N. 184 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 dicembre 1999

Amministrativo  regionale della Sicilia, sez. staccata di Catania sul
ricorso   proposto   da   comune  di  Taormina  contro  il  Ministero
dell'interno  ed  altri  Casa da gioco - Gioco d'azzardo - Deroghe al
divieto  penale  del gioco d'azzardo - Autorizzazione all'apertura di
case  da gioco per i comuni di San Remo, Venezia, Campione d'Italia e
Saint  Vincent - Mancata previsione, in via generale ed astratta, del
potere  del  Ministro  dell'interno di autorizzare (in presenza della
stessa   situazione   turistica   e   finanziaria   alla  base  della
autorizzazione  per  i  predetti  comuni), anche in deroga alle leggi
vigenti  senza  aggravio  per  il  bilancio dello Stato, altri Comuni
all'apertura   di  case  da  gioco  -  Ingiustificata  situazione  di
privilegio dei comuni dispensati dal divieto rispetto ad altri comuni
in  identica  situazione  turistica  e  finanziaria  -  Incidenza sul
principio  di  autonomia degli enti locali - Lesione del principio di
liberta'  d'iniziativa  economica  -  Riferimento alla sentenza della
Corte  costituzionale  n. 152/1985,  di  non  fondatezza  di  analoga
questione, ritenuta superabile dal giudice rimettente.
- R.d.l.  24  novembre 1927, n. 2248 (recte: r.d.l. 22 dicembre 1927,
  n. 2448),  conv. in legge 27 dicembre 1928, n. 3125; r.d.l. 2 marzo
  1933,  n. 201,  conv.  in  legge  8  maggio 1933, n. 505; r.d.l. 16
  luglio  1936, n. 1404, conv. in legge 14 gennaio 1937, n. 62; legge
  6 dicembre 1971, n. 1065; legge 7 agosto 1971, n. 690 e succ. mod.
- Costituzione, artt. 2, 3, 5 e 41.
(GU n.18 del 26-4-2000 )
                IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

    Ha pronunciato la seguente ordinanza sulla domanda di sospensione
  della   esecuzione  del  provvedimento  impugnato  con  il  ricorso
  n. 4904/1999  r.g., proposto dal comune di Taormina, in persona del
  legale rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv.
  Paolo  Turiano  Mantica,  ed  elettivamente domiciliato in Catania,
  viale XX Settembre, 47/E (studio avv. Giampiero Garofalo);
    Contro   il  Ministero  dell'interno,  in  persona  del  Ministro
  pro-tempore,   rappresentato   e  difeso  ex  lege  dall'Avvocatura
  distrettuale   dello   Stato  di  Catania,  domiciliataria;  e  nei
  confronti   del   comune   di   Venezia,   in  persona  del  legale
  rappresentante pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Giulio
  Gidoni, dall'avv. Nicolo' Paoletti, dall'avv. Federico Sorrentino e
  dall'avv.   Michele  Ali',  domiciliatario  (via  Crociferi,  60  -
  Catania);   del  comune  di  Campione  d'Italia,  interveniente  ad
  opponendum,  in  persona  del  legale  rappresentante  pro-tempore,
  rappresentato  e  difeso  dall'avv. Nicola Seminara, domiciliatario
  (corso  delle  Province,  203  -  Catania); del comune di San Remo,
  interveniente  ad  opponendum, in persona del legale rappresentante
  pro-tempore, rappresentato e difeso dall'avv. Federico Sorrentino e
  dall'avv.   Michele   Ali',   domiciliatario  (via  Crociferi,  60,
  Catania);  per  l'annullamento,  previa  sospensione  -  e  previa,
  occorrendo:  a)  rimessione  degli  atti  alla Corte costituzionale
  perche'  giudichi  sulla questione che sara' sollevata nel contesto
  del  presente ricorso, e b) rimessione alla Corte di giustizia CEE,
  ai  sensi dell'art. 177 del Trattato, della questione pregiudiziale
  che,  pure,  sara'  prospettata  nel  contesto  del  ricorso  - del
  provvedimento  negativo  3 agosto 1999 prot. n. 09904513-15100-4124
  con  il quale il Ministero dell'interno ha respinto la richiesta di
  apertura di una casa da gioco nel territorio comunale, asserendo di
  non avere il relativo potere autorizzatorio;
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Vista  la  domanda  di  sospensione  dell'esecuzione del predetto
  provvedimento;
    Visti gli atti tutti della causa;
    Relatore la dott.ssa Rosalia Messina;
    Uditi  per le parti, in camera di consiglio il giorno 14 dicembre
  1999,   1'avv.   P.   Turiano  Mantica,  l'avv.  Giuseppe  Di  Gesu
  (Avvocatura  dello  Stato),  l'avv. M. Ali', l'avv. Nicola Seminara
  (quest'ultimo  per l'interveniente ad opponendun comune di Campione
  d'Italia);
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue;

                              F a t t o

    Con  il ricorso in epigrafe il comune di Taormina ha impugnato il
  provvedimento  negativo  3 agosto 1999 prot. n. 09904513-15100-4124
  con  il  quale  il resistente Ministero dell'interno ha respinto la
  richiesta di apertura di una casa da gioco nel territorio comunale,
  asserendo di non avere il relativo potere autorizzatorio.
    L'ente  ricorrente  ha  chiesto  la sospensione degli effetti del
  predetto diniego, avverso il quale ha dedotto censure di violazione
  di  legge ed eccesso di potere - di cui diffusamente si parlera' in
  motivazione   -   chiedendo,   inoltre,   che,   ove  il  tribunale
  amministrativo  adito  lo  ritenga  necessario,  sia  sollevata  la
  questione di legittimita' costituzionale della disciplina applicata
  -  r.  d.-l.  n. 2448/1927,  conv.  in legge n. 3125/1928; r. d.-l.
  n. 201/1933,  conv.  in  legge  n. 505/1933; r. d.-l. n. 1404/1936,
  conv.  in  legge  n. 62/1937;  legge  n. 1065/1971  e  n. 690/1971,
  contenenti una "sanatoria" del decreto del presidente della regione
  Valle  d'Aosta,  n. 241/3 del 3 aprile 1946 - e che, eventualmente,
  si  rimetta alla Corte di giustizia CEE, ai sensi dell'art. 177 del
  Trattato,   la   questione  pregiudiziale  relativa  alla  medesima
  disciplina  (in  particolare, sotto il profilo della compatibilita'
  di essa con i diritti di libera circolazione e stabilimento).
    Il  collegio,  con ordinanza n. 449/1999, adottata alla camera di
  consiglio  tenutasi nei giorni 14 e 16 del 1999, e pubblicata il 17
  dicembre   successivo,   ha   sospeso   interinalmente,   ai  sensi
  dell'art. 23/2,  legge n. 87/1953, il giudizio cautelare introdotto
  in  una  al  ricorso  in  epigrafe, rinviandone la trattazione alla
  prima  camera di consiglio utile successiva alla restituzione degli
  atti  del  giudizio  da  parte  della  Corte costituzionale dopo la
  decisione   della   questione   di   leigittimita'  costituzionale,
  sollevata  con la presente ordinanza, assunta nella medesima camera
  di consiglio.
    Successivamente  alla  camera di consiglio predetta, il comune di
  Campione  d'Italia,  intervenuto  ad  opponendum  nel  giudizio, ha
  depositato agli atti di causa, in data 16 dicembre 1999, l'istanza,
  notificata  il  10  dicembre  1999,  per regolamento di competenza,
  diretta  al  Consiglio  di  Stato,  eccependo  la  incompetenza del
  Tribunale   amministrativo   regionale   adito,   e   chiedendo  la
  devoluzione   di   esso   gravame  alla  cognizione  del  Tribunale
  amministrativo  regionale  Lazio,  asseritamente  competente per la
  controversia di cui trattasi.
    Il  comune di Venezia, al quale parte ricorrente ha notificato il
  gravame,  ha  proposto dinanzi alla Corte di cassazione ricorso per
  regolamento  di  giurisdizione (depositato agli atti di causa il 16
  dicembre   1999),   eccependo  in  via  principale  il  difetto  di
  giurisdizione   assoluto,   in   via   subordinata  il  difetto  di
  giurisdizione relativo.
    Il comune di Venezia ha altresi', con istanza ex art. 367 c.p.c.,
  depositata  agli  atti di causa il 20 dicembre 1999, chiesto che il
  Tribunale   amministrativo   regionale  decidesse  in  ordine  alla
  sospensione del giudizio.
    Con  due  istanze  depositate  agli  atti di causa il 16 ed il 21
  dicembre  1999  il  predetto  comune ha chiesto la trasmissione del
  fascicolo  d'ufficio alla cancelleria delle ss.uu. della Cassazione
  ai sensi dell'art. 369, ultimo comma, c.p.c.
    Con  atto  depositato  in data 20 gennaio 2000, non notificato al
  ricorrente  comune  di  Taormina,  e' intervenuto ad opponendum nel
  presente giudizio il comune di San Remo.

                            D i r i t t o

    1. - Come  gia' esposto in narrativa, con il ricorso in epigrafe,
  n. 4904/1999   r.g.,   il   comune  di  Taormina  ha  impugnato  il
  provvedimento  negativo  3 agosto 1999 prot. n. 09904513-15100-4124
  con  il  quale  il resistente Ministero dell'interno ha respinto la
  richiesta di apertura di una casa da gioco nel territorio comunale,
  asserendo di non avere il relativo potere autorizzatorio.
    Parte ricorrente ha dedotto i seguenti motivi:
        1) violazione  di  legge  in relazione ai dd.PP.RR. nn. 640 e
  641  del  26  ottobre  1972,  il  primo  in materia d'imposta sugli
  spettacoli,  il  secondo contenente la disciplina delle tasse sulle
  concessioni  governative - eccesso di potere in tutte le sue figure
  sintomatiche.
    Premessa  la  ritenuta  illegittimita' costituzionale delle norme
  che hanno consentito il Ministro dell'interno di esonerare i comuni
  di  Campione,  San Remo e Venezia dall'osservanza degli artt. 718 e
  722 c.p., parte ricorrente ritiene che il divieto di istituzione di
  case  per l'esercizio del gioco d'azzardo e' neutralizzato da altre
  norme,  rinvenibili nell'ordinamento, derogatorie del divieto. Tali
  norme  vengono  individuate  dal  comune ricorrente nell'insieme di
  disposizioni  tributarie  che  riconoscono  il gioco d'azzardo e le
  relative  case  da  gioco  (artt. 1 e 2 d.P.R. n. 640/1972, tariffa
  allegata  al d.P.R. n. 641/1972, al numero 61, nonche' art. 9 dello
  stesso  d.P.R.),  le  quali  costituirebbero "un regime derogatorio
  generalizzato    che   trova   nel   provvedimento   amministrativo
  (autorizzatorio) la radice del suo fondamento" (p. 8 del ricorso);
        2) illegittimita'        riflesssa        dall'illegittimita'
  costituzionale del sistema complessivo di regolazione dell'apertura
  di case da gioco in Italia.
    Parte  ricorrente si sofferma sulle affermazioni piu' volte fatte
  dalla  giurisprudenza  in ordine alla illegittimita' costituzionale
  delle   norme   che  esonerano  soltanto  quattro  comuni  d'Italia
  dall'osservanza del generale divieto di tenere o agevolare il gioco
  d'azzardo  - r. d.-l. n. 2448/1927, conv. in legge n. 3125/1928; r.
  d.-l.   n. 201/1933,   conv.   in   legge   n. 505/1933;  r.  d.-l.
  n. 1404/1936,  conv.  in  legge  n. 62/1937;  legge  n. 1065/1971 e
  n. 690/1971,  contenenti una "sanatoria" del decreto del presidente
  della regione Valle d'Aosta, il n. 241/3 del 3 aprile 1946 - di cui
  agli  artt. 718  ss.  c.p.,  dedicando  particolare attenzione alla
  sentenza  della  Corte  costituzionale n. 152/1985. Detta pronuncia
  rilevava    la    disorganicita'   della   disciplina   intervenuta
  episodicamente   in   materia,   ammonendo   il  legislatore  sulla
  necessita'   di   intervenire  rapidamente  in  modo  coerente.  In
  conclusione,  parte  ricorrente  denuncia  la  normativa in vigore,
  complessivamente  considerata,  per  violazione  degli artt. 3 e 41
  Cost.,  nella  parte  in cui essa normativa prevede la facolta' del
  Ministro dell'interno di autorizzare l'apertura di case da gioco in
  presenza  delle  condizioni  che  hanno consentito l'apertura delle
  quattro  case  da  gioco  esistenti  in San Remo, Venezia, Campione
  d'Italia e Saint Vincent;
        3) altro  profilo di illegittimita', in ordine al quale parte
  ricorrente  ha  chiesto, ove il tribunale adito lo ritenga, che sia
  investita  la  Corte  di  giustizia CEE, ai sensi dell'art. 177 del
  Trattato  di  Roma,  della  questione  pregiudiziale  relativa alla
  predetta normativa, di cui si sostiene altresi' la incompatibilita'
  con principi comunitari, in particolare con quelli che sanciscono i
  diritti di libera circolazione e stabilimento.

    2. - La  terza  sezione  di  questo  tribunale,  come  si e' pure
  esposto  nelle stesse premesse di fatto, con ordinanza n. 494/1999,
  deliberata  nella  camera  di consiglio del 14 dicembre 1999 (nella
  quale   era  stata  fissata,  in  base  al  calendario  ritualmente
  predisposto per il 1999, la trattazione della domanda cautelare) ed
  in quella successiva (di mera prosecuzione dell'attivita' decisoria
  del  collegio) del 16 dicembre 1999, ha sospeso, ai sensi dell'art.
  23/2,  legge n. 87/1953, il giudizio cautelare introdotto in una al
  ricorso  in  epigrafe, rinviandone la trattazione alla prima camera
  di  consiglio  utile  successiva  alla  restituzione degli atti del
  giudizio  da  parte  della  Corte  cosituzionale, dopo la decisione
  della  questione  di  legittimita'  costituzionale,  sollevata  con
  separata ordinanza assunta in data odierna.
    E  cio',  ovviamente, ai fini meramente ordinatori concernenti le
  modalita' ed i tempi della vera e propria trattazione della domanda
  cautelare  e  della  relativa  decisione  dopo la definizione della
  questione di costituzionalita' di cui trattasi.

    3. - Successivamente  alla  data  di discussione e di contestuale
  passaggio  in  decisione  (udienza  camerale  del 14 dicembre 1999)
  della controversia cautelare di cui trattasi, il comune di Venezia,
  con  atto  notificato  al  ricorrente comune di Taormina in data 16
  dicembre 1999 (e depositato in pari data nella segreteria di questo
  Tribunale  amministrativo  regionale),  ha  proposto  ricorso  alle
  ss.uu. della Cassazione per regolamento preventivo di giurisdizione
  ex   art. 41   c.p.c.,  chiedendo  che  venga  dichiarata,  in  via
  principale,  la  carenza  assoluta  di  giurisdizione  in ordine al
  ricorso   indicato  in  epigrafe,  o  comunque,  in  subordine,  la
  giurisdizione del giudice ordinario in materia. Lo stesso comune di
  Venezia   in  data  20  dicembre  1999  ha  depositato  istanza  di
  sospensione del giudizio ex art. 367 c.p.c., e, in data 16 dicembre
  1999  e 21 dicembre 1999, ha depositato due istanze di trasmissione
  del fascicolo ex art. 369 c.p.c.
    3.1. - Tale  ricorso  per  regolamento  di  giurisdizione  appare
  manifestamente  inammissibile (recte: irricevibile) per tardivita',
  inammissibile   sott'altro   profilo,   per   quanto   concerne  la
  declaratoria  di  difetto  assoluto  di  giurisdizione,  oltre  che
  manifestamente   infondato  in  relazione  ad  entrambi  i  profili
  dedotti,  sicche',  come  stabilito  dall'art.  367,  primo  comma,
  c.p.c.,  nel  testo sostituito dall'art. 61 della legge 28 novembre
  1990,  n. 353  (in  base  al  quale  "Una  copia  del  ricorso  per
  cassazione   proposto   a  norma  dell'art.  41,  primo  comma,  e'
  depositata,   dopo   la   notificazione  alle  altri  parti,  nella
  cancelleria  del  giudice  davanti  a  cui pende la causa, il quale
  sospende  il  processo  se  non  ritiene  l'istanza  manifestamente
  inammissibile o la contestazione della giurisdizione manifestamente
  infondata.  Il  giudice  istruttore  o  il  Collegio  provvede  con
  ordinanza"),  non  puo'  conseguire l'effetto della sospensione del
  giudizio  ope judicis (e non piu' ope legis o ope jure) prevista in
  via  generale  dal  testo  novellato  della  predetta  disposizione
  processuale.
    3.2. - Osserva,  innanzitutto, il Collegio che l'anomalo istituto
  processuale del regolamento preventivo di giurisdizione - i cui usi
  perversi  e  distorsivi  ed  i cui frequenti abusi a fini meramente
  dilatori  sono  sempre stati unanimamente criticati dalla dottrina,
  ed  anzi  ferocemente  e  giustamente  stigmatizzati da quella piu'
  sensibile   ed   autorevole   che   ha   finito   per   influenzare
  favorevolmente una complessiva rimeditazione e revisione critica da
  parte   delle  sezioni  unite  della  Cassazione,  le  quali  hanno
  recentemente,  e  finalmente,  ristretto  i confini di quest'ibrido
  strumento   non   impugnatorio  di  verifica  della  giurisdizione,
  sicuramente  ai  limiti estremi della legittimita' costituzionale -
  non  e' proponibile dopo che il giudice del merito abbia emesso una
  pronunzia  (sentenza  od  ordinanza),  anche soltanto limitata alla
  giurisdizione o ad altra questione processuale, dato che la formula
  della  prima parte del primo comma dell'art. 41 c.p.c. ("Finche' la
  causa non sia decisa nel merito in primo grado, ciascuna parte puo'
  chiedere alle sezione unite della Corte di cassazione che risolvano
  le questioni di giurisdizione di cui all'art. 37"), anziche' essere
  interpretata, come si e' fatto sino al 1996, nel senso che solo una
  pronunzia  che  avesse  attinto il merito della causa precludeva il
  regolamento,  deve  essere  letta nel senso che qualsiasi decisione
  (di  rito  o  di  merito),  emanata  dal giudice presso il quale il
  processo  e'  radicato,  ha  efficacia  preclusiva  del regolamento
  (Cass.  ss.uu. 22 marzo 1996, n. 2466, punto VIII della motivazione
  in  Foro  It.,  1996,  I, n. 5, 1635, e 1638 ss., con ampie note di
  commento; idem, 7 maggio 1996, n. 4218, 3 febbraio 1998, n. 1100, e
  30 dicembre 1998, n. 12902).
    Tale  principio, poi, deve ovviamente essere integrato con quello
  ulteriore  e connesso, gia' affermato molti anni prima dalle stesse
  sezioni  unite, in base al quale la medesima disposizione contenuta
  nell'art. 41,  primo  comma,  c.p.c.,  va  intesa  nel senso che il
  regolamento  resta  precluso  non  dal  momento  del deposito della
  pronunzia  (sentenza  od ordinanza), ma da quello precedente in cui
  la  causa viene discussa e trattenuta per la decisione (di merito o
  cautelare),  atteso  che  da  tale momento inizia l'iter dei poteri
  decisori  del  giudice,  ed  il  regolamento  medesimo non puo piu'
  assolvere  alla  sua funzione di favorire una sollecita definizione
  del   processo,  investendo  per  saltum  la  suprema  Corte  della
  questione  di  giurisdizione  (cosi',  fra  altre, Cass. ss.uu., 18
  novembre  1982,  nn. 6192,  6193  e  6194,  che hanno integralmente
  confermato  l'orientamento  espresso  dal  Tribunale amministrativo
  regionale  Sicilia  -  Catania con la sentenza n. 785 del 28 giugno
  1980, nello stesso senso, ancor prima, Cass. ss.uu., 3 giugno 1978,
  n. 2773, 7 novembre 1979, n. 5734, 13 giugno 1980, n. 3788, e, piu'
  recentemente, 26 gennaio 1988, n. 633).
    Con la predetta sentenza n. 785/1980 (punto 2 della motivazione),
  infatti,   questo  tribunale  era  gia'  pervenuto  alla  suesposta
  conclusione  attraverso  un  itinerario  logico-argomentativo  che,
  enucleando  e valorizzando soprattutto il concetto di "passaggio in
  decisione"  della  causa quale atto deliberativo distinto sia dalla
  pronuncia  che  dal  deposito  (e quindi dalla pubblicazione) della
  stessa pronunzia, si articola essenzialmente nei seguenti enunciati
  motivatori:
        "Invero,  e'  principio  generale  che  con la chiusura della
  discussione  dinanzi  al  collegio  le  parti  perdono il potere di
  svolgere,   nel   primo  grado  di  giudizio,  qualsiasi  attivita'
  processuale;  mentre  in quella stessa giornata il Collegio decide,
  di  norma,  la  controversia  (artt.  19,  legge  6  dicembre 1971,
  n. 1034, e 61 r.d. 17 agosto 1907, n. 642).
    Prima  d'allora  le  parti  hanno  ampio termine per sollevare il
  regolamento preventivo di giurisdizione. E dopo la emanazione della
  sentenza  di  primo  grado possono fare apprezzare le loro tesi dal
  giudice  d'appello  anche  in  via cautelare, al fine d'ottenere la
  sospensione della sentenza impugnata (art. 33, legge n. 1034/1971),
  come  possono ulteriormente chiedere la sospensione cautelare della
  sentenza  d'appello (art. 373, c.p.c.) in pendenza del ricorso alle
  sezioni   unite  della  Cassazione  per  questioni  attinenti  alla
  giurisdizione  (art. 111, terzo comma, Costituzione; art. 36, legge
  n. 1034/1971).
    Non va invece ritenuto che il legislatore abbia inteso offrire ad
  una parte il potere di svolgere attivita' efficace (ed apprezzabile
  dal giudice) sul giudizio in corso senza che le altre parti abbiano
  modo  di  conoscere  la  attivita'  suddetta  e  di  far  valere in
  proposito,  nello  stesso  grado del giudizio in questione, le loro
  difese.  Cio'  sarebbe, invero, in contrasto con l'art. 24, c.p.v.,
  della Costituzione, che richiede la possibilita' di contraddittorio
  in ogni stato e grado del procedimento, mentre tale contraddittorio
  non esiste piu' dopo che il ricorso e' trattenuto per la decisione.
  E'  infatti  evidente che sui requisiti d'esistenza e validita' del
  ricorso  per regolamento di giurisdizione, come sulla portata delle
  norme  che  lo prevedono, le controparti hanno interesse a svolgere
  difese  di  fatto  e  di diritto. Ed e' appena il caso di ricordare
  ancora,  al riguardo, che la legislazione ordinaria va interpretata
  in   modo   che  essa  risulti  conforme,  e  non  contraria,  alla
  Costituzione.
    Le  suesposte  ragioni  inducono,  quindi a ritenere che l'inciso
  "finche'  la  causa  non sia decisa nel merito in primo grado , con
  cui  inizia  l'art. 41, c.p.c., vada correttamente interpretato ...
  nel  senso  che  a segnare il limite temporale oltre il quale resta
  preclusa  la  facolta' di proposizione dell'incidente preventivo di
  giurisdizione  debba  porsi  il  momento del passaggio in decisione
  della  causa  (e  non  la  decisione  stessa,  ne'  tanto  meno  la
  pubblicazione  della  sentenza),  perche'  e'  tale  momento  che -
  logicamente   ancor   prima  che  giuridicamente  -  conclude  ogni
  possibile  attivita'  processuale delle parti nel grado di giudizio
  in  svolgimento; e che, quindi, "pendenza di tale grado di giudizio
  non  si  abbia  piu',  ai  fini  della  rituale  esperibilita'  del
  regolamento preventivo e della conseguente sospensione del processo
  di  merito  ex art. 367, primo comma, c.p.c., dopo il passaggio del
  ricorso in decisione.
    Nella  specie,  pertanto,  i  proposti  regolamenti preventivi di
  giurisdizione   devono   ritenersi   irricevibili  perche'  tardivi
  rispetto  al  limite  temporale  segnato  dall'art.  41,  c.p.c., e
  conseguentemente  inidonei  a  produrre la sospensione del processo
  amministrativo  ex  art.  367, primo comma, c.p.c. - lungi, quindi,
  dal  poter  emanare  l'ordinanza  non  impugnabile  di  cui  a tale
  disposizione,  il  Collegio  e'  tenuto,  al contrario, a procedere
  oltre nell'attivita' di decisione della controversia".
    Alla stregua dei suesposti principi, quindi, e come espressamente
  previsto  dal  testo  novellato dall'art. 367, primo comma, c.p.c.,
  anche  nella  fattispecie  in  esame  il  regolamento preventivo di
  giurisdizione   deve   essere   dichiarato   inammissibile  (recte:
  irricevibile) per tardivita' essendo stato notificato e depositato,
  come  gia'  si e' detto, successivamente alla data di discussione e
  di contestuale passaggio in decisione della controversia cautelare.

    3.2.1. - In  relazione,  poi,  all'eccepito  difetto  assoluto di
  giurisdizione,   il  regolamento  di  giurisdizione  proposto  deve
  ritenersi   assolutamente  inammissibile  alla  stregua  del  nuovo
  orientamento  delle  sezioni unite della Cassazione che adeguandosi
  alle critiche espresse unitariamente dalla piu' autorevole dottrina
  hanno  riconosciuto  che  in  realta'  l'asserita  improponibilita'
  assoluta  della  domanda giudiziale nei confronti della p.a., cosi'
  come  quella  fra  soggetti  privati,  costituisce una questione di
  merito  e  non  di  giurisdizione,  come  tale  non  deducibile col
  regolamento  preventivo  di  giurisdizione  previsto  dall'art. 41,
  c.p.c.
    Ritiene  il  Collegio  che,  ai  fini  di una adeguata o migliore
  comprensione  della problematica in esame e del senso della portata
  di  tale svolta interpretativa delle Sezioni unite, sia necessario,
  oltre   che  puntualizzare  il  quadro  normativo  di  riferimento,
  formulare  soprattutto  le premesse teoriche essenziali nelle quali
  si  colloca  e  dalle  quali discende la predetta conclusione della
  inconfigurabilita'  del  difetto  assoluto  di  giurisdizione  come
  questione  di giurisdizione deducibile in Cassazione ai sensi e per
  gli effetti del combinato disposto degli artt. 37 e 41, c.p.c.
    Occorre innanzitutto ricordare, a livello di normazione positiva,
  che  il  codice  di  rito prende in considerazione, ma soltanto con
  formulazione  generica  ed  imprecisa,  la problematica del difetto
  assoluto  di giurisdizione all'art. 382 ("Decisione delle questioni
  di  giurisdizione  e  di competenza"), il cui terzo ed ultimo comma
  prevede  esclusivamente  (primo  inciso) che la Corte di cassazione
  "se  riconosce che il giudice del quale si impugna il provvedimento
  ed  ogni  altro  giudice  difettano  di  giurisdizione  cassa senza
  rinvio",  e che (secondo inciso) "egualmente provvede in ogni altro
  caso  in  cui  ritiene che la causa non poteva essere proposta o il
  processo proseguito".
    Ma,  come si precisera' appresso, il concetto di difetto assoluto
  di  giurisdizione  contemplato  nel  predetto terzo comma dell'art.
  382,  c.p.c., non puo' riferirsi anche all'ipotesi che tale difetto
  dipenda  dalla  mancanza  di  posizione  soggettiva  azionabile, ma
  soltanto  ad  altre  ipotesi  residuali  (giurisdizione del giudice
  straniero   o   del   giudice   ecclesiastico,  eccesso  di  potere
  giurisdizionale    per   sconfinamento   nell'ambito   del   potere
  legislativo etc.).
    Diverso  e',  invece, l'ambito previsionale dell'art. 37, c.p.c.,
  che,  nel  prevedere  che  "il difetto di giurisdizione del giudice
  ordinario  nei  confronti  della  pubblica  amministrazione  o  dei
  giudici speciali e' rilevato, anche d'ufficio, in qualunque stato e
  grado  del  processo",  contempla  in  realta'  soltanto il difetto
  relativo  di  giurisdizione,  come e' reso evidente non tanto e non
  solo  dal  dato  testuale,  che  non  contiene  riferimento  alcuno
  all'assolutezza  di  tale  difetto  (la norma prevede, infatti, "il
  difetto   di   giurisdizione"   e   non   il  difetto  assoluto  di
  giurisdizione),  quanto  e  soprattutto dalla circostanza che viene
  presa in considerazione l'assenza del potere giurisdizionale non di
  ogni giudice ma soltanto "del giudice ordinario nei confronti della
  pubblica   amministrazione   o  dei  giudici  speciali",  con  cio'
  presupponendosi   ovviamente,   nella   logica  della  proposizione
  normativa,  la  sussistenza, sia pure ipotetica ed eventuale, della
  giurisdizione di un giudice speciale.
    Ed  eguale  ambito  previsionale deve necessariamente attribuirsi
  agli  artt. 360,  primo  comma,  n. 1,  e 362, primo comma, c.p.c.,
  nonche'  all'art. 111,  terzo  comma,  Cost., che, nel prevedere il
  ricorso  in Cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione, non
  possono che riferirsi al difetto relativo di giurisdizione, e cioe'
  alle  questioni  attinenti  al  riparto di giurisdizione fra i vari
  ordini  di  giudici,  e  non  certamente  al  difetto  assoluto  di
  giurisdizione per mancanza di posizione giuridica azionabile.
    La figura od il concetto di difetto assoluto di giurisdizione per
  carenza  di posizione giuridica azionabile non integra, in realta',
  una  questione  di  giurisdizione,  ed  e'  quindi  ontologicamente
  insuscettibile  di  essere dedotta dinanzi alla Corte di cassazione
  in  sede  di  verifica  della  giurisdizione  attraverso  i cennati
  strumenti  dei  ricorsi  per  motivi  attinenti  alla giurisdizione
  previsti  dagli  artt. 360,  primo  comma, n. 1, c.p.c., 111, terzo
  comma,  Cost.,  e  362,  primo comma, c.p.c., nonche' attraverso il
  rimedio  non  impugnatorio del regolamento preventivo ex artt. 37 e
  41, primo comma, c.p.c.
    Ed   invero,   deve   ora   rilevarsi,  sul  piano  dei  principi
  processuali,  che  l'accertamento  della  sussistenza  o  meno  del
  difetto   assoluto   di  giurisdizione  per  carenza  di  posizione
  giuridica  azionabile  soltanto  in  senso  lato  e  generico  puo'
  ritenersi  che  costituisca  questione  riconducibile nel novero di
  quelle  che  le  norme  processuali  definiscono  (o, quanto  meno,
  indicano) come questioni di giurisdizione. E cio' perche', se da un
  lato  e'  vero  che  in tali ipotesi si controverte sulla esistenza
  stessa  nell'ordinamento giuridico nazionale di un giudice al quale
  venga  devoluta  la  cognizione  di  una  determinata  categoria di
  controversie  (o  di  una determinata controversia), e quindi sulla
  tutelabilita'   o   "giustiziabilita'"  della  posizione  giuridica
  soggettiva  (diritto  soggettivo  o interesse legittimo) azionata o
  dedotta  in  giudizio,  d'altro  canto  e'  altrettanto vero che in
  realta',  come  si  precisera'  appresso,  dal  punto  di vista del
  contenuto  della  pronunzia  giurisdizionale  (di  primo grado e di
  appello)  che  accerta la mancanza della potesta' decisoria di ogni
  giudice  (ordinario,  amministrativo,  contabile), degli effetti di
  tale  pronunzia,  nonche' dei rimedi impugnatori esperibili avverso
  la  stessa,  il  c.d.  difetto  assoluto  di  giurisdizione  non e'
  correttamente  sussumibile nell'ambito concettuale e contenutistico
  tipico  della categoria delle questioni di giurisdizione, in quanto
  il  concetto  negativo  di cui trattasi finisce inevitabilmente per
  tradursi in una questione di merito.
    Proseguendo,   ora,   nell'esame   dei   piu'   salienti  profili
  ricostruttivi  e  sistematici  della figura del difetto assoluto di
  giurisdizione per carenza di posizione giuridica azionabile, appare
  utile  rilevare  ulteriormente  in  proposito  che, come acutamente
  affermato  dalla  piu'  autorevole  dottrina, il dilatare in via di
  estensione  analogica  l'area  di  operativita'  del regolamento di
  giurisdizione  oltre  i limiti espressamente e tassativamente posti
  dall'art. 37,  c.p.c., e quindi l'includere fra dette "questioni di
  giurisdizione"  anche  quella  specificamente  afferente al difetto
  assoluto di giurisdizione, equivarrebbe a vulnerare in parte qua il
  diritto  di  azione  consacrato nell'art. 24, Cost., consentendo in
  buona  sostanza  che,  attraverso  la  immediata  deducibilita'  in
  Cassazione, nelle forme appunto del regolamento ex art. 41, c.p.c.,
  del   difetto   assoluto  di  giurisdizione,  l'accertamento  della
  giustiziabilita'  ipotetica  della  pretesa  sia  in  limine  litis
  demanando  alla Suprema Corte, e quindi sottratto alla garanzia del
  doppio esame del giudice del merito.
    Tale  tesi,  in particolare, viene fondata sull'ulteriore rilievo
  secondo  cui  una  corretta  lettura  degli artt. 41 e 37, c.p.c. -
  coerente  al  dettato dell'art. 24, Cost. - imponga di ritenere che
  il sindicato sulla giurisdizione, affidato alle Sezioni unite della
  Suprema   Corte   (e   promosso  nelle  forme  del  regolamento  di
  giurisdizione),   si   inscriva   nei  limiti  espressamente  posti
  dall'art.  37,  c.p.c.;  e  che, quindi (in esito al regolamento di
  giurisdizione)  sia  dato alla Suprema Corte soltanto di correggere
  (se  del  caso)  la  rotta giurisdizionale appena intrapresa, e non
  anche, come e' stato icasticamente rilevato, di ...affondare illico
  et  immediate la nave. E coerentemente viene affermato dalla stessa
  dottrina  che  la cennata lettura del referente normativo emergente
  dal  combinato disposto degli artt. 41 e 37, c.p.c., e' l'unica che
  concordi  perfettamente  con la previsione testuale di quest'ultima
  norma  (che  non  a  caso non include nel novero delle questioni di
  giurisdizione il c.d. difetto assoluto di giurisdizione determinato
  dalla carenza di posizione giuridica azionabile), e con l'ulteriore
  previsione  dell'art. 382,  ultimo comma, c.p.c., che prevede, esso
  si',  il  "difetto  assoluto"  (per cause diverse della mancanza di
  tale  posizione),  ma  -  si  badi bene, quale specifica ipotesi di
  cassazione  senza  rinvio,  a  supporto,  quindi,  di una pronunzia
  ablativa  che  non  precede ne' preclude l'esame del merito, ma che
  e',  anzi,  successiva  all'integrale  espletamento del giudizio di
  merito.
    Ed invero, l'assenza di posizione soggettiva azionabile, piu' che
  costituire  un  ipotesi  di  superamento  del  limite esterno della
  giurisdizione  con  consenuente  difetto assoluto di giurisdizione,
  attiene  alla  prima  e  fondamentale  condizione  di  ogni  azione
  giurisdizionale  costituita,  come  noto,  dalla c.d. "possibilita'
  giuridica".
    "Possibilita'"  determinata dal riconoscimento e dalla protezione
  che  l'ordinamento prevede per determinate situazioni soggettive, e
  quindi  dall'esistenza  del  diritto  soggettivo  o  dell'interesse
  legittimo  fatto  valere  in giudizio, di guisa che il suo difetto,
  trattandosi  di  questione  di  merito,  comporta  una pronunzia di
  infondatezza  nel  merito  della  domanda, o comunque, alla stregua
  della  meno  precisa  e  piu'  opinabile  formula  definitoria  del
  giudizio   di   merito   spesso   utilizzato  dalla  giurisprudenza
  amministrativa  di  inammissibilita'  della domanda (sulla maggiore
  esattezza  concettuale della pronuncia di rigetto nel merito, nelle
  ipotesi di assenza della condizione della "possibilita' giuridica",
  rispetto    alla   pronuncia   di   inammissibilita',   per   altro
  sostanzialmente  equipollenti in quanto entrambe dichiarative, cfr.
  Tribunale  amministrativo regionale Sicilia-Catania, 111, nn. 1633,
  1634  e  1635  del  25  settembre  1996, punti 3.5 delle rispettive
  identiche motivazioni).
    Ed  invero,  l'accertamento  da parte del giudice di merito della
  mancanza  della  predetta condizione della possibilita' giuridica -
  per  la  carenza  di  una  previsione  normativa  che  contempli in
  astratto  e  tuteli  la  posizione giuridica soggettiva azionata in
  giudizio  -  deve  necessariamente  tradursi  in  una  pronunzia di
  infondatezza della domanda, dato che dichiarare l'inesistenza della
  posizione o situazione giuridica fatta valere in giudizio significa
  sempre, in realta', decidere il merito della causa, in quanto viene
  negata  la  giuridica  protezione dell'interesse sostanziale di cui
  sia stata invocata la tutela.
    E  correlativamente,  allorche'  venga sollevata "perversamente",
  con  regolamento  preventivo  di  giurisdizione,  la  questione  di
  improponibilita'  assoluta  della domanda sub facie di questione di
  giurisdizione,  il Supremo Collegio non potra' che limitarsi ad una
  pronunzia  di inammissibilita' dei ricorso ex art. 41, primo comma,
  e  37, c.p.c., essendo privo del potere giurisdizionale di decidere
  preliminarmente ii merito della causa in unico grado.
    Deve,  quindi,  escludersi  che l'imprononibilita' assoluta della
  domanda  nei  confronti  della  p.a.  possa  ricondursi nell'ambito
  previsionale delle due ipotesi di difetto relativo di giurisdizione
  contemplate  dall'art. 37,  c.p.c., ed immediatamente deducibili in
  Cassazione  come  "questioni  di  giurisdizione",  e  cio'  sia col
  regolamento  preventivo previsto dal successivo art. 41, che con il
  ricorso  "per motivi attinenti alla giurisdizione" (art. 360, n. 1,
  c.p.c.),  o  con  il  ricorso avverso le decisioni del Consiglio di
  Stato  e  della  Corte  dei  conti "per i soli motivi inerenti alla
  giurisdizione"  (art.  111, terzo comma, cost., e 362, primo comma,
  c.p.c.).
    Vero  e'  che  in  una  prima (e lunga) fase dell'enucleazione ed
  elaborazione  dei principi in tema di deducibilita', attraverso gli
  strumenti  di verifica della giurisdizione, del difetto assoluto di
  giurisdizione  come questione di giurisdizione in senso proprio, le
  Sezioni unite della Cassazione hanno sostanzialmente seguito, anche
  per quanto attiene all'improponibilita' della domanda nei confronti
  della  p.a.,  lo  stesso  orientamento inizialmente espresso con la
  sentenza  n. 1330  del  29  maggio 1951 che, pur nel fermo dissenso
  della    dottrina,   qualificativa   come   difetto   assoluto   di
  giurisdizione,     anziche'     come     questione    di    merito,
  l'improponibilita'  della  domanda  fra  privati  per  mancanza  in
  astratto  di  situazione  giuridica tutelabile. Ed e' altresi' vero
  che   tale   orientamento,   viene   ad  essere  ulteriormente,  e,
  inspiegabilmente,  ribadito  per  qualche anno ancora nonostante il
  revirement  del  1987  con  cui  la  stessa Suprema Corte (sentenza
  n. 5256  del 15 giugno 1987) aveva affermato che l'improponibilita'
  assoluta  della  domanda  tra  privati  costituisce  una  questione
  preliminare di merito, come tale insuscettibile di essere sollevata
  con il regolamento preventivo di giurisdizione.
    Ma  e'  altrettanto  incontrovertibile che sin dal 1993 - ed anzi
  almeno  sin  dal  1992,  ed  anche  prima,  per  quanto concerne in
  particolare,  il  regolamento  preventivo  di  giurisdizione  -  le
  Sezioni   unite  della  Cassazione  hanno  recepito  l'esigenza  di
  coerenza  anche  su tale questione, recuperando le ragioni di fondo
  della  svolta  interpretativa del 1987, che imponevano ed impongono
  una  impostazione  e  soluzione  unitaria  dei problemi posti dalla
  reale  natura del difetto assoluto di giurisdizione per mancanza in
  astratto  di  situazione soggettiva tutelabile, e della conseguente
  inammissibilita'   della   proposizione   di   siffatta   questione
  attraverso   i   gia'   menzionati   strumenti  di  verifica  della
  giurisdizione  in  Cassazione  (ricorso  ex art. 360, n. 1, c.p.c.;
  ricorso  ex  artt. 111,  terzo  comma  Cost.,  e  362, primo comma,
  c.p.c.;  regolamento  preventivo di giurisdizione ex artt. 37 e 41,
  primo comma, c.p.c.).
    Infatti  con  la  sentenza  n. 651 del 20 gennaio 1993 le Sezioni
  unite,  in  sede  del  ricorso  ex  artt.  111,  terzo comma, della
  Costituzione  e  362,  primo  comma, c.p.c., hanno affermato che la
  questione  del  difetto assoluto di giurisdizione (nella specie del
  Consiglio  di  Stato,  che  si  sarebbe  pronunziato nel merito pur
  essendo  stato  azionato un asserito interesse di fatto) attiene al
  merito  della  controversia  e  non  alla  giurisdizione dell'adito
  giudice.  L'iter  logico-argomentativo  della pronunzia si snoda su
  due enunciati motivatori espliciti: 1) il richiamo all'orientamento
  tracciato  dalla  sopra  indicata  sentenza  n. 5256/1987,  e dalla
  successiva  analoga  sentenza  n. 5449/1987,  con  cui si escludeva
  l'ammissibilita'   del   regolamento  di  giurisdizione  (ritenuto,
  ovviamente,   sostanzialmente  assimilabile,  per  gli  effetti  in
  questione,  ai  cennati  ricorsi in Cassazione per motivi attinenti
  alla  giurisdizione,  ai sensi dell'art. 360, n. 1, c.p.c., o degli
  artt. 111,   terzo  comma,  Cost.,  e  362,  primo  comma,  c.p.c.)
  allorche'  si  deduca l'improponibilita' assoluta della domanda nei
  confronti  di  privati  per  mancanza  in  astratto  di  situazione
  giuridica  tutelabile;  2)  e  l'affermazione  della preclusione di
  qualsiasi  indagine  sull'esistenza  del  diritto, posto che la sua
  effettuazione,  sia  in sede di regolamento di giurisdizione sia di
  ricorsi  per  motivi  attinenti alla giurisdizione, si risolverebbe
  essenzialmente  in  una  inammissibile pronunzia di merito di terzo
  grado.
    Peraltro, la cennata conclusione si fonda anche sulla sostanziale
  affermazione   -   implicita,   ma   costituente   l'ultima   delle
  imprescindibili  premesse maggiori necessarie per sorreggere l'iter
  logico   argomentativo   o   il  polisillogismo  giudiziario  della
  pronunzia - della inapplicabilita' del ripetuto ultimo comma, prima
  parte,  dell'art. 382,  c.p.c.,  che accenna al difetto assoluto di
  giurisdizione,  in  quanto  tale  disposizione  non  viene ritenuta
  comprensiva dell'ipotesi di improponibilita' assoluta della domanda
  per  difetto  di  posizione giuridica azionabile, ma soltanto delle
  altre  gia'  cennate  ipotesi  residuali (giurisdizione del giudice
  straniero   o   del   giudice   ecclesiastico;  eccesso  di  potere
  giurisdizionale  per  invasione dell'ambito del potere legislativo;
  ecc.),  tenuto  anche  conto  che il nostro ordinamento processuale
  configura  la  Cassazione  come  giudice di legittimita' e non come
  giudice  di  terza istanza, come tale abilitato all'esame (o meglio
  al  riesame  per la terza volta), di una tipica questione di merito
  qual'e'   quella   della   sussistenza  della  posizione  giuridica
  azionabile.
    E  con  la piu' recente sentenza n. 9550 del 29 settembre 1997 le
  Sezioni   unite  hanno  ulteriormente  ribadito  (punto  3.2  della
  motivazione,  in  fine)  che  "la  deduzione della improponibilita'
  assoluta  della domanda per insussistenza, nell'ordinamento, di una
  norma astratta idonea al riconoscimento ed alla tutelabilita' della
  posizione  soggettiva  fatta  valere  in  giudizio,  introduce  una
  questione   che   attiene   al   merito   e   non  alla  competenza
  giurisdizionale  del  giudice  adito  (v.,  tra le ultime, Cass. 20
  gennaio  1993,  n. 651)", dichiarando correttamente inammissibili -
  anche  sulla  base  della premessa sillogistica implicita cui si e'
  sopra  accennato  -  i  ricorsi  proposti  avverso una sentenza del
  Consiglio di Stato.
    Tale   orientamento   risulta  costantemente  riconfermato  dalle
  successive  pronunzie  delle  Sezioni  unite attraverso il medesimo
  itinerario  logico  - argomentativo (cfr., fra altre la sentenza 10
  agosto 1999, n. 583).
    Ovviamente,  ed  a  maggior  ragione, anche per quanto attiene al
  regolamento  preventivo  di giurisdizione le conclusioni alle quali
  sono  pervenute  le Sezioni unite della Cassazione non potevano che
  essere,  coerentemente,  identiche a quelle come sopra affermate in
  tema di ricorsi per motivi attinenti alla giurisdizione.
    Se,  infatti,  la  delineata soluzione del problema in esame deve
  ritenersi  valida  allorche' siffatta questione di difetto assoluto
  di  giurisdizione  venga  sollevata  in  sede di ricorsi per motivi
  attinenti  alla  giurisdizione,  e  quindi  in  sede  di  pronunzie
  ablative  ex  art. 382,  ultimo  comma,  c.p.c., che ovviamente non
  precedono   ne'   precludono   l'esame  del  merito,  ma  che  sono
  indefettibilmente successive all'integrale svolgimento del giudizio
  di  merito,  a maggior  ragione  la stessa soluzione deve ritenersi
  valida    allorche'   la   medesima   questione   venga   sollevata
  immediatamente  in sede di regolamento preventivo di giurisdizione,
  demandando,   quindi,   direttamente   alla   Corte  di  Cassazione
  l'accertamento  della giustiziabilita' ipotetica della domanda, che
  verrebbe cosi' irrimediabilmente sottratta alla garanzia del doppio
  esame del giudice di merito.
    Ma,   in  relata',  l'intrinseca  fondatezza  di  tale  soluzione
  prescinde  ovviamente  al  supporto  della  cennata interpretazione
  dell'ultimo  comma, prima parte, dell'art. 382, c.p.c., dato che il
  regolamento  preventivo  di  giurisdizione,  com'e' noto, non e' un
  rimedio  di  carattere  impugnatorio, e non e' quindi configurabile
  per  tale  anomalo  strumento  di  verifica  della giurisdizione la
  cassazione  della  sentenza  senza  rinvio prevista dalla riptetuta
  disposizione.
    Gli  enunciati  fondamentali  nei  quali  si snoda la motivazione
  delle  piu'  rilevanti e significative pronunzie espressive di tale
  orientamento  sono, quindi, sostanzialmente identici a quelli posti
  a  base del gia' esaminato orientamento giurisprudenziale formatosi
  in  sede  di ricorsi per motivi attinenti alla giurisdizione (cfr.,
  fra  altre,  le  sentenze n. 7022 del 23 dicembre 1988, n. 66 del 7
  gennaio   1993,  e  n. 221  del  1o  aprile  1999,  che  dichiarano
  inammissibili  i regolamenti preventivi di giurisdizione in materia
  di difetto assoluto di giurisdizione).
    Occorre,  peraltro,  conclusivamente soggiungere che, nel cennato
  panorama   giurisprudenziale,   la   piu'   articolata  e  puntuale
  motivazione  in  materia  sembra  individuabile,  a quanto risulta,
  nella   sentenza   n. 367   del   14  gennaio  1992,  che  dichiara
  inammissibili   due   regolamenti   preventivi   di   giurisdizione
  (attinenti  alla  medesima  domanda  giudiziale di risarcimento dei
  danni    derivanti   dalla   lesione   di   interessi   legittimi),
  rispettivamente  proposti da privati nei confronti di altri privati
  e  da  pubbliche  amministrazioni. Dopo aver premesso, infatti, per
  quanto   concerne  il  reglamento  tra  privati,  che  dal  sistema
  processuale  ricavabile  dal combinato disposto degli artt. 41 e 37
  c.p.c.  risulta che il regolamento preventivo di giurisdizione puo'
  essere proposto soltanto nelle ipotesi in cui si affermi il difetto
  di giurisdizione del giudice ordinario nei confronti della pubblica
  amninistrazione  o  dei  giudici speciali (e quindi con riferimento
  esclusivo  ad  ipotesi  di difetto relativo di giurisdizione, e non
  gia   di   difetto   assoluto),   le   Sezioni  unite  ribadiscono,
  innanzitutto,  che  "appare  piu'  aderente  al  sistema codificato
  ritenere   che   la  fattispecie  della  configurabilita'  o  della
  inconfigurabilita' in astratto del diritto fatto valere in giudizio
  costituisca  questione  di  merito  e  non di giurisdizione e vada,
  percio',  giudicata  dal  Giudice  adido,  al  pari della esistenza
  concreta  del  diritto stesso (v., per tutte, Cass. 5449/1987)". Ed
  affermano,  poi,  per quanto concerne il regolamento proposto dalla
  p.a.,  che  "la  questione  della  non risarcibilita' del danno per
  lesione  di  interessi  legittimi  -  presupponendo  la fattispecie
  dell'illecito  civile  di  cui  all'art. 2043  c.c. in ogni caso la
  violazione    di    un    diritto   soggettivo   -   comporta   non
  l'improponibilita'  per  difetto  assoluto  di giurisdizione, ma la
  reiezione,  nel  merito,  per  difetto  del  diritto, della domanda
  risarcitoria  proposta  dal  privato  nei  confronti  della p.a. in
  relazione  alla  lesione  di  una  sua  posizione soggettiva avente
  consistenza di interesse legittimo".
    3.3. - Ma quand'anche, in rifiutata ipotesi, si potesse e volesse
  prescindere   dai  rilevati  profili  di  inammissibilita'  (recte:
  irricevibilita')   per   tardivita'  di  tutto  il  regolamento  di
  giurisdizione  in  esame  nonche'  di  inammissibilita', sott'altro
  aspetto,  dello  stesso  regolamento  nella parte in cui tende alla
  declaratoria  del  difetto assoluto di giurisdizione per carenza di
  posizione  giuridica  azionabile,  il  collegio ritiene, cosi' come
  espressamente  consentito  dal  testo novellato dall'art. 367 primo
  comma,  c.p.c.,  che  entrambe le contestazioni della giurisdizione
  formulate   col   predetto   regolamento   (difetto   assoluto   di
  giurisdizione, o in subordine, difetto di giurisdizione del giudice
  amministrativo)  siano  manifestamente  infondate,  e  cio'  per le
  ragioni  che saranno appresso esposte in sede di esame (nel merito)
  delle  identiche  questioni  sollevate  in  via  di eccezione negli
  scritti    difensivi   del   resistente   comune   di   Venezia   e
  dell'interveniente ad oppendum comune di Campione d'Italia.
    3.4.  -  Per  tutte  le  considerazioni  e ragioni che precedono,
  quindi, l'istanza di sospensione del giudizio ex art. 367 c.p.c. va
  rigettata  in  quanto il proposto regolamento di giurisdizione deve
  ritenersi   non   soltanto   manifestamente  inammissibile  (recte:
  irricevibile)  per  tardivita' ed inammissibile per quanto concerne
  la  richiesta di declaratoria di difetto assoluto di giurisdizione,
  ma  anche  manifestamente  infondato nel merito della contestazione
  della giurisdizione come appresso specificato.
    3.5.  - Quanto, poi, alle istanze di trasmissione degli atti alla
  cancelleria  della  corte  di  Cassazione  (ai sensi dell'art. 369,
  ultimo  comma,  c.p.c.)  la prima delle quali depositata in data 16
  dicembre  1999, e quindi addirittura in data anteriore a quella del
  deposito  dell'istanza  di  sospensione  del  giudizio  ex art. 367
  c.p.c. effettuato, come si e' gia' detto sub 3, in data 20 dicembre
  1999  -  anche  a  prescindere dal ritenerle, per le stesse ragioni
  sopra   esposte,  egualmente  inammissibili  ed  infondate  in  via
  derivata,    devono    essere    rigettate   per   l'impossibilita'
  logico-giuridica  e  materiale  di tale trasmissione sopravvenuta a
  seguito   dell'incidente  di  costituzionalita'  sollevato  con  la
  presente  ordinanza (gia' decisa, come si e' detto, nelle camere di
  consiglio  del  14 e 16 dicembre 1999) e del conseguente obbligo di
  trasmissione  immediata  degli  atti  alla Corte costituzionale, ai
  sensi   e  per  gli  effetti  dell'art. 23,  secondo  comma,  legge
  n. 87/1953.
    Non puo' seriamente contestarsi, invero, che l'invocato art. 369,
  ultimo  comma,  c.p.c.  debba  essere interpretato sistematicamente
  coordinandolo  col  quadro  normativo emergente dal testo novellato
  dell'art. 367, 1o comma, c.p.c.
    Se  prima della modifica di tale disposizione (effettuata, com'e'
  noto,  con  l'art. 61  della riforma introdotta con la legge n. 353
  del  26  novembre  1990), infatti, poteva comprendersi il carattere
  pressoche'  automatico  dell'obbligo  di trasmissione del fascicolo
  d'ufficio  alla  cancelleria  della  Corte di cassazione, in quanto
  assolutamente  coerente  e  conseguenziale  all'automaticita' della
  sospensione   del   giudizio   (per   altro   con   "ordinanza  non
  impugnabile")  ai  sensi e per gli effetti del testo originario del
  suddetto  art. 367,  1o  comma,  c.p.c.  sia  pure  con le limitate
  eccezioni  attinenti  alla  verifica  dei  presupposti della stessa
  sospensione,  quali  l'effettiva  proposizione  e notificazione del
  regolamento  di giurisdizione (cfr. fra le tante, Cass. 26 novembre
  1990,   n. 11366),   nonche'   alla   verifica   dei  requisiti  di
  ammissibilita'  e procedibilita' dell'istanza di regolamento (cfr.,
  fra  le  tante,  Cass.  12  gennaio  1984,  n. 222, 24 luglio 1986,
  n. 4750,  16  dicembre  1987,  n. 7545,  e  le  altre sentenze gia'
  menzionate sub 3.2. in tema di tardivita', del regolamento proposto
  dopo  la  chiusura  della  discussione dinanzi al giudice presso il
  quale  e'  radicato  il processo); al contrario, dopo la piu' volte
  ricordata   modifica  del  1990,  la  trasmissione  automatica  del
  fascicolo   d'ufficio   si   rivela  priva  di  senso  e  di  scopo
  processuale,  ed  anzi logicamente inconfigurabile e praticamente o
  materialmente  impossibile,  allorche'  il  giudice presso il quale
  pende  il  processo  abbia  ritenuto con ordinanza non impugnabile,
  come nella specie, di non sospendere il giudizio.
    Il  collegio ritiene che sarebbe stata assolutamente ragionevole,
  ed  anzi  ovvia  conseguenza,  la  modificazione anche del ripetuto
  ultimo   comma   dell'art.  369  c.p.c.,  ad  opera  della  riforma
  processuale  del  1990,  per coordinare tale disposizione col nuovo
  testo  dell'art. 367,  1o  comma, al fine di eliminare in radice la
  discrasia  in questione, e cio' attraverso l'esplicita previsione -
  in  sintonia con il potere di non sospendere il giudizio attribuito
  al   giudice  del  merito  dal  testo  novellato  del  primo  comma
  dell'art. 367   c.p.c.   -,   della   sussistenza  dell'obbligo  di
  trasmissione  del fascicolo d'ufficio soltanto nelle ipotesi in cui
  il  predetto  giudice abbia ritenuto di sospendere il giudizio. Ma,
  certamente, la circostanza che il legislatore del 1990 abbia omesso
  di  prospettarsi  siffatto  problema  di  necessario  coordinamento
  normativo,  e  di  risolverlo  con  una  coerente  ed assolutamente
  conseguenziale modifica della disposizione in esame nel senso sopra
  indicato,  ed  il permanere, quindi, della cennata discrasia (o, al
  limite,   lacuna  normativa)  nella  disciplina  dell'istituto  del
  regolamento preventivo di giurisdizione, non esime certo il giudice
  dinanzi  al  quale  pende  la  causa dall'interpretare ed applicare
  ragionevolmente  e  sistematicamente il dato testuale in questione,
  alla luce del nuovo quadro normativo vigente in materia.
    E' appena il caso, in proposito, di ricordare preliminarmente, ed
  in  estrema  sintesi,  le  specifiche  e  piu' rilevanti coordinate
  ermeneutiche  che l'interprete deve tenere presenti nell'ambito del
  procedimento   interpretativo   finalizzato  alla  risoluzione  dei
  delicati  problemi  posti  dal coordinamento normativo. Procedendo,
  quindi,   a  siffatta  attivita'  di  riassuntiva  ricognizione  ed
  enucleazione,  gli  strumenti  ermeneutici  ed  i connessi canoni o
  principi  direttamente  sottesi  ed  implicati in tale problematica
  possono individuarsi come segue:
        A)    il    criterio   sistematico,   o   logico-sistematico,
  dell'attivita' interpretativa. Trattasi, com'e' noto, di una regola
  dottrinale   consistente   nella  rilevazione  delle  correlazioni,
  rispondenze e concatenazioni che necessariamente intercorrono fra i
  vari  testi normativi e fra le disposizioni di un medesimo testo, e
  che,  rinvenute  dall'interprete,  permettono  di eliminare divari,
  disarmonie,   antinomie   nel   corpo   organico  dell'ordinamento,
  riducendo  il  diritto  -  come  deve  essere - a coerenza logica e
  sistematica, in modo tale che ogni singola norma puo' e deve essere
  spiegata  nella  sua  interezza  anche  a  mezzo  delle  altre, per
  l'immanenza  del  principio  di  non  contraddizione  e  quindi  di
  coesione  fra  singole  norme o gruppi di norme (Incivile est, nisi
  tota  lege  perspecta,  interpretari).  Di  guisa che fra i diversi
  significati  possibili,  messi  in  evidenza  dall'applicazione del
  criterio  letterale, va preferito necessariamente quello che meglio
  corrisponde  alla  concatenazione  di  significati risultante dalla
  considerazione  delle  diverse  parti  di una norma o delle diverse
  norme  di una legge, intesa quale complesso precettivo dotato di un
  senso   organico   ed  intelligibile  (cfr.,  ex  plurimis,  Cass.,
  n. 3359/1975  e  n. 1455/1973;  idem  sez.  lav.,  29 gennaio 1991,
  n. 826, e 24 aprile 1985, n. 2704);
        B)  nell'ambito,  poi,  dell'interpretazione  sistematica, va
  ricondotto  anche  il cosiddetto argomento ab absurdo, e cioe' quel
  canone dottrinale consistente nel rilevare le conseguenze assurde e
  contraddittorie    che    discenderebbero    da   una   determinata
  interpretazione  (di  solito  di carattere meramente letterale), e,
  nel  prospettare conseguentemente, la necessita' logica e giuridica
  dell'abbandono della tesi interpretativa considerata;
        C)  egualmente  in  tale  categoria  o  figura  generale  del
  procedimento   interpretativo  puo'  essere  ricondotta  la  regola
  dottrinale  che  impone l'eliminazione delle cosiddette antinomie e
  cioe'  del  contrasto  di norme (di una stessa legge, o inserite in
  testi  normativi  diversi)  ravvisabile  nella coesistenza di due o
  piu'  norme  vigenti  fra  loro incompatibili (cosiddette lacune di
  conflitto),  delle  quali,  quindi,  l'interprete  ha  il dovere di
  rinvenire  il  coordinamento  (o,  secondo  le  varie  terminologie
  utilizzate   dalla   scienza  giuridica,  la  coordinazione,  o  la
  conciliazione),  ossia  gli argomenti idonei all'eliminazione della
  contraddizione  e,  in ultima analisi, a realizzare nel mondo degli
  effetti giuridici la possibilita' della coesistenza di tali norme;
        D)  e'  altresi'  risaputo,  poi,  che,  allorche' la cennata
  operazione  ermeneutica  di  coordinazione  o conciliazione non sia
  assolutamente  possibile,  perche'  e' appunto impossibile la loro,
  contemporanea  applicazione,  si deve necessariamente utilizzare la
  risorsa   giuritica   della  cosiddetta  interpretazione  abrogante
  (interpretatio  abrogans), consistente nel pervenire alla ulteriore
  conclusione  -  anch'essa  attinente all'elemento sistematico - che
  una  o  piu'  delle  diverse  norme  contrastanti  debba  ritenersi
  implicitamente  (ed  integralmente) abrosata, o resa inefficace, in
  forza  dell'  istituto dell'abrogazione tacita o implicita prevista
  dall'art. 15   disposizione   prelimiare  del  codice  civile  "per
  incoinnatibilita' tra le nuove disposizioni e le precedenti" (cfr.,
  fra  le tante: Cass., III, 18 agosto 1966, n. 2246; idem, 17 giugno
  1968,  n. 1977;  Cass.,  I,  12  novembre  1973,  n. 2979; idem, 12
  gennaio  1979,  n. 234:  Corte  dei conti, sez. controllo Stato, 12
  ottobre 1994. n. 105, punto 4 della motivazione); o, comunque, alla
  conclusione   che   la   norma  sopravvenuta  abbia  implicitamente
  introdotto  una  deroga  (o derogazione), vale a dire un'eccezione,
  alla  norma  preesistente  che  si  traduce,  in ultima analisi, in
  un'abrogazione   implicita   ma   parziale,   sempre   nei   limiti
  dell'incompatibi1ita';
        E)  alla  stregua,  inoltre,  dei noti principi enuncleati ed
  elaborati  in  dottrina e giurisprudenza in tema di regole legali e
  dottrinali   del   procedimento  ermeneutico,  nell'interpretazione
  giuridica   ci   si   deve   costantemente   uniformare  al  canone
  fondamentale  secondo cui, se una norma si presti in astratto a due
  o piu' possibili letture o risultati interpretativi, il significato
  precettivo  e  la  specificazione  di  valore che l'interprete deve
  preferire  e  prescegliere  sono  quelli  conformi,  rispondenti  o
  comunque  piu'  aderenti  alle  norme ed ai principi costituzionali
  (cosiddetto interpretazione adeguatrice), perche questo, investendo
  e   permeando   l'intero   ordinamento,   funzionano  come  criteri
  ermeneutici  di  tutte  le  norme  di  rango  inferiore  (cfr.,  ex
  plurimis:  Corte  costituzionale,  14 luglio 1988, n. 823; Cass., 3
  febbraio  1986,  n. 661,  3  gennaio  1984,  n. 7, 27 gennaio 1978,
  n. 393,  12  giugno 1975, n. 2342, 10 marzo 1971, n. 674; C. S., V.
  18  gennaio 1988, n. 8, IV, 23 giugno 1972, n. 575. C.S., A. p., 14
  aprile    1972,    n. 5;    Tribunale    amministrativo   regionale
  Sicilia-Catania,  22  dicembre 1986. n. 1292, e ord. pres. III sez.
  n. 22  dei  30  scuembre  1998,  Tribunale amministrativo regionale
  Basilicata, 19 novembre 1983, n. 138).
    Ora, riprendendo e concludendo, alla luce dei suesposti princi la
  breve  indagine  relativa  al  suesposto problema del coordinamento
  fra'  i  ripetuti  artt.  367,  primo  comma,  e 369, ultimo comma,
  c.p.c.,  ritiene  il  tribunale che l'applicazione delle coordinate
  ermeneutiche  come  sopra  tracciate  -  tenendo conto innanzitutto
  della  possibilita', nella specie, dell'interpretazione adeguatrice
  in  base  ai  principi  di  racionevolezza  ed  al  connesso canone
  generale  di  coerenza  e  dell'ordinamento  giuridico  sottesi  al
  principio  di uguaglianza formale codificato dall'art. 3/1 cost. (e
  su cui infra, sub 12), che impongono l'eliminazione dell'incoerenza
  o   contradditorieta'  di  involontari  scoordinamenti  legislativi
  (cfr.,   fra   le   tante,  Corte  cost.  n. 241/1989,  n. 13/1986,
  n. 1/1985,   n. 1/1984.   n. 27411983),   e  del  c.d.  anacronismo
  legislativo   (cfr.,   fra   le  tante,  Corte  cost.  n. 179/1988,
  n. 89/1987,   e   n. 1/1984,   cit.)   -   conduca  necessariamente
  l'interprete ad affermare:
        1)  che  il  testo  novellato  del  primo comma dell'art. 367
  c.p.c.  ha in realta' prodotto una deroga, e quindi sostanzialmente
  un'abrogazione  implicita  mai  parziale,  per incompatibilita', al
  successivo  e connesso art. 369, ultimo comma, e precisamente nella
  in  cui  impone  indiscriminatamente  ed autonomamente l'obblico di
  trasmissione  del  fascicolo  d'ufficio  alla  Corte di cassazione,
  anche nelle ipotesi in cui il giudice del merito non abbia ritenuto
  di   sospendere  il  giudizio  a  seguito  della  proposizione  del
  regolamento di giurisdizione;
        2)  che,  conseguenternente,  la  lettura o l'interpretazione
  sistematica   corretta  del  predetto  ultimo  comma  dell'art. 369
  c.p.c.,  in combinato disposto col precedente primo comma dell'art.
  367,  non  puo'  essere  altra  che  quella secondo cui il predetto
  obbligo  di  trasmissione del fascicolo d'ufficio sussiste soltanto
  nelle  ipotesi  in  cui  il  giudice  del  merito abbia ritenuto di
  sospendere  il  giudizio  dopo  la  proposizione del regolamento di
  giurisdizione.
    A  tale  risultato interpretativo dei due frammenti precettivi in
  esame  non  sembra,  invero,  che si possa ragionevolmente sfuggire
  soprattutto  ove  si  consideri  che  il  rigetto  della istanza di
  sospensione  ex art. 367, primo comma, c.p.c. comporta, ovviamente,
  la   prosecuzione  del  giudizio  ad  ogni  effetto  processuale  e
  sostanziale, con l'ulteriore ed altrettanto ovvia conseguenza della
  imprescindibile necessita' della permanenza del fascicolo d'ufficio
  presso  la  cancelleria o segreteria del giudice del merito ai fini
  dello  svolgimento  di  ogni  attivita'  istruttoria, e/o cautelare
  (come nella specie: nella quale l'adozione di ogni eventuale misura
  cautelare   e'   stata   sospesa   in   attesa   della  risoluzione
  dell'incidente  di  costituzionalita'), e/o di decisione nel merito
  (salva  restando  ovviamente, nell'attuale ibrido sistema del quale
  il  giudice  delle  leggi  non  ha  ritenuto  di  dover  dichiarare
  l'incostituzionabilita', un'eventuale pronunzia delle sezioni unite
  della  Cassazione  che  accolga,  in  parte, per quanto concerne il
  difetto relativo di giurisdizione, o addirittura integralemente, in
  relazione   all'assorbente   profilo   del   difetto   assoluto  di
  giurisdizione,  il  proposto  regolamento  di giurisdizione, che il
  collegio ritiene, come si e' ripetutamente affermato, assolutamente
  inammissibile, sotto un duplice profilo, oltre che infondato).
      Non  si  riuscirebbe  altrimenti  a  comprendere perche' mai al
  giudice del merito la legge attribuisca il potere di non sospendere
  motivatamente    il    giudizio    (a   ragione   della   manifesta
  inammissibilita'    e/o    infondatezza    del    regolamento    di
  giurisdizione),  se poi questo non possa in alcun modo proseguire a
  causa  di  astruso  obbligo  di  spogliarsi  sempre  e comunque del
  fascicolo  d'ufficio  trasmettendolo  automaticamente  alle Sezioni
  unite  della  Cassazione.  Del  resto,  com'e' noto, per costante e
  pacifica  giurisprudenza della Corte regolatrice l'improcedibilita'
  del  ricorso  per  regolamento  preventivo  di  giurisdizione resta
  esclusa  quando  la  mancanza  del  fascicolo  d'ufficio  non e' di
  ostacolo  (come  deve  ritenersi  indubbiamente  nella  specie)  al
  riscontro  dell'esperibilita'  del  regolamento  medesimo  ed  alla
  individuazione  dell'oggetto  della  controversia,  al  fine  della
  statuizione  sulla giurisdizione (cfr., fra le tante, Cass. SS.uu.,
  22  settembre  1984, n. 4815; idem, 15 luglio 1999, n. 392, emanata
  in  fattispecie  nella  quale  addirittura questa terza sezione non
  aveva  ancora  adottata  e  depositata  alcuna decisione, come pure
  risulta  dalla  successiva sentenza - di rinvio della causa a nuovo
  ruolo - di questa stessa sezione n. 1973 del 6 ottobre 1999).
    Ed   a   maggior   ragione   tali   considerazioni   si  rilevano
  incontrovertibili  nelle ipotesi in cui, come nella fattispecie, il
  giudice   del   merito  abbia  deciso  di  sollevare  questioni  di
  costituzionabilita',  dato  che in tali casi e' la stessa normativa
  in  materia  (art. 23,  secondo comma, legge n. 87/1953, gia' sopra
  richiamato)  ad  imporre  "l'immediata trasmissione degli atti alla
  Corte  costituzionale",  oltre  che, ovviamente, la sospensione dei
  giudizi  in  corso,  prescritta  proprio  e  soltanto al fine - non
  dilatorio  -  di  consentire  al  giudice  delle  leggi la previa e
  necessaria   risoluzione   degli   incidenti  di  costituzionalita'
  sollevati  in  base  al  libero convincimento del giudice a quo nei
  casi    in   cui   ritenga   che   il   giudizio   incidentale   di
  costituzionalita'  sia  rilevante  e  necessario  per consentire la
  decisione  della  controversia.  Non  senza  soggiungere  che oltre
  tutto, come affermato dalla stessa Corte costituzionale, "in virtu'
  della   separazione   fra   il  giudizio  principale  e  quello  di
  costituzionalita',  che  si  svolge  su  un  piano  diverso  e  per
  l'oggetto  e  per  le  finalita',  la  soluzione  dei  problemi  di
  giurisdizione  non  e'  necessariamente pregiudiziale rispetto alla
  denunzia  dei  vizi  di costituzionalita'" (cosi' la sentenza n. 46
  del  10  marzo  1983,  punto  2  della motivazione, che richiama le
  conformi   pronunzie   n. 45/1962,  58/1964,  72/1969,  124/1975  e
  201/1975), tenuto anche conto, come si ricava sostanzialmente dalla
  stessa   sentenza  n. 46/1983,  che  dalla  pronunzia  della  Corte
  costituzionale   possono   emergere   anche  indicazioni  circa  la
  effettiva  natura  della posizione giuridica azionata nella singola
  controversia.
    Sicche', per concludere sul punto, non puo' avanzarsi alcun serio
  dubbio  circa  la  prevalenza  del  disposto  del ripetuto art. 23,
  secondo comma, legge n. 87/1953 sull'art. 369, ultimo comma, c.p.c.
  in  forza  della  deroga,  o  abrogazione parziale ed implicita per
  incompatibilita', operata dalla prima disposizione sulla seconda, e
  cio'  alla  stregua  delle  medesime  considerazioni gia' svolte in
  questo paragrafo sub D).
    4. - Per quel che concerne, inoltre, il regolamento di competenza
  ex   art.   31   legge   6   dicembre   1971,   n. 1034,   proposto
  dall'interveniente  comune di Campione d'Italia con atto notificato
  in  data  10  dicembre  1999,  a prescindere dal considerare che la
  predetta    parte    interveniente   viene   cosi'   ad   affermare
  implicitamente   la   giurisdizioine  del  giudice  amministrativo,
  occorre    appena   rilevare   che,   per   costante   e   pacifica
  giurisprudenza, l'adozione delle misure cautelari e delle eventuali
  misure  di  esecuzione  in forma specifica delle prime (vale a dire
  tutta la fase cautelare, comprensiva anche della previa risoluzione
  delle  questioni  di  legittimita'  costituzionale  sollevate, come
  nella  specie, nella predetta fase cautelare) non e' assolutamente,
  ed  ovviamente,  preclusa  dalla  proposizione  del  regolamento di
  competenza (cfr. per tutte, CS., A.p., 20 gennaio 1997, n. 2, punto
  2  della motivazione, che conferma sul punto l'ord. di rimessione 7
  giugno  1996,  n. 755, della IV Sezione del Consiglio di Stato); il
  quale,  pertanto  va  esaminato  dal Presidente, com'e' altrettanto
  ovvio,  soltanto  dopo l'esaurimento della suddetta fase cautelare.
  Non  senza  soggiungere  che, per altro, con ordinanza n. 22 del 30
  settembre  1998  il Presidente di questa terza sezione ha sollevato
  questione  di  legittimita'  costituzionale  del menzionato art. 31
  legge n. 1034/1971, che non risulta ancora decisa).

    5. - Sgombrato  il  campo dalle questioni relative al regolamento
  di  giurisdizione  ed  al  regolamento di competenza proposti dalle
  parti   resistenti,  il  collegio  deve,  ancora,  preliminarmente,
  esaminare   le   altre   eccezioni  sollevate  dalle  stesse  parti
  resistenti.
    Come  gia' si e' accennato, sono state sollevate eccezioni sia di
  rito   sia   di  merito  (id  est:  il  c.d.  difetto  assoluto  di
  giurisdizione  per carenza di posizione soggettiva azionabile), che
  qui'  di  seguito  saranno  esaminate  nel loro ordine di priorita'
  logica,  ed  a  prescindere  dal  soggetto  processuale  che  le ha
  sollevate.
    Va  innanzitutto  disattesa,  come gia si e' detto nell'ordinanza
  n. 449/1999,  con  la  quale  e'  stato  interinalmente  sospeso il
  giudizio  cautelare,  l'eccezione  di  irricevibilita'  per  omessa
  notificazione  del  ricorso  entro  il  termine decadenziale ad uno
  almeno  dei comuni che - si assume - rivestirebbero la qualifica di
  controinteressati.
    Il  collegio  ritiene  di  dover  escludere  che i quattro comuni
  italiani nei quali e' stata autorizzata l'apertura di case da gioco
  siano,  in  realta',  controinteressati  in senso proprio e tecnico
  (l'unico  che  rilevi  ai  fini che qui' interessano); sono infatti
  tali  i  soggetti  "ai  quali  l'atto  direttamente  si riferisce",
  secondo  la  formulazione con la quale l'art. 21 legge n. 1034/1971
  definisce  i controinteressati in senso tecnico e processuale. Tale
  ultima  espressione viene adoperata dal C.g.a. (sent. n. 416/1989),
  che  esclude siffatta qualita' nei soggetti che non siano portatori
  di  diritti  soggettivi  ne' di interessi legittimi suscettibili di
  lesione  immediata  e  diretta  ad opera della demolizione (e della
  sospensione   dell'efficacia)   dell'atto   impugnato  (come  nella
  fattispecie  con  tutta  evidenza  si  puo' dire dei quattro comuni
  predetti,  i  quali  nessuna  lesione immediata riceverebbero dalla
  eventuale  demolizione  e  men  che mai dalla eventuale sospensione
  cautelare  -  di  un atto a contenuto negativo che in alcun modo si
  contempla).
    In  altri termini, applicando i due notissimi criteri cui occorre
  fare  ricorso  per l'individuazione dei controinteressati (cfr. fra
  le  tante,  CS.,  A.p.  n. 9/1996;  C.g.a.,  n. 23/1997;  Tribunale
  amministrativo regionale Lazio, II-bis, n. 1094/1998), e cioe':
        a)  che  si  tratti di soggetti contemplati nel provvedimento
  impugnato,  od  ai  quali  esso si riferisce, o comunque in base ad
  esso facilmente identificabili (c.d. criterio formale);
        b) che si tratti di coloro che dal provvedimento hanno tratto
  in  modo  diretto  ed  immediato  una  posizione  di  vantaggio, in
  funzione della quale hanno interesse alla difesa e conservazione di
  esso  (c.d.  criterio sostanziale), risulta evidente che nessuno di
  tali  elementi  caratterizza  la  posizione  dei  quattro comuni de
  quibus.
    Non  appare  inutile  precisare che, per altro, nella fattispecie
  neppure  e'  configurabile  un  controinteresse di fatto in capo ai
  ripetuti comuni, non foss'altro che per il diverso bacino di utenza
  che  afferisce  alle case da gioco ivi collocate, assai distanti da
  Taormina,  e  parecchio piu' soggette alla concorrenza, per ragioni
  geografiche,   di   case   da   gioco  situate  nei  paesi  europei
  immediatamente confinanti.
    Il  comune  ricorrente  ha si' notificato il ricorso al comune di
  Venezia,  ma e' ovvio che siffatta notificazione ha scopo meramente
  tutioristico,  in  quanto  la  difesa dell'ente, rappresentatasi la
  remota  eventualita'  che  il giudice adito ravvisasse, nei quattro
  comuni  in  cui l'apertura di una casa da gioco, e' autorizzata, la
  qualita'  di  centrointeressati  in senso tecnico e processuale, ha
  inteso  premunirsi  contro  tale  -  sia  pure, si ripete, remota -
  eventualita'.  Ma  una  scelta  difensiva di tal fatta non comporta
  l'acquisto  della qualita' di controinteressato, nell'accezione cui
  sopra si faceva riferimento, da parte di soggetti che tali non sono
  alla stregua delle regole processuali e sostanziali vigenti.
    6. - E'  stata  altresi' eccepita la inammissibilita' del ricorso
  in epigrafe per difetto assoluto di giurisdizione sotto il porofilo
  della  carenza  di  una  situazione  tutelata  dall'ordinamento, di
  qualsivoglia natura, in capo al comune ricorrente.
    L'eccezione e' infondata e deve essere rigettata.
    Le  parti  resistenti muovono essenzialmente dalla considerazione
  che  nessun  potere  di  rilasciare l'atto ampliativo richiesto ha,
  secondo  il  diritto  vigente,  il  Ministero  dell'interno,  e che
  nessuna  pretesa  fondata su una posizione giuridica soggettiva - e
  sulla  lesione  di  tale  posizione giuridica soggettiva - puo' per
  tale ragione essere vantata dal comune medesimo.
    Si   e'   anche   sostanzialmente   richiamata,   in   proposito,
  accennandosi  soprattutto  alla  circostanza  che  il ricorrente ha
  chiesto   al  Ministero  dell'interno  il  compimento  di  un  atto
  addirittura  vietato  da norme penali, la costruzione giuridica del
  c.d.  interesse  illegittimo, che impone al giudice, in presenza di
  una  pretesa  al  conseguimento  di una utilita', di un "bene della
  vita",   pur   sussistendo   eventuali  illegittimita'  dell'azione
  amministrativa  -  o,  come  nel caso di specie, dubbi in ordine ad
  anomalie  della disciplina normativa che ne comportino la discrasia
  rispetto  a  valori  costituzionali  -  la previa valutazione della
  compatibilita'  della  pretesa con l'ordinamento nel suo complesso,
  in  modo  che  il risultato ultimo di vantaggio cui mira il privato
  non   finisca  per  qualificarsi  come  illegittimo  o  addirittura
  illecito.  In  altre  parole,  in  tali ipotesi e' carente la prima
  delle condizioni fondamentali di ogni azione giurisdizionale civile
  o  amministrativa, e cioe' la possibilita' giuridica di ottenere la
  pronuncia  richiesta  al  giudice  per l'esistenza di una norma che
  contempli  in  astratto  la posizione giuridica soggettiva (diritto
  soggettivo  o  interesse  legittimo)  tutelata  dall'ordinamento ed
  azionabile  in giudizio. Secondo tale impostazione (per la compiuta
  esposizione della quale cfr. le sentt. della seconda sez. di questo
  Tribunale amministrativo regionale nn. 119/1991 e 146/1993, seguite
  da  numerose  altre),  non  puo'  offrirsi tutela giurisdizionale a
  posizioni  di  interesse  materiale che si trovino in irrimediabile
  contrasto  con il diritto oggettivo che l'amministrazione e' tenuta
  ad  applicare  nello svolgimento dell'azione amministrativa, a meno
  di  non  voler  pervenire all'assurda conclusione che il giudice si
  renda complice del raggiungimento di un risultato illegittimo.
    Ma  tali considerazioni non possono essere automaticamente estese
  ad   ipotesi   come  quella  in  esame.  Cio'  per  varie  ragioni:
  innanzitutto   perche'   l'interesse   materiale   in   vista   del
  raggiungimento  del  quale  il  comune  di  Taormina  ha presentato
  l'istanza di autorizzazione respinta dal Ministero dell'interno con
  il provvedimento impugnato, cioe' l'interesse ad aprire una casa da
  gioco,  e' un interesse che alcuni soggetti di questo ordinamento -
  i  quattro comuni nei quali le case da gioco sono state aperte - si
  sono visti riconoscere. In secondo luogo, perche' tale risultato e'
  stato  raggiunto  con  una  operazione a dir poco inconsueta, cioe'
  quella di attribuire singolarmente a ciascuno di tali soggetti, con
  provvedimento  legislativo  (o  con sanatoria postuma di un atto di
  natura   amministrativa,  come  nel  caso  di  Saint  Vincent),  un
  beneficio implicante una deroga ad un divieto penalmente sanzionato
  (v.  infra,  la  ricognizione  della  normativa  derogatoria). Cio'
  sarebbe  stato  legittimo e possibile attraverso una individuazione
  in  via  generale ed astratta di situazioni giuridiche e/o di fatto
  in  cui  i comuni - in generale, non il singolo comune precisamente
  preindividuato    -   avrebbero   potuto   chiedere   la   dispensa
  dall'osservanza  del  divieto  in  questione.  Insomma, laddove uno
  strappo  vistoso alla legalita' e' stato compiuto nel metodo, ed e'
  stato  compiuto  dal  legislatore,  non  valgono  tutti  i principi
  elaborati in ordine alla disparita' di trattamento realizzata dalla
  pubblica  amministrazione.  Tali  princi'pi  il collegio pienamente
  condivide  quando  si  tratta  di  disconoscere una pretesa privata
  fondata  sulla illegittima attribuzione ad altri di benefici contra
  legem,  ma  non  ad  opera  dello stesso legislatore, bensi' di una
  qualunque  pubblica  amministrazione.  Un  caso  assai frequente e'
  quello  dell'illegittimo  inquadramento  avvenuto  in  virtu' dello
  svolgimento  di  fatto  di  mansioni superiori a quelle inerenti la
  qualifica  formalmente  posseduta, inquadramento che, anche laddove
  nello  stesso  ente  ottenuto, appunto, illegittimamente, da alcuni
  dipendenti,   non   rende  percio'  fondate  e  legittime  analoghe
  illegittime  pretese di altri; ed in tali casi, nei quali non vi e'
  alcun  interesse  legittimo,  alcuna situazione tutelata in capo al
  dipendente, a ben ragione si parla di interesse illegittimo. Ma nel
  caso   in   cui   ci   si  trovi  in  presenza  della  denuncia  di
  costituzionalita'  di  norme  che  hanno riconosciuto solo a taluni
  individuati  soggetti  la  meritevolezza  di  tutela  di  un  certo
  interesse  materiale,  con  l'anomala  attribuzione  singolare  del
  relativo   beneficio,   non   si   puo'   ragionare  con  i  canoni
  dell'interesse  illegittimo  e della disparita' di trattamento, per
  impedire   la   verifica   di  costituzionalita'  della  disciplina
  applicata.
    Tutto  cio'  si  precisa anche al fine di chiarire che, ad avviso
  del  collegio,  nella fattispecie in esame l'interesse azionato dal
  comune  ricorrente  e'  un  interesse  innanzitutto processuale, un
  interesse,  cioe',  ad  ottenere  un  determinato "bene della vita"
  attraverso  la  declaratoria di illegittimita' costituzionale delle
  norme  applicate,  che  ostano, in asserita violazione di parametri
  costituzionali, al conseguimento di tale bene od utilita' concreta,
  costituita dalla successiva realizzazione di un interesse di natura
  pretensiva.  Tale  particolare  struttura  e  natura dell'interesse
  azionato   sfugge   alla  dicotomia  interesse  legittimo-interesse
  illegittimo,  il  primo riconosciuto e tutelato con le modalita' di
  riconoscimento  e tutela che sono proprie dell'interesse legittimo,
  il  secondo  come  riflesso  negativo del primo, come interesse non
  solo non riconosciuto e non tutelato, ma come situazione di carenza
  della  situazione  soggettiva, alla lesione della quale corrisponde
  una  risposta  dell'ordinamento  in  termini di strumenti di tutela
  processuale azionabili dall'interessato.
    Il  duplice  interesse  che  qui  viene azionato dal ricorrente -
  interesse  processuale  alla  modificazione  dell'ordinamento nella
  parte  in cui questo contiene un vulnus di principi costituzionali,
  dal  quale  deriva  una  lesione  alla  sfera  giuridica  dell'ente
  ricorrente,   per   ottenere   la   rimozione   dell'ostacolo  alla
  realizzazione  di  un interesse di natura sostanziale, riconosciuto
  ad   altri  soggetti  dell'ordinamento  trovantisi  nella  medesima
  situazione  di  fatto - non potrebbe, per tale sua struttura, avere
  la  connotazione  dell'illegittimita'. Ove si ritenesse altrimenti,
  lo  stesso  giudizio  di  costituzionalita'  finirebbe  non trovare
  spazio tutte le volte in cui dall'esito di tale giudizio dipenda la
  realizzazione  o  la  non  realizzazione  di  un  interesse, che il
  privato  vorrebbe  vedersi  riconosciuto  proprio  in  virtu' della
  declaratoria di incostituzionalita'.
    Si  finirebbe  cioe'  per  cadere in una tautologia: non c'e' una
  situazione    tutelata   a   monte,   poiche'   il   riconoscimento
  dell'esistenza  di  tale situazione tutelata dipende dalla asserita
  illegittimita'  costituzionale  della  normativa  applicata;  ma in
  mancanza  della situazione tutelata a monte il privato non potrebbe
  proporre  il  giudizio  in  seno  al  quale dedurre la questione di
  legittimita' costituzionale.
    Orbene,  se  e'  vero che - come la migliore dottrina ha messo in
  luce  -  la  nozione  di interesse legittimo deve ricercarsi avendo
  riguardo  alla  norma  che  prevede un potere in capo alla pubblica
  amministrazione,  disciplinandone  l'esercizio; se e' vero che alla
  base  di  norme  siffatte  c'e  sempre  la  tutela di uno specifico
  interesse pubblico, alla cura del quale quel potere e' preordinato:
  se  e'  vero  che,  in  definitiva,  l'interesse  legittimo  e'  la
  posizione di vantaggio di un soggetto dell'ordinamento in relazione
  ad   un  bene  oggetto  di  potere  amministrativo,  e  consistente
  nell'attribuzione  al  soggetto titolare di poteri atti ad influire
  sul  corretto  esercizio  del potere onde realizzare l'interesse al
  bene,  ovvero,  secondo una piu' sintetica definizione, come potere
  di  pretendere un'utilita' derivante dal legittimo esercizio di una
  potesta'  se  tutto  cio'  e'  dunque  vero,  allora  non  si  puo'
  disconoscere  al titolare di tale interesse il potere di promuovere
  giudizio,  denunciando  la  norma  attributiva  del potere sotto il
  profilo  della  non  rispondenza  di  essa al canone costituzionale
  della  ragionevolezza  e  dell'uguaglianza, nella parte in cui tale
  norma  -  o  complesso  di  norme, come avviene nella fattispecie -
  riconosce  ad altri soggetti, trovantisi nelle medesime condizioni,
  la  realizzazione  in  un  interesse  che,  in  capo  a  tali altri
  soggetti,   e'   stato  riconosciuto  meritevole  di  tutela  (come
  dettagliatamente  sara'  esposto  in  sede  di  ricognizione  della
  disciplina derogatoria agli artt. 718 ss. C.p.).
    In conclusione, se normalmente il potere riconosciuto al privato,
  o   comunque   ad   un  soggetto  dell'ordinamento,  di  pretendere
  un'utilita'  derivante  dal legittimo esercizio di una potesta' non
  necessita   della   modificazione  della  norma  regolatrice  della
  potesta'  attraverso denuncia dell'illegittimita' costituzionale di
  quest'ultima  e  la  declaratoria  di illegittimita' da parte della
  Corte,  non  puo'  tuttavia  disconoscersi  che  nella  nozione  di
  interesse legittimo che si e' sopra richiamata rientri anche questo
  strumento di tutela.
    Non  sara'  inutile  ricordare ancora, in proposito, che gia' con
  sentenza  n. 46  del 13 febbraio 1981 la V sezione del Consiglio di
  Stato  aveva  rigettato  analoga  eccezione  di difetto assoluto di
  giurisdizione  per  asserita  mancanza  nel  ricorrente  comune  di
  Taormina di una posizione giuridica protetta in materia.
    Deve  dunque  essere  disattesa  l'eccezione  di improponibilita'
  della   domanda   per   difetto   assoluto  di  giurisdizione,  con
  l'ulteriore  precisazione  che  nella  specie il comune di Taormina
  agisce quale ente esponenziale degli interessi della collettivita',
  ed   a   tutela   delle  proprie  funzioni  di  ente  esponenziale,
  riconosciuti  dall'art. 22  legge  n. 142/1990, recepita in Sicilia
  con  L.r.  n. 43/1991  (su  tale profilo si avra' modo di ritornare
  infra,  esaminando  i  profili  di  contrasto  della  normativa  in
  questione con l'art. 5 e con art. 41 Cost.).

    7. - Deve altresi' essere disattesa l'eccezione (formulata con il
  regolamento  preventivo  di  giurisdizione)  di difetto relativo di
  giurisdizione,   secondo  la  quale,  ove  mai  si  ravvisasse  una
  situazione giuridica soggettiva in capo al comune di Taormina, tale
  situazione,  derivante  dall'art. 41 Cost., e dunque dal diritto di
  esercitare  attivita'  economiche,  avrebbe  se  mai consistenza di
  diritto  soggettivo,  e  pertanto  sposterebbe  la cognizione della
  controversia in esame all'a.g.o.
    Cio'  perche', si dice, l'art. 41 della Costituzione riconosce la
  liberta'  di  iniziativa  economica "non sottoposta" (ove i divieti
  stabiliti  dal  codice  penale non esistessero o fossero dichiarati
  incostituzionali)  ad  alcuna  regolamentazione amministrativa, con
  conseguente giurisdizione del giudice ordinario".
    Ma  tale impostazione non puo' essere condivisa, in quanto non e'
  ai  divieti  del  codice  penale  che  occorre fare riferimento per
  qualificare   la   posizione  soggettiva  azionata  dal  comune  di
  Taormina.  Non  e', infatti, il divieto penale a costituire oggetto
  della  presente  questione  di  costituzionalita'. Occorre, invece,
  fare riferimento alla normativa derogatoria, piu' volte richiamata,
  che ha consentito non gia' a ciascuno dei comuni in cui una casa da
  gioco  e'  stata  aperta  di  derogare,  sic et simpliciter e senza
  alcuna  intermediazione  di  esercizio  di  potesta'  pubbliche, al
  divieto, bensi' alla pubblica autorita' (Ministero dell'interno) di
  valutare  discrezionalmente  la sussistenza delle ragioni di deroga
  indicate  dalla legge stessa. Ne' potrebbe essere diversamente; non
  potrebbe  cioe'  immaginarsi  -  ed  infatti  nelle  sparse ipotesi
  derogatorie, pur anomale, come gia' detto, per molti altri aspetti,
  non  si e' proceduto cosi', un'attivita' esercitata in deroga ad un
  divieto  penalmente  sanzionato  che  non sia sottoposta a regole e
  controlli, e quindi a regime amministrativo.
    Come  meglio  si  vedra'  infra,  tale  regime  amministrativo si
  concreta   in   un   provvedimento   amministrativo   di   dispensa
  dall'osservanza del divieto penale, vigente nel nostro ordinamento,
  di istituire case da gioco. Sicche', tenuto conto che, alla stregua
  dei  noti  principi  dottrinali  e  giurisprudenziali  in  materia,
  l'ordinamento   attribuisce   la   titolarita'  di  un  determinato
  interesse   legittimo  (sia  pure,  molto  spesso,  implicitamente)
  collegandone  il  riconoscimento  o  la qualificazione normativa ai
  soggetti   che   si   trovino   in   una   sottostante   "posizione
  legittimante",   costituita   dalla   preesistenza  di  determinati
  rapporti   giuridici   sui   quali  viene  ad  incidere  il  potere
  amministrativo   (titolarita'   di  diritti  soggettivi  privati  o
  pubblici; esistenza del dovere della p.a. di provvedere su istanze:
  partecipazione  a  gare  o  concorsi,  ecc.), il diritto soggettivo
  pubblico  di  attivita'  economica  ex  art.  41 della Costituzione
  costituisce  soltanto,  per  il  comune  di  Taormina, la posizione
  legittimante  sottesa  alla titolarita' dell'interesse legittimo ad
  ottenere la dispensa in questione.
    E  tali  considerazioni  sono  sufficienti  ad  escludere  che la
  posizione  soggettiva da riconoscere al predetto comune di Taormina
  sia di diritto soggettivo piuttosto che di interesse legittimo.
    Neppure, si badi, potrebbe pervenirsi alla conclusione che qui si
  esclude  attraverso un diverso iter argomentativo, cioe' sostenendo
  che   nella   fattispecie   il   Ministero   non  possedeva  alcuna
  discrezionalita',  dovendo  necessariamente  emanare, in assenza di
  norme permissive, un atto denegatorio, che dunque avrebbe natura di
  atto vincolato.
    Di  per  se', come e' stato dalla giurisprudenza riconosciuto, la
  natura   vincolata   dell'attivita'   amministrativa  non  comporta
  automaticamente   l'attribuzione  delle  relative  controversie  al
  giudice  ordinario.  Ed invero, la posizione di interesse legittimo
  non   si  configura  solo  necessariamente  in  relazione  ad  atti
  discrezionali,  potendo  ben  sussistere  tale posizione soggettiva
  anche   se   il   potere  attribuito  all'autorita'  amministrativa
  procedente  sia  vincolato  in tutto od in parte, e quindi anche in
  presenza   di   provvedimenti   vincolati,   laddove  l'ordinamento
  stabilisca,  sia pure implicitamente che l'esplicazione di siffatto
  potere   -   e  l'emanazione  di  siffatti  atti  -  siano  rivolti
  primariamente  al  perseguimento  immediato  e diretto del pubblico
  interesse,  e  non gia' al soddisfacimento di interessi dei privati
  (cfr.  C.g.a., n. 177/1989; C.S. A.p., n. 25/1979; Idem n. 42/1980;
  Tribunale   amministrativo  regionale  Catania,  II,  n. 1090/1992;
  Tribunale  amministrativo  regionale  Catania, III, nn. 14 e 19 del
  1998;  A.p.  n. 18/1999), di tal che, in definitiva, la distinzione
  fra   diritti   soggettivi   ed   interessi  legittimi  deve  farsi
  essenzialmente guardando alla finalita' perseguita dalla norma (cui
  il  provvedimento  si  ricollega),  guardando,  cioe',  all'oggetto
  primario ed immediato della tutela dalla norma apprestata, che puo'
  essere  un interesse pubblico (appartenente alla collettivita') - e
  si  avranno  allora,  in  capo  ai  privati  (ed  anche  a soggetti
  pubblici,   come   nella  specie)  destinatari  del  provvedimento,
  posizioni di interesse legittimo - ovvero un interesse privato (con
  conseguente  natura  di  diritto  soggettivo  della  posizione  del
  privato ed anche di enti ed organi pubblici).
    Nel   caso   di  specie,  il  comune  di  Taormina  ha  interesse
  all'apertura  di  una  casa  da  gioco,  ma,  ove  le  disposizioni
  derogatore   non   violassero   i   canoni   di  uguaglianza  e  di
  ragionevolezza,  tale  interesse  potrebhe  essere realizzato, e la
  sottesa  utilita'  concreta  potrebbe essere ottenuta, soltanto ove
  nel  procedimento  di  dispensa  dall'osservanza del divieto penale
  l'autorita'  attributaria  della  relativa  potesta'  e  della cura
  dell'interesse    pubblico    riconosca,    discrezionalmente,   la
  sussistenza  dei presupposti fissati dalla legge per la concessione
  di siffatta dispensa.
    In conclusione, anche l'eccezione di inammissibilita' per difetto
  relativo di giurisdizione deve essere disattesa.
    8. - Il  collegio deve adesso prendere in esame le argomentazioni
  con  le  quali  parte  ricorrente  tenta di avvalorare l'esistenza,
  nell'ordinamento  giuridico  italiano,  di un principio, o norma, o
  insieme  di  norme,  che  avrebbe  introdotto una deroga al divieto
  penalmente  sanzionato  dagli  artt.  718  ss.  C.p.,  e  dalla cui
  applicazione   al   caso   concreto   da   parte  della  resistente
  amministrazione dell'interno sarebbe derivato, in luogo del diniego
  impugnato   con   il  ricorso  in  epigrafe,  un  provvedimento  di
  accoglimento   dell'istanza  intesa  ad  ottenere  l'autorizzazione
  all'apertura di una casa da gioco in Taormina.
    In  altre  parole,  ove il collegio ritenesse, almeno ad un primo
  esame  -  stante  la  fase cautelare in cui il presente giudizio si
  trova  -  fondate  le  argomentazioni  in tal senso svolte da parte
  dell'ente  ricorrente, a sostegno della tesi sostenuta con il primo
  motivo  di  gravame,  ne  deriverebbe  l'accoglimento  dell'istanza
  cautelare,  con  conseguente emanazione di una ordinanza propulsiva
  che disponga l'obbligo, per il Ministero resistente, di riesaminare
  l'istanza  di  cui  trattasi  alla  luce  del  principio  giuridico
  individuato dal giudice adito come regolatore della fattispecie. In
  tal  caso,  ovviamente, per i noti princi'pi in tema di giudizio di
  costituzionalita',  la  questione  oggetto  del  secondo  motivo di
  gravame sarebbe da ritenere irrilevante nel presente giudizio.
    Ma il collegio ritiene di non poter condividere le argomentazioni
  con  le  quali  il  comune  ricorrente  tenta di suffragare la tesi
  sostenuta  con  il  primo motivo di gravame; e cio' per la decisiva
  ragione  che il rango e la collocazione delle disposizioni invocate
  non  consente  di qualificare tali disposizioni come derogatorie di
  un   divieto  penalmente  sanzionato,  cioe',  sostanzialmente,  di
  attribuire   a   tali  disposizioni  efficacia  abolitrice  di  una
  fattispecie penale.
    Le  disposizioni invocate dall'ente ricorrente sono contenute nei
  DD.PP.RR.  nn.  640  e 641 del 26 ottobre 1972, il primo in materia
  d'imposta  sugli  spettacoli,  il  secondo contenente la disciplina
  delle  tasse  sulle  concessioni  governative.  In proposito, parte
  ricorrente  sostiene che esiste "un (secondo ed alternativo) regime
  di  regolamentazione  normativa  del  gioco d'azzardo, questa volta
  permissivo,  fondato sulle norme dei DD.PP.RR. n. 640 e n. 641/1972
  che  avrebbero  introdotto  -  accanto  al  meccanismo  derogatorio
  speciale  fondato sulle autorizzazioni concesse con leggi singolari
  -  un  regime derogatorio generalizzato che trova nel provvedimento
  amministrativo (autorizzatorio) la radice del suo fondamento".
    Il   collegio  ritiene  che  siffatta  ricostruzione  del  quadro
  normativo di riferimento incontra l'ostacolo fondamentale, cui gia'
  s'e'  fatto  cenno,  della  natura regolamentare e tributaria delle
  disposizioni  che secondo parte ricorrente dovrebbero costituire il
  "sistema  derogatorio  generalizzato"  rispetto  alla  normativa di
  divieto contenuta nel codice penale.
    La  ragione  piu'  intuitiva  ed evidente della impossibilita' di
  ricostruire  il  sistema  nei termini prospettati in ricorso e' che
  l'abolizione  di  una  norma incriminatrice deve avere caratteri di
  certezza,  deve  offrire ai consociati (all'amministrazione come ai
  privati,  a tutti i soggetti, insomma, dell'ordinamento) modelli di
  comportamento  esattamente delineati, in applicazione del principio
  nullum  crimen  sine  lege,  sancito  dall'art. 25 Cost., principio
  forse  di  piu' immediata percezione nel suo aspetto per cosi' dire
  attivo  -  la  fattispecie  incriminatrice  deve  essere  stabilita
  normativamente  -  ma che implica anche, in negativo, la necessita'
  che  la  cancellazione di un divieto avvenga nello stesso modo, con
  le  stesse  procedure  dalle  quali  il divieto di tenere una certa
  condotta e' stato posto, e soprattutto in modo esplicito.
    Cio'  posto,  il collegio ritiene superfluo l'esame del contenuto
  delle disposizioni invocate da parte ricorrente, che per le ragioni
  esposte  non  sono  in  alcun  modo in grado di ritenere superato e
  derogato,  ne'  derogabile, il divieto penale di cui agli artt. 718
  ss. C.p.

    9. - La  infondatezza  del  primo  motivo  di  gravame  impone al
  collegio  l'esame  della  dedotta  questione  di  costituzionalita'
  (secondo  motivo),  della  quale  occorre vagliare la rilevanza nel
  presente  giudizio  e la non manifesta infondatezza, ai sensi e per
  gli  effetti  dell'art.  1  legge Cost. n. 1/1948, e dell'art. 23/2
  legge n. 87/1953.
    Quanto  al primo profilo, occorre innanzitutto premettere che non
  osta  alla  sussistenza della rilevanza la circostanza che la causa
  si  trova  ancora in fase cautelare (come piu' volte ritenuto dalla
  stessa  Corte  costituzionale,  da ultimo nella sentenza n. 4/2000,
  ove sono citati altri precedenti della medesima Corte).
    Sulla  sussistenza  della  rilevanza  in  se', poco v'e' da dire,
  poiche',  una  volta esclusa la sussistenza del fumus boni iuris in
  relazione  al  primo  motivo  di  ricorso,  soltanto dall'eventuale
  riconoscimento,   da   parte   della  Corte  costituzionale,  della
  fondatezza  della  questione dedotta con il secondo motivo potrebbe
  derivare  l'accoglimento  dell'istanza  cautelare in esame, dovendo
  altrimenti  questa essere respinta per difetto del necessario fumus
  di fondatezza.
    E'  appena il caso di ricordare, sempre ai fine della valutazione
  della  rilevanza  della questione di legittimita' costituzionale di
  cui  trattasi,  che  nella  specie  il  collegio ritiene sussistere
  l'altro  indefettibile  presupposto della erogazione di ogni misura
  cautelare,  e  cioe'  il  periculum  in  mora, in quanto, come gia'
  osservato nell'ordinanza, gia' citata, n. 449/1999, con la quale il
  giudizio cautelare e' stato sospeso fino alla pronuncia della Corte
  sulla  questione che si solleva con la presente ordinanza, il danno
  grave ed irreparabile si configura ed emerge in re ipsa a fronte di
  un  interesse  pretensivo  che  altrimenti  rimarrebbe  sfornito di
  tutela,  tenuto anche conto della circostanza che in passato - come
  meglio  in  seguito sara' esposto - l'apertura di una casa da gioco
  nel   comune   di   Taormina   era  stata  dapprima  autorizzata  e
  successivamente  impedita, e che, pertanto, tale danno si e' andato
  progressivamente  aggravando, non soltanto in termini di mero lucro
  cessante,  bensi', soprattutto, in relazione al mancato godimento -
  da  parte  della collettivita' di cui il comune di Taormina e' ente
  esponenziale,  e  della  popolazione  della  reagione  siciliana in
  generale   -   di   vari   benefici   di  bilancio  e  di  sviluppo
  economico-occupazionale diretti e riflessi.
    Pertanto,  la  decisione  con la quale il collegio perverra' alla
  definizione  della  fase  cautelare  dipende  esclusivamente  dalla
  soluzione  che  la  Corte  dara'  alla  questione  di  legittimita'
  costituzionale dedotta con il secondo motivo di gravame.
    E'  appena il caso di precisare che la rilevanza non difetta, nel
  caso  in  questione,  neppure  sotto il profilo - prospettato dalle
  parti resistenti - della efficacia di una eventuale pronuncia della
  Corte di contenuto positivo. Si e' in proposito osservato, sotto il
  profilo  del  difetto  di interesse, che una pronuncia di tal fatta
  potrebbe  soltanto  azzerare  la  situazione  di  fatto  esistente,
  comportando   la  chiusura  delle  case  da  gioco  attualmente  in
  esercizio  nei  piu'  volte  richiamati  quattro  comuni  che hanno
  beneficiato   della  disciplina  derogatoria,  per  negare  intanto
  l'ammissibilita'   del   ricorso   per  difetto  di  interesse,  e,
  mediatamente  anche la rilevanza della questione di legittimita' di
  cui trattasi.
    Si tratta di un espediente difensivo che volutamente ed abilmente
  trascura  il  fatto  che il comune non ha affatto chiesto - ne' con
  l'istanza  respinta  dal  Ministero dell'interno, con la quale esso
  ente  chiedeva  per  se'  un  provvedimento ampliativo, ne' in sede
  giudiziale  a  questo  collegio, dinanzi al quale e' stato proposto
  gravame  avverso  il  diniego  -  la  chiusura  delle case da gioco
  esistenti.  Cio'  che  il  comune di Taormina mette in dubbio e' la
  conformita'  ad  alcuni  parametri  costituzionali della disciplina
  derogatoria,  della  quale  chiede  l'estensione  ad  altri  comuni
  trovantisi   nella   medesima   situazione   di   fatto  di  quelli
  "privilegiati".  In  altri  termini,  oggetto della declaratoria di
  incostituzionalita'  dovrebbe  essere  non  gia' il divieto penale,
  bensi'  la  disciplina  derogatoria,  nella  parte  in cui essa non
  consente  ulteriori  estensioni  di precetti normativi di favore (a
  fini  di  risanamento  dei  bilanci degli enti deficitari, e per il
  compimento di opere pubbliche).
    Cio'  comporta  un interesse pretensivo al mutamento dell'assetto
  normativo  in  capo  ai soggetti che, come il comune ricorrente, si
  trovano  nella  medesima  situazione  di fatto dei comuni che hanno
  fruito    della   normativa   di   favore   oggi   denunciata   per
  incostituzionalita'.
    10. - Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, che
  adesso  il  collegio  deve  darsi  carico di valutare, e' opportuno
  premettere   una   ricognizione  delle  norme  che  rilevano  nella
  fattispecie,  iniziando  da quelle contenute nel codice penale, che
  di seguito si riportano.
    Art.  718  C.p.: "Esercizio di giuochi d'azzardo. Chiunque, in un
  luogo  pubblico  o  aperto  al  pubblico,  o  in circoli privati di
  qualunque  specie,  tiene  un  giuoco  d'azzardo  o  lo  agevola e'
  punito ...".
    Art.  719  C.p.:  "Circostanze  aggravanti.  La pena per il reato
  preveduto dall'articolo precedente e' raddoppiata:
        se il colpevole ha istituito o tenuto una casa da gioco;
        se il fatto e' commesso in un pubblico esercizio;
        se sono impegnate nel giuoco poste rilevanti".
    L'art. 720  incrimina  la  condotta  di  chi  partecipa al giuoco
  d'azzardo,  prevedendo un aumento di pena, al secondo comma, in due
  ipotesi:
        "1)  nel  caso  di  sorpresa  in  una  casa da giuoco o in un
  pubblico esercizio;
        2)   per   coloro   che  hanno  impegnato  nel  giuoco  somme
  rilevanti".
    L'art. 721   si  preoccupa  di  fornire  la  nozione  di  "giochi
  d'azzardo"  e  di case da gioco, definendo i primi come "quelli nei
  quali  ricorre  il  fine  di  lucro  e  la  vincita o la perdita e'
  interamente  o  quasi  aleatoria",  e  le  seconde  come "luoghi di
  convegno destinati al giuoco d'azzardo anche se privati, e anche se
  lo scopo del giuoco e' sotto qualsiasi forma dissimulato".
    Le  disposizioni derogatorie, in forza delle quali in Italia sono
  state  nel  tempo  aperte  case da gioco autorizzate - e dunque non
  incriminabili  ai sensi delle su richiamate disposizioni del codice
  penale - sono le seguenti:
        R.D.L.   n. 2448/1927,   conv,   L.   n. 3125/1928,   recante
  "provvedimenti  a  favore  del  comune  di  San  Remo", che dispone
  (art. 1):   "E'   data   facolta'  al  Ministro  per  l'interno  di
  autorizzare,  anche  in  deroga  alle  leggi vigenti, purche' senza
  aggravio  per  il  bilancio  dello  Stato, il comune di San Remo ad
  adottare  tutti  i  provvedimenti  necessari  per potere addivenire
  all'assestamento del proprio bilancio ed all'esecuzione delle opere
  pubbliche indilazionabili.
    L'autorizzazione   del   Ministro   per  l'Interno  ha  efficacia
  giuridica anche in confronto dei terzi".
        R.D.L.    n. 201/1933,    conv.   L.   n. 505/1933,   recante
  "provvedimenti a favore del comune di Campione", articolo unico, di
  formulazione  identica  a  quella  della disposizione in favore del
  comune  di  San  Remo,  e  con  l'aggiunta - al terzo comma - della
  previsione  secondo cui "Nell'atto dell'autorizzazione, il Ministro
  per   l'Interno   puo'   riservarsi  di  subordinare  alla  propria
  approvazione  l'esecuzione  dei singoli provvedimenti stabilendone,
  se del caso, i termini e le modalita'".
        R.D.L.   n. 1404/1936,   conv,   legge   n. 62/1937,  recante
  "estensione  al  comune  di  Venezia  delle disposizioni del R.D.L.
  n. 2448/1927,  recante  provvedimenti  a  favore  del comune di San
  Remo",  art.  unico:  "Le  disposizioni  del  R.D.L.  n. 2448/1927,
  convertito  nella  L.  n. 3125/1928, recante provvedimenti a favore
  del comune di San Remo, sono estese al comune di Venezia".
    Una  storia diversa ha l'istituzione della casa da gioco di Saint
  Vincent,  che  ha alla sua origine una atto di autorita' regionale,
  precisamente un decreto del Presidente della Regione Valle d'Aosta,
  il n. 241/3 del 3 aprile 1946. Successivamente, l'apertura di detta
  casa  da  gioco  e' stata ritenuta sanata, dalla giurisprudenza sia
  civile  sia penale (si veda per un excursus la sentenza della Corte
  costituzionale  n. 152/1985, con la quale e' gia' stata esaminata e
  decisa  una  questione  analoga  a  quella  che  oggi  il  collegio
  solleva),   sulla  base  della  circostanza  che  fin  dal  1949  i
  provvedimenti  legislativi  statali  recanti  contributi alla Valle
  d'Aosta  comportavano il riconoscimento della non punibilita' della
  casa  da  gioco  (i  cui  proventi  figuravano  inclusi nei bilanci
  regionali),    oltre   che   dell'ulteriore   elemento   costituito
  dall'art. 2,   lett.   a),  L.  n. 1065/1971,  (recante  "revisione
  dell'ordinamento   finanziario   della   regione  Valle  d'Aosta"),
  allorche'  dispone che la regione stessa provvede al suo fabbisogno
  finanziario con le entrate tributarie costituite altresi' "da altre
  consimili   entrate   di  diritto  pubblico,  comunque  denominate,
  derivanti da concessioni ed appalti".
    Come  e'  subito evidente, gia' ad una prima rapida lettura delle
  disposizioni di cui trattasi, non soltanto le formule normative non
  contengono  alcun esplicito e chiaro riferimento al gioco d'azzardo
  ed  alle  case  da  gioco,  ma  neppure con espressioni indirette e
  velate consentono all'interprete che si limiti alla letture di esse
  disposizioni  di risalire alla materia di cui in realta' si tratta.
  Soltanto  i  lavori preparatori consentono di compiere l'operazione
  ermeneutica,  superando  lo  schermo delle espressioni - altrimenti
  incomprensibili  -  adoperate, delle quali la Corte costituzionale,
  nella  decisione poco sopra richiamata (n. 152/1985) ha detto assai
  incisivamente  che "offrono il fianco alla critica per le formule a
  dir poco reticenti cui tutte fanno ricorso".
    La  predetta  osservazione ne reca con se' una ulteriore, e cioe'
  che il cittadino, quale destinatario delle norme che lo Stato e gli
  altri  soggetti  dotati  di potesta' normativa pongono, deve potere
  immediatamente  comprendere  quali condotte gli siano consentite, e
  quali  vietate; invece, se il c.d. uomo della strada si limitasse a
  leggere le norme in questione, sarebbe - o almeno potrebbe essere -
  indotto  a  pensare che nei quattro comuni presi dalle norme stesse
  in  considerazione  ogni  divieto e' sospeso e derogato, e che ogni
  attivita',   anche  costituente  reato,  comunque  suscettibile  di
  produrre   ricchezza,   e'   in   ogni   caso   consentita,  previa
  autorizzazione del Ministro dell'interno.
    Ma  altre  e  piu'  gravi  critiche  possono  e  devono  farsi al
  complesso  normativo  derogatorio  qui sommariamente richiamato, ai
  fini  della valutazione della compatibilita' di detto complesso con
  la Carta costituzionale.

    11. - E'  adesso necessario prendere in considerazione le censure
  che,  sotto  il  profilo  della  costituzionalita'  ha sollevato il
  Comune  ricorrente.  E' appena il caso di sottolineare che comunque
  il  collegio,  avendo  indubbiamente  il  potere di sollevare anche
  d'ufficio  siffatta  questione,  non  e' rigidamente vincolato alle
  argomentazioni  e deduzioni della parte, potendo aggiungere profili
  non contenuti in ricorso, ovvero sottrarne altri (risolvendosi tale
  ultima  operazione,  in definitiva, in una valutazione di manifesta
  infondatezza consentita, ed anzi imposta al giudice rimettente).
    Parte  ricorrente,  esattamente  premettendo  che "il giudizio di
  costituzionalita'  che  si sollecita non riguarda una singola norma
  di  legge  ma  un  "complesso normativo che costituisce il "diritto
  vivente  che  regola  - illegittimamente - la fattispecie", ricorda
  che   i  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  delle  norme  che
  esonerano  quattro  soli comuni italiani dall'osservare il generale
  divieto  di  tenere  od  agevolare  il gioco d'azzardo, di cui agli
  artt. 718  ss. C.p. sono presenti in molte pronunce giurisdizionali
  (C.d.a. Venezia, 2 ottobre 1965; ordinanza C.S. V, n. 692/1969, con
  la  quale  e'  stata  rimessa  ai giudice delle leggi una questione
  analoga  a  quella  che  oggi  si solleva, ma sulla quale non vi fu
  alcuna    decisione    della    Corte    per   fatti   sopravvenuti
  all'incardinazione  del  giudizio  che comportarono la restituzione
  degli  atti  al Consiglio di Stato; C. cost., sent. n. 80/1997, con
  la quale e' stato ritenuto che il rapporto che intercorre fra norme
  generali   e   norme   derogatorie   comporta  che  possano  essere
  prospettate     questioni     di    legittimita'    costituzionale,
  partcolarmente  per violazione del principio di uguaglianza sancito
  dall'art. 3,  commi  1  e  2 e della Carta, soltanto in ordine alle
  seconde  e non anche alle prime, che dettano la disciplina comune a
  tutti i cittadini).
    La  dottrina  e  la  giurisprudenza non hanno mancato di rilevare
  l'anomalia della disciplina qui considerata (si vedano le citazioni
  contenute  in ricorso, a p. 14 s., fra le quali particolare rilievo
  ha   il   ricorso   al  concetto  di  simulazione  attraverso  atti
  normativi), sottolineandone gli aspetti piu' vistosi, e dunque piu'
  facilmente   percepibili.   Cosi',  e'  di  immediata  evidenza  la
  disparita' di trattamento nei confronti dei cittadini che tengono o
  agevolano  il gioco d'azzardo in qualsiasi localita' del territorio
  nazionale  rispetto  a  coloro  che tengono le medesime condotte in
  virtu'   di   norme   particolari   che   giustifichino  il  regime
  autorizzatorio.
    E'  da  premettere  che  la  c.d.  autorizzazione  del  Ministero
  dell'interno  (o  del presidente della Valle d'Aosta) deve, secondo
  una   ricostruzione   dottrinaria   che   il  collegio  ritiene  di
  condividere,  essere  annoverata  fra i prvvedimenti con i quali la
  pubblica   amministrazione   consente   attivita'  non  inerenti  a
  preesistenti  diritti  (da  qualificare dunque, correttamente, come
  dispensa  dall'osservanza di un divieto valevole per la generalita'
  dei  cittadini,  o, secondo altra definizione presente in dottrina,
  come  non  applicazione,  da  parte  della  p.a,  di una data norma
  giuridica   nei  confronti  di  uno  o  piu'  soggetti  che  invece
  dovrebbero,   in   astratto,   soggiacervi,   ove  non  vi  fossero
  particolari  ragioni  di esonero). A fronte di una dispensa - atto,
  come  e'  noto, fortemente discrezionale - il cittadino e' tirolare
  di  un interesse legittimo, alla stregua della nozione di interesse
  legittimo che si e' data supra.
    Puo'   essere  utile,  in  proposito,  esaminare  una  disciplina
  strutturalmente affine a quella del gioco d'azzardo, in cui vige un
  divieto dall'osservanza del quale, in particolari situazioni che il
  legislatore  prende  in  considerazione, si puo' essere dispensati,
  con  le  modalita'  e  le  restrizioni stabilite dalla legge in via
  generale ed astratta.
    Ci si vuole riferire al divieto di portare le armi, ed a tutto il
  regime derogatorio collegato.
    Sgombrato  subito  il  campo  dai  divieti collegati alle armi da
  guerra,  che  ineriscono,  secondo  autorevole  dottrina, piu' alla
  conformazione   del   diritto  di  proprieta'  che  al  divieto  di
  comportamenti  (la  proprieta' di tali armi e' riservata allo Stato
  dall'art. 826/2  C.c.;  tenerle  presso  di  se'  e'  qualificabile
  giuridicamente  in  termini  di  mera  detenzione, che e' vietata e
  qualificata  come  illecito  penale:  art. 2 legge n. 895/1967), ed
  anche  dal  terzo  divieto,  relativo  alle armi da caccia senza la
  relativa  licenza  -  che  qui  non ci interessano, non presentando
  affinita' strutturali con la fattispecie che ci occupa - esaminiamo
  il  divieto di portare armi di difesa personale fuori dalla propria
  abitazione.
    Tale  divieto,  come  e'  stato esattamente rilevato in dottrina,
  costituisce  in  realta'  corollario del princi'pio di costituzione
  materiale  che  enuncia  il  dovere  dei  consociati di comportarsi
  pacificamente,  principio basilare in uno stato democratico, le cui
  estrinsecazioni  sono  costituite  da  doveri  positivi e negativi:
  divieto  di farsi ragione con i propri mezzi (art. 392-401 C.p). di
  esercitare  aggressioni  (sono  infatti  incriminate varie condotte
  aggressive  di  varia intensita' e gravita': si ricordano, a titolo
  meramente  esemplificativo  e  senza  pretesa  di  completezza,  la
  strage,  le  varie figure di omicidio, la minaccia, le percosse, le
  lesioni).
    Una  delle  manifestazioni  del  generale  dovere  di  tenere  un
  comportamento  pacifico  e'  costituito,  appunto,  dal  divieto di
  circolare   portando   armi   (art. 42   T.u.l.p.s.;  art. 4  legge
  n. 110/1975).  Ma,  in  considerazione  della  esigenza  che alcuni
  soggetti  godano  di  una possibilita' di autodifesa potenziata (in
  ragione di particolari professioni svolte, ad esempio). la pubblica
  amministrazione,  ai  sensi  del  combinato disposto dell'art. 42 e
  dell'art. 4   appena   citati,   puo'   dispensare   tali  soggetti
  dall'osservanza del divieto.
    Le  formulazioni  contenute  nelle disposizioni appena richiamate
  delineano  un  potere  dell'autorita'  di  p.s.  ("facolta' di dare
  licenza",  "facolta'  di concedere licenza") che e' senza dubbio un
  poter  discrezionale,  e  che presuppone la sussistenza, in capo al
  soggetto  istante,  di  un "dimostrato bisogno", la valutazione del
  quale e' rimessa all'apprezzamento - da esplicitare, ovviamente, in
  una esauriente motivazione - dell'autorita'.
    Come  si  vede,  la struttura della norma e' quella di consentire
  una  deroga  ad  un  generale divieto, attribuendo all'autorita' di
  p.s.  un  potere  inteso  ad  amministrare  e regolare l'assetto di
  interessi  pubblici  (alla pacifica ed ordinata convivenza sociale,
  al  controllo  delle  armi)  e  privati (all'esercizio della difesa
  personale  in  situazioni di particolare esposizione al pericolo di
  aggressioni),  e  prevedendo  in  via  generale  ed  astratta quali
  situazioni  possono  giustificare  la concessione della dispensa di
  cui trattasi.
    La  struttura della fattispecie - anzi, delle isolate fattispecie
  -  prese  in  considerazione  dai provvedimenti normativi che hanno
  consentito  successive  singolari  ipotesi  di deroga al divieto di
  istituire  case  da  gioco  e' identica. Vi e' anche qui un divieto
  sanzionato penalmente; vi e' anche qui la possibilita' che esigenze
  particolari  giustifichino  una deroga; vi e' l'attribuzione ad una
  pubblica  amministrazione  del  potere di emanare provvedimenti che
  autorizzino  la deroga (che dispensino dall'obbligo di osservare il
  divieto).  La assoluta vaghezza delle formule adoperate di volta in
  volta  dal legislatore per indicare il divieto di cui si ammette la
  deroga  e'  gia'  stata sottolineata supra, in sede di ricognizione
  delle norme sospettate di incostituzionalita', che hanno consentito
  addirittura  - stando alla formulazione letterale - una generale ed
  omnicomprensiva  "deroga  alle  leggi  vigenti",  che  soltanto  la
  consultazione   dei  lavori  preparatori  consente  di  restringere
  all'apertura  dei  casino'.  Si  vuole  adesso sottolineare come la
  previsione  delle  situazioni  in  presenza delle quali il Ministro
  dell'interno  puo'  autorizzare  l'adozione  di  provvedimenti  "in
  deroga   alle   leggi  vigenti"  sia  avvenuta  con  riferimento  a
  situazioni - "assestamento del proprio bilancio", "esecuzione delle
  opere  pubbliche  indilazionabili"  - che non possono in alcun modo
  ragionevolmente  ritenersi esclusive dei quattro comuni beneficiari
  (cfr.: CS., V, ord. n. 692/1969).
    Non  si' puo', pertanto, aderire alla tesi (espressa dalla difesa
  del  comune di Venezia per suffragare l'affermazione del difetto di
  giurisdizione  del giudice amministrativo in subiecta materia, a p.
  4  s.  del  ricorso  per  regolamento  di giurisdizione, ma che per
  ragioni espositive e' opportuno richiamare in questa sede), secondo
  cui,  in  presenza dei divieti penalmente sanzionati ai sensi degli
  artt. 718  ss.  C.p., "l'istituzione di case da gioco in Italia non
  poteva  che  trarre  origine  da  singoli ed autonomi provvedimenti
  legislativi".   Cio'  muove  dall'implicito  presupposto  che  ogni
  qualvolta ragioni ed esigenze particolari impongano la deroga di un
  divieto   penalmente   sanzionato   cio'  non  possa  avvenire  che
  attraverso  "singoli  ed autonomi provvedimenti legislativi". Tutte
  le  considerazioni  che  si  sono  svolte  nel  presente  paragrafo
  dimostrano  che  cosi'  non  e',  e  che, al contrario, in siffatte
  ipotesi, la disciplina derogatoria di un divieto generale, ha - non
  puo'  non  avere  -  le  stesse  caratteristiche  di generalita' ed
  astrattezza  che sono proprie di qualunque altra norma, come ancora
  meglio si precisera' nel paragrafo che segue.

    12. - Il  raffronto  fra  la disciplina del divieto di portare le
  armi e delle deroghe a tale divieto da un lato, e la disciplina del
  divieto di gioco d'azzardo - in particolare di tenere case da gioco
  -  e  delle  deroghe  a  tale  divieto,  dall'altro, fa emergere la
  fondamentale (ma ingiustificabile, e percio' incostituzionale, come
  ancora si' precisera') differenza che intercorre fra le stesse. Nel
  primo  caso, il regime deregatorio risponde alle caratteristiche di
  generalita'  ed astrattezza che sono proprie della norma giuridica,
  nel  secondo no. Nel primo caso, soggetti trovantisi nella medesima
  situazione  non  sono soggetti a differente disciplina. Nel secondo
  caso,  vi  sono quattro soggetti pubblici - i quattro comuni di San
  Remo, Venezia, Campione e Saint Vincent - i quali hanno beneficiato
  e  continuano  a  beneficiare  di  un  regime derogatorio che li ha
  individuati  come  beneficiari  senza  previamente  individuare una
  categoria  generale  ed  astratta di possibili beneficiari, e senza
  preoccuparsi  di  estendere  successivamente il beneficio a tutti i
  soggetti  che  si  trovano  nelle  stesse  situazioni  (piu'  volte
  ricordate:  dissesto  finanziario;  necessita'  di realizzare opere
  pubbliche)  prese  in  considerazione  dalle disposizioni che hanno
  consentito la deroga.
    Ne'  potrebbe  opporsi  che  tutti e quattro i comuni beneficiari
  sono accomunati da un tratto distintivo che esclude la possibilita'
  di  estendere  ulteriormente la deroga, e cioe' dalla situazione di
  frontiera,  poiche'  questo  non  vale  certamente per il comune di
  Venezia,   come   gia   e'   stato   rilevato  dalla  stessa  Corte
  costituzionale  nella sent. n. 152/1985, e comunque, anche ove tale
  caratteristica avessero avuto davvero tutti i comuni de quibus, pur
  tuttavia mancherebbe, comunque, una previsione di derogabilita' del
  divieto per tutte le localita' di frontiera.
    In  altre  parole,  il modello costituzionalmente corretto e', ad
  avviso del collegio, il primo, in cui l'ordinamento pone un divieto
  che vale per la generalita' dei soggetti dell'ordinamento e prevede
  in via generale ed astratta ipotesi nelle quali deve ammettersi che
  il  divieto possa subire deroghe. Attribuisce dunque un potere alla
  pubblica  amministrazione, stabilisce le regole secondo le quali la
  pubblica   amministrazione   puo   emanare   provvedimenti   che  -
  dispensando  i  soggetti  che si trovano in particolari situazioni,
  individuate in modo generale ed astratto - rende lecita la condotta
  generalmente vietata.
    Nel  modello  costituito dalla disciplina derogatoria in esame, e
  sospettata  oggi  di  illegittimita'  costituzionale, al contrario,
  manca proprio questo elemento qualificante e determinante - ai fini
  della  rispondenza della disciplina stessa ai canoni costituzionali
  -  della  previsione  in  via generale ed astratta delle situazioni
  giustificatrici  di  una deroga, e di un potere attribuito, pure in
  generale,  e  non  caso per caso, alla pubblica amministrazione, di
  concedere provvedimenti ampliativi in deroga al divieto.
    Cominciando  adesso  a  tirare  le fila del discorso, il collegio
  ritiene,  in  sostanza,  che  innanzitutto  la  piu'  volte  citata
  normativa  derogatoria  in esame - r.d.l. n. 2448/1927, conv, legge
  n. 3125/1928;  r.d.l.  n. 201/1933, conv, legge n. 505/1933; r.d.l.
  n. 1404/1936,   conv.   legge   n. 62/1937;  legge  n. 1065/1971  e
  n. 690/1971, contenenti una "sanatoria", del decreto del Presidente
  della regione Valle d'Aosta, n. 241/3 del 3 aprile 1946 - contrasta
  con  l'art. 3  Cost,  cioe' con i principi espressi dal primo e dal
  secondo comma della appena citata disposizione.
    Il  primo  comma  dell'art. 3  enuncia,  come  e'  noto,  il c.d.
  principio di eguaglianza formale e soggettiva, valevole per tutti i
  soggetti  dell'ordinamento,  persone  fisiche  e giuridiche (v.: C.
  cost.  n. 25/1966  e  n. 2/1969),  che  costituisce  "un  principio
  generale  che  condiziona  tutto  l'ordinamento nella sua obiettiva
  struttura"  (Corte  cost.,  n. 25/1966),  ed  e' espressione di "un
  generale   canone   di  coerenza  dell'ordinamento"  (Corte  cost.,
  n. 204/l982),  che si estrinseca, in ultima analisi, in un generale
  principio  di  "ragionevolezza",  per cui la legge deve trattare in
  maniera  eguale  situazioni  eguali,  ed  in  maniera razionalmente
  diversa  situazioni  diverse (si vedano, fra le tante, Corte cost.,
  n. 53/1958,    n. 15/1960,    n. 4/1964,    n. 1/1966,   n. 5/1980,
  n. 15/1982).  Al  principio di eguaglianza cosi' inteso, cioe' come
  canone  di  coerenza e ragionevolezza, soggiace indubbiamente anche
  la  legge,  e  cio'  non solo sotto il profilo formale - per cui il
  principio   di   eguaglianza   regolerebbe   soltante  la  forza  e
  l'efficacia della legge - ma anche sotto il priofilo materiale, per
  cui  tale  principio e' rivolto a regolare anche il contenuto della
  legge,  implicando  un  limite  o  vincolo  alla funzione normativa
  primaria   nel   senso   sopra   indicato.  In  particolare,  nella
  fattispecie  oggetto  del  presente  giudizio  viene  in rilievo un
  aspetto   di   tale  principio,  secondo  il  quale,  nell'incisiva
  espressione  usata da autorevole dottrina, il legislatore e' tenuto
  a  dare  alla  norma di legge il carattere di universalita' fino al
  massimo  del  possibile. Che proprio questo difetti nella normativa
  derogatoria  di cui si chiede la declaratoria di incostituzionalita
  emerge  indubitabilmente,  ad  avviso del collegio, da tutto quello
  che si e' osservato finora.
    E' altresi' appena il caso di ricordare, costituendo ius receptum
  in  materia,  che  il giudizio costituzionale di eguaglianza non si
  svolge  raffrontando  direttamente  la norma censurata al parametro
  costituzionale,  occorrendo anche che nelle ordinanze di rimessione
  alla Corte vengano indicate una o piu' norme ed uno o piu' principi
  dell'ordinamento    rispetto   al   quale   la   norma   impugnata,
  diversificando    o    assimilando    arbitrariamente   situazioni,
  rispettivamente,   simili   o   diverse,   viola  il  principio  di
  eguaglianza:  norme  o  principi  ciascuno  dei quali, isolatamente
  considerato  ed  utilizzato  dal giudice a quo, costituisce il c.d.
  tertium   comparationis,   e  che,  nei  casi  in  cui  ne  vengano
  individuati  e  proposti  congiuntamente ed in correlazione piu' di
  uno,  costituiscono  i  tertia  comparationis  (cfr., fra le tante,
  Corte cost., n. 10/1983, n. 79/1984, n. 618/1997).
    Orbene,  ad avviso del collegio la disciplina - gia' diffusamente
  esaminata  ed  illustrata - del divieto di circolare armati e delle
  deroghe  a  tale  divieto,  con  il  connesso regime della dispensa
  dall'osservanza  del medesimo da parte dell'autorita' di p.s. sulla
  base di regole dotate della necessaria universalita', costituisce -
  per  la  sua affinita' strutturale con il divieto di aprire case da
  gioco  -  un complesso normativo suscettibile di fungere da tertium
  comparationis cui fare riferimento in subiecta materia.

    13. - Deve  anche tenersi in considerazione che la situazione del
  comune  di Taormina e' assolutamente peculiare rispetto a quella di
  qualunque  altro  comune  italiano  che  dovesse - allo stato della
  normativa   vigente   -   avanzare   analoga   istanza  finalizzata
  all'apertura di una casa da gioco. Infatti, in Taormina una casa da
  gioco  fu  aperta  negli  anni  sessanta,  in  forza  di un decreto
  dell'assessore  al turismo ed allo spettacolo della regione Sicilia
  (D.a.  n. 1  del 27 aprile 1949 ed annesso regolamento). Come viene
  sottolineato  nella sentenza del pretore del mandamento di Acireale
  10  gennaio  1976,  che,  in  occasione  di  una  causa  di lavoro,
  attraverso  la  quale  un  ex  dipendente  della  casa  da gioco di
  Taormina  mirava  ad ottenere la riassunzione, esamina la questione
  pregiudiziale  della liceita' dell'attivita' svoltasi in detta casa
  da  gioco,  non soltanto l'apertura di essa avvenne con atto di una
  autorita' regionale, e non soltanto la regione e lo Stato, ciascuno
  per   quanto  di  competenza,  introito'  regolarmente  i  relativi
  tributi,  ma  tale vicenda in nulla differisce da quella della casa
  da  gioco  di  Saint  Vincent,  che  nessuno  ha  ritenuto di dover
  chiudere  forzosamente  - come e' invece avvenuto a Taormina - e la
  cui  liceita'  e'  stata  in  sede giurisdizionale riconosciuta dal
  tribunale  di  Firenze  (sent.  del  9 dicembre 1961, confermata in
  appello,  e  divenuta  definitiva a seguito del rigetto del ricorso
  del  p.m.  deciso  dalla SS.uu. della Cassazione con sentenza del 7
  dicembre 1963).
    In  definitiva,  le  leggi,  piu' volte richiamate, che hanno per
  cosi  dire  sanato  ex  post  la  situazione  della  casa  da gioco
  valdostana,    costituiscono    una    ulteriore    riprova   della
  ingiustificabile   disparita'  di  trattamento  che  il  comune  di
  Taormina   subisce  per  effetto  di  una  normativa  episodica  ed
  ipocrita.
    Tutta   la  vicenda  giudiziaria  del  casino'  di  Taormina  qui
  richiamata,  e  puntualmente  ricostruita  nei  suoi passaggi dalla
  citata  sentenza  del pretore di Acireale, non rileva di per se' in
  questa  sede,  in  cui  tutto  cio'  viene  ricordato  soltanto per
  suffragare  la  grave  sostanziale  disparita'  che  l'inerzia  del
  legislatore,  il  quale  non ha finora voluto o saputo disciplinare
  organicamente  tutta  la materia, produce nei confronti di soggetti
  dell'ordinamento  che  si  trovano nella stessa situazione di altri
  pariordinati soggetti dell'ordinamento.
    Val  soltanto  la pena di citare qualche passo della sentenza del
  pretore  di  Taormina  (19 febbraio 1963), confermata in appello da
  tribunale L'Aquila, 18 aprile 1964. La sentenza pretorile assolveva
  Domenico  Guarnaschelli  -  esercente la casa da gioco taorminese -
  dal reato previsto e punito dagli artt. 718 e 719, nn. 1 e 2, C.p.,
  ravvisando  la  presenza della scriminante di cui all'art. 51 C.p.,
  ed  individuando  una  legge  extra-penale  permissiva  sulla quale
  fondare  detta  scriminante  (precisamente, il r.d. 31 maggio 1935,
  n. 1410,  istitutivo  dell'ente  gestore  della  casa  da  gioco di
  Taormina,   ente   turistico   ed   alberghiero  della  Libia-ETAL,
  autorizzato  con  decreto  interministeriale  30  aprile  1947  "ad
  esercitare  in  Italia  gestioni  alberghiere  ed  altre  attivita'
  economiche",  le cui vicende sarebbe troppo lungo richiamare, e che
  per altro non rilevano nella presente sede).
    La  sentenza  di  assoluzione  predetta  contiene innanzitutto un
  panoramica  delle  norme  derogatorie  del divieto, tra le quali il
  pretore  di  Taormina annovera anche le norme del Codice civile che
  negano  l'azionabilita'  del credito derivante da gioco e scommessa
  (art. 1933, in combinato disposto con gli artt. 1934 e 1935), anche
  se si tratta di gioco o scommessa non proibiti (cioe', chiarisce la
  relazione  del  Guardasigilli  al libro delle obbligazioni, n. 225,
  "ivi  compresi i giuochi di azzardo sottratti alla legge penale per
  speciale  autorizzazione amministrativa"), e sottolinea che "comune
  denominatore  delle  norme  autorizzanti,  in  via  di  deroga,  le
  predette attivita' e' l'interesse sociale e collettivo".
    Inoltre,  la sentenza sottolinea l'ambiguita' delle norme in base
  alle  quali  e'  stata  autorizzata  l'apertura di case da gioco in
  questa  o  quella  localita',  preoccupandosi anche di ricercare le
  ragioni di tale ambiguita': "il legislatore, interprete del costume
  e  delle esigenze di un popolo, non poteva allora usare espressioni
  diverse  e chiaramente autorizzare, quale eccezione alla regola, il
  giuoco  d'azzardo, per non urtare e porsi in aperta antitesi con il
  costume  e  la  morale  allora  correnti, che il giuoco riprovavano
  quale  vizio  e fonte di corruzione e di dissipazione. Ma avvertiva
  pure,  il  legislatore  del  tempo,  con una piu' ampia visione del
  problema, che il gioco d'azzardo, non come fine a se stesso ma come
  mezzo di propulsione turistica, quale richiamo di maggiori correnti
  piu'  qualificate,  quale  mezzo  di  produzione  di  ricchezza  da
  destinarsi ad opere pubbliche ed a finalita' collettive, ben poteva
  assolvere ad una funzione sociale".
    Infine,   il   pretore  taorminese  sottolinea  l'analogia  della
  situazione  del  comune  di  Taormina con quella dei quattro comuni
  privilegiati,  e  riporta uno squarcio della sentenza (gia' citata)
  con  la  quale  la C.d.a. di Firenze, occupandosi della vicenda del
  casino' di Saint-Vincent (sez. I pen., 14 dicembre 1962), riconosce
  che  "la  finalita'  pubblica  perseguita attraverso l'apertura dei
  casino'  nei  comune  autorizzati"...  consiste .... "nel procurare
  benefici  finanziari  ad  enti  pubblici  mediante  prelevamento di
  ricchezza privata sul denaro dissipato nel giuoco".
    La sentenza del tribunale penale aquilano piu' volte citata, resa
  in  appello  sulla  sentenza  del pretore taorminese ora ricordata,
  contiene  altre  interessanti  osservazioni sulla vicenda, che poco
  oltre  saranno  riportate.  In  essa  e' significativo innanzitutto
  l'aver  messo  in risalto l'analogia della situazione del comune di
  Taormina  con  il  comune  d  Saint-Vincent,  soprattutto a seguito
  dell'entrata  in  vigore della legge n. 67/1963, che ha provveduto,
  secondo  detto  organo  giudicante,  a  "rendere lecita l'attivita'
  della   casa  da  gioco  di  Taormina",  istituendo  sui  biglietti
  d'ingresso  alla  casa da gioco un diritto addizionale nella misura
  fissa  di  L.  3.500  per  ciascun  biglietto  a favore dello Stato
  (art. 6)".
    Si  ripete,  per inciso, prima di passare ad una ricognizione dei
  passi  piu'  significativi  della  pronuncia  in questione, che qui
  importa  poco,  ricostruire  tutta  la  complessa  vicenda  - ormai
  definitivamente  esaurita  -  della  casa  da gioco taorminese gia'
  istituita con provvedimenti che si sono disorganicamente citati nel
  corso della presente motivazione.
    Quello  che  conta  e  delineare  un panorama di argomentazioni e
  considerazioni  che  non  sono  per  la  prima  volta  espresse dal
  collegio,  ma  che  nel  corso  degli  anni  sono  state piu' volte
  rappresentate   dalla  giurisprudenza,  costituzionale  e  non  per
  chiedere  alla  Corte  se da tale diffuso orientamento e' possibile
  trarre le conseguenti modificazioni del quadro normativo.
    Orbene, la sentenza del tribunale dell'Aquila e' notevole perche'
  ravvisa  nella  normativa  tributaria  (di  rango primario, come la
  citata  legge n. 67/1963) una sorta di riconoscimento normativo del
  "diritto vivente": "Non si potrebbe assolutamente concludere che e'
  assoggettata  a  tributo unicamente l'attivita' delle case da gioco
  autorizzate  per legge (precedentemente o susseguentemente alla sua
  entrata  in  vigore)  perche'  tale  interpretazione  di  eccessivo
  rigore,  forse  formalmente  esatta, sarebbe priva di aderenza alla
  situazione  concreta,  che il legislatore incontrava nel momento in
  cui  stabiliva  l'assoggettamento ad uno speciale tributo di quanti
  in  Italia  giocassero  d'azzardo  negli stabilimenti appositamente
  autorizzati,   se   pure  con  procedimenti  di  dubbia  validita',
  sostanzialmente   ingiusta.  Nel  testo  della  legge  non  appare,
  infatti,    alcuna    discriminazione    dettata   dal   differente
  apprezzamento  della  legittimita' di dette case, ed il legislatore
  era  a  conoscenza  della esistenza delle cinque case da gioco (San
  Remo, Campione e Venezia istituite legittimamente e Saint Vincent e
  Taormina  sub  iudice) perche' la loro attivita' era nota e perche'
  la  inaugurazione  del  casino'  di  Taormina  era stata notificata
  legalmente   al   Ministero   del  tesoro,  mentre  deve  ritenersi
  inequivocabile  il riferimento a quelle case da gioco, in relazione
  proprio  alla  loro  sottoposizione  al  tributo.  Non esiste alcun
  dubbio  che  la  citata legge abbia inteso provvedere a regolare la
  situazione di fatto esistente ... ".
    Se dunque adesso si vuole guardare con un minimo di obbiettivita'
  alla   attuale   vicenda   taorminese,   si   deve   partire  dalla
  considerazione,  contenuta  in  ricorso  (p.  5), che la situazione
  finanziaria  del  comune  di  Taormina  "e',  oggi,  certamente ben
  peggiore  e grave di quella che a suo tempo ha consentito di aprire
  case  da gioco a Venezia, San Remo e Campione proprio allo scopo di
  pervenire  al  ripianamento  del  bilancio  in  quei comuni ed alla
  realizzazione delle opere pubbliche agli stessi necessarie".
    E' molto difficile riuscire a comprendere le affermazioni secondo
  le  quali  non  ricorrerebbero  per il comune di Taormina le stesse
  condizioni giuridiche oggettive e soggettive sulle quali si fondano
  le  norme  derogatorie,  ne'  per  la verita', al di la' delle mere
  affermazioni  apodittiche  in  tal senso, si rinviene negli scritti
  difensivi un serio tentativo di dare un contenuto alle affermazioni
  medesime.  Cosi',  ad esempio, l'interveniente ad opponendum comune
  di   Campione   d'Italia,   con   argomentazioni   esattissime   se
  astrattamente  considerate,  ma  inapplicabili  al  caso  concreto,
  ricorda  (pag.  15  dell'atto  di  intervento) che "il principio di
  uguaglianza,  diretto  evidentemente  ad  impedire  che a danno dei
  cittadini  siano  dalle  leggi disposte discriminazioni arbitrarie,
  non  puo'  significare  che il legislatore sia obbligato a disporre
  per  tutti  una  identica  disciplina,  mentre,  al contrario, deve
  essergli  consentito  adeguare  le norme giuridiche ai vari aspetti
  della vita sociale, dettando norme diverse, giacche' un ordinamento
  il  quale  non  distingua  situazione  da  situazione  e  tutte  le
  situazioni consideri allo stesso modo finirebbe in sostanza con non
  disporre regola alcuna".
    Tali   considerazioni,  perfettamente  condivisibili  in  teoria,
  tralasciano pero' di dire, in concreto, quali siano, da un lato, le
  condizioni oggettive e soggettive assolutamente irriproducibili dei
  quattro  comuni  privilegiati,  e, dall'altro, di dimostrare che il
  comune  di  Taormina si trova in una situazione non comparabile con
  quella di tali comuni. Tutto quello che si e' finora detto, e altre
  osservazioni che si faranno, dimostrano esattamente il contrario.
    Neppure  l'osservazione  - sempre della parte interveniente - che
  la   Corte   costituzionale   ha  gia'  escluso,  con  la  sentenza
  n. 237/1975,  la violazione dell'art. 4 della Costituzione ad opera
  dell'art. 720 C.p. costituisce ostacolo alla diversa prospettazione
  della  questione sollevata con la presente ordinanza, in cui non e'
  in  discussione  il divieto penale, ma e' in discussione il modo in
  cui  e'  stata disciplinata la derogabilita' del divieto, sia sotto
  il  profilo  dell'ambito  soggettivo  di applicazione, sia sotto il
  profilo  dell'individuazione  dei presupposti, sia sotto il profilo
  della  formulazione delle norme, incomprensibile ad una lettura che
  non sia supportata dai lavori preparatori.

    14. - Deve  in  proposito  infine  ricordarsi che la stessa Corte
  costituzionale,  nell'esaminare la normativa derogatoria sospettata
  di  incostituzionalita, nella gia' richiamata sentenza n. 152/1985,
  ha   rilevato  (punto  6  della  motivazione)  che  "la  situazione
  normativa  formatasi  a  partire  dal  1927 e' contrassegnata da un
  massimo  di  disorganicita'",  rilevando  come  tale caratteristica
  investa  sia  il  tipo di interventi cui e' condizionata l'apertura
  delle  case, sia la diversita' dei criteri seguiti (come si e' gia'
  visto,  situazione di frontiera per San Remo e Campione, situazione
  non  di  frontiera per Venezia), sia infine per i modi disparati in
  cui  vengono  utilizzati  i  proventi  acquisiti nell'esercizio del
  gioco  nei  casino'. La Corte ha anche sottolineato l'accentuazione
  della   disorganicita'   derivante  dalla  emanazione  della  legge
  n. 848/1984,   che   introduce  una  ulteriore  deroga  al  divieto
  stabilito   dagli   artt. 718-722   C.p,  per  il  gioco  d'azzardo
  effettuato  a  bordo  delle navi da crociera durante la navigazione
  oltre  lo Stretto di Gibilterra ed il Canale di Suez. In ragione di
  tali  considerazioni,  la Corte concludeva che "si impone dunque la
  necessita'  di  una legislazione organica che razionalizzi l'intero
  settore precisando tra l'altro i possibili modi di intervento delle
  regioni  e  degli  altri  enti  locali  nonche' i tipi e criteri di
  gestione  delle case da gioco autorizzate, realizzando altresi', in
  tema  di  distribuzione dei proventi, quella perequazione di cui la
  legge  n. 637/1973,  sulla  destinazione  degli utili della casa da
  gioco di Campione, puo' essere considerata un primo passo". Infine,
  la  Corte  sottolineava  (sempre  al punto 6 della motivazione) che
  tutto  cio'  sarebbe dovuto avvenire "in tempi ragionevoli" (il che
  non e' stato).
    Altre  affermazioni sulla irrazionalita' del sistema normativo in
  esame  sono  presenti  in  giurisprudenza, e sarebbe eccessivamente
  lunga  una  puntuale  enunciazione  di tutte le decisioni che hanno
  affrontato  l'argomento  e  di tutte le argomentazioni, anche molto
  interessanti,  che  in  esse  possono  ritrovarsi.  Ci si limitera'
  pertanto  a  ricordare,  per  la  particolare  attinenza con i temi
  trattati, l'ordinanza (n. 692/1969, gia' ricordata) con la quale la
  V  sezione  del  Consiglio  di  Stato  ha  sollevato  d'ufficio  la
  questione   di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 1/1  r.d.l.
  n. 2448/1927,  conv.  legge  n. 3125/1928,  e  della detta legge di
  conversione.  Oltre che per ragioni formali (eccesso di delega), le
  norme  in  questione  sono  state denunciate dal Consiglio di Stato
  anche   per  violazione  dell'art. 3/1  Cost.,  vulnerato,  secondo
  l'ordinanza   di   rimessione  predetta,  sotto  il  profilo  della
  disparita'  di trattamento che l'attribuzione ad un solo soggetto -
  nella specie il comune di San Remo - di una posizione di privilegio
  (dispensa  dall'obbligo di osservare la legge anche penale, secondo
  la  gia'  criticata  assai  vaga  formulazione normativa) "potrebbe
  determinare   nei   confronti  di  tutti  gli  altri  comuni  della
  Repubblica",  e  che  "non  trova ragionevole giustificazione nelle
  esigenze  di  natura finanziaria menzionate nello stesso r.d.l. del
  1927,  ma  non  esclusive  dell'ente  locale  beneficiario di detto
  provvedimento normativo".
    Vale  la  pena di ricordare che la Corte costituzionale, come per
  varie  ragioni avvenne in altri giudizi di costituzionalita' aventi
  ad  oggetto  la  stessa  materia, non si pronuncio' sulla questione
  sollevata  dal  Consiglio di Stato per sopravvenienza di situazioni
  di  fatto suscettibili di incidere sulla capacita' e legittimazione
  processuale  della  parte  ricorrente,  di  tal  che fu disposta la
  restituzione   degli   atti   alla  sezione  rimettente,  con  ord.
  n. 87/1972,  e che l'unica volta in cui la Corte pote' esaminare il
  merito della questione di legittimita' costituzionale ripetutamente
  sollevata da diversi giudici fu nel 1985 (citata sent. 152).

    15. - Come  si  e gia' accennato, il complesso normativo in esame
  e'  sospettato di illegittimita' anche in relazione alla previsione
  di  cui  al  secondo  comma dell'art. 3 Cost., che impone a tutti i
  pubblici  poteri,  e,  in primo luogo, al legislatore, la rimozione
  degli  ostacoli  di  ordine  economico  e  sociale alla liberta' ed
  all'eguaglianza fra soggetti dell'ordinamento.
    Nonostante  il  ricorso sia stato proposto da un ente pubblico, e
  non  da  un  soggetto  privato  - al quale letteralmente il secondo
  comma  dell'art. 3  della Costituzione fa riferimento ("eguaglianza
  dei  cittadini":  "pieno  sviluppo della persona umana"; "effettiva
  partecipazione    dei   lavoratori   all'organizzazione   politica,
  economica  e  sociale  del  paese")  -  e per azionare un interesse
  appartenente  innanzitutto  all'ente  pubblico ricorrente, tuttavia
  non  puo'  disconoscersi che, attesa la natura di ente esponenziale
  dell'ente-comune,  in ultima analisi vengono in considerazione, nel
  raffronto  con  il  canone  di  eguaglianza sostanziale, le sottese
  situazioni  dei  cittadini  del  comune  di Taormina, rispetto alla
  situazione,  a  fronte delle stesse norme di divieto, dei cittadini
  dei  comuni  "privilegiati"  (in  senso  giuridico,  avendo  questi
  fruito,  di  riflesso,  di una normativa di "privilegio", nel senso
  etimologico di lex in privos lata).
    In  altri  termini,  la  comunita'  taorminese  viene  ad  essere
  discriminata   in   relazione  ad  interessi  forti,  e  fortemente
  avvertiti  dalla  stessa, quali lo sviluppo economico-occupazionale
  attraverso  l'incremento turistico l'attrazione di valuta pregiata,
  ed  il  ripianamento dei bilanci. In relazione al primo aspetto, va
  osservato  che  la  globalizzazione  dei  mercati  e la conseguente
  standardizzazione  dei  servizi  offerti dalle localita' turistiche
  rende  ancora  piu'  evidente  la  disparita'  di  trattamento  fra
  localita'  che  possono  offrire  al  turista  anche  il  casino' e
  localita'  in  cui  cio'  non  e'  possibile,  che sono destinate a
  rimanere fuori dal circuito del grande turismo.
    Un  aspetto  forse meno evidente, ma non per questo marginale del
  quale  tener  conto e' anche quello del prosperare di case da gioco
  clandestine  nei luoghi in cui non e' ammessa l'apertura di case da
  gioco,  fenomeno  non  certo  desiderabile, e che appare tanto piu'
  grave  ove si pensi che vi sono comuni nei quali tale situazione di
  svantaggio e' ignota proprio grazie all'esistenza dei casino'.
    16 - Ad  avviso  del  collegio,  la normativa costituita dai piu'
  volte  citati  rr.dd.ll.  n. 2448/1927  (conv. legge n. 3125/1928),
  n. 201/1933  (conv.  legge  n. 505/1933), n. 1404/1936 (conv. legge
  n. 62/1937),  e  dalle leggi n. 1065/1971 e n. 690/1971, contenenti
  una  "sanatoria"  del  decreto  del  Presidente della regione Valle
  d'Aosta  n. 241/3 del 3 aprile 1946 viola anche l'art. 2 Cost., che
  riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo non soltanto
  come  singolo,  ma  anche nelle formazioni sociali ove si svolge la
  sua  personalita'.  Il  riconoscimento  e  la  garanzia vanno nella
  fattispecie  riempiti di contenuto con il riferimento al diritto al
  lavoro, di cui al successivo art. 4 della Carta, che va inteso come
  enunciazione  del  dovere  dei  pubblici  poteri di: a) attuare una
  politica  di  piena occupazione (Corte cost., n. 248/1986), rivolta
  all'assorbimento  della disoccupazione ed alla creazione e garanzia
  di  posti di lavoro; b) di creare le condizioni economiche, sociali
  e  giuridiche  che consentano l'impiego di tutti i cittadini idonei
  al lavoro (Corte cost., n. 45/1965; n. 105/1985).
    Tutto  cio'  viene  qui  in  rilievo  in  quanto, come gia' si e'
  reiteratamente  detto,  uno  degli interessi materiali forti che il
  comune di Taormina, quale ente esponenziale della collettivita' che
  ne  forma  la  base  intende tutelare con il ricorso in epigrafe e'
  l'interesse   all'incremento   delle   possibilita'  occupazionali,
  notoriamente in Sicilia assai depresse.
    17. - La  ripetuta normativa derogatoria del divieto di istituire
  case da cioco appare anche in contrasto con l'art. 5 Cost.
    Il riconoscimento e la promozione delle autonomie locali previsti
  da  tale  precetto  costituzionale  devono  ricomprendere anche, ad
  avviso  del  collegio, l'eliminazione degli ostacoli normativi che,
  come  nel caso di specie, impediscono alle collettivita' locali una
  piena    espansione   delle   proprie   potenzialita'   economiche,
  soprattutto  - non  si  puo'  fare  a  meno di rilevarlo - ove tale
  possibilita' sia stata riconosciuta ad alcune collettivita'.
    Ed invero, come gia' si e' avuto modo di accennare brevemente nel
  corso  della disamina relativa all'interesse azionato dal comune di
  Taormina   (par.  6,  in  fine),  agli  enti  locali  l'ordinamento
  attribuisce  - oltre che la possibilita' di esercitare direttamente
  attivita' imprenditoriale come previsto per tutti gli enti pubblici
  non  economici  dall'art. 2093/2  C.c.  (si  veda,  in particolare,
  proprio per quanto concerne l'assunzione diretta della gestione del
  casino'  municipale da parte del comune di San Remo, Cass., SS.uu.,
  26  gennaio  1995, n. 897) - una varieta' di strumenti attraverso i
  quali  provvedere  "alla  gestione dei servizi pubblici che abbiano
  per  oggetto  produzione  di beni ed attivita' rivolte a realizzare
  fini  sociali  e  a promuovere lo sviluppo economico e civile delle
  comunita' locali" (art. 22/1 legge n. 142/1990, recepita in Sicilia
  con   legge   regionali   n. 88/1991,   e  succ.  modificazioni  ed
  integrazioni),  che si estrinsecano sia nella mera previsione della
  gestione diretta in economia e della concessione a terzi, che nella
  possibilita' di istituire un'azienda speciale, sino a giungere alla
  previsione di un modulo operativo tipicamente imprenditoriale quale
  quello  della costituzione o partecipazione a societa' per azioni o
  a responsabilita' limitata a prevalente capitale pubblico (comma 3,
  lett. e), della medesima norma).
    Ma   l'utilizzazione   di   tali   risorse   giuridiche   risulta
  assolutamente  ed ingiustamente preclusa in materia dalla normativa
  derogatoria e di privilegio in questione.
    18. - Infine,  le  stesse  considerazioni  svolte  nel precedente
  paragrafo   valgono  a  far  luce  sul  contrasto  della  normativa
  derogatoria  piu'  volte  citata con l'art. 41 Cost., che tutela il
  diritto  al libero svolgimento di attivita' economiche. L'attivita'
  economica  si  pone,  nella  presente  fattispecie,  come substrato
  dell'interesse  ad agire, come interesse della collettivita' di cui
  il comune e' ente esponenziale, ed anche come interesse proprio del
  comune  come soggetto pubblico, alla stregua della normativa citata
  alla fine del paragrafo che precede.
    Ne' puo' opporsi, come fa l'interveniente ad opponendum comune di
  Campione  d'Italia  (pag.  15  dell'atto  di intervento), che nella
  fattispecie  considerata  non ricorrerebbe l'arbitraria restrizione
  della  liberta'  di scelta e di svolgimento di attivita' economiche
  che  l'art. 41 Cost. intende tutelare, limitandosi ad affermare che
  "non  si  vede come il diniego dell'autorizzazione all'esercizio di
  una  casa da gioco possa ritenersi in contrasto con tali principi".
  L'arbitrio, infatti, deve essere colto in correlazione al principio
  di  uguaglianza,  che  vieta  le  discriminazioni ingiustificate di
  situazioni  uguali,  di  tal  che  se  una attivita' economica e' a
  taluno   consentita   anche   in   deroga   alle  leggi  penali  in
  considerazione   di   presupposti   ed   esigenze   niente  affatto
  eccezionali  (vocazione  turistica  di  una  localita', esigenze di
  assestamento  del bilancio), cio' finisce per contrastare anche con
  l'art.  41,  proprio  nei  termini di arbitraria restrizione che la
  stessa  parte  interveniente  ha  individuato  come contenuto della
  norma  in  questione,  escludendo  tuttavia che cio' si verificasse
  nella fattispecie.
    19. - Conclusivamente,   atteso   che  le  dedotte  questioni  di
  costituzionalita'  appaiono  rilevanti  per  la decisione cautelare
  prima,  e  del  ricorso nel merito in seguito, e non manifestamente
  infondate,  si  rende  necessario  sospendere il presente giudizio,
  cautelare  e  di  merito,  in attesa che la Corte costituzionale si
  pronunci  sulla  questione  di  illegittimita'  costituzionale  dei
  rr.dd.ll.  n. 2448/1927  (conv.  legge  n. 3125/1928),  n. 201/1933
  (conv. legge n. 505/1933), n. 1404/1936 (conv. legge n. 62/1937), e
  dalle  leggi n. 1065/1971 e n. 690/1971, contenenti una "sanatoria"
  del decreto del Presidente della regione Valle d'Aosta n. 241/3 del
  3  aprile  1946,  per  contrasto  con gli artt. 2, 3, 5 e 41 Cost.,
  nella  parte  in  cui  non prevedono in via generale ed astratta il
  potere  del  Ministro  dell'interno di autorizzare, anche in deroga
  alle  leggi  vigenti,  purche' senza aggravio per il bilancio dello
  Stato,  i  comuni,  ad adottare tutti i provvedimenti necessari per
  potere   addivenire   all'assestamento   del  proprio  bilancio  ed
  all'esecuzione  delle opere pubbliche indilazionabili, con espressa
  elencazione  dei  divieti derogabili - tra i quali quello di aprire
  case  da  gioco  -  e  delle situazioni tenute conto delle quali il
  predetto   Ministro  puo'  rilasciare  la  predetta  autorizzazione
  (rectius: dispensa).
    20. - Non  e'  forse  inutile  rilevare l'opportunita', almeno ad
  avviso  del  collegio, di notificare la presente ordinanza anche ai
  Presidenti  della  regione  Valle d'Aosta e del Consiglio regionale
  della  stessa regione, in quanto, se pure formalmente cio' potrebbe
  apparire   superfluo,  essendo  presente  nel  complesso  normativo
  oggetto  della  questione  di  legittimita'  costituzionale un atto
  regionale   avente  valore  di  atto  amministrativo  (decreto  del
  Presidente della regione Valle d'Aosta n. 241/3 del 3 aprile 1946),
  e  le  leggi  -  statali, e non gia' regionali - di "sanatoria" del
  medesimo,  piu'  volte ricordate, tuttavia l'eventuale declaratoria
  di   incostituzionalita'   delle   norme   denunciate   verrebbe  a
  determinare   anche  nell'ambito  dell'ordinamento  valdostano  una
  modificazione comunque rilevante (se pure non pregiudizievole, data
  l'impostazione   della  questione  di  legittimita'  costituzionale
  sollevata  con  la  presente  ordinanza, che non mira a demolire le
  norme di privilegio, bensi' ad eliminarne tale carattere attraverso
  l'estensione dei relativi benefici ad altri soggetti che si trovano
  nelle identiche condizioni dei soggetti privilegiati).
                              P. Q. M.
    Il  Tribunale  amministrativo  regionale  della Sicilia - Sezione
  staccata  di  Catania  (sez.  III)  -  visti  gli  artt. 134  della
  Costituzione e 23 legge n. 87/1953, cosi' statuisce:
        1)  Rigetta l'istanza di sospensione del giudizio ex art. 367
  c.p.c.,  in  quanto  il  proposto regolamento di giurisdizione deve
  ritenersi   irricevibile,   inammissibile  ed  infondato,  come  in
  motivazione,  e  rigetta, conseguentemente, anche l'istanza ex art.
  369 c.p.c. di trasmissione del fascicolo d'ufficio alla cancelleria
  della Corte di cassazione, come pure precisato in motivazione;
        2)  Rinvia  gli adempimenti ex art. 31 legge 6 dicembre 1971,
  n. 1034,  in  ordine  al proposto regolamento di competenza, a data
  successiva  all'esaurimento della fase cautelare (comprensiva della
  previa  risoluzione della presente questione di costituzionalita'),
  come precisato in motivazione;
        3)  Solleva,  in  accoglimento del secondo motivo di gravame,
  ritenendola  rilevante e non manifestamente infondata, la questione
  di  incostituzionalita'  dei  rr.dd.ll.  n. 2448/1927  (conv. legge
  n. 3125/1928),  n. 201/1933 (conv. legge n. 505/1933), n. 1404/1936
  (conv. legge n. 62/1937), e dalle leggi n. 1065/1971 e n. 690/1971,
  e  tutte le altre successive modificazioni ed integrazioni di esse,
  contenenti una "sanatoria" del decreto del Presidente della regione
  Valle  d'Aosta  n. 241/3  del  3 aprile 1946, per contrasto con gli
  artt.  2,  3, 5 e 41 Cost., nella parte in cui non prevedono in via
  generale  ed  astratta  il  potere  dei  Ministro  dell'interno  di
  autorizzare,  anche  in  deroga  alle  leggi vigenti, purche' senza
  aggravio  per  il bilancio dello Stato i comuni ad adottare tutti i
  provvedimenti  necessari per potere addivenire all'assestamento del
  proprio   bilancio   ed   all'esecuzione   delle   opere  pubbliche
  indilazionabili,  con espressa elencazione dei divieti derogabili -
  tra  i  quali  quello  di aprire case da gioco - e delle situazioni
  tenuto  conto  delle  quali il predetto Ministro puo' rilasciare la
  predetta autorizzazione (rectius: dispensa);
        4)  Sospende  il  giudizio, in sede cautelare e nel merito, e
  dispone   la   immediata   trasmissione   degli   atti  alla  Corte
  costituzionale;
    La    presente    ordinanza    sara'    eseguita   dall'autorita'
  amministrativa; essa viene depositata in segreteria che provvedera'
  a  notificarne  copia  alle  parti, al Presidente del Consiglio dei
  Ministri,  ai  Presidenti  delle  due  Camere  dei Parlamento ed ai
  Presidenti  della  Regione  Valle d'Aosta e del Consiglio regionale
  della stessa Regione.
        Cosi'  deciso  in Catania, nelle camere di consiglio del 14 e
  del 16 dicembre 1999.
                       Il presidente: Zingales
                        L'estensore: Messina
00C0336