N. 380 ORDINANZA (Atto di promovimento) 6 aprile 2000
Ordinanza emessa il 6 aprile 2000 dal tribunale di Udine sull'istanza proposta da Foi Renato Fallimento - Riabilitazione civile del fallito - Periodo minimo quinquennale di buona condotta - Decorrenza dalla chiusura del fallimento, anziche' dalla sua dichiarazione - Eccessiva ed irragionevole incidenza sul diritto del fallito di svolgere attivita' lavorativa e, in particolare, attivita' di impresa - Ingiustificata disparita' di trattamento in rapporto alla durata della procedura fallimentare. - R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 143, n. 3. - Costituzione, artt. 3, 4 e 41.(GU n.28 del 5-7-2000 )
IL TRIBUNALE Nel procedimento iscritto al n. 4/2000 R.R.C.C./2o promosso da Foi ing. Renato, nato a Udine il 6 dicembre 1921, con gli avvocati C. Carano e F. Larice, volto ad ottenere la pronuncia di riabilitazione civile, ai sensi degli artt. 142 e ss. legge fall., ha pronunciato la seguente ordinanza. L'ing. Renato Foi, dichiarato fallito da questo tribunale il 1o/6 febbraio 1990, ha presentato istanza il 10 gennaio 2000 per sentire pronunciare la propria riabilitazione civile. La procedura fallimentare e' stata pero' dichiarata chiusa soltanto 14 ottobre 1999, sicche' ostacola l'accoglimento dell'istanza il chiaro disposto dell'art. 143. n. 3, legge fall., nella parte in cui fa decorrere il periodo minimo di buona condotta richiesta per la riabilitazione soltanto a partire "dalla chiusura del fallimento". Il tribunale ritiene di non potere definire sulla base delle normativa vigente il presente procedimento e di dovere invece rimettere gli atti alla Corte costituzionale per i seguenti motivi. Rilevanza della questione Sussistono tutte le altre condizioni previste dalla legge per pronunciare la riabilitazione civile di Renato Foi. Egli non ha subito condanne penali ostative (art. 145 legge fall.), non risulta avere carichi pendenti e dalle informazioni assunte si puo' affermare che abbia tenuto "buona condotta" per tutto il periodo successivo alla dichiarazione di fallimento, dalla quale sono trascorsi ben piu' di cinque anni (addirittura 10). Dunque il tribunale dovrebbe senz'altro accogliere la sua domanda di riabilitazione, se non fosse per il fatto che non sono ancora trascorsi cinque anni dalla chiusura dei fallimento e, quindi, per l'effetto della norma della cui legittimita' costituzionale in questa sede si intende dubitare. Non manifesta infondatezza della questione E' ben noto che l'intero sistema delle sanzioni e delle incapacita' derivanti dal fallimento appare ormai datato ed in contrasto con i principi di un moderno ordinamento democratico, in quanto improntato a criteri di automaticita' e di indifferenza rispetto alla condizione psicologica (di dolo, colpa o incolpevolezza) del soggetto fallito. Naturalmente e' compito esclusivo del legislatore sostituire questo sistema con uno piu' adeguato ai principi e alla sensibilita' del nostro tempo. E' tuttavia compito dell'interprete verificare se vi sono specifici aspetti ove tale disciplina, nel momento in cui incide su posizioni di diritto soggettivo riconosciute a livello costituzionale (artt. 4 e 41 Cost.), violi ogni criterio di ragionevolezza ed il divieto di disparita' di trattamento di situazioni analoghe tra di loro (art. 3 Cost.). Violazione degli artt. 4 e 41 della Costituzione A parere di questo collegio, la decorrenza soltanto dalla chiusura del fallimento del termine minimo di cinque anni durante il quale il fallito deve tenera "buona condotta" per potere aspirare alla riabilitazione e' una disposizione che incide in misura inutile, eccessiva ed irragionevole sul diritto del soggetto fallito di svolgere attivita' lavorativa in qualunque forma (art. 4 Cost.) e, in particolare, attivita' d'impresa (art. 41 Cost.) o anche una di quelle attivita' paraimprenditoriali o parasubordinate per le quali e' richiesta l'iscrizione in appositi albi. Non si puo' considerare di per se' irragionevole la scelta del legislatore di stabilire la possibilita' di riabilitazione immediata soltanto per i casi di pagamento integrale dei debiti e di concordato fallimentare con soddisfazione minima dei chirografi al 25% (ad. 143, n. 1 e n. 2, legge fall.), richiedendo invece un certo periodo minimo di "buona condotta" del fallito in tutti gli altri casi. Naturalmente non e' neppure sindacabile la scelta legislativa di fissare in cinque anni tale periodo minimo. Ma davvero non si vede perche' non si debba potere apprezzare la buona condotta tenuta dal fallito durante la pendenza della procedura fallimentare. E' vero che in questo periodo egli e' spossessato di tutti i suoi beni e che quindi, non godendo della normale capacita' d'agire patrimoniale, teoricamente non e' in condizione di dare prova di una c.d "buona condotta economica e commerciale". Ma non vi e' dubbio che proprio durante il fallimento il fallito e' chiamato al rispetto di speciali obblighi (quale l'obbligo di residenza: ad. 48 legge fall.) e di un generale dovere di collaborare con il curatore ed il giudice delegato per la migliore riuscita della liquidazione fallimentare. Pertanto, proprio nel modo di atteggiarsi rispetto a tali obblighi e doveri il fallito puo' dimostrare la sua buona condotta rilevante ai sensi dell'art. 143, n. 3, legge fall. Del resto, sul lato opposto, si deve osservare che pur dopo la chiusura del fallimento - e, per l'appunto, finche' non intervenga la riabilitazione civile - il fallito rimane incapace di dare vita ad una nuova impresa o di assumere incarichi di comando in societa' di capitali (v. artt. 2382 e 2487 cc.) o cooperative (ad. 2516 c.c.), sicche' permane comunque una difficolta' di apprezzarne il comportamento esclusivamente sul piano della c.d. "buona condotta economica e commerciale". Anche da questo punto di vista, quindi, non si giustifica il differimento al momento della chiusura del fallimento del termine a quo per valutare la buona condotta. Violazione delI'art. 3 Cost. Ma l'attuale formulazione dell'art. 143, n. 3, legge fall., determina anche una ingiustificata disparita' di trattamento tra fallito e fallito. E' ben noto, infatti, che la durata dei fallimenti a volte e', purtroppo, assai lunga e cio', spesso, per cause del tutta indipendenti dalla volonta' e dalla responsabilita' del fallito. Non si vede allora perche' il soggetto la cui procedura fallimentare si prolunghi piu' di altre debba subire un conseguente prolungamento del suo status di fallito, al di la' del limite entro il quale cio' e' assolutamente inevitabile (limite rappresentato proprio dalla durata del fallimento, rimanendo la chiusura dello stesso presupposto tanto implicito quanto indispensabile in ogni caso di riabilitazione). Per meglio apprezzare l'irrazionalita' di tale differente trattamento, si ponga mente al fatto che, molte volte, l'occasione per una rapida chiusura del fallimento viene dalla totale mancanza di attivo (v. ad. 118, n. 4, legge fall.); viceversa, chi sia fallito con un attivo patrimoniale consistente, dovra' attendere i tempi - non sempre brevi - della liquidazione fallimentare; se poi del patrimonio del fallito facciano parte ingenti crediti verso terzi, egli dovra' subire una procedura fallimentare tanto lunga quanto sono (notoriamente) lunghe e le azioni giudiziarie che il curatore intraprendera' per il recupero di tali crediti. Ne consegue che - per effetto della disposizione qui censurata - le migliori prospettive di una piu' lesta riabilitazione possono aprirsi proprio a favore del fallito che lasci i creditori del tutto privi di una sia pure parziale soddisfazione, mentre il fallito che lasci un attivo - magari consistente, ma - di non facile liquidazione o realizzo vedra' allontanarsi a dismisura la data in cui egli potra' finalmente cominciare a scontare la propria incapacita' postfallimentare (ferme naturalmente nel frattempo le ben piu' gravi limitazioni che colpiscono il fallito durante la procedura fallimentare, oltre ovviamente al dovere di tenere "buona condotta" anche in questo periodo). Il tutto in contrasto, non solo con il principio di razionalita', ma anche con lo stesso sistema della legge fallimentare, che dimostra altrove di riconoscere importanza, ai fini della riabilitazione, al grado di soddisfazione dei creditori (v. ad. 143, n. 2, che consente la riabilitazione immediata non in ogni caso di regolare adempimento del concordato fallimentare, ma soltanto se i creditori chirografari siano stati soddisfatti almeno nella misura del 25%). lI caso di specie rappresenta in modo embiematico tale situazione di irrazionalita', se se considere che il fallimento e' durato quasi dieci anni e che il riparto ha consentito la soddisfazione dei creditori chirografari nella misura complessiva del 57,52%.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge n. 87 del 1953; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata - e pertanto solleva d'ufficio - la questione di illegittimita' costituzionale, con riferimento agli artt. 3, 4 e 41 Cost., dell'art. 143, n. 3, legge fallimentare, nella parte in cui fa decorrere il termine minimo di buona condotta necessario per la riabilitazione civile del fallito "dalla chiusura del fallimento" anziche' dalla sua dichiarazione; Sospende il procedimento in corso; Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina alla cancelleria di notificare la presente ordinanza alle parti in causa, al p.m., Presidente del Consiglio dei Ministri, nonche' ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Udine, nella camera di consiglio del 6 aprile 2000. Il Presidente: Cola Il giudice relatore: Zuliani 00C0607