N. 379 SENTENZA 12 - 27 luglio 2000
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Fallimento - Azione revocatoria - Pagamenti di debiti liquidi ed esigibili effettuati dal fallito nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento - Assoggettamento alla revocatoria - Asserita lesione del principio di eguaglianza e di ragionevolezza, di quello della tutela processuale del creditore e della liberta' di iniziativa economica dei terzi contraenti del fallito - Non fondatezza della questione. - R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 67, secondo comma. - Costituzione, artt. 3, primo comma, 24, primo e secondo comma, e 41, primo comma.(GU n.32 del 2-8-2000 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Cesare MIRABELLI; Giudici: Francesco GUIZZI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare RUPERTO, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Franco BILE;
ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), promosso con ordinanza emessa il 12 luglio 1999 dal Tribunale di Monza nel procedimento civile vertente tra il Fallimento "Progetto Cam" s.r.l. e la Banca popolare di Milano, iscritta al n. 590 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell'anno 1999; Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei Ministri; Udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2000 il giudice relatore Fernando Santosuosso; Ritenuto in fatto 1. - Nel corso del giudizio civile promosso dalla curatela del fallimento della P.C. s.r.l. nei confronti di una banca il Tribunale di Monza in composizione monocratica ha sollevato questione di legittimita' costituzionale dell'art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa), in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, primo e secondo comma e 41, primo comma, della Costituzione, nella parte in cui tale norma assoggetta a revocatoria fallimentare anche atti leciti e doverosi come i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili effettuati dal fallito, nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, con mezzi normali di pagamento. Osserva innanzitutto il giudice a quo che la questione e' rilevante ai fini della decisione, perche' la domanda sulla quale egli e' chiamato a pronunciarsi impone l'applicazione della norma impugnata; oltre a cio', la domanda non sembra poter essere respinta ictu oculi, perche' da un lato il curatore del fallimento ha gia' dimostrato che la banca convenuta era a conoscenza dello stato di decozione del debitore, dall'altro i pagamenti eseguiti da quest'ultimo in favore della banca risultano compiuti in presenza di scoperti di conto corrente, sicche' dovrebbero considerarsi revocabili in base alla pacifica giurisprudenza della Cassazione. Cio' posto in punto di rilevanza, il Tribunale di Monza ritiene che la norma impugnata sia in conflitto con i citati parametri costituzionali. La violazione dell'art. 3 della Costituzione consegue all'orientamento giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza 11 novembre 1998, n. 11350, ormai da assumersi in termini di diritto vivente, secondo cui le imprese esercenti un'attivita' in regime di monopolio legale sono escluse dalla revocatoria fallimentare, in quanto il monopolista non puo' rifiutarsi di contrarre con chiunque glielo chieda. Sostiene il giudice a quo che le argomentazioni usate dalle Sezioni unite, peraltro da lui non condivise in relazione al caso del monopolista, consentono di ravvisare una violazione del principio di uguaglianza, perche', trattandosi della revoca di atti solutori, non c'e' motivo per differenziare il pagamento compiuto in favore del monopolista legale rispetto a quello eseguito in favore di qualsiasi altro creditore. La revocatoria si giustifica per gli atti previsti dall'art. 67, primo comma, legge fallimentare; ma tutti i pagamenti di cui al secondo comma di detto articolo debbono ritenersi atti dovuti, indipendentemente dalla situazione di chi li riceve, perche' il debitore e' obbligato ad eseguirli ed anche il creditore e' tenuto a riceverli, a meno di non voler incorrere nella mora credendi; da tanto deriva che la diversificazione compiuta dalle Sezioni unite si risolve in una violazione dell'art. 3 della Costituzione. Quanto agli ulteriori parametri costituzionali invocati, il rimettente osserva che il sistema attualmente vigente priva tutti i creditori, senza distinzioni, della possibilita' di fruire di una tutela processuale preventiva contro il rischio di revocatoria dei pagamenti ricevuti. Ed infatti, nonostante una certa giurisprudenza riconosca al creditore il diritto di avvalersi dell'art. 1461 cod. civ. in presenza di una situazione di dissesto economico della controparte, vero e' che, qualora il debitore, benche' in difficolta', offra regolarmente il proprio adempimento, il creditore deve accettarlo, perche' l'art. 1461 citato non puo' essere, in realta', applicato in un caso del genere. Ne deriva che l'unico strumento a disposizione del creditore per evitare le conseguenze della revocatoria fallimentare e' quello di rifiutare l'adempimento, incorrendo negli effetti della mora credendi anche se il creditore, per costante giurisprudenza, non puo' mai ritenersi obbligato a tale comportamento, essendo l'adempimento un atto comunque lecito. E' evidente, percio', che ammettere l'esercizio della revocatoria fallimentare nei confronti dei pagamenti eseguiti con mezzi normali e' irrazionale e non risulta in sintonia con la struttura tipica di quest'azione, che si fonda sul principio della frode alle ragioni dei creditori; ne' costituisce adeguata tutela di questi ultimi il fatto che la curatela del fallimento sia onerata della prova circa la cosiddetta scientia decoctionis. Il sacrificio delle ragioni creditorie in funzione dell'attuazione della par condicio potrebbe legittimamente giustificarsi, a detta del Tribunale di Monza, soltanto in relazione ai pagamenti eseguiti successivamente alla dichiarazione di fallimento, secondo il dettato dell'art. 44 della legge fallimentare, perche' l'esistenza di una procedura gia' aperta da' ragione della deroga alle regole comuni che impongono al debitore l'adempimento dei debiti scaduti ed al creditore l'accettazione di tale adempimento. E d'altronde il debitore, benche' ormai prossimo al fallimento, e' tenuto all'adempimento delle proprie obbligazioni secondo quanto risulta indirettamente dagli artt. 54 e 55 della legge fallimentare, che pongono a suo carico l'onere di ristorare gli interessi moratori maturati prima della dichiarazione di fallimento a causa dell'eventuale inadempimento. Nella norma impugnata, infine, il giudice a quo ravvisa anche una violazione dell'art. 41 Cost., poiche' la stessa "pone un limite insormontabile alla autodeterminazione dei terzi contraenti del fallito anche nel libero esercizio di un'attivita' economica perfettamente lecita, non gia' impedendola direttamente (...), ma sanzionandola successivamente nella fase del rapporto riguardante l'esecuzione satisfattiva". 2. - E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la sollevata questione sia dichiarata inammissibile o comunque infondata. Considerato in diritto 1. - Viene sollevata questione di legittimita' costituzionale dell'art. 67, secondo comma, della legge fallimentare, nella parte in cui assoggetta a revocatoria fallimentare anche atti leciti e doverosi come i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, effettuati dal fallito nell'anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, con mezzi normali di pagamento. Il giudice del Tribunale di Monza ravvisa un contrasto della predetta norma con gli articoli 3, 24 e 41 Cost.: a) per lesione dei principi di ragionevolezza e di uguaglianza, in relazione all'orientamento giurisprudenziale delle Sezioni unite della Corte di cassazione (sentenza 11 novembre 1998, n. 11350), assunto in termini di diritto vivente, secondo cui le imprese esercenti un'attivita' in regime di monopolio legale sono escluse dalla revocatoria fallimentare, non esistendo in subiecta materia un'effettiva distinzione tra la posizione del legalmonopolista e quella di qualsiasi altro creditore; b) per mancanza di una tutela processuale adeguata per il creditore di prestazioni liquide ed esigibili, che si trova costretto a scegliere tra l'accettazione dell'adempimento offertogli dal debitore, con conseguente esposizione al rischio della revocatoria, ed il rifiuto del medesimo, con applicazione delle norme sulla mora credendi; il tutto in presenza di un pagamento che il debitore aveva l'obbligo di compiere e che il creditore aveva il pieno diritto - dovere di ricevere; c) per lesione della liberta' d'iniziativa economica, in quanto la norma "pone un limite insormontabile alla autodeterminazione dei terzi contraenti del fallito anche nel libero esercizio di un'attivita' economica perfettamente lecita, non gia' impedendola direttamente (...), ma sanzionandola successivamente nella fase del rapporto riguardante l'esecuzione satisfattiva". 2. - La questione e' infondata. 3. - L'azione revocatoria fallimentare, pur collocandosi sulla linea della revocatoria ordinaria e pur essendo, percio', un mezzo di conservazione della garanzia patrimoniale, si inserisce nel particolare a'mbito della procedura fallimentare, la quale ha connotati peculiari che danno ragione delle notevoli diversita' esistenti tra i due tipi di azione. E' noto che principi animatori della materia fallimentare sono quelli dell'universalita' dell'esecuzione (che si rivolge contro l'intero patrimonio del fallito anziche' contro uno o piu' singoli beni) e della sua concorsualita', da intendersi nel senso che tutti i creditori hanno diritto di partecipare all'attivita' di liquidazione e di soddisfarsi sul ricavato in posizione di tendenziale parita'. La centralita' della par condicio creditorum - rafforzata dalla previsione, in certi casi, del reato di bancarotta - e' stata ribadita anche da questa Corte (v. sentenze n. 32 del 1992 e n. 204 del 1989), costituendo nell'attuale disciplina la chiave di lettura di vari istituti, fra i quali la revocatoria fallimentare. E' quindi evidente che tutelare le ragioni del concorso tra i creditori puo' significare anche derogare alle regole generali, per consentire la ricostruzione del patrimonio del fallito e ripartire tra tutti i creditori, nel rispetto delle cause legittime di prelazione, eventuali perdite. In relazione alle esigenze ora descritte, il legislatore ha costruito l'azione revocatoria fallimentare per contemperare l'interesse dei creditori di recuperare al patrimonio del fallito la maggiore quantita' di beni, in vista dell'esecuzione concorsuale, con quello al normale svolgimento dell'attivita' economica ed alla stabilita' dei diritti. La legge, percio', ha modulato la revocatoria in relazione alla diversita' degli atti compiuti dal fallito nel cosiddetto periodo "sospetto" che precede la dichiarazione di fallimento periodo che puo' essere di uno oppure di due anni - graduando l'onere della prova della conoscenza o dell'ignoranza dello stato di insolvenza a seconda della maggiore o minore idoneita' dell'atto a suscitare il ragionevole dubbio che possa essere stato compiuto allo scopo di favorire o danneggiare certi creditori. Rispetto a tale coerente disegno normativo, altre leggi ritengono tuttavia giustificate varie deroghe all'art. 67, espressamente disponendo che determinati atti o pagamenti non siano assoggettati a revocatoria fallimentare (cosi' l'art. 6 della legge 21 febbraio 1991, n. 52, richiamato anche dal giudice a quo e l'art. 4, comma 3, della legge 30 aprile 1999, n. 130). 4. - L'ordinanza di rimessione, anche in considerazione dell'esistenza di questi casi legali di esclusione delle normali regole della revocatoria fallimentare, invoca - a sostegno della presunta lesione del principio di eguaglianza ed al fine di una generale esclusione della revocatoria prevista dal secondo comma dell'art. 67 - l'ulteriore deroga del monopolista legale, riconosciuta dalla citata sentenza delle Sezioni unite della Cassazione. Da quest'ultima esclusione, di derivazione giurisprudenziale, il Tribunale di Monza, pur dimostrando di non condividere le argomentazioni della Corte suprema, deduce che gli atti di pagamento eseguiti con mezzi normali nell'anno precedente la dichiarazione di fallimento non dovrebbero essere mai revocabili, poiche' nessuna sostanziale differenza e' ravvisabile tra il monopolista legale e qualsiasi altro creditore. La censura del giudice rimettente in riferimento al principio di eguaglianza e' priva di fondamento. Egli, infatti, invoca un tertium comparationis consistente non in una norma derogatoria, ma in un'interpretazione della giurisprudenza su una particolare ipotesi di esonero della revocatoria fallimentare (quella del monopolista), per farne discendere la necessita', sul piano costituzionale, della caducatoria della stessa regola prevista dalla norma impugnata per tutte le ipotesi di pagamento di debiti liquidi ed esigibili con mezzi normali. Ed e' altresi' innegabile che le due situazioni giuridiche messe a confronto non sono omogenee. A quest'ultimo proposito, senza prendere posizione sulla delicata questione, dibattuta dinanzi ai giudici ordinari e prospettata nell'ordinanza di rimessione, circa la possibilita' o meno di riconoscere una differenza tra creditore legalmonopolista ed altri creditori in relazione al diritto di avvalersi dell'art. 1461 cod. civ. in caso di crisi patrimoniale del debitore, certo e' che, ai sensi dell'art. 2597 cod. civ., il monopolista, a differenza degli altri imprenditori, ha l'obbligo di contrattare con chiunque richieda le prestazioni che formano oggetto dell'impresa, con il consequenziale affidamento sulla controprestazione. 5. - In ordine alla censura di irragionevolezza della norma, e' sufficiente osservare che l'assoggettabilita' degli atti leciti di pagamento alla revocatoria prevista dal secondo comma dell'art. 67 legge fallimentare trova adeguata giustificazione nelle esigenze di tutela della par condicio cui sopra si e' fatto cenno. Il legislatore non ha trascurato di considerare le differenze rispetto alle ipotesi di cui al primo comma di detta norma (pagamenti con mezzi anormali e atti a titolo oneroso viziati da grave squilibrio nella controprestazione), riservando per i debiti scaduti e per gli atti normali di pagamento un trattamento meno rigoroso, che si concretizza nella maggior brevita' del periodo sospetto e nell'onere della prova della scientia decoctionis posto a carico del curatore. Appare improprio, inoltre, prospettare l'alternativa degli strumenti a disposizione del creditore nel rifiuto dell'adempimento, con la conseguente mora credendi o nell'accettazione del pagamento col rischio della revocatoria; e cio' per farne discendere una violazione dell'art. 24 della Costituzione. Da un lato, invero, questa norma costituzionale riguarda le garanzie processuali e non quelle sostanziali; dall'altro, il creditore non incorre nella mora quando non riceve il pagamento per un motivo legittimo (art. 1206 cod. civ.). In ogni caso, se egli accetta detto pagamento, potenzialmente soggetto al rischio della revocatoria, non necessariamente dovra' soccombere nell'eventuale giudizio che il curatore dovesse promuovere, proprio in considerazione delle precedenti osservazioni sull'onere della prova. 6. - Ugualmente priva di fondamento e' la censura proposta dal rimettente, peraltro in via residuale, relativa all'art. 41 della Costituzione. Deve in proposito considerarsi che tale norma, dopo avere proclamato la liberta' dell'iniziativa economica privata, soggiunge che essa "non puo' svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale". Invero questa Corte ha precisato, in altra e diversa situazione, che l'attuale regolazione della revocatoria fallimentare "rientra comunque nel bilanciamento - non irragionevolmente operato dal legislatore nell'esercizio della sua discrezionalita' - con la utilita' sociale correlata alla esigenza di un sano e corretto funzionamento del mercato e con la parita' di trattamento tra tutti i creditori in presenza della crisi dell'impresa debitrice" (sentenza n. 110 del 1995).
Per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 67, secondo comma, del regio decreto 16 marzo 1942, n. 267 (Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa) sollevata, in riferimento agli articoli 3, primo comma, 24, primo e secondo comma e 41, primo comma, della Costituzione, dal giudice unico del Tribunale di Monza con l'ordinanza di cui in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 12 luglio 2000. Il Presidente: Mirabelli Il redattore: Santosuosso Il cancelliere: Di Paola Depositata in Cancelleria, il 27 luglio 2000 Il direttore della cancelleria: Di Paola 00C0885