N. 70 SENTENZA 6 - 17 marzo 2000

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.
Rilevanza  della  questione  -  Eccezione  di  carente  motivazione -
Sufficienza  degli  elementi  descrittivi contenuti nell'ordinanza di
rimessione - Ammissibilita' della questione.
Tributi locali - Imposte comunali di consumo - Abolizione - Contratti
di  appalto  del servizio di riscossione delle imposte - Commissione,
istituita presso il Ministero delle finanze, incaricata di definire i
rapporti  tra  Comuni  e  appaltatori  -  Potere della Commissione di
deliberare  secondo  equita'  ovvero  anche  in deroga a disposizioni
contrattuali,   indipendentemente   dalla   rilevanza  economica  dei
rapporti  pendenti,  su iniziativa di una sola delle parti - Asserita
violazione  del  principio  di  eguaglianza,  del diritto alla tutela
giurisdizionale, del principio della liberta' di iniziativa economica
e del diritto di proprieta' - Non fondatezza della questione.
- D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649, artt. 3 e 4.
- Costituzione, artt. 3, 24, 41 e 42.
(GU n.13 del 22-3-2000 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Cesare MIRABELLI;
  Giudici:  Francesco  GUIZZI, Massimo VARI, Cesare RUPERTO, Riccardo
CHIEPPA,   Gustavo  ZAGREBELSKY,  Valerio  ONIDA,  Carlo  MEZZANOTTE,
Fernanda   CONTRI,  Guido  NEPPI  MODONA,  Piero  Alberto  CAPOTOSTI,
Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK;
ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

    Nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 3 e 4 del
decreto  del  Presidente  della  Repubblica  26 ottobre  1972, n. 649
(Norme concernenti i servizi ed il personale delle abolite imposte di
consumo),   promosso  con  ordinanza  emessa  il  7 luglio  1998  dal
Consiglio di Stato sul ricorso proposto dal comune di Cagliari contro
il  Ministero  delle  finanze  ed  altro,  iscritta  al numero 16 del
registro  ordinanze  1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica numero 4, prima serie speciale, dell'anno 1999.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
Ministri;
    Udito  nella  camera di consiglio del 23 febbraio 2000 il giudice
relatore Annibale Marini.


                          Ritenuto in fatto

    1. - Con  ordinanza emessa il 7 luglio 1998 il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale ha sollevato, in riferimento agli articoli 3,
24,   41   e   42   della  Costituzione,  questione  di  legittimita'
costituzionale  degli articoli 3 e 4 del decreto del Presidente della
Repubblica 26 ottobre 1972, n. 649 (Norme concernenti i servizi ed il
personale  delle  abolite  imposte  di  consumo), "nella parte in cui
consentono  alla  Commissione  ivi  prevista  di  definire i rapporti
pendenti  in  tema di soppresse imposte comunali di consumo "anche in
deroga  alle  disposizioni  contrattuali" che regolano il servizio di
gestione  di  dette  imposte,  sulla base dell'iniziativa di una sola
delle   parti,  e  dunque  senza  il  consenso  di  entrambe  ad  una
definizione  del  rapporto in deroga alle pattuizioni contrattuali, e
anche  quando  non  vi  e'  l'oggettiva  impossibilita' di definire i
rapporti  pendenti  secondo diritto, e a prescindere, altresi', dalla
rilevanza economica del rapporto".
    1.1. - Secondo  quanto  risulta  dall'ordinanza di rimessione, il
giudizio  a  quo  origina  dal  ricorso  giurisdizionale proposto dal
comune  di  Cagliari avverso il decreto del Ministro delle finanze di
approvazione  della  deliberazione, adottata dalla commissione di cui
all'art. 3  del  d.P.R. n. 649 del 1972, con la quale - in dipendenza
dell'abolizione  delle  imposte  comunali  di  consumo  -  era  stata
dichiarata   dovuta   all'I.N.G.I.C.,  appaltatore  del  servizio  di
riscossione  di  tali  imposte nel comune di Cagliari, la somma di L.
233.533.146.
    Decidendo  il  ricorso,  il  TAR  Sardegna, adito in primo grado,
dichiarava  il  proprio  difetto  di  giurisdizione,  rilevando che i
rapporti  tra  il  comune  di  Cagliari  e  l'I.N.G.I.C. in ordine al
servizio di riscossione delle imposte di consumo erano regolati da un
contratto  di appalto, fonte di diritti soggettivi e, percio' stesso,
sottratti  alla  cognizione del giudice amministrativo. Ad avviso del
TAR,  l'attivita'  della  commissione  prevista dal d.P.R. n. 649 del
1972 non avrebbe, d'altro canto, carattere autoritativo, ma meramente
ricognitivo  e  non  sarebbe  percio' idonea a degradare ad interessi
legittimi i diritti soggettivi delle parti.
    Avverso  la  sentenza  del  TAR  il  comune di Cagliari proponeva
appello  dinanzi  al  Consiglio  di  Stato deducendo "che l'attivita'
della  commissione  di cui al d.P.R. n. 649 del 1972 non e' meramente
ricognitiva,  ma ha carattere autoritativo, in quanto l'art. 3 d.P.R.
n. 649  attribuisce alla commissione il potere di definire i rapporti
pendenti  anche  in  deroga alle disposizioni contrattuali". Sicche',
sempre  ad avviso dell'appellante, la commissione sarebbe titolare di
poteri  discrezionali  ed  autoritativi  atti  a  degradare i diritti
soggettivi  ad interessi legittimi e avverso il cui esercizio sarebbe
ammissibile solo il sindacato del giudice amministrativo.
    1.2. - Osserva  il  giudice  a  quo  che la sentenza appellata va
sicuramente condivisa laddove afferma che la gestione del servizio di
riscossione delle soppresse imposte comunali di consumo risulta nella
specie regolata da un contratto di appalto, fonte, in quanto tale, di
diritti    soggettivi   sottratti   alla   cognizione   del   giudice
amministrativo.
    Muovendo da tale premessa sarebbe, dunque, necessario accertare -
ad  avviso  del  rimettente - se gli atti di definizione dei rapporti
pendenti  previsti  dal  d.P.R.  n. 649  del  1972 siano atti di mero
accertamento   e   paritetici,   come   tali   inidonei   ad  operare
l'affievolimento  dei  diritti  soggettivi  in  interessi  legittimi,
ovvero atti autoritativi.
    Sul  punto,  il Consiglio di Stato ritiene - diversamente dal TAR
Sardegna  -  che  in  base alla disciplina vigente gli atti impugnati
debbano qualificarsi come autoritativi, potendo la commissione di cui
al  citato  art. 3  definire  i  rapporti pendenti anche in deroga al
contratto,  secondo valutazioni tecnico-discrezionali non sindacabili
nel  merito. Cio' che dovrebbe comportare l'accoglimento dell'appello
e l'affermazione della giurisdizione del giudice amministrativo.
    Il rimettente, peraltro, dubita della legittimita' costituzionale
proprio  di  quelle  disposizioni  dalle  quali  deriva  il carattere
autoritativo  degli  atti  in  questione.  Sicche',  la  questione di
legittimita' costituzionale risulterebbe pregiudiziale alla decisione
sulla giurisdizione della quale e' investito il giudice a quo.
    1.3. - Ad  avviso  del  Consiglio  di  Stato,  infatti,  le norme
denunciate,  prevedendo  che  la  commissione possa decidere anche in
deroga  alle disposizioni contrattuali e, quindi, secondo equita', su
istanza  di  una sola delle parti, si porrebbero in contrasto sia con
il  principio  di eguaglianza, in quanto altererebbero la parita' tra
le  parti  del  rapporto,  sia  con  il diritto di difesa della parte
convenuta  dinanzi  alla  commissione, che si troverebbe costretta ad
accettare  un giudizio secondo equita' senza poter sindacare in alcun
modo il merito della decisione.
    Le  medesime  norme  contrasterebbero  inoltre,  sotto un duplice
profilo,  con  il  principio della liberta' di iniziativa economica e
con   quello   di   autonomia   contrattuale:   da  un  lato  perche'
consentirebbero  una  definizione  equitativa,  senza  il consenso di
entrambe  le  parti, riguardo a rapporti che hanno costituito oggetto
di  regolamentazione  pattizia;  dall'altro  perche'  una definizione
equitativa  imposta,  a  fronte  di  interessi  economici di notevole
entita',  "puo'  tradursi in una sensibile menomazione dell'autonomia
privata e in una espropriazione senza indennizzo".
    2. - E'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio dei
Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,   concludendo   per  la  declaratoria  di  inammissibilita'  o
infondatezza della questione.
    Ad  avviso dell'Avvocatura la questione difetterebbe di rilevanza
nel  giudizio a quo non essendo chiarito nell'ordinanza di rimessione
se  il  comune  di Cagliari abbia o meno prestato il proprio consenso
alla   definizione  del  rapporto  in  via  amministrativa  e  se  la
commissione abbia in concreto derogato alle pattuizioni contrattuali.
    La  questione  stessa  sarebbe  comunque infondata nel merito. Le
norme  denunciate,  secondo  l'Avvocatura,  attribuirebbero, infatti,
alla   commissione  un  potere  di  valutazione  equitativa  riguardo
esclusivamente  all'ammontare  della  prestazione;  potere  analogo a
quello  accordato in numerose altre ipotesi previste nell'ordinamento
per determinare il corrispettivo di un'opera o di un'attivita' quando
non  lo  abbiano  stabilito  le  parti  e  non soccorrano gli usi (ad
esempio  nei  casi  previsti dagli articoli 1733, 1736, 1749, secondo
comma,  1751,  primo  comma, 1755, secondo comma, del codice civile),
per  stabilire l'indennizzo o l'indennita' che la legge pone a carico
di  un soggetto nel caso di diminuzione patrimoniale non procurata da
fatto  illecito  (artt. 1651, terzo comma, 1660, secondo comma, 2045,
2047  cod.  civ.),  per  valutare  il  lucro cessante del danneggiato
(art. 2056  cod.  civ.).  L'art. 1374  cod.  civ.  individuerebbe del
resto,   in  via  generale,  l'equita'  come  fonte  integrativa  del
contratto.
    La   disciplina   dettata   dal   d.P.R.   n. 649  del  1972  non
costituirebbe,  pertanto,  un'anomalia  incompatibile  con il dettato
costituzionale,  specie  ove  si  consideri  che il ricorso a criteri
equitativi  da  parte  della commissione prevista dall'art. 3 sarebbe
ammissibile  soltanto  quando  si  renda  necessario  per l'obiettiva
carenza  di  dati  certi  o  in  presenza  di condizioni contrattuali
rivelatesi  inique,  analogamente a quanto previsto dagli artt. 1450,
1467 e 1468 cod. civ.
    Dovrebbe, poi, escludersi qualsiasi disparita' di trattamento tra
le  parti,  essendo la definizione dei rapporti affidata ad un organo
terzo   deputato  a  deliberare  obiettivamente  in  base  a  criteri
prefissati  ed  in  conformita'  a  disposizioni  legislative; ne' si
potrebbe  ravvisare  nella  specie  una  menomazione  del  diritto di
difesa,  in  quanto  quella  della  commissione  sarebbe una delibera
tecnico-estimativa  giustiziabile (analogamente a quanto previsto, ad
esempio,  nell'art. 1226  cod.  civ.)  attraverso  il  sindacato  del
procedimento  logico-giuridico  seguito  dall'organo deliberante e la
verifica  della  valutazione  di  tutti  i  dati  di fatto risultanti
dall'istruttoria.
    Nemmeno sarebbe violato il principio della liberta' di iniziativa
economica privata e quello dell'autonomia contrattuale, non incidendo
l'operato della commissione sulla volonta' delle parti, manifestatasi
mediante  la  stipulazione  del  contratto,  ma  solo  sugli  effetti
giuridici del contratto stesso.
    Tanto   meno   sarebbe,   infine,   configurabile  un'ipotesi  di
espropriazione  senza  indennizzo  avuto  riguardo,  tra  l'altro, al
carattere   non   autoritativo   proprio  delle  deliberazioni  della
commissione.


                       Considerato in diritto

    1. - Il  Consiglio  di Stato dubita, in riferimento agli articoli
3,  24, 41 e 42 della Costituzione, della legittimita' costituzionale
degli  articoli  3  e  4  del decreto del Presidente della Repubblica
26 ottobre  1972, n. 649 (Norme concernenti i servizi ed il personale
delle  abolite  imposte di consumo), nella parte in cui prevedono che
la commissione istituita per la definizione dei rapporti tra comuni e
appaltatori  del  servizio  di  riscossione delle imposte comunali di
consumo,  in dipendenza dell'abolizione delle predette imposte, possa
adottare  le  proprie deliberazioni anche in deroga alle disposizioni
contrattuali,   su   iniziativa   di   una   sola   delle   parti  ed
indipendentemente  dalla  rilevanza economica dei rapporti pendenti e
dalla impossibilita' di una loro definizione secondo diritto.
    2. - Va      preliminarmente     disattesa     l'eccezione     di
inammissibilita',  per  difetto  di motivazione sulla rilevanza della
questione,  sollevata  dall'Avvocatura  dello  Stato sull'assunto che
l'ordinanza   di   rimessione  avrebbe  omesso  di  precisare  se  il
procedimento  di  definizione  dei  rapporti  inter  partes sia stato
attivato  ad  istanza  di  una  sola  o  di entrambe le parti e se la
delibera   della   commissione   abbia   in  concreto  derogato  alle
pattuizioni contrattuali.
    Deve, infatti, osservarsi che il Consiglio di Stato e' chiamato a
decidere  sulla  sola  questione  di  giurisdizione e dubita in buona
sostanza   della   legittimita'   costituzionale   delle  norme  che,
attribuendo al decreto ministeriale oggetto del giudizio il carattere
di atto autoritativo, radicano la giurisdizione amministrativa.
    E'   evidente   allora   come   la   questione   di  legittimita'
costituzionale   risulti  rilevante  indipendentemente  dal  concreto
atteggiarsi  della  vicenda  oggetto  del  giudizio  a  quo  e  come,
pertanto,  debba  escludersi  la  necessita'  che  tale  vicenda  sia
analiticamente descritta nella ordinanza di rimessione.
    3. - Nel merito, la questione non e' fondata.
    4. - Le  norme  denunciate dispongono che i rapporti pendenti tra
comuni  e  appaltatori  del  servizio di riscossione delle imposte di
consumo,   in  conseguenza  dell'abolizione  delle  predette  imposte
operata   con  il  d.P.R.  26 ottobre  1972,  n. 633  (Istituzione  e
disciplina  dell'imposta  sul valore aggiunto), siano definiti da una
commissione  istituita  presso  il  Ministero  delle  finanze, le cui
deliberazioni  sono approvate con decreto del Ministro per le finanze
soggetto alla registrazione della Corte dei conti.
    Poiche'  a tale commissione e' espressamente attribuita - come si
e'  detto - la facolta' di derogare alle disposizioni contrattuali, e
cioe' di deliberare secondo equita', anche quando il procedimento sia
attivato  ad istanza di una sola delle parti del rapporto, il giudice
rimettente   ravvisa   innanzitutto  una  lesione  del  principio  di
eguaglianza  proprio  nell'attribuzione  alla  sola parte istante del
potere di "scegliere di derogare al diritto a favore dell'equita'".
    Al riguardo e' sufficiente osservare che il diritto di presentare
l'istanza  alla  commissione  e' espressamente attribuito dall'art. 4
del  citato  decreto presidenziale sia ai comuni che agli appaltatori
delle  abolite  imposte  di  consumo.  Le due parti del rapporto sono
dunque  poste,  rispetto al potere di iniziativa del procedimento, su
un  piano  di  assoluta  parita'  che esclude la lamentata violazione
dell'art. 3 della Costituzione.
    La circostanza, poi, che la parte convenuta debba sottostare alla
decisione  della  commissione  non comporta certamente alcuna lesione
del  principio  di  eguaglianza,  essendo  tale vincolo il necessario
riflesso  del  diritto,  esercitato dalla controparte, di attivare il
procedimento.
    5. - Deve altresi' escludersi che l'attribuzione alla commissione
di  cui  si tratta del potere di definire, anche in via equitativa, i
rapporti   pendenti   tra  comuni  ed  appaltatori  del  servizio  di
riscossione  delle imposte si traduca in una lesione del diritto alla
tutela giurisdizionale di cui all'art. 24 Cost.
    Le  norme denunciate delineano, infatti, secondo la ricostruzione
non  implausibile  del  giudice rimettente, un procedimento di natura
amministrativa,   finalizzato   ad   una   rapida   soluzione   delle
controversie  collegate  alla  cessazione  dei  contratti di appalto.
L'atto  finale  di  tale  procedimento  e'  rappresentato dal decreto
ministeriale  di  approvazione della delibera della commissione che -
secondo quanto ritenuto dal rimettente - essendo atto autoritativo e'
impugnabile dinanzi al giudice amministrativo.
    Cio'  che  porta  ad escludere l'asserita violazione dell'art. 24
della Costituzione
    6. - Le  norme  denunciate  non  sono  d'altro canto in contrasto
nemmeno con l'art. 41 Cost.
    Va  premesso, al riguardo, che secondo la costante giurisprudenza
di  questa  Corte  l'art. 41  della  Costituzione  tutela l'autonomia
contrattuale   in  quanto  strumento  della  liberta'  di  iniziativa
economica, il cui esercizio puo' tuttavia essere limitato per ragioni
di  utilita'  economico-sociale (sentenze n. 268 del 1994; n. 241 del
1990; n. 159 del 1988).
    Nella  specie,  l'attribuzione  alla pubblica amministrazione del
potere di definire in via equitativa i rapporti obbligatori derivanti
dai  contratti  di  appalto e di gestione del servizio di riscossione
delle  imposte  di  consumo  appare  giustificata  dal fatto che tali
contratti sono cessati, alla data del 1o gennaio 1973, in conseguenza
e  per  effetto  della  abolizione delle imposte oggetto del servizio
(art. 1 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 649). La sollecita definizione
dei rapporti in questione, alla stregua di criteri uniformi per tutto
il  territorio nazionale, che tengano altresi' conto - in via appunto
equitativa - della peculiarita' della intervenuta causa di cessazione
degli  appalti,  rappresenta  all'evidenza  una  di quelle ragioni di
utilita'   sociale   sufficienti   a   legittimare  le  deroghe  alla
autoregolamentazione privata denunciate dal rimettente.
    7. - Manifestamente   infondata   appare  da  ultimo  la  censura
riferita all'art. 42 Cost.
    Il  parametro evocato riguarda, infatti, esclusivamente la tutela
della  proprieta'  privata  e  non  puo'  essere  utilmente  riferito
all'ipotetico  sacrificio  di diritti obbligatori come quelli oggetto
del presente giudizio.
                          Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non fondata la questione di legittimita' costituzionale
degli  articoli  3  e  4  del decreto del Presidente della Repubblica
26 ottobre  1972, n. 649 (Norme concernenti i servizi ed il personale
delle  abolite  imposte  di  consumo), sollevata, in riferimento agli
artt. 3,  24,  41 e 42 della Costituzione, dal Consiglio di Stato con
l'ordinanza in epigrafe.

    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 marzo 2000.
                      Il Presidente: Mirabelli
                        Il redattore: Marini
                      Il cancelliere: Fruscella
    Depositata in cancelleria il 17 marzo 2000.
              Il direttore della cancelleria: Fruscella
00C0244