N. 142 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 febbraio 2000

Ordinanza  emessa  il  7  febbraio  2000  dal tribunale di Napoli nel
procedimento penale a carico di Nunziata Elia ed altri
Processo  penale - Dibattimento - Esame di imputati di reato connesso
-  Esercizio,  da parte di questi, della facolta' di non rispondere -
Utilizzabilita'  delle  dichiarazioni rese, prima del dibattimento, a
carico  di coimputati, subordinata all'accordo delle parti - Mancanza
di  detto  accordo  -  Applicabilita', a seguito della sentenza della
Corte costituzionale n. 361/1998, dell'art. 500, commi 2-bis e 4 cod.
proc. pen. - Contrasto con i principi relativi al giusto processo, e,
in   particolare,   con   quello  della  formazione  della  prova  in
contraddittorio, introdotti dalla legge costituzionale n. 2/1992.
Processo  penale  -  Principi relativi al giusto processo, introdotti
nell'art. 111  Cost.  dall'art.  1  legge  costituzionale n. 2/1999 -
Applicabilita' ai soli procedimenti penali in corso nei quali non sia
stato  dichiarato  aperto il dibattimento - Disparita' di trattamento
di situazioni identiche in relazione ad elemento casuale ed aleatorio
quale   l'apertura   del  dibattimento  -  Assenza  di  requisiti  di
necessita' ed urgenza a fondamento dei decreti-legge - Non consentita
fissazione  con decreto-legge di limiti temporali all'applicazione di
principi   costituzionali  -  Mancata  adozione  della  procedura  di
revisione costituzionale.
Processo  penale  -  Principi relativi al giusto processo di cui alla
legge   costituzionale  n. 2/1999  -  Esclusione  della  prova  della
colpevolezza dell'imputato esclusivamente sulla base di dichiarazioni
rese   da  persona  per  libera  scelta  sottrattasi  volontariamente
all'esame  dell'imputato e del suo difensore - Applicabilita' ai soli
procedimenti  nei  quali  sia stato dichiarato aperto il dibattimento
alla data di entrata in vigore della legge costituzionale n. 2/1999 -
Contrasto   con   il   principio  della  formazione  della  prova  in
contraddittorio.
- Cod.  proc.  pen.  1988,  art.  513, comma 2; d.-l. 7 gennaio 2000,
  n. 2, art. 1, punto 1 e 2.
- Costituzione,  art. 111, terzo e quarto comma; legge costituzionale
  23 novembre 1999, n. 2, art. 2.
(GU n.16 del 12-4-2000 )
                          LA CORTE D'ASSISE
    Nel  procedimento  penale  n. 15/1997 a carico di: Nunziata Elia,
  nato  a  Pizzola  di  Nola il 15 novembre 1959; Malinconico Sergio,
  nato a Roccarainola il 31 ottobre 1964; Prisco Francesco Salvatore,
  nato  a  Casamarciano  il  4 maggio 1965 ha pronunciato la seguente
  ordinanza:

                              F a t t o

    Nella   tarda   serata   del  21  ottobre  1991  l'autoarticolato
  Fiat-Iveco,   tg.   CO932031,   fu   rinvenuto  in  agro  d'Acerra,
  parzialmente  fuori della sede stradale, con a bordo il corpo senza
  vita dell'autista, Daniele Lamperti.
    L'autopsia  accerto'  che due proiettili d'arma da fuoco a carica
  unica  avevano  attinto la vittima a che uno di essi, perforando il
  polmone  sinistro  e lacerando l'arco aortico, n'aveva cagionato la
  morte.  Il  veicolo  trasportava  quattrocento  sacchi  di nocciole
  sgusciate,  del  valore  di  lire sessantasette milioni, diretti ad
  un'industria dolciaria svizzera.
    Gli  inquirenti ipotizzarono che si trattasse d'omicidio commesso
  nel  corso  di un tentativo di rapina e, pertanto, indirizzarono le
  indagini  verso  persone  sospettate  di  esser  dedite a rapine di
  camion trasportanti nocciole sgusciate, fra cui in particolare tali
  Clemente Vinciguerra Lucio Addeo, Elia Nunziata, Sergio Malinconico
  e Salvatore Prisco.
    Nel  corso  delle  indagini  preliminari Vinciguerra, imputato in
  procedimento connesso per delitti di rapina, formulo' dichiarazioni
  accusatorie  nei  confronti  di  Nunziata,  suo  coimputato. Addeo,
  imputato  quale  mandante  di  concorso  nei  delitti  in  esame  e
  successivamente   prosciolto   nell'udienza   preliminare,  accuso'
  Nunziata,  Malinconico  e Prisco di essere gli autori della tentata
  rapina  e  dell'omicidio:  cio'  egli  aveva  appreso  dallo stesso
  Nunziata,  il quale gli aveva manifestato l'intenzione di addossare
  la  responsabilita'  dei  delitti  a Malinconico, a Prisco e a tale
  Nicola   Napolitano,  defunto  cognato  di  Malinconico.  Nunziata,
  protestandosi  estraneo  ai  fatti  accuso'  Malinconico,  Prisco e
  Napolitano,  dichiarando  di  aver  appreso  i fatti dai primi due.
      Con  decreto del 17 gennaio 1995, il g.u.p. presso il tribunale
  di  Nola  dispose  il  rinvio a giudizio di Nunziata, Malinconico e
  Prisco  per  rispondere, in concorso tra loro e con un mandante non
  identificato,  di  tentata  rapina  aggravata,  omicidio aggravato,
  detenzione   a   porto  illegali  di  pistola.      Nel  corso  del
  dibattimento  di  primo  grado, celebrato avanti alla terza sezione
  della  Corte  d'assise  di  Napoli,  Lucio Addeo, citato per essere
  esaminato  ai  sensi  dell'art. 210 del cod. proc. pen., si avvalse
  della  facolta'  di  non rispondere; furono, pertanto, acquisiti al
  fascicolo  per  il  dibattimento,  ex  art. 513  cod. proc. pen., i
  verbali degli interrogatori da lui in precedenza resi al p.m. ed al
  g.i.p.  Anche l'imputato Elia Nunziata si avvalse, in sede d'esame,
  della  facolta'  di  non  rispondere;  furono,  quindi, acquisiti i
  verbali  degli  interrogatori  da  lui  resi  al p.m. ed al g.i.p.,
  nonche'  il verbale del confronto svoltosi, avanti al p.m., fra lui
  ed  Addeo.      Con  sentenza  emessa il 14 novembre 1996, la Corte
  d'assise dichiaro' i tre imputati colpevoli dei reati loro ascritti
  e li condanno' all'ergastolo con isolamento diurno per mesi cinque,
  oltre   alle   pene   accessorie,  alle  spese  processuali  ed  al
  risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili.
    L'affermazione  di  responsabilita' di ciascuno degli imputati si
  fondava, come si legge nella motivazione della sentenza, su "accuse
  provenienti  da  due  fonti:  il  Vinciguerra  e  l'Addeo  accusano
  Nunziata;  gli  stessi  Addeo  e  Nunziata accusano il Prisco ed il
  Malinconico".     La pluralita' delle fonti accusatorie consentiva,
  mediante  il  reciproco  riscontro,  la  formazione  di  una  prova
  sufficiente  ai  sensi  dell'art. 192,  terzo  e  quarto comma, del
  codice  di  procedura  penale.      Tutti  gli imputati proponevano
  appello,  deducendo  una  serie  di  motivi, fra i quali l'asserita
  mancanza    di   prove   idonee   a   fondare   l'affermazione   di
  responsabilita'.      La  prima  udienza  del processo d'appello si
  celebrava  davanti  a questa Corte all'udienza del 2 febbraio 2000.
  Dopo la relazione, il Procuratore generale chiedeva la rinnovazione
  del  dibattimento,  allo  scopo  di  procedere  a  nuovo  esame del
  coimputato  prosciolto Lucio Addeo e dell'imputato Elia Nunziata. I
  difensori  degli  imputati  si  opponevano, sollevando questione di
  legittimita' costituzionale dell'art. 513 codice procedura penale e
  dall'art. 1.1   del   decreto-legge   7  gennaio  2000,  n. 2,  per
  violazione degli artt. 3, 77 e 138 della Costituzione.
    La Corte riteneva la questione sollevata manifestamente infondata
  in relazione all'art. 6.3 legge 7 agosto 1997 n. 267, da applicarsi
  aI  momento,  ed  irrilevante,  allo  stato,  per  le  altre  norme
  impugnate. Disponeva, pertanto, la rinnovazione del dibattimento ed
  il nuovo esame di Addeo e Nunziata.
    L'imputato Elia Nunziata, presente in aula, invitato a sottoporsi
  ad  esame,  dichiarava  di  volersi  avvalere della facolta' di non
  rispondere.  Il  Procuratore  generale  chiedeva,  allora, di poter
  procedere  alla  contestazione,  a norma degli artt. 500.2-bis e 4,
  delle  dichiarazioni  rese  nel  corso  delle indagini preliminari,
  concernenti la responsabilita' dei coimputati. I difensori di tutti
  gli  imputati  si opponevano, reiterando la gia' proposta questione
  di legittimita' costituzionale.     Essi specificavano che le norme
  impugnate  erano  le  seguenti:          1)  Art.  1.1  del d.-l. 7
  gennaio  2000  n. 2,  per violazione degli artt. 77, secondo comma,
  138,  primo  comma,  e  3, primo comma della Costituzione italiana;
          2)  Art.  1.3  della  legge  7  agosto  1997,  n. 267,  per
  violazione  dell'art. 111,  quarto  comma precedente il primo comma
  dello   stesso,   della   Costituzione  italiana,  come  introdotto
  dall'art. 1  della  legge  costituzionale  23 novembre  1999, n. 2;
          3)  Art.  1.5  della  legge  7  agosto  1997,  n. 267,  per
  violazione  del medesimo comma dell'art. 111 Costituzione italiana.
      La  Corte aggiornava da discussione della questione all'udienza
  odierna,  assegnando  un  termine alle parti per depositare memorie
  illustrative.  In  data  3  febbraio 2000 i difensori dell'imputato
  Nunziata depositavano memoria in cancelleria.

                            D i r i t t o

    I  giudici  di  primo  grado, a seguito del rifiuto dell'imputato
  Elia  Nunziata  di  sottoporsi  ad esame, nel corso del giudizio di
  primo   grado,   acquisirono   al  fascicolo  del  dibattimento  le
  dichiarazioni  da  lui  rese al pubblico ministero ed al g.i.p. nel
  corso  delle  indagini  preliminari.     Essi valutarono, poi, tali
  dichiarazioni per affermare la colpevolezza, oltre che di Nunziata,
  dei  coimputati Malinconico e Prisco.     Tale modus procedendi era
  pienamente conforme alla normativa vigente all'epoca della sentenza
  appellata.   L'art. 513  del  codice  di  procedura  penale,  nella
  versione  risultante  dall'applicazione  delle  sentenze 254/1992 e
  60/1995    della   Corte   costituzionale,   consentiva,   infatti,
  l'acquisizione  agli  atti  del  fascicolo  di  ufficio  di  quelle
  dichiarazioni  e  la  loro  utilizzazione  ai  fini  del  decidere.
      Quella  normativa fu poi profondamente modificata con l'entrata
  in  vigore  della  legge  7  agosto 1997 n. 267 e con la successiva
  sentenza  n. 361  della  Corte  costituzionale,  emessa  in data 26
  ottobre-2  novembre 1998.     La legge 267 previde, infatti, che le
  dichiarazioni   rese  nel  corso  delle  indagini  preliminari  non
  potevano,  se il dichiarante non avesse reso l'esame dibattimentale
  perche'   assente   o  contumace  o  perche'  avesse  rifiutato  di
  sottoporsi  all'esame,  essere  utilizzate  nei  confronti di altri
  senza  il  loro  consenso.  Essa  introdusse  norme transitorie per
  consentire  alle  parti interessate di ottenere una nuova citazione
  del  dichiarante.      La  predetta  normativa transitoria, tuttora
  valida,  e'  stata  applicata  da  questa Corte nel caso di specie.
      La  sentenza  361,  dichiarando l'illegittimita' costituzionale
  degli  artt. 210  e 513, comma secondo cod. proc. pen., integro' la
  disciplina dell'utilizzabilita' delle dichiarazioni rese, prima del
  dibattimento,  da  un  coimputato a carico di altri: essa stabili',
  infatti,  che,  in mancanza dell'accordo delle parti, era possibile
  applicare  l'art. 500,  commi  2-bis  e  4, del codice di procedura
  penale.      La  richiesta del procuratore generale di contestare a
  Nunziata le dichiarazioni da lui rese, a carico dei coimputati, nel
  corso  delle  indagini  preliminari, si basa appunto su tale norma,
  tuttora  vigente.      La  possibilita' di utilizzare dichiarazioni
  rese  da  un  imputato,  che  si  sia avvalso della facolta' di non
  rispondere,  nei  confronti di un coimputato e senza il consenso di
  costui, e' presupposto e funzione delle contestazioni richieste dal
  pubblico  ministero  ed autorizzate dall'art. 513.2, come integrato
  dalla  sentenza  361. Tale possibilita' e' esclusa dal quarto comma
  dell'art.  111  della  Costituzione Italiana, cosi' come modificato
  dall'art. 1  della  legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2: "La
  colpevolezza  dell'imputato  non  puo' essere provata sulla base di
  dichiarazioni  rese  da  chi,  per  libera  scelta,  si  e'  sempre
  volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato
  o  del suo difensore".     La norma costituzionale sopravvenuta non
  ha pero' l'efficacia di abrogare automaticamente le norme ordinarie
  con  essa  in  contrasto,  che,  al  contrario, vanno sottoposte al
  controllo   di  legittimita'  della  Corte  costituzionale  con  le
  procedure  previste  dall'art. 23  della legge 11 marzo 1953 n. 87.
      Inoltre   il   d.-l.   7   gennaio   2000  n. 2  ha  stabilito,
  all'art. 1.1,  che  "Fino  alla  data  dell'entrata in vigore della
  legge  che  ne  disciplina  l'attuazione  nel  processo  penale,  i
  principi  introdotti  nell'art.  111 della Costituzione dall'art. 1
  della  legge  costituzionale  23 novembre 1999 n. 2 si applicano ai
  procedimenti penali in corso alla data dell'entrata in vigore della
  legge  costituzionale  nei quali non sia stato dichiarato aperto il
  dibattimento".      Si  ricava,  a  contrario, da tale norma, che i
  predetti  principi costituzionali non si applicano ai procedimenti,
  come  quello  che  n'occupa,  nei  quali  il  dibattimento e' stato
  dichiarato  aperto  in epoca precedente.     A conferma di cio', la
  prima parte dell'art. 1.2 del predetto decreto legge stabilisce che
  "Nei  procedimenti  penali nei quali sia stato dichiarato aperto il
  dibattimento   alla   data   di   entrata  in  vigore  della  legge
  costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, la colpevolezza dell'imputato
  non  puo' essere provata esclusivamente sulla base di dichiarazioni
  rese  da  chi,  per  libera  scelta,  si  e' sempre volontariamente
  sottratto  all'esame  da  parte dell'imputato o del suo difensore".
      La   ripetizione   del  testo  costituzionale,  con  l'aggiunta
  dell'avverbio  esclusivamente,  equivale  a negare l'applicabilita'
  dei  nuovi  principi,  riconoscendo il valore di semiplena probatio
  previgente  alla  nuova  formulazione  della  carta costituzionale:
  cio',  ovviamente,  consentirebbe  di acquisire le dichiarazioni di
  Nunziata  attraverso  il meccanismo delle contestazioni.     Di qui
  la  rilevanza  della  questione  di costituzionalita' anche di tale
  norma,  che  questa  Corte deve rilevare d'ufficio: se, infatti, le
  dichiarazioni   accusatorie   potessero   fondare,   anche  se  non
  esclusivamente,   una   dichiarazione   di  colpevolezza,  la  loro
  acquisizione  mediante  il  meccanismo  delle contestazioni sarebbe
  possibile   ed   utile.       Questa   Corte,   per  consentire  le
  contestazioni  richieste  dal Procuratore generale, dovrebbe quindi
  applicare le norme dell'art. 513.2 del codice di procedura penale e
  dell'art. 1 d.-l. n. 2/2000. Cio' rende evidente la rilevanza delle
  questioni  di  legittimita' costituzionale sollevate dai difensori,
  giacche'  e'  impossibile  procedere  oltre  nella  trattazione del
  procedimento senza far luogo all'applicazione delle norme di cui si
  deduce   l'illegittimita'  costituzionale.      Occorre,  a  questo
  punto,  verificare la sussistenza dell'ulteriore requisito previsto
  dall'art. 23  legge 87/1953,  la  non  manifesta infondatezza delle
  questioni.      La  questione  di costituzionalita' dell'art. 1 del
  decreto-legge  7  gennaio  2000  n. 2  e'  stata  proposta sotto un
  quadruplice  profilo:          i  difensori  hanno dedotto, innanzi
  tutto,   la   violazione   dell'art. 77,   secondo   comma,   della
  Costituzione  che  limita  l'esercizio,  da  parte del Governo, del
  potere  straordinario  di  decretazione,  a  casi  straordinari  di
  necessita'  e  d'urgenza;          essi  hanno eccepito, in secondo
  luogo, la violazione dell'art. 138, primo comma della Costituzione,
  che    riserva    al   Parlamento,   con   particolare   procedura,
  l'approvazione di leggi costituzionali;         il terzo profilo di
  incostituzionalita'  consisterebbe  nella violazione dell'art. 111,
  quarto comma, il quale, nella nuova formulazione, cosi' recita: "Il
  processo penale e' regolato dal principio del contraddittorio nella
  formazione  della  prova.  La  colpevolezza  dell'imputato non puo'
  essere  provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera
  scelta,  si  e' sempre volontariamente sottratto all'interrogatorio
  da  parte  dell'imputato  o  del  suo  difensore";         la norma
  violerebbe,  infine,  il  principio di uguaglianza dei cittadini di
  fronte  alla  legge, sancito dall'art. 3 della Costituzione.     La
  questione,   a  parere  di  questa  Corte,  non  e'  manifestamente
  infondata.      L'art. 138  della  Costituzione  stabilisce che non
  solo  le leggi di revisione costituzionale, ma anche tutte le altre
  leggi  costituzionali  debbono  essere  adottate con la particolare
  procedura  prevista  dalla  stessa  norma:  e',  pertanto,  vietato
  adottare  leggi  costituzionali tanto con la procedura parlamentare
  ordinaria  prevista dall'art. 72, quanto con la procedura d'urgenza
  prevista  dal secondo comma dell'art. 77, che con assoluta evidenza
  conferisce   all'esecutivo   il   potere  di  legiferare,  in  casi
  straordinari  di  necessita'  ed  urgenza,  in materie sottoposte a
  leggi  ordinarie.      Non  si puo', quindi, con legge ordinaria, e
  tanto  meno con decreto legge, fissare limitazioni all'applicazione
  di principi costituzionali: cio', infatti, equivarrebbe a stabilire
  in positivo che taluni diritti costituzionali appartengono soltanto
  ad  alcuni  soggetti  e  non  ad  altri.  Una simile statuizione e'
  concepibile  soltanto  nell'ambito  di  una  legge  costituzionale,
  anch'essa  peraltro  soggetta al limite della salvaguardia di altri
  principi  costituzionali  di rango superiore, quale potrebbe essere
  quello  dell'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.     Il
  problema  si sposta, allora, sulla verifica prioritaria se la legge
  costituzionale 23 novembre 1999 n. 2 contenga, sia pure nella forma
  della   delega   al  legislatore  ordinario,  una  possibilita'  di
  discriminazione  fra  due categorie di soggetti: quelli cui i nuovi
  principi  costituzionali  vanno  applicati e quelli che, viceversa,
  non  ne debbono beneficiare. Potrebbe, infatti, opinarsi che questa
  sia   la   funzione   della  norma  transitoria  dell'art. 2  legge
  costituzionale  2/99,  per  cui "la legge regola l'applicazione dei
  principi   contenuti   nella   presente   legge  costituzionale  ai
  procedimenti  penali  in  corso  alla  data  della  sua  entrata in
  vigore". Una siffatta opinione contrasterebbe pero' chiaramente con
  la    lettera    della    norma,   che   espressamente   stabilisce
  "l'applicazione  dei  principi...  ai  processi  penali  in corso",
  rinviando  alla  legge  ordinaria  soltanto  il  regolamento  delle
  relative modalita'.     Una norma ordinaria che, come fa il decreto
  legge  in  esame,  stabilisce  la disapplicazione di quei principi,
  incorre addirittura in un ulteriore profilo di incostituzionalita',
  consistente  nella  violazione  del menzionato art. 2.     La norma
  costituzionale   transitoria  ha,  probabilmente,  la  funzione  di
  limitare  l'applicazione  dei  nuovi  principi ai processi in corso
  alla  data  di entrata in vigore della legge, escludendone quelli a
  tale  data  gia'  definiti.  Essa  ha,  indubbiamente,  l'ulteriore
  funzione di sancire la validita' delle norme ordinarie applicative,
  siano  esse gia' esistenti, come i commi 2, 3 e 4 dell'art. 6 legge
  267/1997,   siano  esse  introdotte  con  nuovi  provvedimenti  del
  legislatore  ordinario.  Non  ha e non potrebbe avere la portata di
  consentire  al  legislatore ordinario norme che privino i cittadini
  della  tutela  loro  accordata  dai principi costituzionali.     Se
  dovesse  averla,  cio' che non e' dato desumere dal dato letterale,
  sarebbe  a  sua  volta  illegittima  in  relazione all'art. 3 della
  Costituzione.      Il  contrasto  del  decreto  con  tale  norma e'
  abbastanza    evidente,    stante   l'assoluta   arbitrarieta'   ed
  irragionevolezza  della discriminazione fra quegli imputati nel cui
  processo il dibattimento sia stato dichiarato aperto e quelli, piu'
  fortunati,   nei   cui   confronti   quella  formalita',  legata  a
  circostanze  casuali  ed  aleatorie, non sia stata ancora compiuta.
      In  verita'  l'unica discriminazione razionale fra procedimenti
  sarebbe  costituita  dall'avere o meno l'accusatore gia' dichiarato
  di volersi avvalere della facolta' di non rispondere. Questo limite
  temporale non puo' pero' essere riferito alla fruizione del diritto
  costituzionale  ad  esaminare  l'accusatore, che, come si e' detto,
  deve  necessariamente  valere  per  tutti i processi pendenti. Esso
  distingue,  invece,  le  situazioni  che  non necessitano di alcuna
  norma   applicativa  da  quelle  che  richiedono  l'intervento  del
  legislatore ordinario.     Il contenuto del decreto, d'altra parte,
  non   consente   d'identificare  alcuna  ragione  di  necessita'  o
  d'urgenza. L'opportunita' d'evitare la proposizione di questioni di
  legittimita'  costituzionale,  che  e'  stata  invocata  da alcuni,
  avrebbe,  semmai,  legittimato  l'abrogazione o la modificazione di
  norme,  come  quella dell'art. 513.2, che contrastano con l'attuale
  formulazione   dell'art. 111   della   Costituzione.      Resta  da
  esaminare,  a  questo  punto,  la  non manifesta infondatezza della
  questione   di   legittimita'  costituzionale  dell'art. 513.2,  in
  relazione  al  ripetuto art. 111 della Costituzione.     Non appare
  necessario  dilungarsi  eccessivamente sul punto, dopo tutto quanto
  e'  stato  sin  qui  detto.      Il meccanismo delle contestazioni,
  introdotto  con  la  sentenza  361/1998 della Corte costituzionale,
  tende  a  consentire l'acquisizione al fascicolo del dibattimento e
  la  conseguente valutazione di dichiarazioni rese da persone che si
  sono  sottratte all'interrogatorio da parte dell'imputato e del suo
  difensore.  Esso viola, quindi, la norma costituzionale per cui "il
  processo penale e' regolato dal principio del contraddittorio nella
  formazione  della prova".     Le dichiarazioni accusatorie rese nel
  corso  delle  indagini  preliminari  da  chi  si  e'  avvalso della
  facolta' di non rispondere acquisterebbero, con quel meccanismo, il
  valore  di prova. Quella prova, pero', si sarebbe formata fuori del
  contraddittorio.      La  norma  impugnata viola, poi, il principio
  costituzionale  che  assicura all'imputato "la facolta', davanti al
  giudice, di interrogare o di far interrogare le persone che rendono
  dichiarazioni  a  suo  carico".  L'esercizio  del  diritto  di  non
  rispondere   impedisce,  infatti,  l'esercizio  della  facolta'  di
  controesaminare:  ne'  la ratio di quella facolta' e' in alcun modo
  soddisfatta   dalla   possibilita'   di   rivolgere  contestazioni,
  destinate  a  rimanere  senza risposta, giacche' resterebbe in ogni
  caso   frustrata   la   possibilita'   di   dimostrare,  attraverso
  contraddizioni  e  circostanze  nuove che dal controesame avrebbero
  potuto  emergere,  la  falsita'  o l'inattendibilita' delle accuse.
      Si  consideri,  ad esempio, l'ipotesi, abbastanza frequente, di
  un  accusatore  che  al pubblico ministero non abbia specificato in
  qual modo ed in qual tempo abbia appreso i fatti riferiti. Una tale
  specificazione,  ottenibile  solo  mediante l'esame dibattimentale,
  potrebbe   consentire   alla  difesa  di  provare  l'impossibilita'
  dell'asserita  conoscenza  dell'accusatore.      La norma impugnata
  viola  espressamente,  infine;  il principio costituzionale per cui
  "La  colpevolezza  dell'imputato non puo' essere provata sulla base
  di  dichiarazioni  rese  da  chi,  per  libera scelta, si e' sempre
  volontariamente sottratto all'interrogatorio da parte dell'imputato
  o  del  suo difensore". L'utilizzo di un meccanismo di acquisizione
  probatoria   e'   evidentemente  illegittimo  quando  l'accusatore,
  avvalendosi  della  facolta'  di  non  rispondere,  si  sottrae  al
  controesame;  le  sue  dichiarazioni  non  sono idonee a provare la
  colpevolezza   dell'imputato   e,   quindi,   non  possono  entrare
  surrettiziamente  a  far  parte  di  una  prova  alla quale debbono
  restare   estranee.       Anche   la   questione   di  legittimita'
  costituzionale  dell'art. 513.2  cod.  proc.  pen.  non e', quindi,
  manifestamente infondata.
                              P. Q. M.
    Letto ed applicato l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  non  manifestamente  infondate le seguenti questioni di
  legittimita' costituzionale:
        1)  art. 513.2  del  codice  di  procedura penale, cosi' come
  integrato  dalla  sentenza  n. 361/1998 della Corte costituzionale,
  per  violazione  del  terzo  e  quarto  comma  dell'art. 111  della
  Costituzione,  cosi'  come introdotti dalla legge costituzionale 23
  novembre 1999, n. 2;
        2)  art. 1.1  del  decreto-legge  7  gennaio  2000, n. 2, per
  violazione  degli artt. 3, primo comma, 77 e 138, primo comma della
  Costituzione,  nonche'  dell'art. 111,  terzo e quarto comma, della
  Costituzione  e  dell'art. 2 della legge costituzionale 23 novembre
  1999, n. 2;
        3)  art.  1.2  del  decreto-legge  7  gennaio 2000, n. 2, per
  violazione dell'art. 111, quarto comma, della Costituzione;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
  costituzionale e sospende il giudizio in corso;
    Ordina  che  a  cura  della cancelleria la presente ordinanza sia
  notificata al Presidente del Consiglio dei Ministri e comunicata ai
  presidenti delle due Camere del Parlamento.
        Napoli, addi' 7 febbraio 2000.
                       Il Presidente: Lignola
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