N. 69 SENTENZA 11 - 18 marzo 1999

 
 
 Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
 
 Fallimento - Amministrazione straordinaria delle grandi  imprese  in
 crisi - Commissario governativo - Interesse privato - Assoggettamento
 a  sanzione  penale  -  Presunta  indeterminatezza  della fattispecie
 penale - Esigenza di una corretta interpretazione della norma oggetto
 di censura in seguito alla sentenza della Corte n.   414/1994  -  Non
 fondatezza nei sensi di cui in motivazione.
 
 (R.D.  16 marzo 1942, n. 267, art. 228; d.-l. 30 gennaio 1979, n. 26,
 art. 1, convertito in legge 3 aprile 1979, n. 95).
 
 (Cost., artt. 3 e 25).
 
(GU n.12 del 24-3-1999 )
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
 composta dai signori:
 Presidente: dott. Renato GRANATA;
 Giudici: prof.  Giuliano  VASSALLI,  prof.  Francesco  GUIZZI,  prof.
 Cesare  MIRABELLI,  prof.  Fernando  SANTOSUOSSO,  avv. Massimo VARI,
 dott. Cesare RUPERTO, dott. Riccardo CHIEPPA,  prof.  Valerio  ONIDA,
 prof.  Carlo  MEZZANOTTE,  avv.  Fernanda  CONTRI,  prof. Guido NEPPI
 MODONA,  prof.  Piero Alberto CAPOTOSTI, prof. Annibale MARINI;
 ha pronunciato la seguente
                               Sentenza
 nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art.  228  del  regio
 decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del  fallimento, del
 concordato  preventivo,  dell'amministrazione  controllata  e   della
 liquidazione  coatta  amministrativa),  e  dell'art.  1  del d.-l. 30
 gennaio 1979, n.  26  (Provvedimenti  urgenti  per  l'amministrazione
 straordinaria  delle grandi imprese in crisi), convertito nella legge
 3 aprile 1979, n. 95 promossi con ordinanze emesse il 2 dicembre 1997
 dalla Corte d'appello di Napoli nel procedimento penale a  carico  di
 Carnevale  Corrado,  iscritta  al n. 70 del registro ordinanze 1998 e
 pubblicata nella Gazzetta Ufficiale  della  Repubblica  n.  7,  prima
 serie  speciale, dell'anno 1998, ed il 14 novembre 1997 dal Tribunale
 di Napoli nel procedimento penale a carico di  Marsiglia  Valeria  ed
 altri,  iscritta  al  n.  91 del registro ordinanze 1998 e pubblicata
 nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 9, prima serie speciale,
 dell'anno 1998.
   Visto l'atto di costituzione di Carnevale Corrado nonche' gli  atti
 di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri;
   Udito nell'udienza pubblica del 12 gennaio 1999 il giudice relatore
 Annibale Marini;
   Udito  l'Avvocato  dello  Stato Carlo Salimei per il Presidente del
 Consiglio dei Ministri.
                           Ritenuto in fatto
   1. - Nel corso di un processo penale per il reato di cui agli artt.
 228  del  regio  decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del
 fallimento,    del    concordato   preventivo,   dell'amministrazione
 controllata e della liquidazione  coatta  amministrativa),  e  1  del
 d.-l.   30   gennaio   1979,   n.   26   (Provvedimenti  urgenti  per
 l'amministrazione  straordinaria  delle  grandi  imprese  in  crisi),
 convertito  nella legge 3 aprile 1979, n. 95, il Tribunale di Napoli,
 con ordinanza del  14  novembre  1997,  ha  sollevato  "questione  di
 legittimita'  costituzionale dell'art.  228 r.d. 16 marzo 1942 n. 267
 e dell'art. 1 d.l. 30.1.1979 n. 26 conv. in  l.  3.4.1979  n.  95  in
 relazione all'art. 3 Cost.".
   Il  giudice  rimettente  - premesso di ben conoscere la sentenza n.
 414 del 1994, con  la  quale  la  Corte  costituzionale  ha  ritenuto
 infondata  la  medesima questione, allora sollevata in relazione alla
 intervenuta abrogazione dell'art. 324 cod. pen. (Interesse privato in
 atti d'ufficio) ad opera della legge 26 aprile 1990, n. 86 -  ritiene
 di   dover   nuovamente   sottoporre   al   vaglio   di  legittimita'
 costituzionale la norma di cui all'art. 228 della legge  fallimentare
 a  seguito delle recenti vicende legislative che hanno portato ad una
 nuova disciplina del reato di abuso di ufficio, escludendo  dall'area
 della  rilevanza  penale  la  gran  parte  delle  condotte in passato
 ricomprese nella fattispecie astratta di interesse  privato  in  atti
 d'ufficio.
   Osserva  infatti  il giudice a quo che il nuovo testo dell'art. 323
 del codice penale, come modificato dall'art. 1 della legge 16  luglio
 1997, n. 234, presenta incisive novita' rispetto a quello previgente,
 atteso  che,  per  la configurabilita' del reato, e' ora richiesto in
 primo luogo un evento di danno (e cioe' aver procurato  a  se'  o  ad
 altri  un  ingiusto  vantaggio  patrimoniale  ovvero aver arrecato ad
 altri un danno ingiusto) ed in secondo luogo la violazione  di  norme
 di   legge   o  regolamento  ovvero  la  violazione  dell'obbligo  di
 astensione in presenza di un  interesse  proprio  o  di  un  prossimo
 congiunto.  Inoltre,  sotto  il  profilo  sanzionatorio,  per l'abuso
 patrimoniale sono stati considerevolmente diminuiti i limiti edittali
 di  pena.  Ne  conseguirebbe,   ad   avviso   del   rimettente,   una
 ingiustificata disparita' di trattamento tra il curatore fallimentare
 e  gli  altri  pubblici  ufficiali,  atteso  che  il  primo, in forza
 dell'art.  228  della  legge  fallimentare,  dovrebbe  continuare   a
 rispondere   di   qualsiasi  condotta  che  comporti  una  "presa  di
 interesse", vale a dire l'assunzione di un'interessenza in un  affare
 attinente all'ufficio esercitato, mentre gli altri pubblici ufficiali
 rispondono  ora  di abuso, ex art. 323 cod. pen, nei soli casi in cui
 detto abuso si consumi mediante la violazione di una norma di legge o
 di regolamento ovvero l'inosservanza di un obbligo  di  astensione  e
 sempre che ne sia derivato un ingiusto vantaggio patrimoniale per se'
 o per altri ovvero un danno altrui.
   Non  vi e' dubbio d'altro canto, secondo il giudice rimettente, che
 la ratio ispiratrice della legge n. 234 del 1997 sia stata quella  di
 soddisfare   un'esigenza,  ampiamente  condivisa,  di  piu'  puntuale
 determinazione delle condotte punibili a titolo di abuso ex art.  323
 cod. pen. e che tale esigenza non possa  non  ritenersi  comune  alla
 fattispecie di cui all'art. 228 della legge fallimentare.
   Quanto,  infine, alla rilevanza della questione, osserva il giudice
 a quo  che  agli  imputati  e'  contestata  una  generica  "presa  di
 interesse",  non  ancorata  alla  violazione  di  norme di legge o di
 regolamento ovvero alla  violazione  di  un  obbligo  di  astensione,
 cosicche'  la  condotta  da  essi posta in essere non potrebbe essere
 ricompresa nella fattispecie di cui al nuovo testo dell'art. 323 cod.
 pen.
   1.1. - E' intervenuto  nel  giudizio  dinanzi  a  questa  Corte  il
 Presidente   del  Consiglio  dei  Ministri,  rappresentato  e  difeso
 dall'Avvocatura generale dello Stato, concludendo per la declaratoria
 di infondatezza della questione.
   Osserva nell'atto di intervento la difesa erariale  che  la  Corte,
 nella  sentenza  n.  414  del  1994,  ricordata  dallo stesso giudice
 rimettente,  ebbe  ad  escludere  la  violazione  dell'art.  3  della
 Costituzione  sulla  base  di un duplice ordine di argomentazioni: la
 originaria  diversificazione  ed   autonomia   quoad   poenam   delle
 fattispecie  criminose di interesse privato del curatore fallimentare
 e  del   pubblico   ufficiale   "comune",   a   dimostrazione   della
 disomogeneita' delle due situazioni, e la considerazione che la legge
 n.  86  del  1990  non  aveva  prodotto  una  indiscriminata abolitio
 criminis riguardo alle condotte  gia'  qualificabili  come  interesse
 privato  in  atti  di  ufficio  ma le aveva ricomprese in fattispecie
 diverse (segnatamente in quelle di cui agli  artt.  323  e  326  cod.
 pen.).  Il secondo di tali argomenti, a giudizio dell'Avvocatura, non
 sarebbe  piu'  riproponibile  a  seguito  delle  modifiche  apportate
 all'art.   323  cod.  pen.  dalla  legge  n.  234  del  1997,  mentre
 resterebbero pienamente validi i rilievi relativi alla  "specialita'"
 della   posizione  del  curatore  fallimentare  rispetto  agli  altri
 pubblici ufficiali, in quanto la finalita' delle norme incriminatrici
 in materia fallimentare si caratterizza  per  la  peculiarita'  della
 connessione  con  le  funzioni  e  gli  scopi  propri della procedura
 fallimentare, il  cui  normale  conseguimento  e'  assicurato  da  un
 diverso  e  piu'  appropriato sistema sanzionatorio voluto ad hoc dal
 legislatore.  Tale  "specialita'"  sarebbe  ad   esempio   confermata
 dall'esistenza   di   una   norma,   quale  l'art.  229  della  legge
 fallimentare,   che   punisce   il   curatore   per   una    condotta
 (l'accettazione  di  retribuzione non dovuta) che non trova riscontro
 nel sistema (anche originario) dei  delitti  dei  pubblici  ufficiali
 contro la pubblica amministrazione.
   Rileva  infine  la  difesa  erariale  che la Corte, nell'ipotesi di
 accoglimento della questione, dovrebbe altresi' valutare se estendere
 la declaratoria di incostituzionalita' anche all'art. 2637 del codice
 civile, contenente analoga previsione sanzionatoria in riferimento  a
 fatti commessi da amministratori giudiziari e commissari governativi.
   2.  -  Identica  questione  di legittimita' costituzionale e' stata
 sollevata dalla Corte di appello  di  Napoli,  con  ordinanza  del  2
 dicembre  1997,  nel  corso di un processo per lo stesso reato di cui
 agli artt.  228 della legge fallimentare e 1  del  d.-l.  30  gennaio
 1979,  n.  26,  convertito  nella  legge  3  aprile  1979,  n. 95, in
 relazione ad ipotesi di generico interesse privato, non ancorato alla
 violazione di norme di legge o di regolamento ovvero alla  violazione
 di un obbligo di astensione.
   2.1.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
 Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
 Stato,  con atto di contenuto identico a quello depositato nell'altro
 giudizio.
   2.2. - Si e' altresi'  costituita  in  giudizio  la  parte  privata
 imputata nel processo a quo.
   Ad avviso della stessa, lo scrutinio di costituzionalita' dell'art.
 228   della   legge   fallimentare  in  relazione  all'art.  3  della
 Costituzione dovrebbe condurre - stante l'impossibilita' di ravvisare
 alcuna ragione che renda giustificabile  una  piu'  ampia  previsione
 delle  condotte incriminabili del curatore fallimentare rispetto agli
 altri  pubblici  ufficiali  -  non  gia'  ad  una   declaratoria   di
 illegittimita'   costituzionale   ma   piuttosto   ad   una  sentenza
 interpretativa di rigetto che comporti l'esclusione, dall'area  della
 rilevanza  penale,  di  quelle condotte del curatore fallimentare che
 risultino non piu' riconducibili alla fattispecie astratta  delineata
 dal nuovo art. 323 cod. pen.
   Sotto  un  diverso  aspetto,  la  parte  privata  deduce poi che il
 trattamento  sanzionatorio  previsto  dalla  norma  impugnata  appare
 manifestamente  e  irragionevolmente sproporzionato rispetto a quello
 dettato dal nuovo art. 323 cod. pen., dovendo ritenersi  venuta  meno
 qualsiasi  ragione  di  disomogeneita'  tra  il  delitto di interesse
 privato del  curatore  fallimentare  e  quello  di  abuso  d'ufficio.
 Secondo  la  parte,  infatti, l'incriminazione in modo autonomo delle
 condotte previste dalle norme incriminatrici speciali trovava la  sua
 giustificazione - all'epoca in cui fu emanata la legge fallimentare -
 nel  fatto  che  l'art.  324  cod.  pen.  prevedeva  che  la presa di
 interesse da parte del pubblico ufficiale dovesse avvenire in un atto
 della pubblica amministrazione, nella cui nozione  evidentemente  non
 potevano  ricomprendersi  gli  atti della procedura fallimentare. Una
 volta venuto meno, nel vigente testo dell'art. 323 cod. pen.  (ed  in
 realta'  anche  in  quello risultante dalle modifiche precedentemente
 apportatevi dalla legge n. 86 del 1990), ogni riferimento  agli  atti
 della  pubblica  amministrazione, sarebbe dunque cessata ogni ragione
 di disomogeneita' tra le due fattispecie.
   Osserva ancora la stessa parte  che  il  trattamento  sanzionatorio
 diversificato  nel  segno della maggiore severita' per le fattispecie
 previste  dalle  norme  incriminatrici  speciali  -   nella   vigenza
 dell'art.    324  cod.  pen.  - poteva trovare la sua ragion d'essere
 nella considerazione che, mentre  l'interesse  privato  del  curatore
 deve  essere  preso  in  atti  rientranti nella competenza funzionale
 degli organi della procedura concorsuale, tale limitazione -  secondo
 la  giurisprudenza e la dottrina prevalenti - non valeva, invece, per
 la fattispecie di interesse privato in atti d'ufficio. Il nuovo testo
 dell'art.  323  cod.  pen.    avrebbe  tuttavia  eliminato   siffatta
 diversita',  in  quanto prevede che la condotta di abuso debba essere
 realizzata nello svolgimento delle funzioni o del servizio.
   Alla luce di tali considerazioni la parte privata -  richiamata  la
 costante   giurisprudenza   della   Corte,   secondo   la   quale  la
 discrezionalita' del legislatore nella determinazione della quantita'
 e qualita' della sanzione penale trova  un  limite  invalicabile  nel
 canone  della  ragionevolezza, ancorato al principio di proporzione o
 di  proporzionalita'  -  chiede  che,  nell'adottare,  come  da   lui
 auspicato,  una  lettura  della  norma  incriminatrice denunciata del
 tutto simile a quella del nuovo testo dell'art.  323  cod.  pen.,  la
 Corte  ne  dichiari  tuttavia  l'illegittimita'  costituzionale nella
 parte in cui essa prevede una pena diversa, per qualita' e quantita',
 da quella comminata dallo stesso art. 323 cod. pen.
                        Considerato in diritto
   1. - Il Tribunale di Napoli e la Corte di appello di Napoli, con le
 ordinanze in epigrafe, sollevano, in riferimento agli artt.  3  e  25
 della  Costituzione  (quest'ultimo  non  esplicitamente  evocato,  ma
 sicuramente desumibile dalla motivazione), questione di  legittimita'
 costituzionale  degli  artt.  228 del regio decreto 16 marzo 1942, n.
 267  (Disciplina   del   fallimento,   del   concordato   preventivo,
 dell'amministrazione   controllata   e   della   liquidazione  coatta
 amministrativa), e 1 del d.-l. 30 gennaio 1979, n. 26  (Provvedimenti
 urgenti  per  l'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in
 crisi), convertito nella legge 3 aprile 1979, n. 95.
   Ad avviso dei  rimettenti  le  norme  denunciate,  assoggettando  a
 sanzione   penale  il  commissario  governativo  nell'amministrazione
 straordinaria delle grandi imprese in crisi (cosi' come  il  curatore
 fallimentare   e   gli   altri  soggetti  ricompresi  nell'ambito  di
 applicazione dell'art.  228 della legge fallimentare) con riferimento
 alla  fattispecie  astratta  di  interesse  privato,  ormai  priva di
 rilevanza penale per tutti gli altri  pubblici  ufficiali,  sarebbero
 lesive  sia  del  principio  di  eguaglianza  sia  del  principio  di
 determinatezza della fattispecie penale.
   2. - I due giudizi, avendo ad oggetto questioni identiche,  possono
 essere riuniti per essere definiti con unica sentenza.
   3. - La questione non e' fondata, nei sensi di seguito precisati.
   4.  -  Ai  fini  di  una  corretta  impostazione della questione di
 costituzionalita' che i rimettenti sollevano sotto il  profilo  della
 violazione  del  principio di eguaglianza va ribadito che il reato di
 cui alla norma denunciata e' stato ab origine configurato in  termini
 di  specialita', sia pure quoad poenam, rispetto alla figura generale
 di reato riferibile ai pubblici ufficiali (v. in tal  senso  sentenza
 n. 414 del 1994).
   Ed  e'  pacifico che siffatta specialita' e' stata accentuata dalle
 recenti riforme legislative del 1990 (con cui e'  stato  abrogato  il
 delitto  di interesse privato in atti d'ufficio, trasferendo in parte
 i suoi  contenuti  nel  nuovo  delitto  di  abuso  d'ufficio  che  ha
 sostituito  l'originaria  fattispecie  disciplinata dall'art. 323 del
 codice penale) e del 1997 (che ha nuovamente  modificato  l'art.  323
 cod.  pen.),  sino  a riguardare non solo la misura della pena, ma la
 stessa struttura della fattispecie incriminatrice.
   Mentre, infatti, i pubblici ufficiali sono assoggettati a  sanzione
 penale,  a  titolo di abuso di ufficio, solo per le condotte poste in
 essere in violazione di norme di legge o  di  regolamento  ovvero  in
 violazione  di un obbligo di astensione, e sempre che ne sia derivato
 un ingiusto vantaggio patrimoniale per se' o per altri o un  ingiusto
 danno  altrui,  il  curatore  fallimentare  ed  i  soggetti  ad  esso
 equiparati rispondono del diverso reato di interesse privato  di  cui
 alla norma denunciata e risultano dunque, percio' stesso, destinatari
 di una disciplina penale speciale.
   La    specialita',   nel   senso   precisato,   della   fattispecie
 incriminatrice di cui  all'art.  228  della  legge  fallimentare  non
 rappresenta, tuttavia, diversamente da quanto ritengono i rimettenti,
 un  disvalore  costituzionale, ma solo la premessa da cui muovere per
 valutare il corretto esercizio dell'ampio margine di discrezionalita'
 che in materia penale deve essere  riconosciuto  al  legislatore  nel
 rispetto del limite di ragionevolezza.
   E,  come  subito  si vedra', l'originaria scelta del legislatore di
 configurare nell'art. 228 della legge fallimentare  per  il  curatore
 fallimentare  ed  i  soggetti equiparati una figura di reato autonoma
 rispetto a  quella,  generale,  di  interesse  privato,  propria  dei
 pubblici  ufficiali  "comuni"  e, poi, di mantenere tale specificita'
 anche nei confronti del nuovo delitto di abuso d'ufficio,  rinvenendo
 una  ragionevole  giustificazione  nella  disomogeneita'  sostanziale
 delle figure soggettive poste a raffronto, rappresenta  esercizio  di
 discrezionalita'  legislativa non censurabile in sede di scrutinio di
 costituzionalita'.
   Del delitto sanzionato dall'art. 228 della legge fallimentare  sono
 chiamati  a rispondere, oltre al curatore fallimentare, il coadiutore
 del curatore (ex art. 231 della legge fallimentare),  il  commissario
 del concordato preventivo o dell'amministrazione controllata (ex art.
 236,  numero 3, della legge fallimentare), il commissario liquidatore
 della liquidazione coatta amministrativa (ex  art.  237  della  legge
 fallimentare)    nonche',   appunto,   il   commissario   governativo
 nell'amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi  (ex
 art.  1  del d.-l.   30 gennaio 1979, n. 26, convertito nella legge 3
 aprile  1979,  n.    95,  che  rinvia  all'art.   237   della   legge
 fallimentare).
   Inoltre,  l'amministratore  giudiziario  (di  cui all'art. 2409 del
 codice civile) ed il commissario governativo (di cui agli artt.  2543
 e  2619  dello  stesso  codice)  rispondono del reato di cui all'art.
 2637 cod. civ., sostanzialmente identico, per condotta incriminata  e
 per  previsione  sanzionatoria,  a  quella  di cui all'art. 228 della
 legge fallimentare.
   Caratteristica comune delle diverse figure  di  pubblico  ufficiale
 ricomprese  nella  sfera  di  applicazione  dell'art. 228 della legge
 fallimentare e' sempre lo  svolgimento,  sia  pure  in  forme  e  con
 modalita'  diverse,  di  una  attivita'  di  tipo  gestorio di beni o
 aziende di proprieta' privata. Tale caratteristica e' particolarmente
 accentuata nel caso, al quale ha riguardo la questione sollevata, del
 commissario  governativo  nell'amministrazione  straordinaria   delle
 grandi  imprese in crisi, la cui funzione - diversamente dal curatore
 o dal commissario liquidatore - non e' quella di liquidare  puramente
 e  semplicemente  l'impresa ma di continuarne la gestione in vista di
 un possibile risanamento.  Si tratta, pertanto, di una figura che  si
 sostituisce,  in  buona sostanza, all'imprenditore e la cui attivita'
 si  connota  per  gli  ampi  margini  di  scelta  che  caratterizzano
 l'attivita' imprenditoriale.
   Su  tale  base,  s'intende  agevolmente come l'autonoma fattispecie
 incriminatrice di cui all'art. 228 della legge fallimentare  rinvenga
 una ragionevole giustificazione nella necessita' di assoggettare alla
 sanzione  penale quelle condotte, per loro natura non suscettibili di
 rigida schematizzazione formale, che, pur lesive (nel senso che sara'
 piu'  avanti  chiarito)  degli  interessi  tutelati   dalle   diverse
 procedure,  sfuggirebbero tuttavia alla previsione dell'art. 323 cod.
 pen.,  non  comportando  -  per  l'ampia   discrezionalita'   propria
 dell'attivita'  gestoria  svolta dai pubblici ufficiali considerati -
 la diretta violazione di una norma di legge o di regolamento.
   Sicche',   e   conclusivamente,   la   ratio   della    fattispecie
 incriminatrice   di   cui  all'art.  228  della  legge  fallimentare,
 individuata nella stessa relazione al r.d. 16 marzo 1942 n. 267  "nel
 bisogno di prevenire il pericolo che attraverso le maglie della legge
 il  curatore  trovi  la  via di scampo ad azioni delittuose", vale ad
 escludere che la specialita' della disciplina penale  applicabile  al
 curatore  fallimentare (ed ai soggetti ad esso equiparati) si traduca
 nella violazione del principio di eguaglianza garantito  dall'art.  3
 della Costituzione.
   5.  -  In  relazione  al  parametro,  non  formalmente  evocato, ma
 risultante in modo inequivoco dalla motivazione  delle  ordinanze  di
 rimessione,  dell'art. 25 Cost., la norma denunciata e' fatta oggetto
 di censura sotto il profilo  della  asserita  indeterminatezza  della
 fattispecie penale.
   A  tale  riguardo,  entrambi i rimettenti rilevano, infatti, che la
 ratio dell'intervento legislativo del 1997 sarebbe  stata  quella  di
 soddisfare   un'esigenza,  ampiamente  condivisa,  di  piu'  puntuale
 determinazione delle condotte punibili a titolo di abuso e  che  tale
 esigenza  non potrebbe non ritenersi comune anche alla fattispecie di
 cui all'art.  228 della legge fallimentare.
   La  prima  delle  due  proposizioni  e'  senza dubbio corretta: dai
 lavori preparatori della legge 16  luglio  1997,  n.  234  (e,  prima
 ancora,  dal dibattito parlamentare che ha accompagnato l'abrogazione
 dell'art.  324 cod. pen., disposta con la legge 26  aprile  1990,  n.
 86) emerge infatti con chiarezza la volonta' del legislatore di porre
 un  argine al proliferare di procedimenti penali a carico di pubblici
 amministratori per il reato di abuso d'ufficio (e, in precedenza,  di
 interesse privato in atti d'ufficio), intentati in relazione a scelte
 e   comportamenti   rientranti  nella  sfera  della  discrezionalita'
 amministrativa.
   Peraltro, tale  esigenza  poteva  essere  ricondotta  piu'  all'uso
 patologico   di   tali  fattispecie  incriminatrici  ad  opera  della
 magistratura inquirente e di  merito  -  uso  ampiamente  contrastato
 dalla  prevalente  giurisprudenza  di  legittimita' - che ad un reale
 deficit di determinatezza della struttura  astratta  delle  norme  in
 questione;  non  e' pertanto corretto fare discendere automaticamente
 dalle vicende interpretative e legislative degli artt. 323 e 324 cod.
 pen. la conseguenza che analoghe  esigenze  di  specificazione  della
 condotta  punibile  si  pongano, in concreto, anche in relazione alla
 fattispecie di interesse privato di cui all'art.    228  della  legge
 fallimentare.
   L'esame della giurisprudenza sull'art. 228 della legge fallimentare
 dimostra  invece  che,  anche  tra  i  giudici di merito, e' prevalsa
 un'interpretazione piu' restrittiva, in linea con  la  piu'  rigorosa
 interpretazione   elaborata   dalla   prevalente   giurisprudenza  di
 legittimita'  sul  reato  di  interesse  privato  in  atti  d'ufficio
 previsto dal codice penale.
   In particolare, si e' ritenuto che per la sussistenza del reato del
 curatore  fallimentare  non  sia  sufficiente  la  mera coincidenza o
 coesistenza di un interesse privato  convergente  o  compatibile  con
 l'interesse  pubblico,  ne',  tantomeno,  la  mera  violazione  di un
 obbligo di astensione, ma che, consistendo la presa di  interesse  in
 una    effettiva   ingerenza   profittatrice,   sia   necessaria   la
 strumentalizzazione dell'atto pubblico ad un fine privato,  contrario
 o confliggente con l'interesse della procedura concorsuale, traendosi
 argomento  a  sostegno di tale conclusione anche dal confronto tra le
 disposizioni di cui agli artt.  2631 e 2637 cod.  civ.  In  assonanza
 con  questo  orientamento di maggior rigore nell'individuazione degli
 estremi dell'interesse privato del curatore fallimentare, si e' anche
 sostenuto   in   dottrina,   rifacendosi   all'interpretazione   piu'
 restrittiva  riservata  dalla giurisprudenza di legittimita' all'art.
 324 cod. pen., che, seppure i requisiti dell'abuso  e  del  vantaggio
 non  siano  menzionati tra gli elementi costitutivi della fattispecie
 di cui all'art. 228 della  legge  fallimentare,  essi  sono  tuttavia
 impliciti nella struttura del reato di interesse privato del curatore
 o  del  commissario  governativo, che debbono perseguire un interesse
 particolaristico, estraneo e  contrastante  con  le  finalita'  della
 procedura  concorsuale,  cioe'  sfruttare l'ufficio in funzione di un
 tornaconto personale.
   E' dunque compatibile con il dato testuale - ed in effetti  risulta
 gia'  seguita  dalla  prevalente  giurisprudenza  - una lettura della
 norma   denunciata   che,   eliminando   i   possibili   margini   di
 indeterminatezza   della   fattispecie,   consente   di  superare  il
 prospettato  dubbio  di legittimita' costituzionale. A tale lettura i
 rimettenti devono pertanto attenersi, in aderenza al principio,  piu'
 volte enunciato da questa Corte, secondo cui il giudice, nell'operare
 la   ricognizione  del  contenuto  normativo  della  disposizione  da
 applicare al caso portato al suo  esame,  deve  costantemente  essere
 guidato  dall'esigenza  di  rispettare  i  precetti costituzionali e,
 quindi, ove un'interpretazione  appaia  confliggente  con  alcuno  di
 essi,  e'  tenuto  ad  adottare  quella  diversa  lettura che risulti
 aderente  ai  principi  costituzionali   altrimenti   vulnerati   (ex
 plurimis, sentenze nn. 452 e 197 del 1998, ordinanze nn. 147 e 55 del
 1998).
   In  conclusione,  dunque,  l'art.  228  della legge fallimentare va
 interpretato nel senso che la presa di interesse privato del curatore
 fallimentare  (e  degli  altri  soggetti  ad  esso   equiparati)   e'
 sanzionata  penalmente  solamente  in quanto sia contrastante con gli
 interessi  tutelati  dalla  procedura  concorsuale.  Diversamente  da
 quanto  i  rimettenti  mostrano  di ritenere, restano dunque estranee
 all'area della rilevanza  penale  tutte  quelle  ipotesi  in  cui  si
 realizzi  una mera coincidenza tra i vantaggi privati e gli interessi
 dell'ufficio o in  cui  comunque  l'interesse  privato  del  pubblico
 ufficiale non risulti, in concreto, rivolto a perseguire un vantaggio
 personale  che si ponga in contrasto con le finalita' delle procedure
 concorsuali o dell'amministrazione straordinaria.
   La norma, cosi' interpretata, si sottrae alla  prospettata  censura
 di  incostituzionalita',  pur  dovendosi  ribadire  la esigenza, gia'
 sottolineata dalla sentenza n. 414 del 1994,  di  una  piu'  organica
 sistemazione dell'intervento penale sull'intera materia.
                           Per questi motivi
                        LA CORTE COSTITUZIONALE
   Riuniti  i  giudizi,  dichiara  non  fondata,  nei  sensi di cui in
 motivazione, la questione di legittimita' costituzionale degli  artt.
 228  del  regio  decreto  16  marzo  1942,  n.  267  (Disciplina  del
 fallimento,   del   concordato    preventivo,    dell'amministrazione
 controllata  e  della  liquidazione  coatta  amministrativa), e 1 del
 d.-l.  30  gennaio   1979,   n.   26   (Provvedimenti   urgenti   per
 l'amministrazione  straordinaria  delle  grandi  imprese  in  crisi),
 convertito  nella  legge  3  aprile  1979,  n.  95,   sollevata,   in
 riferimento  agli  artt.  3 e 25 della Costituzione, dal Tribunale di
 Napoli e dalla Corte di appello di Napoli con le  ordinanze  indicate
 in epigrafe.
   Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede  della  Corte costituzionale,
 Palazzo della Consulta, il 11 marzo 1999.
 Il Presidente: Granata
 Il redattore: Marini
 Il cancelliere: Di Paola
   Depositata in cancelleria il 18 marzo 1999.
 Il direttore della cancelleria: Di Paola
 99C0266