N. 359 ORDINANZA (Atto di promovimento) 25 febbraio 2000

Ordinanza  emessa  il  25  febbraio 2000 dal tribunale di Vicenza nel
procedimento civile vertente tra Landi Paola e Calzavara Luigi
Matrimonio  -  Matrimonio  concordatario  - Sentenza ecclesiastica di
nullita'  -  Conseguenze di ordine patrimoniale nei casi in cui venga
resa  esecutiva - Applicabilita' della disciplina di cui all'art. 129
cod.   civ.,   anche  allorquando  sia  decorso  il  termine  per  la
proposizione  dell'azione  di  nullita' dinanzi al giudice italiano o
comunque  si  siano  consolidate  situazioni  di  comunione di vita -
Mancata  previsione  del  potere  del  giudice  di applicare, in tale
ipotesi,  la  disciplina  di  cui  all'art.  5,  commi 6 e ss., legge
n. 898/1970  - Ingiustificata minor tutela del coniuge economicamente
debole  in  caso di delibazione della sentenza canonica di nullita' -
Disparita'  di  trattamento rispetto al caso di divorzio - Violazione
del  principio  di  uguaglianza  e  del principio supremo di laicita'
dello Stato.
- Legge 27 maggio 1929, n. 847, art. 18.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.27 del 28-6-2000 )
                            IL TRIBUNALE

    Ha pronunciato la seguente ordinanza nella causa iscritta a ruolo
  il  18  aprile  1994  al  n. 2494/1994 (vecchio rito) e promossa da
  Landi Paola (con avv. Paternoster di Roma e Codotto di Vicenza);
    Contro  Calzavara  Luigi  (con avv. Gherro di Padova e Bettini di
  Vicenza).

                      Svolgimento del processo

    Con  citazione  datata  12  aprile  1994 Paola Landi conveniva in
  giudizio  Luigi  Calzavara per ottenere dal tribunale una pronuncia
  che  lo  condannasse  al  pagamento,  in  suo favore, di un assegno
  mensile  di L. 2.500.000 per un periodo non inferiore a tre anni ai
  sensi e per gli effetti dell'art. 129 codice civile.
    Affermava, infatti, che il matrimonio tra le parti, celebrato nel
  1968,  era  stato  dichiarato  nullo  dagli  organi giurisdizionali
  dell'ordinamento  canonico con provvedimenti del 1986 e del 1991, e
  che  le relativa pronuncia era stata resa esecutiva in Italia dalla
  Corte  d'appello  di Venezia, con sentenza del 10 giugno/23 ottobre
  1993.
    Riferiva  che, con la decisione sullo status, la Corte d'appello,
  ritenendo  applicabile  l'art. 129 codice civile, aveva disposto in
  via  provvisoria  che  il  Calzavara  corrispondesse all'attrice la
  somma  di  L.  750.000  mensili, con effetto dalla pubblicazione di
  detta sentenza e fino alla definizione dell'instaurando giudizio di
  merito.
    Affermandosi   priva   di   adeguati  mezzi  e  nelle  condizioni
  soggettive  previste  dalla citata norma, chiedeva che il tribunale
  quantificasse   il  futuro  obbligo  di  mantenimento  in  capo  al
  Calzavara  come  diritto a mantenere il tenore di vita acquisito in
  costanza  di  matrimonio,  valutando comparativamente la situazione
  prima  e  dopo  la  pronuncia,  nonche' i patrimoni ed i redditi di
  entrambe  le  parti, in specie le ampie possibilita' reddituali del
  convenuto e il detrimento derivatole dalla nullita' dichiarata.
    Luigi  Calzavara si costituiva lamentando, in primis come erronea
  era   stata   la   decisione  della  Corte  di  avere  adottato  il
  provvedimento  economico  provvisorio  e  perche'  non  richiesto e
  perche'   aveva  escluso  l'applicazione  dell'art. 129-bis  codice
  civile   atteso   che  palese  sarebbe  stata  la  possibilita'  di
  riscontrare  l'inidoneita'  del Calzavara a contrarre il matrimonio
  e, cosi', la malafede della Landi.
    Contestava  le  domande  dell'attrice affermando che la stessa e'
  autosufficiente e non ha dato la prova del suo stato di bisogno.
    Infine, osservava come le statuizioni economiche adottate in sede
  di  separazione  avessero  un  diverso  titolo  giuridico  ed altro
  significato  rispetto  a  quello  da  attribuire  ai  provvedimenti
  economici ex art. 129 codice civile.
    Chiedeva  il  rigetto della domanda e, in subordine, la riduzione
  dell'assegno, da limitarsi temporalmente fino al 31 gennaio 1994.
    L'attrice  ribadiva  le  proprie tesi contestando gli assunti del
  convenuto  e riaffermando di non avere redditi sufficienti (oltre a
  rimarcare  le  possidenze  del  marito  e  il tenore di vita goduto
  durante   la   convivenza).   Deduceva  mezzi  istruttori  volti  a
  dimostrare  la  consistenza economica della controparte e il tenore
  di vita del quale aveva beneficiato.
    Il  g.i.  rigettava  le istanze istruttorie in quanto irrilevanti
  atteso  che  le  stesse  erano  intese  a  dimostrare le condizioni
  economiche  in  costanza di matrimonio, circostanze non considerate
  dall'art. 129 codice civile.
    Disponeva, comunque, l'interrogatorio libero delle parti.
    Anche  il  collegio,  chiamato  a  pronunciarsi  sulle  prove  ex
  art. 178   c.p.c.,   le  dichiarava  irrilevanti  con  la  medesima
  motivazione.
    Il convenuto chiedeva, con provvedimento ex art. 700, che il g.i.
  disponesse  la  non  debenza delle somme di cui alla sentenza della
  Corte d'appello perche' non dovute oltre il triennio.
    Il  g.i.  dichiarava  inammissibile  la  domanda ritenendo che la
  stessa  dovesse  essere proposta innanzi al giudice dell'esecuzione
  (gia' instaurata) come opposizione all'esecuzione.
    Non  veniva  effettuata  altra  attivita'  istruttoria e la causa
  veniva rimessa al collegio sulle seguenti conclusioni delle parti e
  del p.m. intervenuto:
        per l'attrice: "Piaccia al tribunale, contrariis reiectis&,;,
  in  via  principale,  porre  a carico del convenuto Calzavara Luigi
  l'obbligo  di  corrispondere all'attrice Paola Landi, a sensi e per
  gli  effetti dell'art. 129 c.c., un assegno mensile da determinarsi
  nella  somma  di L. 2.500.000 o di quella diversa maggiore o minore
  che  verra'  ritenuta  di  giustizia;  per  l'effetto, tenuto conto
  dell'avvenuto pagamento da parte del Calzavara del limitato importo
  di  L. 750.000  mensili  fino  al  settembre  1996,  condannare  il
  medesimo  Calzavara  Luigi  a  pagare  in  favore  dell'attrice  la
  relativa  differenza  e  cio',  come  statuito nella sentenza della
  Corte  d'appello  di Venezia n. 1155/1993 fino alla definizione del
  presente  giudizio;  in via subordinata, ed istruttoria, ammettersi
  tutti  i mezzi di prova richiesti con la memoria istruttoria del 30
  settembre 1995 ivi compresa la prova per testi prova contraria, con
  i  testi  ivi  indicati, nonche' ordine al convenuto di produrre la
  documentazione  reddituale  attuale  e pregressa; in ogni caso, con
  vittoria di spese, competenze ed onorari";
        per il convenuto:
          1) in via principale, respingersi la domanda dell'attrice e
  dichiararsi   l'insussistenza   dei   presupposti  di  qualsivoglia
  corresponsione economica da parte del convenuto nei confronti della
  sig.ra Paola Landi;
          2)  in  via  subordinata,  ridursi  la  misura dell'assegno
  provvisorio  mensile  in  favore  della  sig.  Landi,  e  comunque,
  limitarsi   la  corresponsione  fino  aI  31  dicembre  1994  o  la
  successiva data di legge;
          3)  in  via istruttoria, respingersi le istanze istruttorie
  dell'attrice,  e  in  subordine,  in denegata ipotesi di ammissione
  delle  prove  ex adverso formulate, ammettersi il convenuto a prova
  contraria, con riserva di indicare i testi nel termine assegnando;
          4) con rifusione di spese, diritti e onorari;
        per  il  p.m.  "riconosciuta  fondata  la  domanda nel merito
  determini  il  collegio  l'ammontare della contribuzione mensile da
  porsi a carico del convenuto".
    La  sentenza  veniva  trattenuta  per  la  decisione  all'udienza
  collegiale dell'11 febbraio 2000.

                       Motivi della decisione

    L'attrice, con la domanda cosi' come formulata nella precisazione
  delle  conclusioni,  ha  chiesto la corresponsione di un assegno di
  mantenimento  da  porre  a  carico  del  convenuto, col quale aveva
  contratto   un  matrimonio  dichiarato  nullo,  previa  definizione
  dell'ammontare dello stesso e detratte le somme finora pagate,"fino
  alla definizione del presente giudizio", ai sensi e per gli effetti
  dell'art. 129 c.c.
    Il  fondamento  della  richiesta, nella sua valenza temporale, si
  fonda sulla statuizione della Corte d'appello, che aveva emanato il
  provvedimento  provvisorio  di  natura  patrimoniale, all'esito del
  giudizio  di  delibazione,  stabilendone  la durata, appunto, "fino
  alla definizione del giudizio di merito".
    Ora,  l'art. 129  c.c. dispone testualmente che la corresponsione
  delle "somme periodiche di denaro" non ecceda il triennio.
    La  domanda  dell'attrice,  allora,  dovrebbe  essere o rigettata
  perche'  volta  ad  ottenere  qualcosa  di  piu'  rispetto a quanto
  previsto  dall'art. 129  stesso, pur se invocato a fondamento della
  pretesa azionata, o limitata ad un triennio.
    La   richiesta   di  corresponsione  di  un  assegno  "fino  alla
  definizione  del  giudizio"  formulata  in  sede della precisazione
  delle  conclusioni (e cioe', dopo circa 6 anni dalla sentenza della
  Corte  d'appello  e  con la prospettiva del tempo necessario per la
  sua  definizione in primo grado e negli eventuali gravami) non puo'
  essere  in alcun modo intesa come limitata comunque ad un triennio,
  e  per  il  tenore  letterale,  e  per  quanto si puo' trarre dalle
  specificazioni  contenute  nelle difese conclusionali, nelle quali,
  appunto, si invoca tale piu' lungo termine in quanto legittimamente
  statuito  dalla Corte al di la' dell'art. 129 c.c. (con conseguente
  attuale vigenza dello stesso).
    Oltre  a  cio',  la  Landi  ha  chiesto un contributo mensile "di
  mantenimento"  (come si legge nella citazione), volto a consentirle
  di  mantenere  lo stesso tenore di vita del quale godeva durante la
  convivenza, formulando sul punto apposite prove.
    La norma invocata, pero', dispone che uno dei coniugi corrisponda
  all'altra  "somme  periodiche  di  denaro","in proporzione alle sue
  sostanze",  allorquando  l'altro  coniuge "non abbia adeguati mezzi
  propri".
    Gia'  il  collegio,  esaminando  il  reclamo,  ha  escluso che la
  funzione della contribuzione de qua sia di corrispondere al coniuge
  debole  il  mantenimento  tale  da  consentirgli  di proseguire nel
  tenore  di  vita precedente, negando ogni rilevanza alla situazione
  economica pregressa relativa al periodo di convivenza.
    Tale  interpretazione  della  norma  deriverebbe innanzitutto dal
  tenore  della stessa, laddove fa menzione all'adeguatezza (attuale)
  dei  redditi  e  alle  sostanze  (attuali)  della  controparte, con
  esclusione,   quindi,   della   necessaria   conservazione  di  una
  situazione  di  maggiore  benessere,  visto che il confronto non e'
  tanto  sul tenore di vita anteriore e successivo alla dichiarazione
  di nullita', bensi' sulla comparazione dei redditi all'attualita'.
    Inoltre,  troverebbe  la  sua  giustificazione nella ratio che la
  governa,  che  e'  semplicemente  quella  di  imporre, per principi
  solidaristici,   elargizioni  di  denaro  volte  ad  integrare  una
  situazione  inadeguata, in favore del coniuge in buona fede ma meno
  fornito  di  redditi, onde consentirgli di poter "ridefinire" sotto
  il  profilo  economico la propria vita dopo che questa ha subito il
  mutamento,   rispetto   alle  aspettative  e  alle  previsioni  del
  matrimonio, per effetto della accertata nullita'.
    Una  solidarieta' che ha, appunto, una funzione di "salvaguardia"
  temporale,  dove  la temporaneita' e' pienamente giustificata dalla
  mancanza   di   ogni   individuazione   di  responsabilita',  dalla
  contingenza  della situazione venutasi a creare e dalla mancanza di
  un  pregresso  consistente  rapporto  di  coabitazione tra le parti
  oltre  che dalla funzione di imporre al coniuge debole di attivarsi
  per reperire il proprio mantenimento.
    Parlare  di vero e proprio mantenimento in relazione al tenore di
  vita  goduto  in  costanza  del  matrimonio,  poi,  non pare essere
  adeguato alla normativa in oggetto, sol che si consideri che, nella
  maggior  parte  dei  casi,  la  nullita' non puo' essere dichiarata
  quando vi e' stata coabitazione per piu' di un anno e, pertanto, la
  comparazione con il detto tenore deve essere limitata ad un periodo
  estremamente limitato e per lo piu', poco significativo.
    Oltre  a cio', per riprendere un argomento addotto dal convenuto,
  la  individuazione  di  un  siffatto contenuto dell'obbligo imposto
  dall'art. 129  mal  si  concilierebbe  con la successiva previsione
  dell'art. 129-bis  c.c.,  laddove  prevede  che  il coniuge in mala
  fede,  e  quindi  tenuto  nei confronti del coniuge debole e per il
  vincolo  di  solidarieta'  e per la responsabilita' della nullita',
  debba versare una indennita' che comunque comprenda il mantenimento
  per  tre  anni:  l'obbligo imposto al coniuge di buona fede sarebbe
  cosi' graviore rispetto a quanto richiesto a quello colpevole.
    Cosi' precisate le domande dell'attrice e delineata la richiamata
  disciplina   dell'art. 129  c.c.  sulle  stesse,  manifesta  appare
  l'inidoneita'  della detta norma a fondare le sue pretese (ossia di
  avere  l'assegno  per  un periodo piu' lungo rispetto ai tre anni e
  commisurato al tenore di vita goduto in costanza di matrimonio).
    Come  e'  noto,  l'applicabilita'  ditale  disciplina (al pari di
  quella  contenuta nell'art. 129-bis) alla dichiarazione di nullita'
  dei matrimoni canonici, pronunciata nell'ordinamento della Chiesa e
  resa  esecutiva  in  Italia  dalla  Corte  d'Appello, deriva da una
  interpretazione  estensiva  dell'art. 18  della  legge matrimoniale
  n. 847  del  1929,  ormai  pacifica  in giurisprudenza, al punto da
  costituire  vero "diritto vivente" in base a cui tra le conseguenze
  del  matrimonio  putativo si fanno rientrare anche quelle di natura
  patrimoniale   disciplinate   dai  suddetti  articoli  (cfr.  Cass.
  nn. 5188/1977,  4902/1978  e  1826/1980,  cui vanno aggiunte, negli
  ultimi    tempi,   Cass.   n. 2852/1998   in   motivazione,   Cass.
  n. 2728/1995, oltre a S.U. n. 4700/1988 in motivazione).
    Non   bisogna   dimenticare,  d'altro  canto,  che  la  norma  su
  menzionata della legge matrimoniale richiamava espressamente l'art.
  116  del  codice civile del 1865, cui, nella sistematica originaria
  del   codice  del  1942,  corrispondevano  gli  artt.  128  e  129,
  confluiti, dopo la Novella del 1975, nel vigente art. 128.
    Le  disposizioni di natura patrimoniale contenute negli artt. 129
  e 129-bis sono state aggiunte ex novo con la riforma del diritto di
  famiglia.
    Ma se il richiamo all'odierno art. 128 (al pari di quello operato
  all'originario  art. 116  c.c.  del  1865)  si adegua perfettamente
  tanto  alla  dichiarazione  di  nullita'  canonica, quanto a quella
  operata  dal giudice statale applicando le norme del codice civile,
  per contro non si puo' trascurare che la disciplina contenuta negli
  artt  129  e  129-bis  appare  dettata  specificamente in relazione
  all'annullamento di un matrimonio civile.
    Nessuno,  infatti,  ignora che nel sistema del nostro Codice sono
  brevissimi  i tempi entro i quali, a pena di decadenza, si puo' far
  valere  un  vizio inficiante la validita' del matrimonio (nel caso,
  ex  art. 120  c.c. un anno dall'inizio della coabitazione, dopo che
  e'  cessato  lo stato di incapacita') con la conseguenza che non si
  puo' considerare instaurata una vera e propria convivenza coniugale
  tra i coniugi o, anche se cio' e' avvenuto, si tratta pur sempre di
  un fenomeno di scarsa consistenza temporale.
    Su  di un piano logico appare piu' che giustificata la disciplina
  dell'art. 129   c.c.,  atteso  che  di  fronte  ad  una  convivenza
  inesistente o di durata esigua, il legislatore non poteva prevedere
  altro  se non la corresponsione di "somme periodiche di denaro" per
  un periodo altrettanto breve: si e' voluto, infatti, predisporre un
  rimedio  idoneo  allo scompenso economico creatosi nel coniuge meno
  provvisto di redditi adeguati propri, ma necessariamente limitato e
  nel  tempo  e negli effetti, proprio perche' - ripetesi - collegato
  ad  una  convivenza  che,  per la sua brevita', e' tale da non aver
  prodotto  situazioni  economiche  cosi'  consolidate e difficili da
  convertire.
    In  tutte le ipotesi in cui il matrimonio non sia stato impugnato
  entro   i   termini  di  decadenza  dell'azione  sopra  menzionati,
  nell'ordinamento statale non vi e' altra via se non quella di farne
  dichiarare  la  cessazione degli effetti civili a norma della legge
  n. 898/1970  e successive modificazioni, risultando ormai del tutto
  irrilevanti  gli  eventuali vizi genetici del negozio matrimoniale:
  in  caso,  pero',  i  rapporti  patrimoniali tra i coniugi verranno
  disciplinati dall'art. 5 della medesima legge.
    Esso,   come  e'  risaputo,  prevede  la  corresponsione  di  una
  contribuzione  periodica,  senza  limiti di tempo e di un ammontare
  tale  da consentire, in difetto di adeguati mezzi propri, un tenore
  di  vita  corrispondente  a quello goduto in costanza di matrimonio
  ("Il   diritto   all'assegno   divorzile,   per  il  suo  carattere
  assistenziale,  sorge solo quando vi e' una situazione patrimoniale
  e  di  reddito  tale  da  non  consentire  a  chi  lo  richiede, di
  conservare  un  tenore  di  vita analogo a quello fruito durante il
  matrimonio;  l'istante deve dimostrare il dato del passato e quindi
  la  fascia  socio-economica  d'appartenenza  della coppia all'epoca
  della  convivenza  e  il conseguente stile di vita adottato manente
  matrimonio  e  la situazione economica attuale, cioe' la situazione
  di reddito e di patrimonio esistente al momento della domanda, tale
  da  non consentire la conservazione di quel livello socio-economico
  goduto  nel  matrimonio,  per  l'impossibilita' di procurarsi mezzi
  idonei  a  conservare  il  predetto  tenore  di  vita  per  ragioni
  oggettive".Cassazione civile sez. I, 28 luglio 1999, n. 8183).
    Ancorche'  sotto  un  profilo  formale non si possa negare, da un
  lato,  che  la  dichiarazione  di nullita', sia civile sia canonica
  (una  volta  delibata  la  relativa sentenza), faccia venir meno il
  vincolo   coniugale  ne',  dall'altro,  che  -  in  relazione  alla
  fattispecie  che sta alla base del presente giudizio - sussista una
  corrispondenza  tra  la  causa  di  nullita'  invocata  dai giudici
  ecclesiastici   (difetto   di  consenso  da  parte  dell'uomo,  per
  incapacita'   del  medesimo  ad  esprimere  un  consenso  libero  e
  responsabile)  e  quella  disciplinata dall'art. 120 c.c., tuttavia
  appare altrettanto agevole rimarcare come alla base dei due giudizi
  stiano situazioni profondamente differenti.
    Come  e'  noto,  nell'ordinamento della Chiesa la declaratoria di
  nullita'  matrimoniale introdotta in ogni tempo durante la vita dei
  coniugi  e,  di  conseguenza  (come  nel  caso  sottoposto a questo
  tribunale)  la  relativa  declaratoria  puo' essere pronunciata non
  solo a distanza di anni dalla celebrazione, ma anche dopo che si e'
  instaurato  il  consortium totius vitae tra i coniugi e dall'unione
  sono nati dei figli.
    Per  contro,  come  si  e'  gia'  accennato,  nel  nostro sistema
  matrimoniale,  stante la decadenza dall'azione per il decorso di un
  anno,  il  non  consolidarsi  nel  tempo  della  convivenza  appare
  elemento  determinante  per  poter  chiedere  la  dichiarazione  di
  nullita'  e per fruire delle disposizioni di carattere patrimoniale
  di cui all'art. 129 (o, eventualmente 129-bis) c.c.
    Nel  caso  sottoposto al presente giudizio - ove il matrimonio fu
  celebrato  nel  1968  e solo nel 1993 fu resa esecutiva la sentenza
  canonica   dichiarativa   della  nullita'  -  l'applicazione  della
  disciplina   sancita  dall'art. 129  c.c.  comporterebbe  solo  una
  parziale  e  limitata  possibilita'  di  accoglimento delle domande
  formulate dalla parte attrice.
    Ad  avviso  del  tribunale,  per  contro,  queste  (e  nella loro
  interezza - sia rispetto alla durata temporale dell'obbligo e della
  congruita'  in  relazione  al  precedente  tenore di vita -) non si
  ravvisano  sfornite di fondamento, ancorche' non lo possano trovare
  nella  disciplina dell'art. 129 c.c. (pur invocata dalla parte), la
  quale,  per  i  suoi presupposti e per i suoi contenuti, non appare
  idonea  a garantire una tutela adeguata, specie ove la si raffronti
  a  quella dettata in relazione ad ipotesi che, pur avendo alla base
  situazioni  di  fatto  simili,  risultano, tuttavia, diversamente e
  maggiormente tutelate dall'ordinamento statale. Ed invero l'attrice
  si  trova  a  veder  posto nel nulla il suo vincolo dopo moltissimi
  anni  di  matrimonio  e,  a  suo  dire, di vita agiata al fianco di
  stimato e colto professionista architetto.
    Risulta  chiaro,  in  questi termini, che, sotto il profilo delle
  conseguenze patrimoniali, la fattispecie di cui ci si occupa appare
  denotata  da  elementi  che  si  rivelano  analoghi  a  quelli  che
  scaturiscono   dalla  cessazione  degli  effetti  civili  ex  legge
  n. 898/1970.
    Vale  la  pena  di ribadire che gli art. 129 e 129-bis trovano la
  loro   giustificazione,  anche  in  relazione  alla  loro  portata,
  quantitativa  e  temporale,  proprio  nella situazione di esiguita'
  della convivenza (accanto, va da se', all'invalidita' del vincolo),
  volendosi  porre  un  rimedio  a  quello scompenso che puo' essersi
  venuto  a  creare  a  danno  del  coniuge meno provvisto di redditi
  adeguati  propri,  ma  necessariamente  limitato  e  nella durata e
  nell'ammontare.
    Appare   quanto  mai  evidente,  da  questo  angolo  visuale,  la
  disparita'   di   trattamento   che   viene  riservato  al  coniuge
  economicamente  piu'  debole  il  quale,  dopo anni di convivenza e
  comunque  in  presenza di una situazione che non consentirebbe piu'
  di  ottenere  la nullita' del matrimonio secondo il diritto civile,
  avesse   ottenuto  o  subito  una  sentenza  canonica  di  nullita'
  matrimoniale  con la conseguente applicazione delle disposizioni di
  cui  all'art. 129  c.c.,  rispetto  al  coniuge  che  avesse  visto
  dichiarare   gli   effetti   civili  del  suo  matrimonio,  con  la
  consequenziale  applicazione  della disciplina patrimoniale propria
  del divorzio.
    Tale  disparita'  di  trattamento  appare  ancor  piu' manifesta,
  quando   si   ponga   mente   a  quell'indirizzo  giurisprudenziale
  introdotto dalla suprema Corte (cfr. cass. s.u. n. 1824/1993; cass.
  n. 3314/1995  e  n. 3345/1997)  e  che ormai puo' dirsi consolidato
  anche  nelle  giurisdizioni  di  merito  (vedi da ultimo, tribunale
  Torre Annunziata 21 gennaio 1996 nonche' tribunale Milano 17 giugno
  1997 n. 6101), secondo il quale - in conseguenza dell'essere venuta
  meno   la   riserva   di   giurisdizione  a  favore  dei  tribunali
  ecclesiastici  -  le parti possono rivolgersi, per la dichiarazione
  di  nullita'  del  loro  matrimonio  canonico  trascritto, anche ai
  tribunali  dello  Stato,  i quali applicheranno le disposizioni del
  codice  civile,  non  escluse  quelle che disciplinano la decadenza
  dalla relativa azione.
    Sotto  questo  profilo  un'ulteriore  profilo  di  disparita'  di
  trattamento   si   avrebbe   anche  tra  chi  ha  adito  i  giudici
  ecclesiastici e chi si e' rivolto a quelli italiani.
    Pur  prescindendo  da  quest'ultima considerazione, che non viene
  direttamente  in rilievo ai fini del presente giudizio, cio' non di
  meno   ad   avviso  del  collegio  sussiste  una  non  giustificata
  disparita'  di  trattamento sotto un duplice profilo, sia - cioe' -
  sotto  quello  della  minore  tutela  che il coniuge economicamente
  debole  riceve  nel  caso di delibazione della sentenza canonica di
  nullita',  rispetto  a quella che riceve il coniuge debole nel caso
  di  divorzio,  sia  sotto il profilo della non comparabilita' della
  situazione  patrimoniale  dei  coniugi  il cui matrimonio sia stato
  dichiarato  nullo  dopo  molti anni di convivenza rispetto a quella
  dei coniugi che chiedono la pronuncia di nullita' al giudice civile
  entro  il  termine  di  decadenza  previsto dalle varie ipotesi (di
  regola un anno dall'instaurazione della convivenza).
    Ad  avviso  del  collegio,  la disciplina dell'art. 129 c.c. deve
  ritenersi  applicabile  solo  a  questi  ultimi casi, atteso che la
  ratio  che  ne  ha  delineato  la  struttura e' fondata' proprio su
  questa  situazione  patrimoniale  (oltre  che sulla invalidita' del
  vincolo,  ovviamente),  mentre  per  i rimanenti casi parrebbe piu'
  conferente   l'applicazione   di   quella   dettata   dalla   legge
  n. 898/1970.
    Cio'  non  e'  affatto  inficiato  dalla  "eterogeneita'" tra gli
  istituti  del  divorzio e della nullita' (sulla quale insiste Cass.
  n. 1094/1982),  atteso  che  le  conseguenze di natura patrimoniale
  nella  fattispecie del matrimonio civile nullo non traggono origine
  solamente  da  detto fatto genetico, ma sono costruite e si fondano
  anche su di un presupposto - quello della mancanza o brevita' della
  convivenza - che puo' non ritrovarsi nei matrimoni dichiarati nulli
  nell'ordinamento  canonico  cosi' come puo' non ritrovarsi nei casi
  di  divorzio  (ed  e' esatta affermazione della Corte di cassazione
  nella  appena  richiamata  sentenza  allorche'  si  tratti di voler
  applicare la disciplina del divorzio al matrimonio nullo secondo le
  norme  statali,  per  il  rilievo che si e' visto doversi dare alla
  convivenza).
       Il  peculiare  risalto  che  alla  effettivita'  del  rapporto
  coniugale   ha   dato   la   giurisprudenza,   anche   della  Corte
  costituzionale  (specie con le fondamentali sentenze n. 16, 17 e 18
  del  1982),  consente,  poi,  di  superare  il  dato  formale della
  eterogeneita'  tra  i  due istituti e di esaminare l'applicabilita'
  delle  relative  discipline  patrimoniali  alla  luce  dei  diversi
  parametri di determinazione.
    Tutto  cio'  fa  dubitare della legittimita' costituzionale della
  disciplina   applicanda   al   caso   (art. 129   c.c.   richiamato
  dall'art. 18  legge  matrimoniale),  in  relazione  al principio di
  uguaglianza  disciplinato  dall'art. 3  della  Costituzione  ed  in
  relazione   aI   principio  supremo  della  laicita'  dello  Stato,
  affermato  piu'  volte dalla Corte costituzionale (cfr., per tutte,
  la sentenza n. 203 del 1989).
    ln relazione all'art. 3 per la disparita' di trattamento tra casi
  simili e per la applicazione di una disciplina deteriore ad un caso
  piu'  complesso  rispetto a quello della sua originaria previsione,
  ed  in relazione al principio della laicita' dello Stato perche' si
  farebbero    discendere    conseguenze   di   natura   strettamente
  patrimoniale (sulle quali esiste una esclusiva competenza normativa
  statale)   ad   una   scelta   confessionale   (di  avvaleri  della
  giurisdizione matrimoniale canonica).
    In   particolare,   su  questo  ultimo  punto,  si  creerebbe  la
  situazione,  incredibile,  per  la  quale il coniuge economicamente
  piu' forte potrebbe non solo aggirare (legittimamente) le decadenze
  poste  dalla normativa civile sull'azione di nullita' matrimoniale,
  evitando  cosi' di dover ricorrere alla disciplina del divorzio, ma
  a  trarre  da  cio'  il  vantaggio  di  potersi  sottrarre  a parte
  consistente  delle  sue  responsabilita' patrimoniali nei confronti
  del  coniuge  debole  senza  che  alcun  rilievo  possa  avere  una
  convivenza  (con cio' che comporta a livello di scelte economiche e
  patrimoniali personali) protrattasi magari per molti anni.
    Ne'   la  suddetta  disparita'  risulta  garantita  da  norme  di
  derivazione  pattizia,  atteso  che  l'accordo di modificazione del
  Concordato  lateranense del 1984 stabilisce solamente che "La Corte
  d'appello  potra',  nella  sentenza  intesa a rendere esecutiva una
  sentenza  canonica,  statuire  provvedimenti economici provvisori a
  favore  di  uno  dei coniugi il cui matrimonio sia stato dichiarato
  nullo,  rimandando  le parti al giudice competente per la decisione
  sulla  materia"  (art. 8  n. 2).  La disposizione fornisce solo una
  norma  di  carattere processuale con finalita' anticipatorie ma non
  detta   la   disciplina  sostanziale  del  fondamento  dell'obbligo
  (rimessa, cosi', esclusivamente aI legislatore statale).
    D'altro canto, il dubbio sulla effettiva legittimita' del sistema
  che  si  dovrebbe  applicare  al  caso  di specie e' stato da tempo
  sollevato da piu' parti.
    Gia'  in  sede  di  revisione  del Concordato lateranense la piu'
  accreditata  dottrina, facendo leva su di un criterio di "giustizia
  sostanziale"  esprimeva  l'avviso  che  nella nuova legislazione di
  derivazione    pattizia    si   prevedesse   l'applicazione   delle
  disposizioni  di  natura  patrimoniale  contenute  nella  legge sul
  divorzio  alle  ipotesi  di delibazione di sentenze pronunciate dal
  giudice  ecclesiastico,  ove la convivenza si fosse protratta negli
  anni.
    Di  fronte  al  silenzio  in  proposito mantenuto dall'accordo di
  Villa  Madama  ed  in  assenza  dell'emanazione  di una nuova legge
  matrimoniale,  per  evitare  quella  situazione  ingiustificata  di
  disparita',  parte  della  giurisprudenza della suprema Corte aveva
  tentato, per cosi' dire, di risolvere a monte il problema.
      Fondandosi  sul "limite dell'ordine pubblico" di cui all'allora
  vigente  art. 797  n. 7  c.p.c.,  si  era  infatti ritenuto che non
  potesse  farsi luogo alla delibazione di sentenze canoniche quando,
  tra  le  parti,  si  fosse instaurata la convivenza coniugale (cfr.
  Cass.  nn. 5354,  5358  e  5823  del 1987 e Cass. n. 192 del 1988),
  costringendo, cosi', le parti che avessero voluto far venir meno il
  vincolo   matrimoniale   decorsi  i  termini  per  la  proposizione
  dell'azione civile, a ricorrere alla procedura del divorzio, con la
  conseguente  applicazione  della relativa disciplina patrimoniale e
  non di quella di cui agli artt. 129 e 129-bis c.c.
    Contro  questa  giurisprudenza  si sono espresse le sezioni unite
  della   Corte   di  cassazione  (sent.  20  luglio  1988  n. 4700),
  affermando  che  l'instaurarsi  della  convivenza tra i coniugi non
  poteva  assurgere al ruolo di "limite dell'ordine pubblico" tale da
  impedire   la   delibazione  delle  sentenze  canoniche  (e  questo
  principio e', ormai, ius receptum).
    Nella  stessa  sentenza, pero', le sezioni unite cosi' prendevano
  posizione  sul  problema  della  tutela  patrimoniale apprestata al
  coniuge  piu' debole: "queste sezioni devono comunque dare atto che
  l'indirizzo  giurisprudenziale  disatteso  e'  mosso soprattutto da
  apprezzabili  ragioni di tutela del coniuge piu' debole, il quale -
  sulla  base  dell'attuale  normativa  -  e',  dal  punto  di  vista
  patrimoniale,   insufficientemente   tutelato   a  seguito  di  una
  pronuncia  di  nullita'  (cfr.  artt. 129 e 129-bis c.c.), rispetto
  alla piu' ampia tutela che riceve dalla pronuncia di divorzio (cfr.
  art. 5  e ss. legge 1o dicembre 1970, n. 898, come modificati dalla
  legge 6 marzo 1987 n. 74) e cio', in specie, quando la pronuncia di
  nullita'  interviene  a  distanza  di  anni  dalla celebrazione del
  matrimonio  e si sono consolidate situazioni, anche di comunione di
  vita,  che vengono poste nel nulla dalla pronuncia stessa (cfr., in
  proposito,  Cass. n. 5823/1987, la quale, a chiare lettere, enuncia
  il  principio secondo cui, una volta intervenuta la convivenza, non
  vi  e' altra strada che quella di ottenere una pronuncia giudiziale
  di  scioglimento  o di cessazione degli effetti civili di esso, per
  caducare il matrimonio).
     Cio' pero' non e' addebitabile allo strumento concordatario, una
  volta  dimostrato che l'attuale disciplina non contrasta, sul punto
  con  l'ordine  pubblico  italiano,  ma al legislatore ordinario, il
  quale,  proprio  in  considerazione  della  tutela del coniuge piu'
  debole,  potrebbe,  in  piena liberta', predisporre, autonomamente,
  strumenti  legislativi  -  peraltro  auspicati dalla piu' sensibile
  dottrina  - che assimilano, nei limiti del possibile e tenuto conto
  della   diversita'   delle   situazioni,   ai   fini  della  tutela
  patrimoniale,  la  posizione del coniuge nei cui confronti e' stata
  pronunciata  la  nullita'  del  matrimonio,  a  quella  del coniuge
  divorziato.
      Siffatta  modifica  completerebbe  quella revisione legislativa
  gia' iniziata con la legge 19 maggio 1975 n. 151, sulla riforma del
  diritto  di  famiglia  -  i  cui  artt. 20  e  21,  nel sostituire,
  rispettivamente,   l'art. 129   c.c.   del   1942  e  nell'inserire
  l'art. 129-bis   nel  codice  civile,  hanno  timidamente  iniziato
  un'opera   di   assimilazione   fra  nullita'  e  scioglimento  del
  matrimonio  -  e sarebbe avvertita dai cittadini come un fattore di
  moralizzazione  nella  scelta del mezzo con il quale far venir meno
  il vincolo coniugale.
    L'ipotizzata  identita'  di  conseguenze  di  ordine patrimoniale
  indurrebbe  a  ricorrere  al giudice ecclesiastico solo coloro che,
  come  cives  fideles;  avvertono nelle loro coscienze il peso di un
  sacramento  non  voluto  e  per la loro coscienza nullo e non anche
  coloro  che,  attualmente, invocano la nullita' del matrimonio come
  mezzo  per  liberarsi  da  ogni  responsabilita'  patrimoniale  nei
  confronti del loro coniuge".
    L'auspicare  l'intervento  del legislatore, come fanno le sezioni
  unite  in  detta  sentenza,  seguita  da  autorevole  dottrina, non
  risolve  certo  il  problema  che si pone nell'ordinamento italiano
  oggi  e  che impedisce, nel presente caso, di apprestare alla parte
  istante  una  tutela,  richiesta,  piu'  ampia  rispetto  a  quella
  estremamente  limitata  offerta  dall'art. 129 c.c. (nel che sta la
  rilevanza della problematica, come gia' si e' avuto modo di dire).
    Fino  a  quando  (e  se)  il  legislatore non intervenga, risulta
  fondato dubitare della legittimita' costituzionale del sistema oggi
  vigente,  in  relazione  ai richiamati principi di uguaglianza e di
  laicita' dello Stato.
    Deve,  pertanto,  sollevarsi  d'ufficio  e  rimettersi alla Corte
  costituzionale   la  questione  della  legittimita'  costituzionale
  dell'art.18  della  legge  27  maggio  1929  n. 847 laddove prevede
  (secondo il diritto vivente) l'applicazione della disciplina di cui
  all'  art. 129  c.c.  ai  casi  nei  quali  venga resa esecutiva la
  sentenza  che dichiari la nullita' del matrimonio celebrato davanti
  al  ministro  del culto cattolico, anche allorquando sia decorso il
  termine  per  la  proposizione  della azione di nullita' innanzi al
  giudice  italiano  o  comunque  si  siano consolidate situazioni di
  comunione  di  vita,  al  posto  dell'applicazione della disciplina
  dell'assegno  in  favore  del  coniuge  economicamente  piu' debole
  previsto  dall'art. 5  commi  6  e ss. della legge 1o dicembre 1970
  n. 898  e succ. mod., per contrasto con l'art. 3 della Costituzione
  e  con  il  principio  supremo  della  laicita'  dello  Stato,  con
  conseguente sospensione del giudizio pendente.
    Visti gli artt. 1 della legge della costituzionale n. 1/1948 e 23
  della legge n. 87/1953.
                              P. Q. M.
    Dichiara non manifestamente infondata e rilevante la questione di
  legittimita' costituzionale dell'art. 18 della legge 27 maggio 1929
  n. 847  laddove prevede (secondo il diritto vivente) l'applicazione
  della  disciplina  di cui all'art. 129 c.c. ai casi nei quali venga
  resa  esecutiva la sentenza che dichiari la nullita' del matrimonio
  celebrato   davanti   al   ministro   del  culto  cattolico,  anche
  allorquando sia decorso il termine per la proposizione della azione
  di  nullita'  innanzi  al  giudice  italiano  o  comunque  si siano
  consolidate situazioni di comunione di vita, anziche' la disciplina
  di  cui  all'art. 5,  commi  6  e  ss. della legge 1o dicembre 1970
  n. 898 e successive modificazioni, per contrasto con l'art. 3 della
  Costituzione e con il principio supremo della laicita' dello Stato;
    Dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Dispone  che  a  cura  della  cancelleria  copia  della  presente
  ordinanza  sia  notificata  alle parti, al pubblico ministero ed al
  Presidente   del   Consiglio  dei  Ministri  e  sia  comunicata  ai
  Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati;
    Dispone   la   sospensione   del   presente  giudizio  fino  alla
  definizione del giudizio di costituzionalita'.
        Vicenza, addi' 25 febbraio 2000.
                       Il presidente: Bertotti
Il giudice estensore: Furlani
00C0563