art. Corte costituzionale, sentenza n. 971 del 1988), non vi sia una regola certa, univoca, di facile applicazione sulla durata del procedimento disciplinare. Per quanto riguarda quest'ultimo aspetto, ritiene l'adunanza plenaria che anche per l'illecito disciplinare debba applicarsi il principio di chiarezza o di determinatezza della disciplina che consente la sua punizione. In base ad un principio generale, applicabile non solo nel diritto penale, ma piu' in generale nel diritto punitivo, devono essere predeterminate dall'ordinamento le possibili conseguenze della commissione di un illecito. Per quanto riguarda l'illecito disciplinare, tale principio si applica sul piano sostanziale (potendo la legge attribuire all'amministrazione il potere disciplinare in presenza di una condanna penale o di altri preindividuati presupposti) e sul piano procedimentale (potendo l'amministrazione adottare l'atto punitivo entro termini stabiliti e mediante gli atti individuati dal legislatore). Il secondo comma dell'art. 9 in esame non ha esperessamente previsto che l'amministrazione possa concludere il procedimento oltre il termine di novanta giorni dal suo inizio "in presenza di adeguate ragioni giustificatrici", ne' queste possono porre nel nulla la norma ed essere in concreto ravvisate dal giudice amministrativo, con una indagine ex post non basata su alcun obiettivo canone interpretativo: la legge non ha previsto alcuna eccezione alla regola per cui l'amministrazione puo' irrogare la sanzione disciplinare solo entro il termine fissato, ne' ha previsto che la "scusabilita'" del superamento del termine possa essere ravvisata dal giudice amministrativo. 6. - L'unica possibile interpretazione del secondo comma dell'art. 9 in esame risulta essere quella conforme al suo tenore letterale. Il legislatore ha delimitato una parentesi temporale entro la quale puo' essere esercitato il potere disciplinare a seguito di una condanna penale, il cui termine iniziale e' quello di centottanta giorni dalla condanna e il cui termine finale e' quello di novanta giorni, decorrente dall'inizio del procedimento: il superamento del medesimo termine comporta l'illegittimita' del provvedimento punitivo per violazione di legge. 7. - Va a questo punto rilevato che l'art. 9, comma 2, per la parte in cui ha disposto che il potere punitivo possa essere esercitato indefettibilmente entro il termine di novanta giorni, potrebbe porsi in contrasto con vari principi costituzionali: l'Adunanza plenaria ritiene d'ufficio che risultino non manifestamente infondate le relative questioni. Necessariamente, l'amministrazione pubblica puo' rispettare tale termine solo non applicando le norme garantistiche, i cui principi essenziali sono stati enunciati nel testo unico n. 3 del 1957. La riconosciuta natura "perentoria" del termine di novanta giorni, in altri termini, comporta che non possono che intendersi abrogate le precedenti norme garantistiche, riguardanti le diverse fari endoprocedimentali. Il secondo comma dell'art. 9 (pur essendo interpretabile nel senso che l'atto punitivo deve essere quanto meno preceduto dalla fissazione di un termine per le controdeduzioni dell'incolpato) non consente alla pubblica amministrazione, che intenda rispettare il termine di novanta giorni, di porre in essere tutti gli altri atti endoprocedimentali, previsti a tutela della difesa dell'incolpato gia' dal testo unico n. 3 del 1957. Pertanto, il secondo comma dell'art. 9 della legge n. 19 del 1990 potrebbe porsi in contrasto con i seguenti principi costituzionali, in quanto non si sono tenute in adeguata considerazione le esigenze di difesa dell'incolpato e gli interessi di cui e' portatrice l'amministrazione. In primo luogo, appare manifestamente illogica - e quindi in possibile contrasto con l'art. 3 della Costituzione - la scelta del legislatore di fissare il contenuto termine di novanta giorni per la conclusione del procedimento disciplinare, abrogando per incompatibilita' la precedente normativa, posta a difesa della posizione dell'incolpato e mirante all'accertamento ed alla adeguata valutazione dei fatti sulla base di un articolato procedimento, caratterizzato delle fasi endoprocedimentali di cui al testo unico n. 3 del 1957. In secondo luogo, appare violato il principio del buon andamento di cui all'art. 97 della Costituzione, poiche' la ristrettezza del termine di novanta giorni puo' in concreto non consentire l'adeguata valutazione dei fatti, in una materia tanto delicata, in cui l'ordinamento mira al giusto contemperamento delle esigenze dell'amministrazione con la posizione dell'incolpato, la cui prosecuzione dell'attivita' lavorativa e' tutelata dall'art. 4 della Costituzione (Corte costituzionale, sent. n. 971 del 1988). In definitiva, rileva l'adunanza plenaria che a un sistema normativo coerente e razionale, recante la disciplina procedimentale dell'irrogazione delle sanzioni disciplinari, si e' sovrapposta una normativa che, nella sua scheletricita', non puo' trovare pratica applicazione che confliggendo con principi di natura costituzionale. Deve essere pertanto disposta la rimessione di tali questioni all'esame della Corte costituzionale. La rilevanza delle questioni appare chiara da quanto considerato al punto 1 della motivazione della presente ordinanza. Va solo precisato che la rimessione investe ambedue i termini, iniziale e finale, previsti dall'art. 9, comma 2. Se, invero, non puo' ritenersi di dubbia costituzionalita' la previsione, in se' considerata, di un termine iniziale oltre il quale il potere disciplinare non puo' piu' essere iniziato, va per altro verso considerato che la correlazione tra tale termine iniziale e il termine finale da' luogo a un sistema - in cui l'irragionevolezza del termine finale si riflette inevitabilmente anche sul termine iniziale, da cui decorre quello finale - che puo' essere rimosso solo da una pronuncia della Corte che riguardi l'intera disciplina temporale.
P .Q. M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (adunanza plenaria) sospende il giudizio e rimette alla Corte costituzionale la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 9, comma 2, della legge 7 febbraio 1990, n. 19, in relazione agli artt. 3 e 97 della Costituzione; Manda alla segreteria per gli adempimenti di legge. Cosi' deciso in Roma, addi' 21 aprile 1997. Il presidente: De Roberto L'estensore: Patroni Griffi 97C1320