N. 184 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 dicembre 1999
Amministrativo regionale della Sicilia, sez. staccata di Catania sul ricorso proposto da comune di Taormina contro il Ministero dell'interno ed altri Casa da gioco - Gioco d'azzardo - Deroghe al divieto penale del gioco d'azzardo - Autorizzazione all'apertura di case da gioco per i comuni di San Remo, Venezia, Campione d'Italia e Saint Vincent - Mancata previsione, in via generale ed astratta, del potere del Ministro dell'interno di autorizzare (in presenza della stessa situazione turistica e finanziaria alla base della autorizzazione per i predetti comuni), anche in deroga alle leggi vigenti senza aggravio per il bilancio dello Stato, altri Comuni all'apertura di case da gioco - Ingiustificata situazione di privilegio dei comuni dispensati dal divieto rispetto ad altri comuni in identica situazione turistica e finanziaria - Incidenza sul principio di autonomia degli enti locali - Lesione del principio di liberta' d'iniziativa economica - Riferimento alla sentenza della Corte costituzionale n. 152/1985, di non fondatezza di analoga questione, ritenuta superabile dal giudice rimettente. - R.d.l. 24 novembre 1927, n. 2248 (recte: r.d.l. 22 dicembre 1927, n. 2448), conv. in legge 27 dicembre 1928, n. 3125; r.d.l. 2 marzo 1933, n. 201, conv. in legge 8 maggio 1933, n. 505; r.d.l. 16 luglio 1936, n. 1404, conv. in legge 14 gennaio 1937, n. 62; legge 6 dicembre 1971, n. 1065; legge 7 agosto 1971, n. 690 e succ. mod. - Costituzione, artt. 2, 3, 5 e 41.(GU n.18 del 26-4-2000 )
IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE Ha pronunciato la seguente ordinanza sulla domanda di sospensione della esecuzione del provvedimento impugnato con il ricorso n. 4904/1999 r.g., proposto dal comune di Taormina, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Paolo Turiano Mantica, ed elettivamente domiciliato in Catania, viale XX Settembre, 47/E (studio avv. Giampiero Garofalo); Contro il Ministero dell'interno, in persona del Ministro pro-tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Catania, domiciliataria; e nei confronti del comune di Venezia, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giulio Gidoni, dall'avv. Nicolo' Paoletti, dall'avv. Federico Sorrentino e dall'avv. Michele Ali', domiciliatario (via Crociferi, 60 - Catania); del comune di Campione d'Italia, interveniente ad opponendum, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Nicola Seminara, domiciliatario (corso delle Province, 203 - Catania); del comune di San Remo, interveniente ad opponendum, in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Federico Sorrentino e dall'avv. Michele Ali', domiciliatario (via Crociferi, 60, Catania); per l'annullamento, previa sospensione - e previa, occorrendo: a) rimessione degli atti alla Corte costituzionale perche' giudichi sulla questione che sara' sollevata nel contesto del presente ricorso, e b) rimessione alla Corte di giustizia CEE, ai sensi dell'art. 177 del Trattato, della questione pregiudiziale che, pure, sara' prospettata nel contesto del ricorso - del provvedimento negativo 3 agosto 1999 prot. n. 09904513-15100-4124 con il quale il Ministero dell'interno ha respinto la richiesta di apertura di una casa da gioco nel territorio comunale, asserendo di non avere il relativo potere autorizzatorio; Visto il ricorso con i relativi allegati; Vista la domanda di sospensione dell'esecuzione del predetto provvedimento; Visti gli atti tutti della causa; Relatore la dott.ssa Rosalia Messina; Uditi per le parti, in camera di consiglio il giorno 14 dicembre 1999, 1'avv. P. Turiano Mantica, l'avv. Giuseppe Di Gesu (Avvocatura dello Stato), l'avv. M. Ali', l'avv. Nicola Seminara (quest'ultimo per l'interveniente ad opponendun comune di Campione d'Italia); Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue; F a t t o Con il ricorso in epigrafe il comune di Taormina ha impugnato il provvedimento negativo 3 agosto 1999 prot. n. 09904513-15100-4124 con il quale il resistente Ministero dell'interno ha respinto la richiesta di apertura di una casa da gioco nel territorio comunale, asserendo di non avere il relativo potere autorizzatorio. L'ente ricorrente ha chiesto la sospensione degli effetti del predetto diniego, avverso il quale ha dedotto censure di violazione di legge ed eccesso di potere - di cui diffusamente si parlera' in motivazione - chiedendo, inoltre, che, ove il tribunale amministrativo adito lo ritenga necessario, sia sollevata la questione di legittimita' costituzionale della disciplina applicata - r. d.-l. n. 2448/1927, conv. in legge n. 3125/1928; r. d.-l. n. 201/1933, conv. in legge n. 505/1933; r. d.-l. n. 1404/1936, conv. in legge n. 62/1937; legge n. 1065/1971 e n. 690/1971, contenenti una "sanatoria" del decreto del presidente della regione Valle d'Aosta, n. 241/3 del 3 aprile 1946 - e che, eventualmente, si rimetta alla Corte di giustizia CEE, ai sensi dell'art. 177 del Trattato, la questione pregiudiziale relativa alla medesima disciplina (in particolare, sotto il profilo della compatibilita' di essa con i diritti di libera circolazione e stabilimento). Il collegio, con ordinanza n. 449/1999, adottata alla camera di consiglio tenutasi nei giorni 14 e 16 del 1999, e pubblicata il 17 dicembre successivo, ha sospeso interinalmente, ai sensi dell'art. 23/2, legge n. 87/1953, il giudizio cautelare introdotto in una al ricorso in epigrafe, rinviandone la trattazione alla prima camera di consiglio utile successiva alla restituzione degli atti del giudizio da parte della Corte costituzionale dopo la decisione della questione di leigittimita' costituzionale, sollevata con la presente ordinanza, assunta nella medesima camera di consiglio. Successivamente alla camera di consiglio predetta, il comune di Campione d'Italia, intervenuto ad opponendum nel giudizio, ha depositato agli atti di causa, in data 16 dicembre 1999, l'istanza, notificata il 10 dicembre 1999, per regolamento di competenza, diretta al Consiglio di Stato, eccependo la incompetenza del Tribunale amministrativo regionale adito, e chiedendo la devoluzione di esso gravame alla cognizione del Tribunale amministrativo regionale Lazio, asseritamente competente per la controversia di cui trattasi. Il comune di Venezia, al quale parte ricorrente ha notificato il gravame, ha proposto dinanzi alla Corte di cassazione ricorso per regolamento di giurisdizione (depositato agli atti di causa il 16 dicembre 1999), eccependo in via principale il difetto di giurisdizione assoluto, in via subordinata il difetto di giurisdizione relativo. Il comune di Venezia ha altresi', con istanza ex art. 367 c.p.c., depositata agli atti di causa il 20 dicembre 1999, chiesto che il Tribunale amministrativo regionale decidesse in ordine alla sospensione del giudizio. Con due istanze depositate agli atti di causa il 16 ed il 21 dicembre 1999 il predetto comune ha chiesto la trasmissione del fascicolo d'ufficio alla cancelleria delle ss.uu. della Cassazione ai sensi dell'art. 369, ultimo comma, c.p.c. Con atto depositato in data 20 gennaio 2000, non notificato al ricorrente comune di Taormina, e' intervenuto ad opponendum nel presente giudizio il comune di San Remo. D i r i t t o 1. - Come gia' esposto in narrativa, con il ricorso in epigrafe, n. 4904/1999 r.g., il comune di Taormina ha impugnato il provvedimento negativo 3 agosto 1999 prot. n. 09904513-15100-4124 con il quale il resistente Ministero dell'interno ha respinto la richiesta di apertura di una casa da gioco nel territorio comunale, asserendo di non avere il relativo potere autorizzatorio. Parte ricorrente ha dedotto i seguenti motivi: 1) violazione di legge in relazione ai dd.PP.RR. nn. 640 e 641 del 26 ottobre 1972, il primo in materia d'imposta sugli spettacoli, il secondo contenente la disciplina delle tasse sulle concessioni governative - eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche. Premessa la ritenuta illegittimita' costituzionale delle norme che hanno consentito il Ministro dell'interno di esonerare i comuni di Campione, San Remo e Venezia dall'osservanza degli artt. 718 e 722 c.p., parte ricorrente ritiene che il divieto di istituzione di case per l'esercizio del gioco d'azzardo e' neutralizzato da altre norme, rinvenibili nell'ordinamento, derogatorie del divieto. Tali norme vengono individuate dal comune ricorrente nell'insieme di disposizioni tributarie che riconoscono il gioco d'azzardo e le relative case da gioco (artt. 1 e 2 d.P.R. n. 640/1972, tariffa allegata al d.P.R. n. 641/1972, al numero 61, nonche' art. 9 dello stesso d.P.R.), le quali costituirebbero "un regime derogatorio generalizzato che trova nel provvedimento amministrativo (autorizzatorio) la radice del suo fondamento" (p. 8 del ricorso); 2) illegittimita' riflesssa dall'illegittimita' costituzionale del sistema complessivo di regolazione dell'apertura di case da gioco in Italia. Parte ricorrente si sofferma sulle affermazioni piu' volte fatte dalla giurisprudenza in ordine alla illegittimita' costituzionale delle norme che esonerano soltanto quattro comuni d'Italia dall'osservanza del generale divieto di tenere o agevolare il gioco d'azzardo - r. d.-l. n. 2448/1927, conv. in legge n. 3125/1928; r. d.-l. n. 201/1933, conv. in legge n. 505/1933; r. d.-l. n. 1404/1936, conv. in legge n. 62/1937; legge n. 1065/1971 e n. 690/1971, contenenti una "sanatoria" del decreto del presidente della regione Valle d'Aosta, il n. 241/3 del 3 aprile 1946 - di cui agli artt. 718 ss. c.p., dedicando particolare attenzione alla sentenza della Corte costituzionale n. 152/1985. Detta pronuncia rilevava la disorganicita' della disciplina intervenuta episodicamente in materia, ammonendo il legislatore sulla necessita' di intervenire rapidamente in modo coerente. In conclusione, parte ricorrente denuncia la normativa in vigore, complessivamente considerata, per violazione degli artt. 3 e 41 Cost., nella parte in cui essa normativa prevede la facolta' del Ministro dell'interno di autorizzare l'apertura di case da gioco in presenza delle condizioni che hanno consentito l'apertura delle quattro case da gioco esistenti in San Remo, Venezia, Campione d'Italia e Saint Vincent; 3) altro profilo di illegittimita', in ordine al quale parte ricorrente ha chiesto, ove il tribunale adito lo ritenga, che sia investita la Corte di giustizia CEE, ai sensi dell'art. 177 del Trattato di Roma, della questione pregiudiziale relativa alla predetta normativa, di cui si sostiene altresi' la incompatibilita' con principi comunitari, in particolare con quelli che sanciscono i diritti di libera circolazione e stabilimento. 2. - La terza sezione di questo tribunale, come si e' pure esposto nelle stesse premesse di fatto, con ordinanza n. 494/1999, deliberata nella camera di consiglio del 14 dicembre 1999 (nella quale era stata fissata, in base al calendario ritualmente predisposto per il 1999, la trattazione della domanda cautelare) ed in quella successiva (di mera prosecuzione dell'attivita' decisoria del collegio) del 16 dicembre 1999, ha sospeso, ai sensi dell'art. 23/2, legge n. 87/1953, il giudizio cautelare introdotto in una al ricorso in epigrafe, rinviandone la trattazione alla prima camera di consiglio utile successiva alla restituzione degli atti del giudizio da parte della Corte cosituzionale, dopo la decisione della questione di legittimita' costituzionale, sollevata con separata ordinanza assunta in data odierna. E cio', ovviamente, ai fini meramente ordinatori concernenti le modalita' ed i tempi della vera e propria trattazione della domanda cautelare e della relativa decisione dopo la definizione della questione di costituzionalita' di cui trattasi. 3. - Successivamente alla data di discussione e di contestuale passaggio in decisione (udienza camerale del 14 dicembre 1999) della controversia cautelare di cui trattasi, il comune di Venezia, con atto notificato al ricorrente comune di Taormina in data 16 dicembre 1999 (e depositato in pari data nella segreteria di questo Tribunale amministrativo regionale), ha proposto ricorso alle ss.uu. della Cassazione per regolamento preventivo di giurisdizione ex art. 41 c.p.c., chiedendo che venga dichiarata, in via principale, la carenza assoluta di giurisdizione in ordine al ricorso indicato in epigrafe, o comunque, in subordine, la giurisdizione del giudice ordinario in materia. Lo stesso comune di Venezia in data 20 dicembre 1999 ha depositato istanza di sospensione del giudizio ex art. 367 c.p.c., e, in data 16 dicembre 1999 e 21 dicembre 1999, ha depositato due istanze di trasmissione del fascicolo ex art. 369 c.p.c. 3.1. - Tale ricorso per regolamento di giurisdizione appare manifestamente inammissibile (recte: irricevibile) per tardivita', inammissibile sott'altro profilo, per quanto concerne la declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione, oltre che manifestamente infondato in relazione ad entrambi i profili dedotti, sicche', come stabilito dall'art. 367, primo comma, c.p.c., nel testo sostituito dall'art. 61 della legge 28 novembre 1990, n. 353 (in base al quale "Una copia del ricorso per cassazione proposto a norma dell'art. 41, primo comma, e' depositata, dopo la notificazione alle altri parti, nella cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa, il quale sospende il processo se non ritiene l'istanza manifestamente inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente infondata. Il giudice istruttore o il Collegio provvede con ordinanza"), non puo' conseguire l'effetto della sospensione del giudizio ope judicis (e non piu' ope legis o ope jure) prevista in via generale dal testo novellato della predetta disposizione processuale. 3.2. - Osserva, innanzitutto, il Collegio che l'anomalo istituto processuale del regolamento preventivo di giurisdizione - i cui usi perversi e distorsivi ed i cui frequenti abusi a fini meramente dilatori sono sempre stati unanimamente criticati dalla dottrina, ed anzi ferocemente e giustamente stigmatizzati da quella piu' sensibile ed autorevole che ha finito per influenzare favorevolmente una complessiva rimeditazione e revisione critica da parte delle sezioni unite della Cassazione, le quali hanno recentemente, e finalmente, ristretto i confini di quest'ibrido strumento non impugnatorio di verifica della giurisdizione, sicuramente ai limiti estremi della legittimita' costituzionale - non e' proponibile dopo che il giudice del merito abbia emesso una pronunzia (sentenza od ordinanza), anche soltanto limitata alla giurisdizione o ad altra questione processuale, dato che la formula della prima parte del primo comma dell'art. 41 c.p.c. ("Finche' la causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte puo' chiedere alle sezione unite della Corte di cassazione che risolvano le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37"), anziche' essere interpretata, come si e' fatto sino al 1996, nel senso che solo una pronunzia che avesse attinto il merito della causa precludeva il regolamento, deve essere letta nel senso che qualsiasi decisione (di rito o di merito), emanata dal giudice presso il quale il processo e' radicato, ha efficacia preclusiva del regolamento (Cass. ss.uu. 22 marzo 1996, n. 2466, punto VIII della motivazione in Foro It., 1996, I, n. 5, 1635, e 1638 ss., con ampie note di commento; idem, 7 maggio 1996, n. 4218, 3 febbraio 1998, n. 1100, e 30 dicembre 1998, n. 12902). Tale principio, poi, deve ovviamente essere integrato con quello ulteriore e connesso, gia' affermato molti anni prima dalle stesse sezioni unite, in base al quale la medesima disposizione contenuta nell'art. 41, primo comma, c.p.c., va intesa nel senso che il regolamento resta precluso non dal momento del deposito della pronunzia (sentenza od ordinanza), ma da quello precedente in cui la causa viene discussa e trattenuta per la decisione (di merito o cautelare), atteso che da tale momento inizia l'iter dei poteri decisori del giudice, ed il regolamento medesimo non puo piu' assolvere alla sua funzione di favorire una sollecita definizione del processo, investendo per saltum la suprema Corte della questione di giurisdizione (cosi', fra altre, Cass. ss.uu., 18 novembre 1982, nn. 6192, 6193 e 6194, che hanno integralmente confermato l'orientamento espresso dal Tribunale amministrativo regionale Sicilia - Catania con la sentenza n. 785 del 28 giugno 1980, nello stesso senso, ancor prima, Cass. ss.uu., 3 giugno 1978, n. 2773, 7 novembre 1979, n. 5734, 13 giugno 1980, n. 3788, e, piu' recentemente, 26 gennaio 1988, n. 633). Con la predetta sentenza n. 785/1980 (punto 2 della motivazione), infatti, questo tribunale era gia' pervenuto alla suesposta conclusione attraverso un itinerario logico-argomentativo che, enucleando e valorizzando soprattutto il concetto di "passaggio in decisione" della causa quale atto deliberativo distinto sia dalla pronuncia che dal deposito (e quindi dalla pubblicazione) della stessa pronunzia, si articola essenzialmente nei seguenti enunciati motivatori: "Invero, e' principio generale che con la chiusura della discussione dinanzi al collegio le parti perdono il potere di svolgere, nel primo grado di giudizio, qualsiasi attivita' processuale; mentre in quella stessa giornata il Collegio decide, di norma, la controversia (artt. 19, legge 6 dicembre 1971, n. 1034, e 61 r.d. 17 agosto 1907, n. 642). Prima d'allora le parti hanno ampio termine per sollevare il regolamento preventivo di giurisdizione. E dopo la emanazione della sentenza di primo grado possono fare apprezzare le loro tesi dal giudice d'appello anche in via cautelare, al fine d'ottenere la sospensione della sentenza impugnata (art. 33, legge n. 1034/1971), come possono ulteriormente chiedere la sospensione cautelare della sentenza d'appello (art. 373, c.p.c.) in pendenza del ricorso alle sezioni unite della Cassazione per questioni attinenti alla giurisdizione (art. 111, terzo comma, Costituzione; art. 36, legge n. 1034/1971). Non va invece ritenuto che il legislatore abbia inteso offrire ad una parte il potere di svolgere attivita' efficace (ed apprezzabile dal giudice) sul giudizio in corso senza che le altre parti abbiano modo di conoscere la attivita' suddetta e di far valere in proposito, nello stesso grado del giudizio in questione, le loro difese. Cio' sarebbe, invero, in contrasto con l'art. 24, c.p.v., della Costituzione, che richiede la possibilita' di contraddittorio in ogni stato e grado del procedimento, mentre tale contraddittorio non esiste piu' dopo che il ricorso e' trattenuto per la decisione. E' infatti evidente che sui requisiti d'esistenza e validita' del ricorso per regolamento di giurisdizione, come sulla portata delle norme che lo prevedono, le controparti hanno interesse a svolgere difese di fatto e di diritto. Ed e' appena il caso di ricordare ancora, al riguardo, che la legislazione ordinaria va interpretata in modo che essa risulti conforme, e non contraria, alla Costituzione. Le suesposte ragioni inducono, quindi a ritenere che l'inciso "finche' la causa non sia decisa nel merito in primo grado , con cui inizia l'art. 41, c.p.c., vada correttamente interpretato ... nel senso che a segnare il limite temporale oltre il quale resta preclusa la facolta' di proposizione dell'incidente preventivo di giurisdizione debba porsi il momento del passaggio in decisione della causa (e non la decisione stessa, ne' tanto meno la pubblicazione della sentenza), perche' e' tale momento che - logicamente ancor prima che giuridicamente - conclude ogni possibile attivita' processuale delle parti nel grado di giudizio in svolgimento; e che, quindi, "pendenza di tale grado di giudizio non si abbia piu', ai fini della rituale esperibilita' del regolamento preventivo e della conseguente sospensione del processo di merito ex art. 367, primo comma, c.p.c., dopo il passaggio del ricorso in decisione. Nella specie, pertanto, i proposti regolamenti preventivi di giurisdizione devono ritenersi irricevibili perche' tardivi rispetto al limite temporale segnato dall'art. 41, c.p.c., e conseguentemente inidonei a produrre la sospensione del processo amministrativo ex art. 367, primo comma, c.p.c. - lungi, quindi, dal poter emanare l'ordinanza non impugnabile di cui a tale disposizione, il Collegio e' tenuto, al contrario, a procedere oltre nell'attivita' di decisione della controversia". Alla stregua dei suesposti principi, quindi, e come espressamente previsto dal testo novellato dall'art. 367, primo comma, c.p.c., anche nella fattispecie in esame il regolamento preventivo di giurisdizione deve essere dichiarato inammissibile (recte: irricevibile) per tardivita' essendo stato notificato e depositato, come gia' si e' detto, successivamente alla data di discussione e di contestuale passaggio in decisione della controversia cautelare. 3.2.1. - In relazione, poi, all'eccepito difetto assoluto di giurisdizione, il regolamento di giurisdizione proposto deve ritenersi assolutamente inammissibile alla stregua del nuovo orientamento delle sezioni unite della Cassazione che adeguandosi alle critiche espresse unitariamente dalla piu' autorevole dottrina hanno riconosciuto che in realta' l'asserita improponibilita' assoluta della domanda giudiziale nei confronti della p.a., cosi' come quella fra soggetti privati, costituisce una questione di merito e non di giurisdizione, come tale non deducibile col regolamento preventivo di giurisdizione previsto dall'art. 41, c.p.c. Ritiene il Collegio che, ai fini di una adeguata o migliore comprensione della problematica in esame e del senso della portata di tale svolta interpretativa delle Sezioni unite, sia necessario, oltre che puntualizzare il quadro normativo di riferimento, formulare soprattutto le premesse teoriche essenziali nelle quali si colloca e dalle quali discende la predetta conclusione della inconfigurabilita' del difetto assoluto di giurisdizione come questione di giurisdizione deducibile in Cassazione ai sensi e per gli effetti del combinato disposto degli artt. 37 e 41, c.p.c. Occorre innanzitutto ricordare, a livello di normazione positiva, che il codice di rito prende in considerazione, ma soltanto con formulazione generica ed imprecisa, la problematica del difetto assoluto di giurisdizione all'art. 382 ("Decisione delle questioni di giurisdizione e di competenza"), il cui terzo ed ultimo comma prevede esclusivamente (primo inciso) che la Corte di cassazione "se riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento ed ogni altro giudice difettano di giurisdizione cassa senza rinvio", e che (secondo inciso) "egualmente provvede in ogni altro caso in cui ritiene che la causa non poteva essere proposta o il processo proseguito". Ma, come si precisera' appresso, il concetto di difetto assoluto di giurisdizione contemplato nel predetto terzo comma dell'art. 382, c.p.c., non puo' riferirsi anche all'ipotesi che tale difetto dipenda dalla mancanza di posizione soggettiva azionabile, ma soltanto ad altre ipotesi residuali (giurisdizione del giudice straniero o del giudice ecclesiastico, eccesso di potere giurisdizionale per sconfinamento nell'ambito del potere legislativo etc.). Diverso e', invece, l'ambito previsionale dell'art. 37, c.p.c., che, nel prevedere che "il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali e' rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e grado del processo", contempla in realta' soltanto il difetto relativo di giurisdizione, come e' reso evidente non tanto e non solo dal dato testuale, che non contiene riferimento alcuno all'assolutezza di tale difetto (la norma prevede, infatti, "il difetto di giurisdizione" e non il difetto assoluto di giurisdizione), quanto e soprattutto dalla circostanza che viene presa in considerazione l'assenza del potere giurisdizionale non di ogni giudice ma soltanto "del giudice ordinario nei confronti della pubblica amministrazione o dei giudici speciali", con cio' presupponendosi ovviamente, nella logica della proposizione normativa, la sussistenza, sia pure ipotetica ed eventuale, della giurisdizione di un giudice speciale. Ed eguale ambito previsionale deve necessariamente attribuirsi agli artt. 360, primo comma, n. 1, e 362, primo comma, c.p.c., nonche' all'art. 111, terzo comma, Cost., che, nel prevedere il ricorso in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, non possono che riferirsi al difetto relativo di giurisdizione, e cioe' alle questioni attinenti al riparto di giurisdizione fra i vari ordini di giudici, e non certamente al difetto assoluto di giurisdizione per mancanza di posizione giuridica azionabile. La figura od il concetto di difetto assoluto di giurisdizione per carenza di posizione giuridica azionabile non integra, in realta', una questione di giurisdizione, ed e' quindi ontologicamente insuscettibile di essere dedotta dinanzi alla Corte di cassazione in sede di verifica della giurisdizione attraverso i cennati strumenti dei ricorsi per motivi attinenti alla giurisdizione previsti dagli artt. 360, primo comma, n. 1, c.p.c., 111, terzo comma, Cost., e 362, primo comma, c.p.c., nonche' attraverso il rimedio non impugnatorio del regolamento preventivo ex artt. 37 e 41, primo comma, c.p.c. Ed invero, deve ora rilevarsi, sul piano dei principi processuali, che l'accertamento della sussistenza o meno del difetto assoluto di giurisdizione per carenza di posizione giuridica azionabile soltanto in senso lato e generico puo' ritenersi che costituisca questione riconducibile nel novero di quelle che le norme processuali definiscono (o, quanto meno, indicano) come questioni di giurisdizione. E cio' perche', se da un lato e' vero che in tali ipotesi si controverte sulla esistenza stessa nell'ordinamento giuridico nazionale di un giudice al quale venga devoluta la cognizione di una determinata categoria di controversie (o di una determinata controversia), e quindi sulla tutelabilita' o "giustiziabilita'" della posizione giuridica soggettiva (diritto soggettivo o interesse legittimo) azionata o dedotta in giudizio, d'altro canto e' altrettanto vero che in realta', come si precisera' appresso, dal punto di vista del contenuto della pronunzia giurisdizionale (di primo grado e di appello) che accerta la mancanza della potesta' decisoria di ogni giudice (ordinario, amministrativo, contabile), degli effetti di tale pronunzia, nonche' dei rimedi impugnatori esperibili avverso la stessa, il c.d. difetto assoluto di giurisdizione non e' correttamente sussumibile nell'ambito concettuale e contenutistico tipico della categoria delle questioni di giurisdizione, in quanto il concetto negativo di cui trattasi finisce inevitabilmente per tradursi in una questione di merito. Proseguendo, ora, nell'esame dei piu' salienti profili ricostruttivi e sistematici della figura del difetto assoluto di giurisdizione per carenza di posizione giuridica azionabile, appare utile rilevare ulteriormente in proposito che, come acutamente affermato dalla piu' autorevole dottrina, il dilatare in via di estensione analogica l'area di operativita' del regolamento di giurisdizione oltre i limiti espressamente e tassativamente posti dall'art. 37, c.p.c., e quindi l'includere fra dette "questioni di giurisdizione" anche quella specificamente afferente al difetto assoluto di giurisdizione, equivarrebbe a vulnerare in parte qua il diritto di azione consacrato nell'art. 24, Cost., consentendo in buona sostanza che, attraverso la immediata deducibilita' in Cassazione, nelle forme appunto del regolamento ex art. 41, c.p.c., del difetto assoluto di giurisdizione, l'accertamento della giustiziabilita' ipotetica della pretesa sia in limine litis demanando alla Suprema Corte, e quindi sottratto alla garanzia del doppio esame del giudice del merito. Tale tesi, in particolare, viene fondata sull'ulteriore rilievo secondo cui una corretta lettura degli artt. 41 e 37, c.p.c. - coerente al dettato dell'art. 24, Cost. - imponga di ritenere che il sindicato sulla giurisdizione, affidato alle Sezioni unite della Suprema Corte (e promosso nelle forme del regolamento di giurisdizione), si inscriva nei limiti espressamente posti dall'art. 37, c.p.c.; e che, quindi (in esito al regolamento di giurisdizione) sia dato alla Suprema Corte soltanto di correggere (se del caso) la rotta giurisdizionale appena intrapresa, e non anche, come e' stato icasticamente rilevato, di ...affondare illico et immediate la nave. E coerentemente viene affermato dalla stessa dottrina che la cennata lettura del referente normativo emergente dal combinato disposto degli artt. 41 e 37, c.p.c., e' l'unica che concordi perfettamente con la previsione testuale di quest'ultima norma (che non a caso non include nel novero delle questioni di giurisdizione il c.d. difetto assoluto di giurisdizione determinato dalla carenza di posizione giuridica azionabile), e con l'ulteriore previsione dell'art. 382, ultimo comma, c.p.c., che prevede, esso si', il "difetto assoluto" (per cause diverse della mancanza di tale posizione), ma - si badi bene, quale specifica ipotesi di cassazione senza rinvio, a supporto, quindi, di una pronunzia ablativa che non precede ne' preclude l'esame del merito, ma che e', anzi, successiva all'integrale espletamento del giudizio di merito. Ed invero, l'assenza di posizione soggettiva azionabile, piu' che costituire un ipotesi di superamento del limite esterno della giurisdizione con consenuente difetto assoluto di giurisdizione, attiene alla prima e fondamentale condizione di ogni azione giurisdizionale costituita, come noto, dalla c.d. "possibilita' giuridica". "Possibilita'" determinata dal riconoscimento e dalla protezione che l'ordinamento prevede per determinate situazioni soggettive, e quindi dall'esistenza del diritto soggettivo o dell'interesse legittimo fatto valere in giudizio, di guisa che il suo difetto, trattandosi di questione di merito, comporta una pronunzia di infondatezza nel merito della domanda, o comunque, alla stregua della meno precisa e piu' opinabile formula definitoria del giudizio di merito spesso utilizzato dalla giurisprudenza amministrativa di inammissibilita' della domanda (sulla maggiore esattezza concettuale della pronuncia di rigetto nel merito, nelle ipotesi di assenza della condizione della "possibilita' giuridica", rispetto alla pronuncia di inammissibilita', per altro sostanzialmente equipollenti in quanto entrambe dichiarative, cfr. Tribunale amministrativo regionale Sicilia-Catania, 111, nn. 1633, 1634 e 1635 del 25 settembre 1996, punti 3.5 delle rispettive identiche motivazioni). Ed invero, l'accertamento da parte del giudice di merito della mancanza della predetta condizione della possibilita' giuridica - per la carenza di una previsione normativa che contempli in astratto e tuteli la posizione giuridica soggettiva azionata in giudizio - deve necessariamente tradursi in una pronunzia di infondatezza della domanda, dato che dichiarare l'inesistenza della posizione o situazione giuridica fatta valere in giudizio significa sempre, in realta', decidere il merito della causa, in quanto viene negata la giuridica protezione dell'interesse sostanziale di cui sia stata invocata la tutela. E correlativamente, allorche' venga sollevata "perversamente", con regolamento preventivo di giurisdizione, la questione di improponibilita' assoluta della domanda sub facie di questione di giurisdizione, il Supremo Collegio non potra' che limitarsi ad una pronunzia di inammissibilita' dei ricorso ex art. 41, primo comma, e 37, c.p.c., essendo privo del potere giurisdizionale di decidere preliminarmente ii merito della causa in unico grado. Deve, quindi, escludersi che l'imprononibilita' assoluta della domanda nei confronti della p.a. possa ricondursi nell'ambito previsionale delle due ipotesi di difetto relativo di giurisdizione contemplate dall'art. 37, c.p.c., ed immediatamente deducibili in Cassazione come "questioni di giurisdizione", e cio' sia col regolamento preventivo previsto dal successivo art. 41, che con il ricorso "per motivi attinenti alla giurisdizione" (art. 360, n. 1, c.p.c.), o con il ricorso avverso le decisioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti "per i soli motivi inerenti alla giurisdizione" (art. 111, terzo comma, cost., e 362, primo comma, c.p.c.). Vero e' che in una prima (e lunga) fase dell'enucleazione ed elaborazione dei principi in tema di deducibilita', attraverso gli strumenti di verifica della giurisdizione, del difetto assoluto di giurisdizione come questione di giurisdizione in senso proprio, le Sezioni unite della Cassazione hanno sostanzialmente seguito, anche per quanto attiene all'improponibilita' della domanda nei confronti della p.a., lo stesso orientamento inizialmente espresso con la sentenza n. 1330 del 29 maggio 1951 che, pur nel fermo dissenso della dottrina, qualificativa come difetto assoluto di giurisdizione, anziche' come questione di merito, l'improponibilita' della domanda fra privati per mancanza in astratto di situazione giuridica tutelabile. Ed e' altresi' vero che tale orientamento, viene ad essere ulteriormente, e, inspiegabilmente, ribadito per qualche anno ancora nonostante il revirement del 1987 con cui la stessa Suprema Corte (sentenza n. 5256 del 15 giugno 1987) aveva affermato che l'improponibilita' assoluta della domanda tra privati costituisce una questione preliminare di merito, come tale insuscettibile di essere sollevata con il regolamento preventivo di giurisdizione. Ma e' altrettanto incontrovertibile che sin dal 1993 - ed anzi almeno sin dal 1992, ed anche prima, per quanto concerne in particolare, il regolamento preventivo di giurisdizione - le Sezioni unite della Cassazione hanno recepito l'esigenza di coerenza anche su tale questione, recuperando le ragioni di fondo della svolta interpretativa del 1987, che imponevano ed impongono una impostazione e soluzione unitaria dei problemi posti dalla reale natura del difetto assoluto di giurisdizione per mancanza in astratto di situazione soggettiva tutelabile, e della conseguente inammissibilita' della proposizione di siffatta questione attraverso i gia' menzionati strumenti di verifica della giurisdizione in Cassazione (ricorso ex art. 360, n. 1, c.p.c.; ricorso ex artt. 111, terzo comma Cost., e 362, primo comma, c.p.c.; regolamento preventivo di giurisdizione ex artt. 37 e 41, primo comma, c.p.c.). Infatti con la sentenza n. 651 del 20 gennaio 1993 le Sezioni unite, in sede del ricorso ex artt. 111, terzo comma, della Costituzione e 362, primo comma, c.p.c., hanno affermato che la questione del difetto assoluto di giurisdizione (nella specie del Consiglio di Stato, che si sarebbe pronunziato nel merito pur essendo stato azionato un asserito interesse di fatto) attiene al merito della controversia e non alla giurisdizione dell'adito giudice. L'iter logico-argomentativo della pronunzia si snoda su due enunciati motivatori espliciti: 1) il richiamo all'orientamento tracciato dalla sopra indicata sentenza n. 5256/1987, e dalla successiva analoga sentenza n. 5449/1987, con cui si escludeva l'ammissibilita' del regolamento di giurisdizione (ritenuto, ovviamente, sostanzialmente assimilabile, per gli effetti in questione, ai cennati ricorsi in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, ai sensi dell'art. 360, n. 1, c.p.c., o degli artt. 111, terzo comma, Cost., e 362, primo comma, c.p.c.) allorche' si deduca l'improponibilita' assoluta della domanda nei confronti di privati per mancanza in astratto di situazione giuridica tutelabile; 2) e l'affermazione della preclusione di qualsiasi indagine sull'esistenza del diritto, posto che la sua effettuazione, sia in sede di regolamento di giurisdizione sia di ricorsi per motivi attinenti alla giurisdizione, si risolverebbe essenzialmente in una inammissibile pronunzia di merito di terzo grado. Peraltro, la cennata conclusione si fonda anche sulla sostanziale affermazione - implicita, ma costituente l'ultima delle imprescindibili premesse maggiori necessarie per sorreggere l'iter logico argomentativo o il polisillogismo giudiziario della pronunzia - della inapplicabilita' del ripetuto ultimo comma, prima parte, dell'art. 382, c.p.c., che accenna al difetto assoluto di giurisdizione, in quanto tale disposizione non viene ritenuta comprensiva dell'ipotesi di improponibilita' assoluta della domanda per difetto di posizione giuridica azionabile, ma soltanto delle altre gia' cennate ipotesi residuali (giurisdizione del giudice straniero o del giudice ecclesiastico; eccesso di potere giurisdizionale per invasione dell'ambito del potere legislativo; ecc.), tenuto anche conto che il nostro ordinamento processuale configura la Cassazione come giudice di legittimita' e non come giudice di terza istanza, come tale abilitato all'esame (o meglio al riesame per la terza volta), di una tipica questione di merito qual'e' quella della sussistenza della posizione giuridica azionabile. E con la piu' recente sentenza n. 9550 del 29 settembre 1997 le Sezioni unite hanno ulteriormente ribadito (punto 3.2 della motivazione, in fine) che "la deduzione della improponibilita' assoluta della domanda per insussistenza, nell'ordinamento, di una norma astratta idonea al riconoscimento ed alla tutelabilita' della posizione soggettiva fatta valere in giudizio, introduce una questione che attiene al merito e non alla competenza giurisdizionale del giudice adito (v., tra le ultime, Cass. 20 gennaio 1993, n. 651)", dichiarando correttamente inammissibili - anche sulla base della premessa sillogistica implicita cui si e' sopra accennato - i ricorsi proposti avverso una sentenza del Consiglio di Stato. Tale orientamento risulta costantemente riconfermato dalle successive pronunzie delle Sezioni unite attraverso il medesimo itinerario logico - argomentativo (cfr., fra altre la sentenza 10 agosto 1999, n. 583). Ovviamente, ed a maggior ragione, anche per quanto attiene al regolamento preventivo di giurisdizione le conclusioni alle quali sono pervenute le Sezioni unite della Cassazione non potevano che essere, coerentemente, identiche a quelle come sopra affermate in tema di ricorsi per motivi attinenti alla giurisdizione. Se, infatti, la delineata soluzione del problema in esame deve ritenersi valida allorche' siffatta questione di difetto assoluto di giurisdizione venga sollevata in sede di ricorsi per motivi attinenti alla giurisdizione, e quindi in sede di pronunzie ablative ex art. 382, ultimo comma, c.p.c., che ovviamente non precedono ne' precludono l'esame del merito, ma che sono indefettibilmente successive all'integrale svolgimento del giudizio di merito, a maggior ragione la stessa soluzione deve ritenersi valida allorche' la medesima questione venga sollevata immediatamente in sede di regolamento preventivo di giurisdizione, demandando, quindi, direttamente alla Corte di Cassazione l'accertamento della giustiziabilita' ipotetica della domanda, che verrebbe cosi' irrimediabilmente sottratta alla garanzia del doppio esame del giudice di merito. Ma, in relata', l'intrinseca fondatezza di tale soluzione prescinde ovviamente al supporto della cennata interpretazione dell'ultimo comma, prima parte, dell'art. 382, c.p.c., dato che il regolamento preventivo di giurisdizione, com'e' noto, non e' un rimedio di carattere impugnatorio, e non e' quindi configurabile per tale anomalo strumento di verifica della giurisdizione la cassazione della sentenza senza rinvio prevista dalla riptetuta disposizione. Gli enunciati fondamentali nei quali si snoda la motivazione delle piu' rilevanti e significative pronunzie espressive di tale orientamento sono, quindi, sostanzialmente identici a quelli posti a base del gia' esaminato orientamento giurisprudenziale formatosi in sede di ricorsi per motivi attinenti alla giurisdizione (cfr., fra altre, le sentenze n. 7022 del 23 dicembre 1988, n. 66 del 7 gennaio 1993, e n. 221 del 1o aprile 1999, che dichiarano inammissibili i regolamenti preventivi di giurisdizione in materia di difetto assoluto di giurisdizione). Occorre, peraltro, conclusivamente soggiungere che, nel cennato panorama giurisprudenziale, la piu' articolata e puntuale motivazione in materia sembra individuabile, a quanto risulta, nella sentenza n. 367 del 14 gennaio 1992, che dichiara inammissibili due regolamenti preventivi di giurisdizione (attinenti alla medesima domanda giudiziale di risarcimento dei danni derivanti dalla lesione di interessi legittimi), rispettivamente proposti da privati nei confronti di altri privati e da pubbliche amministrazioni. Dopo aver premesso, infatti, per quanto concerne il reglamento tra privati, che dal sistema processuale ricavabile dal combinato disposto degli artt. 41 e 37 c.p.c. risulta che il regolamento preventivo di giurisdizione puo' essere proposto soltanto nelle ipotesi in cui si affermi il difetto di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica amninistrazione o dei giudici speciali (e quindi con riferimento esclusivo ad ipotesi di difetto relativo di giurisdizione, e non gia di difetto assoluto), le Sezioni unite ribadiscono, innanzitutto, che "appare piu' aderente al sistema codificato ritenere che la fattispecie della configurabilita' o della inconfigurabilita' in astratto del diritto fatto valere in giudizio costituisca questione di merito e non di giurisdizione e vada, percio', giudicata dal Giudice adido, al pari della esistenza concreta del diritto stesso (v., per tutte, Cass. 5449/1987)". Ed affermano, poi, per quanto concerne il regolamento proposto dalla p.a., che "la questione della non risarcibilita' del danno per lesione di interessi legittimi - presupponendo la fattispecie dell'illecito civile di cui all'art. 2043 c.c. in ogni caso la violazione di un diritto soggettivo - comporta non l'improponibilita' per difetto assoluto di giurisdizione, ma la reiezione, nel merito, per difetto del diritto, della domanda risarcitoria proposta dal privato nei confronti della p.a. in relazione alla lesione di una sua posizione soggettiva avente consistenza di interesse legittimo". 3.3. - Ma quand'anche, in rifiutata ipotesi, si potesse e volesse prescindere dai rilevati profili di inammissibilita' (recte: irricevibilita') per tardivita' di tutto il regolamento di giurisdizione in esame nonche' di inammissibilita', sott'altro aspetto, dello stesso regolamento nella parte in cui tende alla declaratoria del difetto assoluto di giurisdizione per carenza di posizione giuridica azionabile, il collegio ritiene, cosi' come espressamente consentito dal testo novellato dall'art. 367 primo comma, c.p.c., che entrambe le contestazioni della giurisdizione formulate col predetto regolamento (difetto assoluto di giurisdizione, o in subordine, difetto di giurisdizione del giudice amministrativo) siano manifestamente infondate, e cio' per le ragioni che saranno appresso esposte in sede di esame (nel merito) delle identiche questioni sollevate in via di eccezione negli scritti difensivi del resistente comune di Venezia e dell'interveniente ad oppendum comune di Campione d'Italia. 3.4. - Per tutte le considerazioni e ragioni che precedono, quindi, l'istanza di sospensione del giudizio ex art. 367 c.p.c. va rigettata in quanto il proposto regolamento di giurisdizione deve ritenersi non soltanto manifestamente inammissibile (recte: irricevibile) per tardivita' ed inammissibile per quanto concerne la richiesta di declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione, ma anche manifestamente infondato nel merito della contestazione della giurisdizione come appresso specificato. 3.5. - Quanto, poi, alle istanze di trasmissione degli atti alla cancelleria della corte di Cassazione (ai sensi dell'art. 369, ultimo comma, c.p.c.) la prima delle quali depositata in data 16 dicembre 1999, e quindi addirittura in data anteriore a quella del deposito dell'istanza di sospensione del giudizio ex art. 367 c.p.c. effettuato, come si e' gia' detto sub 3, in data 20 dicembre 1999 - anche a prescindere dal ritenerle, per le stesse ragioni sopra esposte, egualmente inammissibili ed infondate in via derivata, devono essere rigettate per l'impossibilita' logico-giuridica e materiale di tale trasmissione sopravvenuta a seguito dell'incidente di costituzionalita' sollevato con la presente ordinanza (gia' decisa, come si e' detto, nelle camere di consiglio del 14 e 16 dicembre 1999) e del conseguente obbligo di trasmissione immediata degli atti alla Corte costituzionale, ai sensi e per gli effetti dell'art. 23, secondo comma, legge n. 87/1953. Non puo' seriamente contestarsi, invero, che l'invocato art. 369, ultimo comma, c.p.c. debba essere interpretato sistematicamente coordinandolo col quadro normativo emergente dal testo novellato dell'art. 367, 1o comma, c.p.c. Se prima della modifica di tale disposizione (effettuata, com'e' noto, con l'art. 61 della riforma introdotta con la legge n. 353 del 26 novembre 1990), infatti, poteva comprendersi il carattere pressoche' automatico dell'obbligo di trasmissione del fascicolo d'ufficio alla cancelleria della Corte di cassazione, in quanto assolutamente coerente e conseguenziale all'automaticita' della sospensione del giudizio (per altro con "ordinanza non impugnabile") ai sensi e per gli effetti del testo originario del suddetto art. 367, 1o comma, c.p.c. sia pure con le limitate eccezioni attinenti alla verifica dei presupposti della stessa sospensione, quali l'effettiva proposizione e notificazione del regolamento di giurisdizione (cfr. fra le tante, Cass. 26 novembre 1990, n. 11366), nonche' alla verifica dei requisiti di ammissibilita' e procedibilita' dell'istanza di regolamento (cfr., fra le tante, Cass. 12 gennaio 1984, n. 222, 24 luglio 1986, n. 4750, 16 dicembre 1987, n. 7545, e le altre sentenze gia' menzionate sub 3.2. in tema di tardivita', del regolamento proposto dopo la chiusura della discussione dinanzi al giudice presso il quale e' radicato il processo); al contrario, dopo la piu' volte ricordata modifica del 1990, la trasmissione automatica del fascicolo d'ufficio si rivela priva di senso e di scopo processuale, ed anzi logicamente inconfigurabile e praticamente o materialmente impossibile, allorche' il giudice presso il quale pende il processo abbia ritenuto con ordinanza non impugnabile, come nella specie, di non sospendere il giudizio. Il collegio ritiene che sarebbe stata assolutamente ragionevole, ed anzi ovvia conseguenza, la modificazione anche del ripetuto ultimo comma dell'art. 369 c.p.c., ad opera della riforma processuale del 1990, per coordinare tale disposizione col nuovo testo dell'art. 367, 1o comma, al fine di eliminare in radice la discrasia in questione, e cio' attraverso l'esplicita previsione - in sintonia con il potere di non sospendere il giudizio attribuito al giudice del merito dal testo novellato del primo comma dell'art. 367 c.p.c. -, della sussistenza dell'obbligo di trasmissione del fascicolo d'ufficio soltanto nelle ipotesi in cui il predetto giudice abbia ritenuto di sospendere il giudizio. Ma, certamente, la circostanza che il legislatore del 1990 abbia omesso di prospettarsi siffatto problema di necessario coordinamento normativo, e di risolverlo con una coerente ed assolutamente conseguenziale modifica della disposizione in esame nel senso sopra indicato, ed il permanere, quindi, della cennata discrasia (o, al limite, lacuna normativa) nella disciplina dell'istituto del regolamento preventivo di giurisdizione, non esime certo il giudice dinanzi al quale pende la causa dall'interpretare ed applicare ragionevolmente e sistematicamente il dato testuale in questione, alla luce del nuovo quadro normativo vigente in materia. E' appena il caso, in proposito, di ricordare preliminarmente, ed in estrema sintesi, le specifiche e piu' rilevanti coordinate ermeneutiche che l'interprete deve tenere presenti nell'ambito del procedimento interpretativo finalizzato alla risoluzione dei delicati problemi posti dal coordinamento normativo. Procedendo, quindi, a siffatta attivita' di riassuntiva ricognizione ed enucleazione, gli strumenti ermeneutici ed i connessi canoni o principi direttamente sottesi ed implicati in tale problematica possono individuarsi come segue: A) il criterio sistematico, o logico-sistematico, dell'attivita' interpretativa. Trattasi, com'e' noto, di una regola dottrinale consistente nella rilevazione delle correlazioni, rispondenze e concatenazioni che necessariamente intercorrono fra i vari testi normativi e fra le disposizioni di un medesimo testo, e che, rinvenute dall'interprete, permettono di eliminare divari, disarmonie, antinomie nel corpo organico dell'ordinamento, riducendo il diritto - come deve essere - a coerenza logica e sistematica, in modo tale che ogni singola norma puo' e deve essere spiegata nella sua interezza anche a mezzo delle altre, per l'immanenza del principio di non contraddizione e quindi di coesione fra singole norme o gruppi di norme (Incivile est, nisi tota lege perspecta, interpretari). Di guisa che fra i diversi significati possibili, messi in evidenza dall'applicazione del criterio letterale, va preferito necessariamente quello che meglio corrisponde alla concatenazione di significati risultante dalla considerazione delle diverse parti di una norma o delle diverse norme di una legge, intesa quale complesso precettivo dotato di un senso organico ed intelligibile (cfr., ex plurimis, Cass., n. 3359/1975 e n. 1455/1973; idem sez. lav., 29 gennaio 1991, n. 826, e 24 aprile 1985, n. 2704); B) nell'ambito, poi, dell'interpretazione sistematica, va ricondotto anche il cosiddetto argomento ab absurdo, e cioe' quel canone dottrinale consistente nel rilevare le conseguenze assurde e contraddittorie che discenderebbero da una determinata interpretazione (di solito di carattere meramente letterale), e, nel prospettare conseguentemente, la necessita' logica e giuridica dell'abbandono della tesi interpretativa considerata; C) egualmente in tale categoria o figura generale del procedimento interpretativo puo' essere ricondotta la regola dottrinale che impone l'eliminazione delle cosiddette antinomie e cioe' del contrasto di norme (di una stessa legge, o inserite in testi normativi diversi) ravvisabile nella coesistenza di due o piu' norme vigenti fra loro incompatibili (cosiddette lacune di conflitto), delle quali, quindi, l'interprete ha il dovere di rinvenire il coordinamento (o, secondo le varie terminologie utilizzate dalla scienza giuridica, la coordinazione, o la conciliazione), ossia gli argomenti idonei all'eliminazione della contraddizione e, in ultima analisi, a realizzare nel mondo degli effetti giuridici la possibilita' della coesistenza di tali norme; D) e' altresi' risaputo, poi, che, allorche' la cennata operazione ermeneutica di coordinazione o conciliazione non sia assolutamente possibile, perche' e' appunto impossibile la loro, contemporanea applicazione, si deve necessariamente utilizzare la risorsa giuritica della cosiddetta interpretazione abrogante (interpretatio abrogans), consistente nel pervenire alla ulteriore conclusione - anch'essa attinente all'elemento sistematico - che una o piu' delle diverse norme contrastanti debba ritenersi implicitamente (ed integralmente) abrosata, o resa inefficace, in forza dell' istituto dell'abrogazione tacita o implicita prevista dall'art. 15 disposizione prelimiare del codice civile "per incoinnatibilita' tra le nuove disposizioni e le precedenti" (cfr., fra le tante: Cass., III, 18 agosto 1966, n. 2246; idem, 17 giugno 1968, n. 1977; Cass., I, 12 novembre 1973, n. 2979; idem, 12 gennaio 1979, n. 234: Corte dei conti, sez. controllo Stato, 12 ottobre 1994. n. 105, punto 4 della motivazione); o, comunque, alla conclusione che la norma sopravvenuta abbia implicitamente introdotto una deroga (o derogazione), vale a dire un'eccezione, alla norma preesistente che si traduce, in ultima analisi, in un'abrogazione implicita ma parziale, sempre nei limiti dell'incompatibi1ita'; E) alla stregua, inoltre, dei noti principi enuncleati ed elaborati in dottrina e giurisprudenza in tema di regole legali e dottrinali del procedimento ermeneutico, nell'interpretazione giuridica ci si deve costantemente uniformare al canone fondamentale secondo cui, se una norma si presti in astratto a due o piu' possibili letture o risultati interpretativi, il significato precettivo e la specificazione di valore che l'interprete deve preferire e prescegliere sono quelli conformi, rispondenti o comunque piu' aderenti alle norme ed ai principi costituzionali (cosiddetto interpretazione adeguatrice), perche questo, investendo e permeando l'intero ordinamento, funzionano come criteri ermeneutici di tutte le norme di rango inferiore (cfr., ex plurimis: Corte costituzionale, 14 luglio 1988, n. 823; Cass., 3 febbraio 1986, n. 661, 3 gennaio 1984, n. 7, 27 gennaio 1978, n. 393, 12 giugno 1975, n. 2342, 10 marzo 1971, n. 674; C. S., V. 18 gennaio 1988, n. 8, IV, 23 giugno 1972, n. 575. C.S., A. p., 14 aprile 1972, n. 5; Tribunale amministrativo regionale Sicilia-Catania, 22 dicembre 1986. n. 1292, e ord. pres. III sez. n. 22 dei 30 scuembre 1998, Tribunale amministrativo regionale Basilicata, 19 novembre 1983, n. 138). Ora, riprendendo e concludendo, alla luce dei suesposti princi la breve indagine relativa al suesposto problema del coordinamento fra' i ripetuti artt. 367, primo comma, e 369, ultimo comma, c.p.c., ritiene il tribunale che l'applicazione delle coordinate ermeneutiche come sopra tracciate - tenendo conto innanzitutto della possibilita', nella specie, dell'interpretazione adeguatrice in base ai principi di racionevolezza ed al connesso canone generale di coerenza e dell'ordinamento giuridico sottesi al principio di uguaglianza formale codificato dall'art. 3/1 cost. (e su cui infra, sub 12), che impongono l'eliminazione dell'incoerenza o contradditorieta' di involontari scoordinamenti legislativi (cfr., fra le tante, Corte cost. n. 241/1989, n. 13/1986, n. 1/1985, n. 1/1984. n. 27411983), e del c.d. anacronismo legislativo (cfr., fra le tante, Corte cost. n. 179/1988, n. 89/1987, e n. 1/1984, cit.) - conduca necessariamente l'interprete ad affermare: 1) che il testo novellato del primo comma dell'art. 367 c.p.c. ha in realta' prodotto una deroga, e quindi sostanzialmente un'abrogazione implicita mai parziale, per incompatibilita', al successivo e connesso art. 369, ultimo comma, e precisamente nella in cui impone indiscriminatamente ed autonomamente l'obblico di trasmissione del fascicolo d'ufficio alla Corte di cassazione, anche nelle ipotesi in cui il giudice del merito non abbia ritenuto di sospendere il giudizio a seguito della proposizione del regolamento di giurisdizione; 2) che, conseguenternente, la lettura o l'interpretazione sistematica corretta del predetto ultimo comma dell'art. 369 c.p.c., in combinato disposto col precedente primo comma dell'art. 367, non puo' essere altra che quella secondo cui il predetto obbligo di trasmissione del fascicolo d'ufficio sussiste soltanto nelle ipotesi in cui il giudice del merito abbia ritenuto di sospendere il giudizio dopo la proposizione del regolamento di giurisdizione. A tale risultato interpretativo dei due frammenti precettivi in esame non sembra, invero, che si possa ragionevolmente sfuggire soprattutto ove si consideri che il rigetto della istanza di sospensione ex art. 367, primo comma, c.p.c. comporta, ovviamente, la prosecuzione del giudizio ad ogni effetto processuale e sostanziale, con l'ulteriore ed altrettanto ovvia conseguenza della imprescindibile necessita' della permanenza del fascicolo d'ufficio presso la cancelleria o segreteria del giudice del merito ai fini dello svolgimento di ogni attivita' istruttoria, e/o cautelare (come nella specie: nella quale l'adozione di ogni eventuale misura cautelare e' stata sospesa in attesa della risoluzione dell'incidente di costituzionalita'), e/o di decisione nel merito (salva restando ovviamente, nell'attuale ibrido sistema del quale il giudice delle leggi non ha ritenuto di dover dichiarare l'incostituzionabilita', un'eventuale pronunzia delle sezioni unite della Cassazione che accolga, in parte, per quanto concerne il difetto relativo di giurisdizione, o addirittura integralemente, in relazione all'assorbente profilo del difetto assoluto di giurisdizione, il proposto regolamento di giurisdizione, che il collegio ritiene, come si e' ripetutamente affermato, assolutamente inammissibile, sotto un duplice profilo, oltre che infondato). Non si riuscirebbe altrimenti a comprendere perche' mai al giudice del merito la legge attribuisca il potere di non sospendere motivatamente il giudizio (a ragione della manifesta inammissibilita' e/o infondatezza del regolamento di giurisdizione), se poi questo non possa in alcun modo proseguire a causa di astruso obbligo di spogliarsi sempre e comunque del fascicolo d'ufficio trasmettendolo automaticamente alle Sezioni unite della Cassazione. Del resto, com'e' noto, per costante e pacifica giurisprudenza della Corte regolatrice l'improcedibilita' del ricorso per regolamento preventivo di giurisdizione resta esclusa quando la mancanza del fascicolo d'ufficio non e' di ostacolo (come deve ritenersi indubbiamente nella specie) al riscontro dell'esperibilita' del regolamento medesimo ed alla individuazione dell'oggetto della controversia, al fine della statuizione sulla giurisdizione (cfr., fra le tante, Cass. SS.uu., 22 settembre 1984, n. 4815; idem, 15 luglio 1999, n. 392, emanata in fattispecie nella quale addirittura questa terza sezione non aveva ancora adottata e depositata alcuna decisione, come pure risulta dalla successiva sentenza - di rinvio della causa a nuovo ruolo - di questa stessa sezione n. 1973 del 6 ottobre 1999). Ed a maggior ragione tali considerazioni si rilevano incontrovertibili nelle ipotesi in cui, come nella fattispecie, il giudice del merito abbia deciso di sollevare questioni di costituzionabilita', dato che in tali casi e' la stessa normativa in materia (art. 23, secondo comma, legge n. 87/1953, gia' sopra richiamato) ad imporre "l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale", oltre che, ovviamente, la sospensione dei giudizi in corso, prescritta proprio e soltanto al fine - non dilatorio - di consentire al giudice delle leggi la previa e necessaria risoluzione degli incidenti di costituzionalita' sollevati in base al libero convincimento del giudice a quo nei casi in cui ritenga che il giudizio incidentale di costituzionalita' sia rilevante e necessario per consentire la decisione della controversia. Non senza soggiungere che oltre tutto, come affermato dalla stessa Corte costituzionale, "in virtu' della separazione fra il giudizio principale e quello di costituzionalita', che si svolge su un piano diverso e per l'oggetto e per le finalita', la soluzione dei problemi di giurisdizione non e' necessariamente pregiudiziale rispetto alla denunzia dei vizi di costituzionalita'" (cosi' la sentenza n. 46 del 10 marzo 1983, punto 2 della motivazione, che richiama le conformi pronunzie n. 45/1962, 58/1964, 72/1969, 124/1975 e 201/1975), tenuto anche conto, come si ricava sostanzialmente dalla stessa sentenza n. 46/1983, che dalla pronunzia della Corte costituzionale possono emergere anche indicazioni circa la effettiva natura della posizione giuridica azionata nella singola controversia. Sicche', per concludere sul punto, non puo' avanzarsi alcun serio dubbio circa la prevalenza del disposto del ripetuto art. 23, secondo comma, legge n. 87/1953 sull'art. 369, ultimo comma, c.p.c. in forza della deroga, o abrogazione parziale ed implicita per incompatibilita', operata dalla prima disposizione sulla seconda, e cio' alla stregua delle medesime considerazioni gia' svolte in questo paragrafo sub D). 4. - Per quel che concerne, inoltre, il regolamento di competenza ex art. 31 legge 6 dicembre 1971, n. 1034, proposto dall'interveniente comune di Campione d'Italia con atto notificato in data 10 dicembre 1999, a prescindere dal considerare che la predetta parte interveniente viene cosi' ad affermare implicitamente la giurisdizioine del giudice amministrativo, occorre appena rilevare che, per costante e pacifica giurisprudenza, l'adozione delle misure cautelari e delle eventuali misure di esecuzione in forma specifica delle prime (vale a dire tutta la fase cautelare, comprensiva anche della previa risoluzione delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate, come nella specie, nella predetta fase cautelare) non e' assolutamente, ed ovviamente, preclusa dalla proposizione del regolamento di competenza (cfr. per tutte, CS., A.p., 20 gennaio 1997, n. 2, punto 2 della motivazione, che conferma sul punto l'ord. di rimessione 7 giugno 1996, n. 755, della IV Sezione del Consiglio di Stato); il quale, pertanto va esaminato dal Presidente, com'e' altrettanto ovvio, soltanto dopo l'esaurimento della suddetta fase cautelare. Non senza soggiungere che, per altro, con ordinanza n. 22 del 30 settembre 1998 il Presidente di questa terza sezione ha sollevato questione di legittimita' costituzionale del menzionato art. 31 legge n. 1034/1971, che non risulta ancora decisa). 5. - Sgombrato il campo dalle questioni relative al regolamento di giurisdizione ed al regolamento di competenza proposti dalle parti resistenti, il collegio deve, ancora, preliminarmente, esaminare le altre eccezioni sollevate dalle stesse parti resistenti. Come gia' si e' accennato, sono state sollevate eccezioni sia di rito sia di merito (id est: il c.d. difetto assoluto di giurisdizione per carenza di posizione soggettiva azionabile), che qui' di seguito saranno esaminate nel loro ordine di priorita' logica, ed a prescindere dal soggetto processuale che le ha sollevate. Va innanzitutto disattesa, come gia si e' detto nell'ordinanza n. 449/1999, con la quale e' stato interinalmente sospeso il giudizio cautelare, l'eccezione di irricevibilita' per omessa notificazione del ricorso entro il termine decadenziale ad uno almeno dei comuni che - si assume - rivestirebbero la qualifica di controinteressati. Il collegio ritiene di dover escludere che i quattro comuni italiani nei quali e' stata autorizzata l'apertura di case da gioco siano, in realta', controinteressati in senso proprio e tecnico (l'unico che rilevi ai fini che qui' interessano); sono infatti tali i soggetti "ai quali l'atto direttamente si riferisce", secondo la formulazione con la quale l'art. 21 legge n. 1034/1971 definisce i controinteressati in senso tecnico e processuale. Tale ultima espressione viene adoperata dal C.g.a. (sent. n. 416/1989), che esclude siffatta qualita' nei soggetti che non siano portatori di diritti soggettivi ne' di interessi legittimi suscettibili di lesione immediata e diretta ad opera della demolizione (e della sospensione dell'efficacia) dell'atto impugnato (come nella fattispecie con tutta evidenza si puo' dire dei quattro comuni predetti, i quali nessuna lesione immediata riceverebbero dalla eventuale demolizione e men che mai dalla eventuale sospensione cautelare - di un atto a contenuto negativo che in alcun modo si contempla). In altri termini, applicando i due notissimi criteri cui occorre fare ricorso per l'individuazione dei controinteressati (cfr. fra le tante, CS., A.p. n. 9/1996; C.g.a., n. 23/1997; Tribunale amministrativo regionale Lazio, II-bis, n. 1094/1998), e cioe': a) che si tratti di soggetti contemplati nel provvedimento impugnato, od ai quali esso si riferisce, o comunque in base ad esso facilmente identificabili (c.d. criterio formale); b) che si tratti di coloro che dal provvedimento hanno tratto in modo diretto ed immediato una posizione di vantaggio, in funzione della quale hanno interesse alla difesa e conservazione di esso (c.d. criterio sostanziale), risulta evidente che nessuno di tali elementi caratterizza la posizione dei quattro comuni de quibus. Non appare inutile precisare che, per altro, nella fattispecie neppure e' configurabile un controinteresse di fatto in capo ai ripetuti comuni, non foss'altro che per il diverso bacino di utenza che afferisce alle case da gioco ivi collocate, assai distanti da Taormina, e parecchio piu' soggette alla concorrenza, per ragioni geografiche, di case da gioco situate nei paesi europei immediatamente confinanti. Il comune ricorrente ha si' notificato il ricorso al comune di Venezia, ma e' ovvio che siffatta notificazione ha scopo meramente tutioristico, in quanto la difesa dell'ente, rappresentatasi la remota eventualita' che il giudice adito ravvisasse, nei quattro comuni in cui l'apertura di una casa da gioco, e' autorizzata, la qualita' di centrointeressati in senso tecnico e processuale, ha inteso premunirsi contro tale - sia pure, si ripete, remota - eventualita'. Ma una scelta difensiva di tal fatta non comporta l'acquisto della qualita' di controinteressato, nell'accezione cui sopra si faceva riferimento, da parte di soggetti che tali non sono alla stregua delle regole processuali e sostanziali vigenti. 6. - E' stata altresi' eccepita la inammissibilita' del ricorso in epigrafe per difetto assoluto di giurisdizione sotto il porofilo della carenza di una situazione tutelata dall'ordinamento, di qualsivoglia natura, in capo al comune ricorrente. L'eccezione e' infondata e deve essere rigettata. Le parti resistenti muovono essenzialmente dalla considerazione che nessun potere di rilasciare l'atto ampliativo richiesto ha, secondo il diritto vigente, il Ministero dell'interno, e che nessuna pretesa fondata su una posizione giuridica soggettiva - e sulla lesione di tale posizione giuridica soggettiva - puo' per tale ragione essere vantata dal comune medesimo. Si e' anche sostanzialmente richiamata, in proposito, accennandosi soprattutto alla circostanza che il ricorrente ha chiesto al Ministero dell'interno il compimento di un atto addirittura vietato da norme penali, la costruzione giuridica del c.d. interesse illegittimo, che impone al giudice, in presenza di una pretesa al conseguimento di una utilita', di un "bene della vita", pur sussistendo eventuali illegittimita' dell'azione amministrativa - o, come nel caso di specie, dubbi in ordine ad anomalie della disciplina normativa che ne comportino la discrasia rispetto a valori costituzionali - la previa valutazione della compatibilita' della pretesa con l'ordinamento nel suo complesso, in modo che il risultato ultimo di vantaggio cui mira il privato non finisca per qualificarsi come illegittimo o addirittura illecito. In altre parole, in tali ipotesi e' carente la prima delle condizioni fondamentali di ogni azione giurisdizionale civile o amministrativa, e cioe' la possibilita' giuridica di ottenere la pronuncia richiesta al giudice per l'esistenza di una norma che contempli in astratto la posizione giuridica soggettiva (diritto soggettivo o interesse legittimo) tutelata dall'ordinamento ed azionabile in giudizio. Secondo tale impostazione (per la compiuta esposizione della quale cfr. le sentt. della seconda sez. di questo Tribunale amministrativo regionale nn. 119/1991 e 146/1993, seguite da numerose altre), non puo' offrirsi tutela giurisdizionale a posizioni di interesse materiale che si trovino in irrimediabile contrasto con il diritto oggettivo che l'amministrazione e' tenuta ad applicare nello svolgimento dell'azione amministrativa, a meno di non voler pervenire all'assurda conclusione che il giudice si renda complice del raggiungimento di un risultato illegittimo. Ma tali considerazioni non possono essere automaticamente estese ad ipotesi come quella in esame. Cio' per varie ragioni: innanzitutto perche' l'interesse materiale in vista del raggiungimento del quale il comune di Taormina ha presentato l'istanza di autorizzazione respinta dal Ministero dell'interno con il provvedimento impugnato, cioe' l'interesse ad aprire una casa da gioco, e' un interesse che alcuni soggetti di questo ordinamento - i quattro comuni nei quali le case da gioco sono state aperte - si sono visti riconoscere. In secondo luogo, perche' tale risultato e' stato raggiunto con una operazione a dir poco inconsueta, cioe' quella di attribuire singolarmente a ciascuno di tali soggetti, con provvedimento legislativo (o con sanatoria postuma di un atto di natura amministrativa, come nel caso di Saint Vincent), un beneficio implicante una deroga ad un divieto penalmente sanzionato (v. infra, la ricognizione della normativa derogatoria). Cio' sarebbe stato legittimo e possibile attraverso una individuazione in via generale ed astratta di situazioni giuridiche e/o di fatto in cui i comuni - in generale, non il singolo comune precisamente preindividuato - avrebbero potuto chiedere la dispensa dall'osservanza del divieto in questione. Insomma, laddove uno strappo vistoso alla legalita' e' stato compiuto nel metodo, ed e' stato compiuto dal legislatore, non valgono tutti i principi elaborati in ordine alla disparita' di trattamento realizzata dalla pubblica amministrazione. Tali princi'pi il collegio pienamente condivide quando si tratta di disconoscere una pretesa privata fondata sulla illegittima attribuzione ad altri di benefici contra legem, ma non ad opera dello stesso legislatore, bensi' di una qualunque pubblica amministrazione. Un caso assai frequente e' quello dell'illegittimo inquadramento avvenuto in virtu' dello svolgimento di fatto di mansioni superiori a quelle inerenti la qualifica formalmente posseduta, inquadramento che, anche laddove nello stesso ente ottenuto, appunto, illegittimamente, da alcuni dipendenti, non rende percio' fondate e legittime analoghe illegittime pretese di altri; ed in tali casi, nei quali non vi e' alcun interesse legittimo, alcuna situazione tutelata in capo al dipendente, a ben ragione si parla di interesse illegittimo. Ma nel caso in cui ci si trovi in presenza della denuncia di costituzionalita' di norme che hanno riconosciuto solo a taluni individuati soggetti la meritevolezza di tutela di un certo interesse materiale, con l'anomala attribuzione singolare del relativo beneficio, non si puo' ragionare con i canoni dell'interesse illegittimo e della disparita' di trattamento, per impedire la verifica di costituzionalita' della disciplina applicata. Tutto cio' si precisa anche al fine di chiarire che, ad avviso del collegio, nella fattispecie in esame l'interesse azionato dal comune ricorrente e' un interesse innanzitutto processuale, un interesse, cioe', ad ottenere un determinato "bene della vita" attraverso la declaratoria di illegittimita' costituzionale delle norme applicate, che ostano, in asserita violazione di parametri costituzionali, al conseguimento di tale bene od utilita' concreta, costituita dalla successiva realizzazione di un interesse di natura pretensiva. Tale particolare struttura e natura dell'interesse azionato sfugge alla dicotomia interesse legittimo-interesse illegittimo, il primo riconosciuto e tutelato con le modalita' di riconoscimento e tutela che sono proprie dell'interesse legittimo, il secondo come riflesso negativo del primo, come interesse non solo non riconosciuto e non tutelato, ma come situazione di carenza della situazione soggettiva, alla lesione della quale corrisponde una risposta dell'ordinamento in termini di strumenti di tutela processuale azionabili dall'interessato. Il duplice interesse che qui viene azionato dal ricorrente - interesse processuale alla modificazione dell'ordinamento nella parte in cui questo contiene un vulnus di principi costituzionali, dal quale deriva una lesione alla sfera giuridica dell'ente ricorrente, per ottenere la rimozione dell'ostacolo alla realizzazione di un interesse di natura sostanziale, riconosciuto ad altri soggetti dell'ordinamento trovantisi nella medesima situazione di fatto - non potrebbe, per tale sua struttura, avere la connotazione dell'illegittimita'. Ove si ritenesse altrimenti, lo stesso giudizio di costituzionalita' finirebbe non trovare spazio tutte le volte in cui dall'esito di tale giudizio dipenda la realizzazione o la non realizzazione di un interesse, che il privato vorrebbe vedersi riconosciuto proprio in virtu' della declaratoria di incostituzionalita'. Si finirebbe cioe' per cadere in una tautologia: non c'e' una situazione tutelata a monte, poiche' il riconoscimento dell'esistenza di tale situazione tutelata dipende dalla asserita illegittimita' costituzionale della normativa applicata; ma in mancanza della situazione tutelata a monte il privato non potrebbe proporre il giudizio in seno al quale dedurre la questione di legittimita' costituzionale. Orbene, se e' vero che - come la migliore dottrina ha messo in luce - la nozione di interesse legittimo deve ricercarsi avendo riguardo alla norma che prevede un potere in capo alla pubblica amministrazione, disciplinandone l'esercizio; se e' vero che alla base di norme siffatte c'e sempre la tutela di uno specifico interesse pubblico, alla cura del quale quel potere e' preordinato: se e' vero che, in definitiva, l'interesse legittimo e' la posizione di vantaggio di un soggetto dell'ordinamento in relazione ad un bene oggetto di potere amministrativo, e consistente nell'attribuzione al soggetto titolare di poteri atti ad influire sul corretto esercizio del potere onde realizzare l'interesse al bene, ovvero, secondo una piu' sintetica definizione, come potere di pretendere un'utilita' derivante dal legittimo esercizio di una potesta' se tutto cio' e' dunque vero, allora non si puo' disconoscere al titolare di tale interesse il potere di promuovere giudizio, denunciando la norma attributiva del potere sotto il profilo della non rispondenza di essa al canone costituzionale della ragionevolezza e dell'uguaglianza, nella parte in cui tale norma - o complesso di norme, come avviene nella fattispecie - riconosce ad altri soggetti, trovantisi nelle medesime condizioni, la realizzazione in un interesse che, in capo a tali altri soggetti, e' stato riconosciuto meritevole di tutela (come dettagliatamente sara' esposto in sede di ricognizione della disciplina derogatoria agli artt. 718 ss. C.p.). In conclusione, se normalmente il potere riconosciuto al privato, o comunque ad un soggetto dell'ordinamento, di pretendere un'utilita' derivante dal legittimo esercizio di una potesta' non necessita della modificazione della norma regolatrice della potesta' attraverso denuncia dell'illegittimita' costituzionale di quest'ultima e la declaratoria di illegittimita' da parte della Corte, non puo' tuttavia disconoscersi che nella nozione di interesse legittimo che si e' sopra richiamata rientri anche questo strumento di tutela. Non sara' inutile ricordare ancora, in proposito, che gia' con sentenza n. 46 del 13 febbraio 1981 la V sezione del Consiglio di Stato aveva rigettato analoga eccezione di difetto assoluto di giurisdizione per asserita mancanza nel ricorrente comune di Taormina di una posizione giuridica protetta in materia. Deve dunque essere disattesa l'eccezione di improponibilita' della domanda per difetto assoluto di giurisdizione, con l'ulteriore precisazione che nella specie il comune di Taormina agisce quale ente esponenziale degli interessi della collettivita', ed a tutela delle proprie funzioni di ente esponenziale, riconosciuti dall'art. 22 legge n. 142/1990, recepita in Sicilia con L.r. n. 43/1991 (su tale profilo si avra' modo di ritornare infra, esaminando i profili di contrasto della normativa in questione con l'art. 5 e con art. 41 Cost.). 7. - Deve altresi' essere disattesa l'eccezione (formulata con il regolamento preventivo di giurisdizione) di difetto relativo di giurisdizione, secondo la quale, ove mai si ravvisasse una situazione giuridica soggettiva in capo al comune di Taormina, tale situazione, derivante dall'art. 41 Cost., e dunque dal diritto di esercitare attivita' economiche, avrebbe se mai consistenza di diritto soggettivo, e pertanto sposterebbe la cognizione della controversia in esame all'a.g.o. Cio' perche', si dice, l'art. 41 della Costituzione riconosce la liberta' di iniziativa economica "non sottoposta" (ove i divieti stabiliti dal codice penale non esistessero o fossero dichiarati incostituzionali) ad alcuna regolamentazione amministrativa, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario". Ma tale impostazione non puo' essere condivisa, in quanto non e' ai divieti del codice penale che occorre fare riferimento per qualificare la posizione soggettiva azionata dal comune di Taormina. Non e', infatti, il divieto penale a costituire oggetto della presente questione di costituzionalita'. Occorre, invece, fare riferimento alla normativa derogatoria, piu' volte richiamata, che ha consentito non gia' a ciascuno dei comuni in cui una casa da gioco e' stata aperta di derogare, sic et simpliciter e senza alcuna intermediazione di esercizio di potesta' pubbliche, al divieto, bensi' alla pubblica autorita' (Ministero dell'interno) di valutare discrezionalmente la sussistenza delle ragioni di deroga indicate dalla legge stessa. Ne' potrebbe essere diversamente; non potrebbe cioe' immaginarsi - ed infatti nelle sparse ipotesi derogatorie, pur anomale, come gia' detto, per molti altri aspetti, non si e' proceduto cosi', un'attivita' esercitata in deroga ad un divieto penalmente sanzionato che non sia sottoposta a regole e controlli, e quindi a regime amministrativo. Come meglio si vedra' infra, tale regime amministrativo si concreta in un provvedimento amministrativo di dispensa dall'osservanza del divieto penale, vigente nel nostro ordinamento, di istituire case da gioco. Sicche', tenuto conto che, alla stregua dei noti principi dottrinali e giurisprudenziali in materia, l'ordinamento attribuisce la titolarita' di un determinato interesse legittimo (sia pure, molto spesso, implicitamente) collegandone il riconoscimento o la qualificazione normativa ai soggetti che si trovino in una sottostante "posizione legittimante", costituita dalla preesistenza di determinati rapporti giuridici sui quali viene ad incidere il potere amministrativo (titolarita' di diritti soggettivi privati o pubblici; esistenza del dovere della p.a. di provvedere su istanze: partecipazione a gare o concorsi, ecc.), il diritto soggettivo pubblico di attivita' economica ex art. 41 della Costituzione costituisce soltanto, per il comune di Taormina, la posizione legittimante sottesa alla titolarita' dell'interesse legittimo ad ottenere la dispensa in questione. E tali considerazioni sono sufficienti ad escludere che la posizione soggettiva da riconoscere al predetto comune di Taormina sia di diritto soggettivo piuttosto che di interesse legittimo. Neppure, si badi, potrebbe pervenirsi alla conclusione che qui si esclude attraverso un diverso iter argomentativo, cioe' sostenendo che nella fattispecie il Ministero non possedeva alcuna discrezionalita', dovendo necessariamente emanare, in assenza di norme permissive, un atto denegatorio, che dunque avrebbe natura di atto vincolato. Di per se', come e' stato dalla giurisprudenza riconosciuto, la natura vincolata dell'attivita' amministrativa non comporta automaticamente l'attribuzione delle relative controversie al giudice ordinario. Ed invero, la posizione di interesse legittimo non si configura solo necessariamente in relazione ad atti discrezionali, potendo ben sussistere tale posizione soggettiva anche se il potere attribuito all'autorita' amministrativa procedente sia vincolato in tutto od in parte, e quindi anche in presenza di provvedimenti vincolati, laddove l'ordinamento stabilisca, sia pure implicitamente che l'esplicazione di siffatto potere - e l'emanazione di siffatti atti - siano rivolti primariamente al perseguimento immediato e diretto del pubblico interesse, e non gia' al soddisfacimento di interessi dei privati (cfr. C.g.a., n. 177/1989; C.S. A.p., n. 25/1979; Idem n. 42/1980; Tribunale amministrativo regionale Catania, II, n. 1090/1992; Tribunale amministrativo regionale Catania, III, nn. 14 e 19 del 1998; A.p. n. 18/1999), di tal che, in definitiva, la distinzione fra diritti soggettivi ed interessi legittimi deve farsi essenzialmente guardando alla finalita' perseguita dalla norma (cui il provvedimento si ricollega), guardando, cioe', all'oggetto primario ed immediato della tutela dalla norma apprestata, che puo' essere un interesse pubblico (appartenente alla collettivita') - e si avranno allora, in capo ai privati (ed anche a soggetti pubblici, come nella specie) destinatari del provvedimento, posizioni di interesse legittimo - ovvero un interesse privato (con conseguente natura di diritto soggettivo della posizione del privato ed anche di enti ed organi pubblici). Nel caso di specie, il comune di Taormina ha interesse all'apertura di una casa da gioco, ma, ove le disposizioni derogatore non violassero i canoni di uguaglianza e di ragionevolezza, tale interesse potrebhe essere realizzato, e la sottesa utilita' concreta potrebbe essere ottenuta, soltanto ove nel procedimento di dispensa dall'osservanza del divieto penale l'autorita' attributaria della relativa potesta' e della cura dell'interesse pubblico riconosca, discrezionalmente, la sussistenza dei presupposti fissati dalla legge per la concessione di siffatta dispensa. In conclusione, anche l'eccezione di inammissibilita' per difetto relativo di giurisdizione deve essere disattesa. 8. - Il collegio deve adesso prendere in esame le argomentazioni con le quali parte ricorrente tenta di avvalorare l'esistenza, nell'ordinamento giuridico italiano, di un principio, o norma, o insieme di norme, che avrebbe introdotto una deroga al divieto penalmente sanzionato dagli artt. 718 ss. C.p., e dalla cui applicazione al caso concreto da parte della resistente amministrazione dell'interno sarebbe derivato, in luogo del diniego impugnato con il ricorso in epigrafe, un provvedimento di accoglimento dell'istanza intesa ad ottenere l'autorizzazione all'apertura di una casa da gioco in Taormina. In altre parole, ove il collegio ritenesse, almeno ad un primo esame - stante la fase cautelare in cui il presente giudizio si trova - fondate le argomentazioni in tal senso svolte da parte dell'ente ricorrente, a sostegno della tesi sostenuta con il primo motivo di gravame, ne deriverebbe l'accoglimento dell'istanza cautelare, con conseguente emanazione di una ordinanza propulsiva che disponga l'obbligo, per il Ministero resistente, di riesaminare l'istanza di cui trattasi alla luce del principio giuridico individuato dal giudice adito come regolatore della fattispecie. In tal caso, ovviamente, per i noti princi'pi in tema di giudizio di costituzionalita', la questione oggetto del secondo motivo di gravame sarebbe da ritenere irrilevante nel presente giudizio. Ma il collegio ritiene di non poter condividere le argomentazioni con le quali il comune ricorrente tenta di suffragare la tesi sostenuta con il primo motivo di gravame; e cio' per la decisiva ragione che il rango e la collocazione delle disposizioni invocate non consente di qualificare tali disposizioni come derogatorie di un divieto penalmente sanzionato, cioe', sostanzialmente, di attribuire a tali disposizioni efficacia abolitrice di una fattispecie penale. Le disposizioni invocate dall'ente ricorrente sono contenute nei DD.PP.RR. nn. 640 e 641 del 26 ottobre 1972, il primo in materia d'imposta sugli spettacoli, il secondo contenente la disciplina delle tasse sulle concessioni governative. In proposito, parte ricorrente sostiene che esiste "un (secondo ed alternativo) regime di regolamentazione normativa del gioco d'azzardo, questa volta permissivo, fondato sulle norme dei DD.PP.RR. n. 640 e n. 641/1972 che avrebbero introdotto - accanto al meccanismo derogatorio speciale fondato sulle autorizzazioni concesse con leggi singolari - un regime derogatorio generalizzato che trova nel provvedimento amministrativo (autorizzatorio) la radice del suo fondamento". Il collegio ritiene che siffatta ricostruzione del quadro normativo di riferimento incontra l'ostacolo fondamentale, cui gia' s'e' fatto cenno, della natura regolamentare e tributaria delle disposizioni che secondo parte ricorrente dovrebbero costituire il "sistema derogatorio generalizzato" rispetto alla normativa di divieto contenuta nel codice penale. La ragione piu' intuitiva ed evidente della impossibilita' di ricostruire il sistema nei termini prospettati in ricorso e' che l'abolizione di una norma incriminatrice deve avere caratteri di certezza, deve offrire ai consociati (all'amministrazione come ai privati, a tutti i soggetti, insomma, dell'ordinamento) modelli di comportamento esattamente delineati, in applicazione del principio nullum crimen sine lege, sancito dall'art. 25 Cost., principio forse di piu' immediata percezione nel suo aspetto per cosi' dire attivo - la fattispecie incriminatrice deve essere stabilita normativamente - ma che implica anche, in negativo, la necessita' che la cancellazione di un divieto avvenga nello stesso modo, con le stesse procedure dalle quali il divieto di tenere una certa condotta e' stato posto, e soprattutto in modo esplicito. Cio' posto, il collegio ritiene superfluo l'esame del contenuto delle disposizioni invocate da parte ricorrente, che per le ragioni esposte non sono in alcun modo in grado di ritenere superato e derogato, ne' derogabile, il divieto penale di cui agli artt. 718 ss. C.p. 9. - La infondatezza del primo motivo di gravame impone al collegio l'esame della dedotta questione di costituzionalita' (secondo motivo), della quale occorre vagliare la rilevanza nel presente giudizio e la non manifesta infondatezza, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1 legge Cost. n. 1/1948, e dell'art. 23/2 legge n. 87/1953. Quanto al primo profilo, occorre innanzitutto premettere che non osta alla sussistenza della rilevanza la circostanza che la causa si trova ancora in fase cautelare (come piu' volte ritenuto dalla stessa Corte costituzionale, da ultimo nella sentenza n. 4/2000, ove sono citati altri precedenti della medesima Corte). Sulla sussistenza della rilevanza in se', poco v'e' da dire, poiche', una volta esclusa la sussistenza del fumus boni iuris in relazione al primo motivo di ricorso, soltanto dall'eventuale riconoscimento, da parte della Corte costituzionale, della fondatezza della questione dedotta con il secondo motivo potrebbe derivare l'accoglimento dell'istanza cautelare in esame, dovendo altrimenti questa essere respinta per difetto del necessario fumus di fondatezza. E' appena il caso di ricordare, sempre ai fine della valutazione della rilevanza della questione di legittimita' costituzionale di cui trattasi, che nella specie il collegio ritiene sussistere l'altro indefettibile presupposto della erogazione di ogni misura cautelare, e cioe' il periculum in mora, in quanto, come gia' osservato nell'ordinanza, gia' citata, n. 449/1999, con la quale il giudizio cautelare e' stato sospeso fino alla pronuncia della Corte sulla questione che si solleva con la presente ordinanza, il danno grave ed irreparabile si configura ed emerge in re ipsa a fronte di un interesse pretensivo che altrimenti rimarrebbe sfornito di tutela, tenuto anche conto della circostanza che in passato - come meglio in seguito sara' esposto - l'apertura di una casa da gioco nel comune di Taormina era stata dapprima autorizzata e successivamente impedita, e che, pertanto, tale danno si e' andato progressivamente aggravando, non soltanto in termini di mero lucro cessante, bensi', soprattutto, in relazione al mancato godimento - da parte della collettivita' di cui il comune di Taormina e' ente esponenziale, e della popolazione della reagione siciliana in generale - di vari benefici di bilancio e di sviluppo economico-occupazionale diretti e riflessi. Pertanto, la decisione con la quale il collegio perverra' alla definizione della fase cautelare dipende esclusivamente dalla soluzione che la Corte dara' alla questione di legittimita' costituzionale dedotta con il secondo motivo di gravame. E' appena il caso di precisare che la rilevanza non difetta, nel caso in questione, neppure sotto il profilo - prospettato dalle parti resistenti - della efficacia di una eventuale pronuncia della Corte di contenuto positivo. Si e' in proposito osservato, sotto il profilo del difetto di interesse, che una pronuncia di tal fatta potrebbe soltanto azzerare la situazione di fatto esistente, comportando la chiusura delle case da gioco attualmente in esercizio nei piu' volte richiamati quattro comuni che hanno beneficiato della disciplina derogatoria, per negare intanto l'ammissibilita' del ricorso per difetto di interesse, e, mediatamente anche la rilevanza della questione di legittimita' di cui trattasi. Si tratta di un espediente difensivo che volutamente ed abilmente trascura il fatto che il comune non ha affatto chiesto - ne' con l'istanza respinta dal Ministero dell'interno, con la quale esso ente chiedeva per se' un provvedimento ampliativo, ne' in sede giudiziale a questo collegio, dinanzi al quale e' stato proposto gravame avverso il diniego - la chiusura delle case da gioco esistenti. Cio' che il comune di Taormina mette in dubbio e' la conformita' ad alcuni parametri costituzionali della disciplina derogatoria, della quale chiede l'estensione ad altri comuni trovantisi nella medesima situazione di fatto di quelli "privilegiati". In altri termini, oggetto della declaratoria di incostituzionalita' dovrebbe essere non gia' il divieto penale, bensi' la disciplina derogatoria, nella parte in cui essa non consente ulteriori estensioni di precetti normativi di favore (a fini di risanamento dei bilanci degli enti deficitari, e per il compimento di opere pubbliche). Cio' comporta un interesse pretensivo al mutamento dell'assetto normativo in capo ai soggetti che, come il comune ricorrente, si trovano nella medesima situazione di fatto dei comuni che hanno fruito della normativa di favore oggi denunciata per incostituzionalita'. 10. - Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, che adesso il collegio deve darsi carico di valutare, e' opportuno premettere una ricognizione delle norme che rilevano nella fattispecie, iniziando da quelle contenute nel codice penale, che di seguito si riportano. Art. 718 C.p.: "Esercizio di giuochi d'azzardo. Chiunque, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, o in circoli privati di qualunque specie, tiene un giuoco d'azzardo o lo agevola e' punito ...". Art. 719 C.p.: "Circostanze aggravanti. La pena per il reato preveduto dall'articolo precedente e' raddoppiata: se il colpevole ha istituito o tenuto una casa da gioco; se il fatto e' commesso in un pubblico esercizio; se sono impegnate nel giuoco poste rilevanti". L'art. 720 incrimina la condotta di chi partecipa al giuoco d'azzardo, prevedendo un aumento di pena, al secondo comma, in due ipotesi: "1) nel caso di sorpresa in una casa da giuoco o in un pubblico esercizio; 2) per coloro che hanno impegnato nel giuoco somme rilevanti". L'art. 721 si preoccupa di fornire la nozione di "giochi d'azzardo" e di case da gioco, definendo i primi come "quelli nei quali ricorre il fine di lucro e la vincita o la perdita e' interamente o quasi aleatoria", e le seconde come "luoghi di convegno destinati al giuoco d'azzardo anche se privati, e anche se lo scopo del giuoco e' sotto qualsiasi forma dissimulato". Le disposizioni derogatorie, in forza delle quali in Italia sono state nel tempo aperte case da gioco autorizzate - e dunque non incriminabili ai sensi delle su richiamate disposizioni del codice penale - sono le seguenti: R.D.L. n. 2448/1927, conv, L. n. 3125/1928, recante "provvedimenti a favore del comune di San Remo", che dispone (art. 1): "E' data facolta' al Ministro per l'interno di autorizzare, anche in deroga alle leggi vigenti, purche' senza aggravio per il bilancio dello Stato, il comune di San Remo ad adottare tutti i provvedimenti necessari per potere addivenire all'assestamento del proprio bilancio ed all'esecuzione delle opere pubbliche indilazionabili. L'autorizzazione del Ministro per l'Interno ha efficacia giuridica anche in confronto dei terzi". R.D.L. n. 201/1933, conv. L. n. 505/1933, recante "provvedimenti a favore del comune di Campione", articolo unico, di formulazione identica a quella della disposizione in favore del comune di San Remo, e con l'aggiunta - al terzo comma - della previsione secondo cui "Nell'atto dell'autorizzazione, il Ministro per l'Interno puo' riservarsi di subordinare alla propria approvazione l'esecuzione dei singoli provvedimenti stabilendone, se del caso, i termini e le modalita'". R.D.L. n. 1404/1936, conv, legge n. 62/1937, recante "estensione al comune di Venezia delle disposizioni del R.D.L. n. 2448/1927, recante provvedimenti a favore del comune di San Remo", art. unico: "Le disposizioni del R.D.L. n. 2448/1927, convertito nella L. n. 3125/1928, recante provvedimenti a favore del comune di San Remo, sono estese al comune di Venezia". Una storia diversa ha l'istituzione della casa da gioco di Saint Vincent, che ha alla sua origine una atto di autorita' regionale, precisamente un decreto del Presidente della Regione Valle d'Aosta, il n. 241/3 del 3 aprile 1946. Successivamente, l'apertura di detta casa da gioco e' stata ritenuta sanata, dalla giurisprudenza sia civile sia penale (si veda per un excursus la sentenza della Corte costituzionale n. 152/1985, con la quale e' gia' stata esaminata e decisa una questione analoga a quella che oggi il collegio solleva), sulla base della circostanza che fin dal 1949 i provvedimenti legislativi statali recanti contributi alla Valle d'Aosta comportavano il riconoscimento della non punibilita' della casa da gioco (i cui proventi figuravano inclusi nei bilanci regionali), oltre che dell'ulteriore elemento costituito dall'art. 2, lett. a), L. n. 1065/1971, (recante "revisione dell'ordinamento finanziario della regione Valle d'Aosta"), allorche' dispone che la regione stessa provvede al suo fabbisogno finanziario con le entrate tributarie costituite altresi' "da altre consimili entrate di diritto pubblico, comunque denominate, derivanti da concessioni ed appalti". Come e' subito evidente, gia' ad una prima rapida lettura delle disposizioni di cui trattasi, non soltanto le formule normative non contengono alcun esplicito e chiaro riferimento al gioco d'azzardo ed alle case da gioco, ma neppure con espressioni indirette e velate consentono all'interprete che si limiti alla letture di esse disposizioni di risalire alla materia di cui in realta' si tratta. Soltanto i lavori preparatori consentono di compiere l'operazione ermeneutica, superando lo schermo delle espressioni - altrimenti incomprensibili - adoperate, delle quali la Corte costituzionale, nella decisione poco sopra richiamata (n. 152/1985) ha detto assai incisivamente che "offrono il fianco alla critica per le formule a dir poco reticenti cui tutte fanno ricorso". La predetta osservazione ne reca con se' una ulteriore, e cioe' che il cittadino, quale destinatario delle norme che lo Stato e gli altri soggetti dotati di potesta' normativa pongono, deve potere immediatamente comprendere quali condotte gli siano consentite, e quali vietate; invece, se il c.d. uomo della strada si limitasse a leggere le norme in questione, sarebbe - o almeno potrebbe essere - indotto a pensare che nei quattro comuni presi dalle norme stesse in considerazione ogni divieto e' sospeso e derogato, e che ogni attivita', anche costituente reato, comunque suscettibile di produrre ricchezza, e' in ogni caso consentita, previa autorizzazione del Ministro dell'interno. Ma altre e piu' gravi critiche possono e devono farsi al complesso normativo derogatorio qui sommariamente richiamato, ai fini della valutazione della compatibilita' di detto complesso con la Carta costituzionale. 11. - E' adesso necessario prendere in considerazione le censure che, sotto il profilo della costituzionalita' ha sollevato il Comune ricorrente. E' appena il caso di sottolineare che comunque il collegio, avendo indubbiamente il potere di sollevare anche d'ufficio siffatta questione, non e' rigidamente vincolato alle argomentazioni e deduzioni della parte, potendo aggiungere profili non contenuti in ricorso, ovvero sottrarne altri (risolvendosi tale ultima operazione, in definitiva, in una valutazione di manifesta infondatezza consentita, ed anzi imposta al giudice rimettente). Parte ricorrente, esattamente premettendo che "il giudizio di costituzionalita' che si sollecita non riguarda una singola norma di legge ma un "complesso normativo che costituisce il "diritto vivente che regola - illegittimamente - la fattispecie", ricorda che i dubbi di legittimita' costituzionale delle norme che esonerano quattro soli comuni italiani dall'osservare il generale divieto di tenere od agevolare il gioco d'azzardo, di cui agli artt. 718 ss. C.p. sono presenti in molte pronunce giurisdizionali (C.d.a. Venezia, 2 ottobre 1965; ordinanza C.S. V, n. 692/1969, con la quale e' stata rimessa ai giudice delle leggi una questione analoga a quella che oggi si solleva, ma sulla quale non vi fu alcuna decisione della Corte per fatti sopravvenuti all'incardinazione del giudizio che comportarono la restituzione degli atti al Consiglio di Stato; C. cost., sent. n. 80/1997, con la quale e' stato ritenuto che il rapporto che intercorre fra norme generali e norme derogatorie comporta che possano essere prospettate questioni di legittimita' costituzionale, partcolarmente per violazione del principio di uguaglianza sancito dall'art. 3, commi 1 e 2 e della Carta, soltanto in ordine alle seconde e non anche alle prime, che dettano la disciplina comune a tutti i cittadini). La dottrina e la giurisprudenza non hanno mancato di rilevare l'anomalia della disciplina qui considerata (si vedano le citazioni contenute in ricorso, a p. 14 s., fra le quali particolare rilievo ha il ricorso al concetto di simulazione attraverso atti normativi), sottolineandone gli aspetti piu' vistosi, e dunque piu' facilmente percepibili. Cosi', e' di immediata evidenza la disparita' di trattamento nei confronti dei cittadini che tengono o agevolano il gioco d'azzardo in qualsiasi localita' del territorio nazionale rispetto a coloro che tengono le medesime condotte in virtu' di norme particolari che giustifichino il regime autorizzatorio. E' da premettere che la c.d. autorizzazione del Ministero dell'interno (o del presidente della Valle d'Aosta) deve, secondo una ricostruzione dottrinaria che il collegio ritiene di condividere, essere annoverata fra i prvvedimenti con i quali la pubblica amministrazione consente attivita' non inerenti a preesistenti diritti (da qualificare dunque, correttamente, come dispensa dall'osservanza di un divieto valevole per la generalita' dei cittadini, o, secondo altra definizione presente in dottrina, come non applicazione, da parte della p.a, di una data norma giuridica nei confronti di uno o piu' soggetti che invece dovrebbero, in astratto, soggiacervi, ove non vi fossero particolari ragioni di esonero). A fronte di una dispensa - atto, come e' noto, fortemente discrezionale - il cittadino e' tirolare di un interesse legittimo, alla stregua della nozione di interesse legittimo che si e' data supra. Puo' essere utile, in proposito, esaminare una disciplina strutturalmente affine a quella del gioco d'azzardo, in cui vige un divieto dall'osservanza del quale, in particolari situazioni che il legislatore prende in considerazione, si puo' essere dispensati, con le modalita' e le restrizioni stabilite dalla legge in via generale ed astratta. Ci si vuole riferire al divieto di portare le armi, ed a tutto il regime derogatorio collegato. Sgombrato subito il campo dai divieti collegati alle armi da guerra, che ineriscono, secondo autorevole dottrina, piu' alla conformazione del diritto di proprieta' che al divieto di comportamenti (la proprieta' di tali armi e' riservata allo Stato dall'art. 826/2 C.c.; tenerle presso di se' e' qualificabile giuridicamente in termini di mera detenzione, che e' vietata e qualificata come illecito penale: art. 2 legge n. 895/1967), ed anche dal terzo divieto, relativo alle armi da caccia senza la relativa licenza - che qui non ci interessano, non presentando affinita' strutturali con la fattispecie che ci occupa - esaminiamo il divieto di portare armi di difesa personale fuori dalla propria abitazione. Tale divieto, come e' stato esattamente rilevato in dottrina, costituisce in realta' corollario del princi'pio di costituzione materiale che enuncia il dovere dei consociati di comportarsi pacificamente, principio basilare in uno stato democratico, le cui estrinsecazioni sono costituite da doveri positivi e negativi: divieto di farsi ragione con i propri mezzi (art. 392-401 C.p). di esercitare aggressioni (sono infatti incriminate varie condotte aggressive di varia intensita' e gravita': si ricordano, a titolo meramente esemplificativo e senza pretesa di completezza, la strage, le varie figure di omicidio, la minaccia, le percosse, le lesioni). Una delle manifestazioni del generale dovere di tenere un comportamento pacifico e' costituito, appunto, dal divieto di circolare portando armi (art. 42 T.u.l.p.s.; art. 4 legge n. 110/1975). Ma, in considerazione della esigenza che alcuni soggetti godano di una possibilita' di autodifesa potenziata (in ragione di particolari professioni svolte, ad esempio). la pubblica amministrazione, ai sensi del combinato disposto dell'art. 42 e dell'art. 4 appena citati, puo' dispensare tali soggetti dall'osservanza del divieto. Le formulazioni contenute nelle disposizioni appena richiamate delineano un potere dell'autorita' di p.s. ("facolta' di dare licenza", "facolta' di concedere licenza") che e' senza dubbio un poter discrezionale, e che presuppone la sussistenza, in capo al soggetto istante, di un "dimostrato bisogno", la valutazione del quale e' rimessa all'apprezzamento - da esplicitare, ovviamente, in una esauriente motivazione - dell'autorita'. Come si vede, la struttura della norma e' quella di consentire una deroga ad un generale divieto, attribuendo all'autorita' di p.s. un potere inteso ad amministrare e regolare l'assetto di interessi pubblici (alla pacifica ed ordinata convivenza sociale, al controllo delle armi) e privati (all'esercizio della difesa personale in situazioni di particolare esposizione al pericolo di aggressioni), e prevedendo in via generale ed astratta quali situazioni possono giustificare la concessione della dispensa di cui trattasi. La struttura della fattispecie - anzi, delle isolate fattispecie - prese in considerazione dai provvedimenti normativi che hanno consentito successive singolari ipotesi di deroga al divieto di istituire case da gioco e' identica. Vi e' anche qui un divieto sanzionato penalmente; vi e' anche qui la possibilita' che esigenze particolari giustifichino una deroga; vi e' l'attribuzione ad una pubblica amministrazione del potere di emanare provvedimenti che autorizzino la deroga (che dispensino dall'obbligo di osservare il divieto). La assoluta vaghezza delle formule adoperate di volta in volta dal legislatore per indicare il divieto di cui si ammette la deroga e' gia' stata sottolineata supra, in sede di ricognizione delle norme sospettate di incostituzionalita', che hanno consentito addirittura - stando alla formulazione letterale - una generale ed omnicomprensiva "deroga alle leggi vigenti", che soltanto la consultazione dei lavori preparatori consente di restringere all'apertura dei casino'. Si vuole adesso sottolineare come la previsione delle situazioni in presenza delle quali il Ministro dell'interno puo' autorizzare l'adozione di provvedimenti "in deroga alle leggi vigenti" sia avvenuta con riferimento a situazioni - "assestamento del proprio bilancio", "esecuzione delle opere pubbliche indilazionabili" - che non possono in alcun modo ragionevolmente ritenersi esclusive dei quattro comuni beneficiari (cfr.: CS., V, ord. n. 692/1969). Non si' puo', pertanto, aderire alla tesi (espressa dalla difesa del comune di Venezia per suffragare l'affermazione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo in subiecta materia, a p. 4 s. del ricorso per regolamento di giurisdizione, ma che per ragioni espositive e' opportuno richiamare in questa sede), secondo cui, in presenza dei divieti penalmente sanzionati ai sensi degli artt. 718 ss. C.p., "l'istituzione di case da gioco in Italia non poteva che trarre origine da singoli ed autonomi provvedimenti legislativi". Cio' muove dall'implicito presupposto che ogni qualvolta ragioni ed esigenze particolari impongano la deroga di un divieto penalmente sanzionato cio' non possa avvenire che attraverso "singoli ed autonomi provvedimenti legislativi". Tutte le considerazioni che si sono svolte nel presente paragrafo dimostrano che cosi' non e', e che, al contrario, in siffatte ipotesi, la disciplina derogatoria di un divieto generale, ha - non puo' non avere - le stesse caratteristiche di generalita' ed astrattezza che sono proprie di qualunque altra norma, come ancora meglio si precisera' nel paragrafo che segue. 12. - Il raffronto fra la disciplina del divieto di portare le armi e delle deroghe a tale divieto da un lato, e la disciplina del divieto di gioco d'azzardo - in particolare di tenere case da gioco - e delle deroghe a tale divieto, dall'altro, fa emergere la fondamentale (ma ingiustificabile, e percio' incostituzionale, come ancora si' precisera') differenza che intercorre fra le stesse. Nel primo caso, il regime deregatorio risponde alle caratteristiche di generalita' ed astrattezza che sono proprie della norma giuridica, nel secondo no. Nel primo caso, soggetti trovantisi nella medesima situazione non sono soggetti a differente disciplina. Nel secondo caso, vi sono quattro soggetti pubblici - i quattro comuni di San Remo, Venezia, Campione e Saint Vincent - i quali hanno beneficiato e continuano a beneficiare di un regime derogatorio che li ha individuati come beneficiari senza previamente individuare una categoria generale ed astratta di possibili beneficiari, e senza preoccuparsi di estendere successivamente il beneficio a tutti i soggetti che si trovano nelle stesse situazioni (piu' volte ricordate: dissesto finanziario; necessita' di realizzare opere pubbliche) prese in considerazione dalle disposizioni che hanno consentito la deroga. Ne' potrebbe opporsi che tutti e quattro i comuni beneficiari sono accomunati da un tratto distintivo che esclude la possibilita' di estendere ulteriormente la deroga, e cioe' dalla situazione di frontiera, poiche' questo non vale certamente per il comune di Venezia, come gia e' stato rilevato dalla stessa Corte costituzionale nella sent. n. 152/1985, e comunque, anche ove tale caratteristica avessero avuto davvero tutti i comuni de quibus, pur tuttavia mancherebbe, comunque, una previsione di derogabilita' del divieto per tutte le localita' di frontiera. In altre parole, il modello costituzionalmente corretto e', ad avviso del collegio, il primo, in cui l'ordinamento pone un divieto che vale per la generalita' dei soggetti dell'ordinamento e prevede in via generale ed astratta ipotesi nelle quali deve ammettersi che il divieto possa subire deroghe. Attribuisce dunque un potere alla pubblica amministrazione, stabilisce le regole secondo le quali la pubblica amministrazione puo emanare provvedimenti che - dispensando i soggetti che si trovano in particolari situazioni, individuate in modo generale ed astratto - rende lecita la condotta generalmente vietata. Nel modello costituito dalla disciplina derogatoria in esame, e sospettata oggi di illegittimita' costituzionale, al contrario, manca proprio questo elemento qualificante e determinante - ai fini della rispondenza della disciplina stessa ai canoni costituzionali - della previsione in via generale ed astratta delle situazioni giustificatrici di una deroga, e di un potere attribuito, pure in generale, e non caso per caso, alla pubblica amministrazione, di concedere provvedimenti ampliativi in deroga al divieto. Cominciando adesso a tirare le fila del discorso, il collegio ritiene, in sostanza, che innanzitutto la piu' volte citata normativa derogatoria in esame - r.d.l. n. 2448/1927, conv, legge n. 3125/1928; r.d.l. n. 201/1933, conv, legge n. 505/1933; r.d.l. n. 1404/1936, conv. legge n. 62/1937; legge n. 1065/1971 e n. 690/1971, contenenti una "sanatoria", del decreto del Presidente della regione Valle d'Aosta, n. 241/3 del 3 aprile 1946 - contrasta con l'art. 3 Cost, cioe' con i principi espressi dal primo e dal secondo comma della appena citata disposizione. Il primo comma dell'art. 3 enuncia, come e' noto, il c.d. principio di eguaglianza formale e soggettiva, valevole per tutti i soggetti dell'ordinamento, persone fisiche e giuridiche (v.: C. cost. n. 25/1966 e n. 2/1969), che costituisce "un principio generale che condiziona tutto l'ordinamento nella sua obiettiva struttura" (Corte cost., n. 25/1966), ed e' espressione di "un generale canone di coerenza dell'ordinamento" (Corte cost., n. 204/l982), che si estrinseca, in ultima analisi, in un generale principio di "ragionevolezza", per cui la legge deve trattare in maniera eguale situazioni eguali, ed in maniera razionalmente diversa situazioni diverse (si vedano, fra le tante, Corte cost., n. 53/1958, n. 15/1960, n. 4/1964, n. 1/1966, n. 5/1980, n. 15/1982). Al principio di eguaglianza cosi' inteso, cioe' come canone di coerenza e ragionevolezza, soggiace indubbiamente anche la legge, e cio' non solo sotto il profilo formale - per cui il principio di eguaglianza regolerebbe soltante la forza e l'efficacia della legge - ma anche sotto il priofilo materiale, per cui tale principio e' rivolto a regolare anche il contenuto della legge, implicando un limite o vincolo alla funzione normativa primaria nel senso sopra indicato. In particolare, nella fattispecie oggetto del presente giudizio viene in rilievo un aspetto di tale principio, secondo il quale, nell'incisiva espressione usata da autorevole dottrina, il legislatore e' tenuto a dare alla norma di legge il carattere di universalita' fino al massimo del possibile. Che proprio questo difetti nella normativa derogatoria di cui si chiede la declaratoria di incostituzionalita emerge indubitabilmente, ad avviso del collegio, da tutto quello che si e' osservato finora. E' altresi' appena il caso di ricordare, costituendo ius receptum in materia, che il giudizio costituzionale di eguaglianza non si svolge raffrontando direttamente la norma censurata al parametro costituzionale, occorrendo anche che nelle ordinanze di rimessione alla Corte vengano indicate una o piu' norme ed uno o piu' principi dell'ordinamento rispetto al quale la norma impugnata, diversificando o assimilando arbitrariamente situazioni, rispettivamente, simili o diverse, viola il principio di eguaglianza: norme o principi ciascuno dei quali, isolatamente considerato ed utilizzato dal giudice a quo, costituisce il c.d. tertium comparationis, e che, nei casi in cui ne vengano individuati e proposti congiuntamente ed in correlazione piu' di uno, costituiscono i tertia comparationis (cfr., fra le tante, Corte cost., n. 10/1983, n. 79/1984, n. 618/1997). Orbene, ad avviso del collegio la disciplina - gia' diffusamente esaminata ed illustrata - del divieto di circolare armati e delle deroghe a tale divieto, con il connesso regime della dispensa dall'osservanza del medesimo da parte dell'autorita' di p.s. sulla base di regole dotate della necessaria universalita', costituisce - per la sua affinita' strutturale con il divieto di aprire case da gioco - un complesso normativo suscettibile di fungere da tertium comparationis cui fare riferimento in subiecta materia. 13. - Deve anche tenersi in considerazione che la situazione del comune di Taormina e' assolutamente peculiare rispetto a quella di qualunque altro comune italiano che dovesse - allo stato della normativa vigente - avanzare analoga istanza finalizzata all'apertura di una casa da gioco. Infatti, in Taormina una casa da gioco fu aperta negli anni sessanta, in forza di un decreto dell'assessore al turismo ed allo spettacolo della regione Sicilia (D.a. n. 1 del 27 aprile 1949 ed annesso regolamento). Come viene sottolineato nella sentenza del pretore del mandamento di Acireale 10 gennaio 1976, che, in occasione di una causa di lavoro, attraverso la quale un ex dipendente della casa da gioco di Taormina mirava ad ottenere la riassunzione, esamina la questione pregiudiziale della liceita' dell'attivita' svoltasi in detta casa da gioco, non soltanto l'apertura di essa avvenne con atto di una autorita' regionale, e non soltanto la regione e lo Stato, ciascuno per quanto di competenza, introito' regolarmente i relativi tributi, ma tale vicenda in nulla differisce da quella della casa da gioco di Saint Vincent, che nessuno ha ritenuto di dover chiudere forzosamente - come e' invece avvenuto a Taormina - e la cui liceita' e' stata in sede giurisdizionale riconosciuta dal tribunale di Firenze (sent. del 9 dicembre 1961, confermata in appello, e divenuta definitiva a seguito del rigetto del ricorso del p.m. deciso dalla SS.uu. della Cassazione con sentenza del 7 dicembre 1963). In definitiva, le leggi, piu' volte richiamate, che hanno per cosi dire sanato ex post la situazione della casa da gioco valdostana, costituiscono una ulteriore riprova della ingiustificabile disparita' di trattamento che il comune di Taormina subisce per effetto di una normativa episodica ed ipocrita. Tutta la vicenda giudiziaria del casino' di Taormina qui richiamata, e puntualmente ricostruita nei suoi passaggi dalla citata sentenza del pretore di Acireale, non rileva di per se' in questa sede, in cui tutto cio' viene ricordato soltanto per suffragare la grave sostanziale disparita' che l'inerzia del legislatore, il quale non ha finora voluto o saputo disciplinare organicamente tutta la materia, produce nei confronti di soggetti dell'ordinamento che si trovano nella stessa situazione di altri pariordinati soggetti dell'ordinamento. Val soltanto la pena di citare qualche passo della sentenza del pretore di Taormina (19 febbraio 1963), confermata in appello da tribunale L'Aquila, 18 aprile 1964. La sentenza pretorile assolveva Domenico Guarnaschelli - esercente la casa da gioco taorminese - dal reato previsto e punito dagli artt. 718 e 719, nn. 1 e 2, C.p., ravvisando la presenza della scriminante di cui all'art. 51 C.p., ed individuando una legge extra-penale permissiva sulla quale fondare detta scriminante (precisamente, il r.d. 31 maggio 1935, n. 1410, istitutivo dell'ente gestore della casa da gioco di Taormina, ente turistico ed alberghiero della Libia-ETAL, autorizzato con decreto interministeriale 30 aprile 1947 "ad esercitare in Italia gestioni alberghiere ed altre attivita' economiche", le cui vicende sarebbe troppo lungo richiamare, e che per altro non rilevano nella presente sede). La sentenza di assoluzione predetta contiene innanzitutto un panoramica delle norme derogatorie del divieto, tra le quali il pretore di Taormina annovera anche le norme del Codice civile che negano l'azionabilita' del credito derivante da gioco e scommessa (art. 1933, in combinato disposto con gli artt. 1934 e 1935), anche se si tratta di gioco o scommessa non proibiti (cioe', chiarisce la relazione del Guardasigilli al libro delle obbligazioni, n. 225, "ivi compresi i giuochi di azzardo sottratti alla legge penale per speciale autorizzazione amministrativa"), e sottolinea che "comune denominatore delle norme autorizzanti, in via di deroga, le predette attivita' e' l'interesse sociale e collettivo". Inoltre, la sentenza sottolinea l'ambiguita' delle norme in base alle quali e' stata autorizzata l'apertura di case da gioco in questa o quella localita', preoccupandosi anche di ricercare le ragioni di tale ambiguita': "il legislatore, interprete del costume e delle esigenze di un popolo, non poteva allora usare espressioni diverse e chiaramente autorizzare, quale eccezione alla regola, il giuoco d'azzardo, per non urtare e porsi in aperta antitesi con il costume e la morale allora correnti, che il giuoco riprovavano quale vizio e fonte di corruzione e di dissipazione. Ma avvertiva pure, il legislatore del tempo, con una piu' ampia visione del problema, che il gioco d'azzardo, non come fine a se stesso ma come mezzo di propulsione turistica, quale richiamo di maggiori correnti piu' qualificate, quale mezzo di produzione di ricchezza da destinarsi ad opere pubbliche ed a finalita' collettive, ben poteva assolvere ad una funzione sociale". Infine, il pretore taorminese sottolinea l'analogia della situazione del comune di Taormina con quella dei quattro comuni privilegiati, e riporta uno squarcio della sentenza (gia' citata) con la quale la C.d.a. di Firenze, occupandosi della vicenda del casino' di Saint-Vincent (sez. I pen., 14 dicembre 1962), riconosce che "la finalita' pubblica perseguita attraverso l'apertura dei casino' nei comune autorizzati"... consiste .... "nel procurare benefici finanziari ad enti pubblici mediante prelevamento di ricchezza privata sul denaro dissipato nel giuoco". La sentenza del tribunale penale aquilano piu' volte citata, resa in appello sulla sentenza del pretore taorminese ora ricordata, contiene altre interessanti osservazioni sulla vicenda, che poco oltre saranno riportate. In essa e' significativo innanzitutto l'aver messo in risalto l'analogia della situazione del comune di Taormina con il comune d Saint-Vincent, soprattutto a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 67/1963, che ha provveduto, secondo detto organo giudicante, a "rendere lecita l'attivita' della casa da gioco di Taormina", istituendo sui biglietti d'ingresso alla casa da gioco un diritto addizionale nella misura fissa di L. 3.500 per ciascun biglietto a favore dello Stato (art. 6)". Si ripete, per inciso, prima di passare ad una ricognizione dei passi piu' significativi della pronuncia in questione, che qui importa poco, ricostruire tutta la complessa vicenda - ormai definitivamente esaurita - della casa da gioco taorminese gia' istituita con provvedimenti che si sono disorganicamente citati nel corso della presente motivazione. Quello che conta e delineare un panorama di argomentazioni e considerazioni che non sono per la prima volta espresse dal collegio, ma che nel corso degli anni sono state piu' volte rappresentate dalla giurisprudenza, costituzionale e non per chiedere alla Corte se da tale diffuso orientamento e' possibile trarre le conseguenti modificazioni del quadro normativo. Orbene, la sentenza del tribunale dell'Aquila e' notevole perche' ravvisa nella normativa tributaria (di rango primario, come la citata legge n. 67/1963) una sorta di riconoscimento normativo del "diritto vivente": "Non si potrebbe assolutamente concludere che e' assoggettata a tributo unicamente l'attivita' delle case da gioco autorizzate per legge (precedentemente o susseguentemente alla sua entrata in vigore) perche' tale interpretazione di eccessivo rigore, forse formalmente esatta, sarebbe priva di aderenza alla situazione concreta, che il legislatore incontrava nel momento in cui stabiliva l'assoggettamento ad uno speciale tributo di quanti in Italia giocassero d'azzardo negli stabilimenti appositamente autorizzati, se pure con procedimenti di dubbia validita', sostanzialmente ingiusta. Nel testo della legge non appare, infatti, alcuna discriminazione dettata dal differente apprezzamento della legittimita' di dette case, ed il legislatore era a conoscenza della esistenza delle cinque case da gioco (San Remo, Campione e Venezia istituite legittimamente e Saint Vincent e Taormina sub iudice) perche' la loro attivita' era nota e perche' la inaugurazione del casino' di Taormina era stata notificata legalmente al Ministero del tesoro, mentre deve ritenersi inequivocabile il riferimento a quelle case da gioco, in relazione proprio alla loro sottoposizione al tributo. Non esiste alcun dubbio che la citata legge abbia inteso provvedere a regolare la situazione di fatto esistente ... ". Se dunque adesso si vuole guardare con un minimo di obbiettivita' alla attuale vicenda taorminese, si deve partire dalla considerazione, contenuta in ricorso (p. 5), che la situazione finanziaria del comune di Taormina "e', oggi, certamente ben peggiore e grave di quella che a suo tempo ha consentito di aprire case da gioco a Venezia, San Remo e Campione proprio allo scopo di pervenire al ripianamento del bilancio in quei comuni ed alla realizzazione delle opere pubbliche agli stessi necessarie". E' molto difficile riuscire a comprendere le affermazioni secondo le quali non ricorrerebbero per il comune di Taormina le stesse condizioni giuridiche oggettive e soggettive sulle quali si fondano le norme derogatorie, ne' per la verita', al di la' delle mere affermazioni apodittiche in tal senso, si rinviene negli scritti difensivi un serio tentativo di dare un contenuto alle affermazioni medesime. Cosi', ad esempio, l'interveniente ad opponendum comune di Campione d'Italia, con argomentazioni esattissime se astrattamente considerate, ma inapplicabili al caso concreto, ricorda (pag. 15 dell'atto di intervento) che "il principio di uguaglianza, diretto evidentemente ad impedire che a danno dei cittadini siano dalle leggi disposte discriminazioni arbitrarie, non puo' significare che il legislatore sia obbligato a disporre per tutti una identica disciplina, mentre, al contrario, deve essergli consentito adeguare le norme giuridiche ai vari aspetti della vita sociale, dettando norme diverse, giacche' un ordinamento il quale non distingua situazione da situazione e tutte le situazioni consideri allo stesso modo finirebbe in sostanza con non disporre regola alcuna". Tali considerazioni, perfettamente condivisibili in teoria, tralasciano pero' di dire, in concreto, quali siano, da un lato, le condizioni oggettive e soggettive assolutamente irriproducibili dei quattro comuni privilegiati, e, dall'altro, di dimostrare che il comune di Taormina si trova in una situazione non comparabile con quella di tali comuni. Tutto quello che si e' finora detto, e altre osservazioni che si faranno, dimostrano esattamente il contrario. Neppure l'osservazione - sempre della parte interveniente - che la Corte costituzionale ha gia' escluso, con la sentenza n. 237/1975, la violazione dell'art. 4 della Costituzione ad opera dell'art. 720 C.p. costituisce ostacolo alla diversa prospettazione della questione sollevata con la presente ordinanza, in cui non e' in discussione il divieto penale, ma e' in discussione il modo in cui e' stata disciplinata la derogabilita' del divieto, sia sotto il profilo dell'ambito soggettivo di applicazione, sia sotto il profilo dell'individuazione dei presupposti, sia sotto il profilo della formulazione delle norme, incomprensibile ad una lettura che non sia supportata dai lavori preparatori. 14. - Deve in proposito infine ricordarsi che la stessa Corte costituzionale, nell'esaminare la normativa derogatoria sospettata di incostituzionalita, nella gia' richiamata sentenza n. 152/1985, ha rilevato (punto 6 della motivazione) che "la situazione normativa formatasi a partire dal 1927 e' contrassegnata da un massimo di disorganicita'", rilevando come tale caratteristica investa sia il tipo di interventi cui e' condizionata l'apertura delle case, sia la diversita' dei criteri seguiti (come si e' gia' visto, situazione di frontiera per San Remo e Campione, situazione non di frontiera per Venezia), sia infine per i modi disparati in cui vengono utilizzati i proventi acquisiti nell'esercizio del gioco nei casino'. La Corte ha anche sottolineato l'accentuazione della disorganicita' derivante dalla emanazione della legge n. 848/1984, che introduce una ulteriore deroga al divieto stabilito dagli artt. 718-722 C.p, per il gioco d'azzardo effettuato a bordo delle navi da crociera durante la navigazione oltre lo Stretto di Gibilterra ed il Canale di Suez. In ragione di tali considerazioni, la Corte concludeva che "si impone dunque la necessita' di una legislazione organica che razionalizzi l'intero settore precisando tra l'altro i possibili modi di intervento delle regioni e degli altri enti locali nonche' i tipi e criteri di gestione delle case da gioco autorizzate, realizzando altresi', in tema di distribuzione dei proventi, quella perequazione di cui la legge n. 637/1973, sulla destinazione degli utili della casa da gioco di Campione, puo' essere considerata un primo passo". Infine, la Corte sottolineava (sempre al punto 6 della motivazione) che tutto cio' sarebbe dovuto avvenire "in tempi ragionevoli" (il che non e' stato). Altre affermazioni sulla irrazionalita' del sistema normativo in esame sono presenti in giurisprudenza, e sarebbe eccessivamente lunga una puntuale enunciazione di tutte le decisioni che hanno affrontato l'argomento e di tutte le argomentazioni, anche molto interessanti, che in esse possono ritrovarsi. Ci si limitera' pertanto a ricordare, per la particolare attinenza con i temi trattati, l'ordinanza (n. 692/1969, gia' ricordata) con la quale la V sezione del Consiglio di Stato ha sollevato d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1/1 r.d.l. n. 2448/1927, conv. legge n. 3125/1928, e della detta legge di conversione. Oltre che per ragioni formali (eccesso di delega), le norme in questione sono state denunciate dal Consiglio di Stato anche per violazione dell'art. 3/1 Cost., vulnerato, secondo l'ordinanza di rimessione predetta, sotto il profilo della disparita' di trattamento che l'attribuzione ad un solo soggetto - nella specie il comune di San Remo - di una posizione di privilegio (dispensa dall'obbligo di osservare la legge anche penale, secondo la gia' criticata assai vaga formulazione normativa) "potrebbe determinare nei confronti di tutti gli altri comuni della Repubblica", e che "non trova ragionevole giustificazione nelle esigenze di natura finanziaria menzionate nello stesso r.d.l. del 1927, ma non esclusive dell'ente locale beneficiario di detto provvedimento normativo". Vale la pena di ricordare che la Corte costituzionale, come per varie ragioni avvenne in altri giudizi di costituzionalita' aventi ad oggetto la stessa materia, non si pronuncio' sulla questione sollevata dal Consiglio di Stato per sopravvenienza di situazioni di fatto suscettibili di incidere sulla capacita' e legittimazione processuale della parte ricorrente, di tal che fu disposta la restituzione degli atti alla sezione rimettente, con ord. n. 87/1972, e che l'unica volta in cui la Corte pote' esaminare il merito della questione di legittimita' costituzionale ripetutamente sollevata da diversi giudici fu nel 1985 (citata sent. 152). 15. - Come si e gia' accennato, il complesso normativo in esame e' sospettato di illegittimita' anche in relazione alla previsione di cui al secondo comma dell'art. 3 Cost., che impone a tutti i pubblici poteri, e, in primo luogo, al legislatore, la rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale alla liberta' ed all'eguaglianza fra soggetti dell'ordinamento. Nonostante il ricorso sia stato proposto da un ente pubblico, e non da un soggetto privato - al quale letteralmente il secondo comma dell'art. 3 della Costituzione fa riferimento ("eguaglianza dei cittadini": "pieno sviluppo della persona umana"; "effettiva partecipazione dei lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese") - e per azionare un interesse appartenente innanzitutto all'ente pubblico ricorrente, tuttavia non puo' disconoscersi che, attesa la natura di ente esponenziale dell'ente-comune, in ultima analisi vengono in considerazione, nel raffronto con il canone di eguaglianza sostanziale, le sottese situazioni dei cittadini del comune di Taormina, rispetto alla situazione, a fronte delle stesse norme di divieto, dei cittadini dei comuni "privilegiati" (in senso giuridico, avendo questi fruito, di riflesso, di una normativa di "privilegio", nel senso etimologico di lex in privos lata). In altri termini, la comunita' taorminese viene ad essere discriminata in relazione ad interessi forti, e fortemente avvertiti dalla stessa, quali lo sviluppo economico-occupazionale attraverso l'incremento turistico l'attrazione di valuta pregiata, ed il ripianamento dei bilanci. In relazione al primo aspetto, va osservato che la globalizzazione dei mercati e la conseguente standardizzazione dei servizi offerti dalle localita' turistiche rende ancora piu' evidente la disparita' di trattamento fra localita' che possono offrire al turista anche il casino' e localita' in cui cio' non e' possibile, che sono destinate a rimanere fuori dal circuito del grande turismo. Un aspetto forse meno evidente, ma non per questo marginale del quale tener conto e' anche quello del prosperare di case da gioco clandestine nei luoghi in cui non e' ammessa l'apertura di case da gioco, fenomeno non certo desiderabile, e che appare tanto piu' grave ove si pensi che vi sono comuni nei quali tale situazione di svantaggio e' ignota proprio grazie all'esistenza dei casino'. 16 - Ad avviso del collegio, la normativa costituita dai piu' volte citati rr.dd.ll. n. 2448/1927 (conv. legge n. 3125/1928), n. 201/1933 (conv. legge n. 505/1933), n. 1404/1936 (conv. legge n. 62/1937), e dalle leggi n. 1065/1971 e n. 690/1971, contenenti una "sanatoria" del decreto del Presidente della regione Valle d'Aosta n. 241/3 del 3 aprile 1946 viola anche l'art. 2 Cost., che riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo non soltanto come singolo, ma anche nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalita'. Il riconoscimento e la garanzia vanno nella fattispecie riempiti di contenuto con il riferimento al diritto al lavoro, di cui al successivo art. 4 della Carta, che va inteso come enunciazione del dovere dei pubblici poteri di: a) attuare una politica di piena occupazione (Corte cost., n. 248/1986), rivolta all'assorbimento della disoccupazione ed alla creazione e garanzia di posti di lavoro; b) di creare le condizioni economiche, sociali e giuridiche che consentano l'impiego di tutti i cittadini idonei al lavoro (Corte cost., n. 45/1965; n. 105/1985). Tutto cio' viene qui in rilievo in quanto, come gia' si e' reiteratamente detto, uno degli interessi materiali forti che il comune di Taormina, quale ente esponenziale della collettivita' che ne forma la base intende tutelare con il ricorso in epigrafe e' l'interesse all'incremento delle possibilita' occupazionali, notoriamente in Sicilia assai depresse. 17. - La ripetuta normativa derogatoria del divieto di istituire case da cioco appare anche in contrasto con l'art. 5 Cost. Il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali previsti da tale precetto costituzionale devono ricomprendere anche, ad avviso del collegio, l'eliminazione degli ostacoli normativi che, come nel caso di specie, impediscono alle collettivita' locali una piena espansione delle proprie potenzialita' economiche, soprattutto - non si puo' fare a meno di rilevarlo - ove tale possibilita' sia stata riconosciuta ad alcune collettivita'. Ed invero, come gia' si e' avuto modo di accennare brevemente nel corso della disamina relativa all'interesse azionato dal comune di Taormina (par. 6, in fine), agli enti locali l'ordinamento attribuisce - oltre che la possibilita' di esercitare direttamente attivita' imprenditoriale come previsto per tutti gli enti pubblici non economici dall'art. 2093/2 C.c. (si veda, in particolare, proprio per quanto concerne l'assunzione diretta della gestione del casino' municipale da parte del comune di San Remo, Cass., SS.uu., 26 gennaio 1995, n. 897) - una varieta' di strumenti attraverso i quali provvedere "alla gestione dei servizi pubblici che abbiano per oggetto produzione di beni ed attivita' rivolte a realizzare fini sociali e a promuovere lo sviluppo economico e civile delle comunita' locali" (art. 22/1 legge n. 142/1990, recepita in Sicilia con legge regionali n. 88/1991, e succ. modificazioni ed integrazioni), che si estrinsecano sia nella mera previsione della gestione diretta in economia e della concessione a terzi, che nella possibilita' di istituire un'azienda speciale, sino a giungere alla previsione di un modulo operativo tipicamente imprenditoriale quale quello della costituzione o partecipazione a societa' per azioni o a responsabilita' limitata a prevalente capitale pubblico (comma 3, lett. e), della medesima norma). Ma l'utilizzazione di tali risorse giuridiche risulta assolutamente ed ingiustamente preclusa in materia dalla normativa derogatoria e di privilegio in questione. 18. - Infine, le stesse considerazioni svolte nel precedente paragrafo valgono a far luce sul contrasto della normativa derogatoria piu' volte citata con l'art. 41 Cost., che tutela il diritto al libero svolgimento di attivita' economiche. L'attivita' economica si pone, nella presente fattispecie, come substrato dell'interesse ad agire, come interesse della collettivita' di cui il comune e' ente esponenziale, ed anche come interesse proprio del comune come soggetto pubblico, alla stregua della normativa citata alla fine del paragrafo che precede. Ne' puo' opporsi, come fa l'interveniente ad opponendum comune di Campione d'Italia (pag. 15 dell'atto di intervento), che nella fattispecie considerata non ricorrerebbe l'arbitraria restrizione della liberta' di scelta e di svolgimento di attivita' economiche che l'art. 41 Cost. intende tutelare, limitandosi ad affermare che "non si vede come il diniego dell'autorizzazione all'esercizio di una casa da gioco possa ritenersi in contrasto con tali principi". L'arbitrio, infatti, deve essere colto in correlazione al principio di uguaglianza, che vieta le discriminazioni ingiustificate di situazioni uguali, di tal che se una attivita' economica e' a taluno consentita anche in deroga alle leggi penali in considerazione di presupposti ed esigenze niente affatto eccezionali (vocazione turistica di una localita', esigenze di assestamento del bilancio), cio' finisce per contrastare anche con l'art. 41, proprio nei termini di arbitraria restrizione che la stessa parte interveniente ha individuato come contenuto della norma in questione, escludendo tuttavia che cio' si verificasse nella fattispecie. 19. - Conclusivamente, atteso che le dedotte questioni di costituzionalita' appaiono rilevanti per la decisione cautelare prima, e del ricorso nel merito in seguito, e non manifestamente infondate, si rende necessario sospendere il presente giudizio, cautelare e di merito, in attesa che la Corte costituzionale si pronunci sulla questione di illegittimita' costituzionale dei rr.dd.ll. n. 2448/1927 (conv. legge n. 3125/1928), n. 201/1933 (conv. legge n. 505/1933), n. 1404/1936 (conv. legge n. 62/1937), e dalle leggi n. 1065/1971 e n. 690/1971, contenenti una "sanatoria" del decreto del Presidente della regione Valle d'Aosta n. 241/3 del 3 aprile 1946, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5 e 41 Cost., nella parte in cui non prevedono in via generale ed astratta il potere del Ministro dell'interno di autorizzare, anche in deroga alle leggi vigenti, purche' senza aggravio per il bilancio dello Stato, i comuni, ad adottare tutti i provvedimenti necessari per potere addivenire all'assestamento del proprio bilancio ed all'esecuzione delle opere pubbliche indilazionabili, con espressa elencazione dei divieti derogabili - tra i quali quello di aprire case da gioco - e delle situazioni tenute conto delle quali il predetto Ministro puo' rilasciare la predetta autorizzazione (rectius: dispensa). 20. - Non e' forse inutile rilevare l'opportunita', almeno ad avviso del collegio, di notificare la presente ordinanza anche ai Presidenti della regione Valle d'Aosta e del Consiglio regionale della stessa regione, in quanto, se pure formalmente cio' potrebbe apparire superfluo, essendo presente nel complesso normativo oggetto della questione di legittimita' costituzionale un atto regionale avente valore di atto amministrativo (decreto del Presidente della regione Valle d'Aosta n. 241/3 del 3 aprile 1946), e le leggi - statali, e non gia' regionali - di "sanatoria" del medesimo, piu' volte ricordate, tuttavia l'eventuale declaratoria di incostituzionalita' delle norme denunciate verrebbe a determinare anche nell'ambito dell'ordinamento valdostano una modificazione comunque rilevante (se pure non pregiudizievole, data l'impostazione della questione di legittimita' costituzionale sollevata con la presente ordinanza, che non mira a demolire le norme di privilegio, bensi' ad eliminarne tale carattere attraverso l'estensione dei relativi benefici ad altri soggetti che si trovano nelle identiche condizioni dei soggetti privilegiati).
P. Q. M. Il Tribunale amministrativo regionale della Sicilia - Sezione staccata di Catania (sez. III) - visti gli artt. 134 della Costituzione e 23 legge n. 87/1953, cosi' statuisce: 1) Rigetta l'istanza di sospensione del giudizio ex art. 367 c.p.c., in quanto il proposto regolamento di giurisdizione deve ritenersi irricevibile, inammissibile ed infondato, come in motivazione, e rigetta, conseguentemente, anche l'istanza ex art. 369 c.p.c. di trasmissione del fascicolo d'ufficio alla cancelleria della Corte di cassazione, come pure precisato in motivazione; 2) Rinvia gli adempimenti ex art. 31 legge 6 dicembre 1971, n. 1034, in ordine al proposto regolamento di competenza, a data successiva all'esaurimento della fase cautelare (comprensiva della previa risoluzione della presente questione di costituzionalita'), come precisato in motivazione; 3) Solleva, in accoglimento del secondo motivo di gravame, ritenendola rilevante e non manifestamente infondata, la questione di incostituzionalita' dei rr.dd.ll. n. 2448/1927 (conv. legge n. 3125/1928), n. 201/1933 (conv. legge n. 505/1933), n. 1404/1936 (conv. legge n. 62/1937), e dalle leggi n. 1065/1971 e n. 690/1971, e tutte le altre successive modificazioni ed integrazioni di esse, contenenti una "sanatoria" del decreto del Presidente della regione Valle d'Aosta n. 241/3 del 3 aprile 1946, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5 e 41 Cost., nella parte in cui non prevedono in via generale ed astratta il potere dei Ministro dell'interno di autorizzare, anche in deroga alle leggi vigenti, purche' senza aggravio per il bilancio dello Stato i comuni ad adottare tutti i provvedimenti necessari per potere addivenire all'assestamento del proprio bilancio ed all'esecuzione delle opere pubbliche indilazionabili, con espressa elencazione dei divieti derogabili - tra i quali quello di aprire case da gioco - e delle situazioni tenuto conto delle quali il predetto Ministro puo' rilasciare la predetta autorizzazione (rectius: dispensa); 4) Sospende il giudizio, in sede cautelare e nel merito, e dispone la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; La presente ordinanza sara' eseguita dall'autorita' amministrativa; essa viene depositata in segreteria che provvedera' a notificarne copia alle parti, al Presidente del Consiglio dei Ministri, ai Presidenti delle due Camere dei Parlamento ed ai Presidenti della Regione Valle d'Aosta e del Consiglio regionale della stessa Regione. Cosi' deciso in Catania, nelle camere di consiglio del 14 e del 16 dicembre 1999. Il presidente: Zingales L'estensore: Messina 00C0336