N. 271 SENTENZA 6 - 12 luglio 2000

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Tribunali  militari  -  Giurisdizione  in  tempo  di  pace  -  Limiti
costituzionali  -  Riferibilita' della giurisdizione militare ai soli
reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.
- Costituzione, art. 103.
Obiezione  di  coscienza - Reato di rifiuto del servizio militare per
  motivi  di  coscienza  -  Attribuzione  alla cognizione del giudice
  ordinario  -  Lamentata  deroga,  priva  di  giustificazione,  alla
  giurisdizione  del  giudice militare, con disparita' di trattamento
  rispetto al reato di mancanza alla chiamata e lesione del principio
  del   giudice   naturale   -   Esercizio  non  irragionevole  della
  discrezionalita' legislativa - Non fondatezza della questione.
- Legge 8 luglio 1998, n. 230, art. 14, comma 3.
- Costituzione, artt. 3 e 103, terzo comma, 25, primo comma.
(GU n.30 del 19-7-2000 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
Presidente: Francesco GUIZZI;
Giudici: Cesare MIRABELLI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare
RUPERTO,  Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo
MEZZANOTTE,  Fernanda  CONTRI,  Guido  NEPPI  MODONA,  Piero  Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE
ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nei  giudizi  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 14, comma 3,
della  legge  8  luglio  1998,  n. 230  (Nuove  norme  in  materia di
obiezione  di  coscienza) promossi con diciannove ordinanze emesse il
12  ottobre  1998  (n. 3  ordinanze)  dalla Corte militare d'appello,
sezione distaccata di Verona, il 7 ottobre 1998 (n. 10 ordinanze) dal
tribunale  militare  di  Padova,  il  18  febbraio,  l'8  marzo (n. 2
ordinanze), l'11 febbraio, l'8 marzo e l'11 febbraio 1999 dalla Corte
militare  d'appello,  sezione  distaccata  di Verona, rispettivamente
iscritte  ai  nn. 8,  9,  10, 14, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 84, 85, 99,
306,  307,  308,  311,  312  e  313  del  registro  ordinanze  1999 e
pubblicate  nella  Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 4, 9 e 22,
prima serie speciale, dell'anno 1999.
    Visti  gli  atti  di  intervento del Presidente del Consiglio dei
Ministri;
    udito  nella  camera  di consiglio del 9 febbraio 2000 il giudice
relatore Carlo Mezzanotte.

                          Ritenuto in fatto

    1.1  -  Con  nove ordinanze di identico contenuto (R.O. nn. 8, 9,
10,  306,  307,  308,  311, 312 e 313 del 1999) - emesse nel corso di
altrettanti  procedimenti  penali  a  carico  di diversi imputati del
reato  di  rifiuto  del servizio militare di cui all'art.  8, secondo
comma,   della   legge   15  dicembre  1972,  n. 772  (Norme  per  il
riconoscimento  dell'obiezione  di  coscienza)  -  la  Corte militare
d'appello, sezione distaccata di Verona, ha sollevato, in riferimento
agli  artt. 3  e  103,  terzo comma, della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 14,  comma  3,  della legge 8
luglio   1998,  n. 230  (Nuove  norme  in  materia  di  obiezione  di
coscienza),  "nella  parte in cui sottrae alla giurisdizione militare
la  cognizione  del reato di rifiuto del servizio militare per motivi
di coscienza".
    Il   remittente   premette   che  la  disposizione  censurata  ha
attribuito  alla  autorita'  giudiziaria  ordinaria  la  competenza a
giudicare  il  reato  di  rifiuto del servizio militare per motivi di
coscienza,  e che, non avendo la legge n. 230 del 1998 dettato alcuna
disciplina transitoria, in virtu' del principio generale tempus regit
actum egli sarebbe tenuto a trasmettere gli atti al pretore del luogo
nel quale deve essere svolto il servizio militare.
    In   tutte   le   ordinanze  si  ricorda  che  la  giurisprudenza
costituzionale   avrebbe  chiarito  che  la  giurisdizione  militare,
contemplata  dall'art. 103, terzo comma, della Costituzione, concerne
soltanto  i  reati militari commessi da militari in servizio attivo o
considerati  tali,  e' circoscritta entro rigorosi confini soggettivi
ed  oggettivi  e  non ha carattere assoluto ed indeclinabile, potendo
essere  derogata  da una legge ordinaria che risulti preordinata alla
tutela  di  preminenti beni, interessi e valori. Conseguentemente, ad
avviso del giudice a quo in riferimento ai reati militari commessi da
militari  in  servizio  attivo  (o considerati tali) la giurisdizione
militare   dovrebbe   essere  ritenuta  non  soltanto  "giurisdizione
normale" ma anche "giurisdizione di carattere costituzionale".
    Il  remittente  rileva che i soggetti chiamati a presentarsi alle
armi  sono  militari  in servizio attivo dal momento stabilito per la
loro  presentazione  fino al giorno in cui vengono inviati in congedo
illimitato, e che il reato di rifiuto del servizio militare ha natura
di  reato  militare, offendendo un interesse fondamentale delle Forze
armate dello Stato, e cioe' quello alla regolare incorporazione degli
obbligati  al  servizio  di  leva.  A  suo  avviso,  anzi,  la  nuova
normativa, rendendo possibile il rifiuto anche dopo la assunzione del
servizio,   avrebbe  accentuato  i  connotati  di  militarita'  della
fattispecie    incriminatrice,   divenuta   una   semplice   variante
applicativa  non solo del reato di mancanza alla chiamata ma anche di
quello di diserzione.
    Secondo  la  Corte  militare  d'appello,  sezione  distaccata  di
Verona,  il  legislatore  del  1998  avrebbe conservato inalterata la
struttura  del  reato  di rifiuto del servizio militare per motivi di
coscienza,  che  continuerebbe  a  profilarsi come un illecito che si
commette  a  prescindere  dalla verosimiglianza ed autenticita' delle
ragioni  della  obiezione  e  che  non tollera in alcun modo disamine
intese  ad  accertarne la eventuale natura strumentale e pretestuosa.
Conseguentemente,  poiche'  il  reato di rifiuto previsto dalla nuova
legge  non  coinvolgerebbe  beni  ed  interessi di preminente valore,
suscettibili   di  tutela  mediante  una  deroga  alla  giurisdizione
militare,  la  disposizione  censurata contrasterebbe con l'art. 103,
terzo comma, della Costituzione.
    L'art. 14,  comma  3,  della  legge  n. 230  del  1998 violerebbe
altresi' l'art. 3 della Costituzione, per l'ingiustificata disparita'
di  trattamento rispetto al reato di mancanza alla chiamata, che, pur
avendo  "identita' sostanziale" e pur offendendo lo stesso interesse,
e' rimasto, invece, assoggettato alla giurisdizione militare.
    1.2  -  In  uno  dei nove giudizi cosi' promossi (R.O. n. 312 del
1999)  e'  intervenuto  il  Presidente  del  Consiglio  dei Ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale dello Stato, e ha
chiesto che la questione sia dichiarata infondata.
    L'Avvocatura, premesso che nel nostro ordinamento, caratterizzato
dalla  centralita'  della  giurisdizione ordinaria, vengono riservati
alla  giurisdizione  dei tribunali militari soltanto i reati militari
commessi  da  appartenenti  alle  Forze  armate  in  servizio attivo,
osserva  che l'art. 103, terzo comma, della Costituzione prevederebbe
un  criterio  selettivo  "nel  senso  che  esso  nel  passaggio dalla
giurisdizione  militare  a  quella ordinaria consente, in presenza di
valide  ragioni,  di  far  passare  qualcosa di piu' di quel che puo'
transitare  in senso opposto, e cioe' dalla giurisdizione ordinaria a
quella militare".
    La  difesa dello Stato rileva che l'art. 14, comma 2, della legge
n. 230 del 1998 punisce chi, non avendo chiesto o non avendo ottenuto
l'ammissione  al  servizio  civile,  rifiuta  di prestare il servizio
militare, prima o dopo averlo assunto, adducendo motivi di coscienza,
e contesta la premessa del remittente, in base alla quale il soggetto
attivo  della  previsione  incriminatrice  dovrebbe,  a seguito della
precettazione  (insita  nella chiamata alle armi), essere considerato
gia' appartenente alle Forze armate.
    Infatti,  ad  avviso  dell'Avvocatura,  la  nuova  configurazione
dell'obiezione  di  coscienza  come  diritto  soggettivo, intimamente
connesso  all'esercizio  delle liberta' individuali, introdotta dalla
legge  n. 230 del 1998, non potrebbe non influire sugli effetti della
precettazione,  che  verrebbero  "neutralizzati"  quando  l'obiettore
abbia    manifestato   esplicitamente   la   sua   non   accettazione
dell'arruolamento,  sicche' egli, avendo esercitato un suo diritto di
liberta',  non  potrebbe  piu'  essere considerato "appartenente alle
Forze armate".
    Pertanto,  conclude  l'Avvocatura,  non solo non sussisterebbe, a
stretto  rigore,  il  presupposto soggettivo richiesto dall'art. 103,
terzo  comma,  della  Costituzione  ai  fini  del  radicamento  della
giurisdizione militare, ma soprattutto non sarebbe costituzionalmente
illegittimo  "fare  transitare  i  relativi reati dalla giurisdizione
militare a quella ordinaria".
    2.1 - Questione analoga e' stata sollevata dal tribunale militare
di Padova con dieci ordinanze di identico contenuto (R.O. nn. 14, 18,
19,  20,  21,  22,  23,  84,  85  e 99 del 1999), emesse nel corso di
altrettanti  procedimenti  penali  a  carico  di diversi imputati del
reato di cui all'art. 8, secondo comma, della legge 15 dicembre 1972,
n. 772, per avere rifiutato, prima di assumerlo, il servizio militare
di leva, adducendo imprescindibili motivi di coscienza.
    Anche  per  il  tribunale  militare di Padova l'art. 14, comma 3,
della  legge  8  luglio  1998,  n. 230,  nella  parte  in  cui "senza
plausibili ragioni" sottrae alla giurisdizione militare e attribuisce
al  giudice ordinario la cognizione del reato di rifiuto del servizio
militare per motivi di coscienza, contrasterebbe con gli artt. 3, 25,
primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione.
    Le  argomentazioni  del remittente in punto di rilevanza e di non
manifesta  infondatezza  della questione non sono dissimili da quelle
svolte nelle ordinanze di cui si e' fatto cenno in precedenza.
    In  particolare,  il  tribunale  militare  di Padova premette che
anche  la fattispecie di cui all'art. 14, comma 2, della legge n. 230
del 1998 configurerebbe "un'ipotesi di reato militare che puo' essere
commesso  solo da soggetto appartenente alle Forze armate", e ritiene
che  la  diversita'  di  disciplina prevista per questo reato (la cui
cognizione  e'  attribuita  al  giudice  ordinario) rispetto a quella
stabilita  per  altri  reati  militari  commessi da appartenenti alle
Forze armate, e specificamente per il reato di mancanza alla chiamata
(tuttora  devoluti  al  giudice  militare), violerebbe l'art. 3 della
Costituzione,  poiche' non sarebbe ragionevole il diverso trattamento
riservato  agli  obiettori  di coscienza, essendo sia gli uni che gli
altri reati militari commessi da militari in servizio.
    La  disposizione  censurata sarebbe altresi' in contrasto con gli
artt. 25,  primo  comma,  e  103, terzo comma, della Costituzione, in
quanto  non  sussisterebbero  plausibili  ragioni  per  derogare alla
regola,  risultante  da  entrambi i parametri invocati, che individua
nei  tribunali  militari il giudice naturalmente preposto a conoscere
di reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate.
    2.2  -  Nei giudizi relativi alle ordinanze di remissione nn. 84,
85  e  99  del  1999  e'  intervenuto il Presidente del Consiglio dei
Ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato,  ribadendo  le argomentazioni espresse nell'atto di intervento
depositato nel giudizio relativo alla questione sollevata dalla Corte
militare  d'appello,  sezione  distaccata  di Verona (R.O. n. 312 del
1999), e concludendo per l'infondatezza delle questioni.

                       Considerato in diritto


    1.  - Diciannove ordinanze di analogo contenuto (nove provenienti
dalla Corte militare d'appello, sezione distaccata di Verona, e dieci
dal tribunale militare di Padova) hanno sottoposto a questa Corte, in
riferimento  agli  artt. 3, 25 e 103 della Costituzione, la questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 14,  comma 3, della legge
8 luglio  1998,  n. 230  (Nuove  norme  in  materia  di  obiezione di
coscienza),  nella  parte  in cui attribuisce al giudice ordinario la
cognizione  del  reato di rifiuto del servizio militare per motivi di
coscienza.
    Le  argomentazioni  svolte  dai  remittenti  sono  tra  loro  non
dissimili.  Poiche'  il reato di rifiuto del servizio militare, anche
se  per  motivi  di  coscienza,  sarebbe  reato  militare commesso da
soggetto  appartenente  alle  Forze  armate,  l'averne il legislatore
sottratto  la cognizione al giudice militare comporterebbe violazione
dell'art. 103,  terzo  comma,  della  Costituzione,  in base al quale
tutti  i reati di questo tipo, quando non siano ravvisabili, come non
lo sarebbero nella specie, esigenze di tutela di preminenti interessi
che  potrebbero  giustificare  una deroga, dovrebbero essere devoluti
alla giurisdizione militare.
    Entrambi   i   remittenti   denunciano   altresi'  la  violazione
dell'art. 3  della  Costituzione  sulla  premessa  che  nei  reati di
rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza ed in quelli di
mancanza  alla  chiamata medesimo sarebbe il bene protetto e identica
la  condotta,  sicche'  l'avere attribuito la cognizione dei primi al
giudice  ordinario  e  quella  dei  secondi  al  giudice  militare si
risolverebbe  in  una  disparita'  di  trattamento priva di qualsiasi
fondamento giustificativo.
    Secondo  il  tribunale militare di Padova sarebbe inoltre violato
l'art. 25,  primo  comma,  della Costituzione, poiche' per i reati in
questione  i  tribunali  militari  sarebbero  da  considerare giudice
naturale.
    Poiche' tutte le ordinanze pongono analoghe questioni, i relativi
giudizi vanno riuniti per essere decisi con un'unica sentenza.

    2. - La questione non e' fondata.
    E'  orientamento  consolidato nella giurisprudenza costituzionale
che  l'art. 103,  terzo comma, della Costituzione, nel consentire una
giurisdizione  dei  tribunali  militari  anche  in tempo di pace, non
pone,  in  loro  favore, una competenza inderogabile in confronto del
giudice  ordinario,  poiche' e' invece quest'ultima che, diversamente
da  quanto  ritengono  i  remittenti, deve essere considerata, per il
tempo di pace, la giurisdizione "normale".
    Alla definizione dei rispettivi ambiti delle due giurisdizioni, e
del loro reciproco atteggiarsi sul piano costituzionale, questa Corte
e' pervenuta muovendo da una premessa interpretativa chiarificatrice.
L'avverbio  "soltanto",  utilizzato  nell'art. 103, non identifica il
carattere  esclusivo  di  una riserva, ma sta ad esprimere l'esigenza
che  la  giurisdizione  militare  in  tempo di pace sia rigorosamente
circoscritta  entro  limiti invalicabili, nel senso che essa riguarda
solo i reati militari commessi da appartenenti alle Forze armate. Non
vale  l'inverso:  la  giurisdizione ordinaria, non incontrando per il
tempo  di  pace  limiti  di tal genere, ben puo' essere preferita dal
legislatore  concorrendo interessi valutati come preminenti (sentenze
nn. 78 del 1989 e 207 del 1987).
    Ora,  l'attribuzione  della  materia  dell'obiezione di coscienza
alla   giurisdizione  del  giudice  ordinario  costituisce  il  punto
d'arrivo  di  un  itinerario segnato sia da sentenze di questa Corte,
che  hanno  fatto valere gli insuperabili limiti costituzionali della
giurisdizione  militare,  sia  da  successive  scelte legislative, le
quali, facendo leva sulla potenziale espansivita' della giurisdizione
ordinaria,    sono    protese   alla   salvaguardia   di   beni   non
irragionevolmente stimati come prevalenti.

    3.  -  Il  percorso  che  si  e'  concluso con l'estensione della
giurisdizione   ordinaria   a  tutta  la  materia  dell'obiezione  di
coscienza  prese  avvio  dalla  sentenza  n. 113 del 1986, che ebbe a
dichiarare  costituzionalmente  illegittimo  l'art. 11 della legge 15
dicembre  1972,  n. 772,  non  piu'  vigente,  nella  parte  in  cui,
attraverso  l'equiparazione  "ad ogni effetto penale" degli obiettori
di  coscienza  ammessi  a  prestare  servizio  sostitutivo  civile ai
cittadini  che  prestano servizio militare, finiva con l'assoggettare
alla  giurisdizione militare gli stessi obiettori, anche nell'ipotesi
in  cui  questi,  in  conseguenza  dell'accoglimento della domanda di
ammissione,  avevano  perduto  lo  status  di  militari acquisito con
l'arruolamento   e   non  potevano  quindi  essere  piu'  considerati
"appartenenti   alle   Forze  armate".  In  altre  parole,  si  erano
oltrepassati  i  limiti  che rigorosamente circoscrivono, in tempo di
pace, l'eccezionale giurisdizione dei tribunali militari.
    In quella sentenza l'espansione della giurisdizione ordinaria non
era peraltro completa ed istituzionalizzata, poiche' veniva affermata
come  semplice riflesso dei limiti costituzionali della giurisdizione
militare  in  tempo di pace; limiti che, di fronte ad obiettori ormai
privi  dello  status  di  militari,  non  avrebbero potuto non essere
ribaditi in tutta la loro cogenza.

    4.   -   L'allargamento  della  giurisdizione  ordinaria  fino  a
comprendere  in  essa,  non  piu'  singole  fattispecie,  ma l'intera
materia  dell'obiezione di coscienza e' opera del legislatore, che ha
proiettato  sul  piano della giurisdizione il principio di protezione
dei diritti della coscienza, la cui configurazione unitaria era stata
affermata,  nell'ambito  del  diritto  costituzionale sostanziale, da
alcune  pronunce successive di questa Corte e segnatamente, nella sua
formulazione  piu'  compiuta  e  pregnante,  dalla sentenza n. 43 del
1997,  nella  quale  quel  principio  era  stato desunto dall'univoco
convergere   degli   artt. 2,   3,   19  e  21,  primo  comma,  della
Costituzione.
    L'obiezione  di  coscienza  nella  legge  n. 230  del 1998 assume
rilievo  non  solo  nelle  ipotesi  in cui forma oggetto di un vero e
proprio  diritto del cittadino a rimanere estraneo alle Forze armate,
ma  anche  in quelle nelle quali essa e' addotta a motivo del rifiuto
del  servizio  militare da parte di chi non abbia neppure richiesto o
comunque non abbia ottenuto l'ammissione al servizio civile (art. 14,
comma  2). La mera allegazione di motivi di coscienza che ostano alla
prestazione  del  servizio  militare, seppure non comporta di per se'
alcuna  legittima dismissione del gia' assunto status di militare, e'
valutata   dal   legislatore   come   sufficiente   ad  escludere  la
giurisdizione militare e a preferirle la giurisdizione dell'autorita'
giudiziaria  ordinaria.  Se  si  considera  poi  che con questa legge
contro  il  diniego  di ammissione al servizio civile e' dato ricorso
non  piu' al giudice amministrativo, come accadeva nella legislazione
previgente,  ma  alla  autorita' giudiziaria ordinaria, alla quale e'
pure  devoluta la competenza a disporre fino alla sentenza definitiva
la  sospensione  dell'efficacia  del provvedimento di reiezione della
domanda  o  del  decreto  di  decadenza  dal  diritto  di prestare il
servizio civile (art. 5, comma 4), risulta quanto mai evidente che la
scelta  del  legislatore e' stata quella di unificare sul piano della
giurisdizione  l'intero  fenomeno  dell'obiezione e di conferire alle
manifestazioni  della  coscienza un unitario statuto giurisdizionale,
destinato  ad  esercitare la propria capacita' di attrazione tutte le
volte  in cui tali diritti vengano comunque evocati dal cittadino per
resistere  alla  richiesta  di  adempiere  all'obbligo di prestare il
servizio militare.
    Questa  scelta  non  contrasta con l'art. 103, terzo comma, della
Costituzione.  Se e' vero che questa disposizione non contiene alcuna
clausola di riserva esclusiva di giurisdizione a favore dei tribunali
militari in tempo di pace e non proibisce al legislatore di estendere
la  giurisdizione  del  giudice ordinario quando sussistano interessi
valutati  non irragionevolmente come preminenti, l'unificazione sotto
la   giurisdizione   del   giudice  ordinario  di  tutta  la  materia
dell'obiezione  di coscienza, anche per gli aspetti che per l'innanzi
erano  affidati  alla  cognizione  del  giudice  militare o di quello
amministrativo,    rientra   appieno   nella   discrezionalita'   del
legislatore e non puo' essere tacciata di irragionevolezza.

    5. - Una volta escluso che l'art. 14, comma 3, della legge n. 230
del  1998  contraddica  ai  principi  che nell'art. 103, terzo comma,
della  Costituzione,  presiedono  al riparto delle due giurisdizioni,
ordinaria  e  militare,  cade  l'ulteriore  censura,  invero priva di
autonomia  concettuale, rivolta nelle ordinanze di remissione, contro
il medesimo art. 14, sul parametro dell'art. 3 della Costituzione. La
diversita'  di  trattamento, sul piano della giurisdizione, dei reati
di  rifiuto del servizio militare per motivi di coscienza e di quelli
di   mancanza   alla   chiamata   non   e'  priva  di  un  fondamento
giustificativo, ravvisabile, appunto, nell'esigenza di approntare uno
statuto  giurisdizionale  unitario  per il fenomeno dell'obiezione di
coscienza.  Ne',  infine,  possono  essere condivisi i rilievi che il
tribunale  militare  di  Padova  avanza alla luce dell'art. 25, primo
comma,  della  Costituzione:  i  militari  che incorrono nel reato di
rifiuto  di cui all'art. 14, comma 2, della legge n. 230 del 1998 non
vengono,  dalla  disposizione  censurata,  distolti  dal loro giudice
naturale.  Per  essi  il giudice naturale, precostituito per legge, a
seguito  della  nuova  disciplina  dell'obiezione di coscienza, e' il
giudice ordinario.
                          Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    riuniti i giudizi,
    Dichiara  non fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 14, comma 3, della legge 8 luglio 1998, n. 230 (Nuove norme
in materia di obiezione di coscienza), sollevata, in riferimento agli
artt. 3  e 103, terzo comma, della Costituzione, dalla Corte militare
d'appello,  sezione  distaccata  di  Verona,  e,  in riferimento agli
artt. 3, 25, primo comma, e 103, terzo comma, della Costituzione, dal
tribunale militare di Padova, con le ordinanze indicate in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2000.
                        Il presidente: Guizzi
                      Il redattore: Mezzanotte
                      Il cancelliere: Fruscella
    Depositata in cancelleria il 12 luglio 2000.
              Il direttore della cancelleria: Fruscella
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