N. 533 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 gennaio 2000

Ordinanza  emessa  il  20  gennaio  2000  dal tribunale di Milano nel
procedimento  civile  vertente  tra  Brigada  Giuseppina e Fallimento
S.n.c. Italpneus di Villa Angelo & c. ed altri

Fallimento  - Dichiarazione di fallimento delle societa' - Estensione
ai  soci  illimitatamente responsabili dopo che essi hanno perso tale
qualita'  a  causa  di  recesso  -  Mancata  previsione di un termine
ragionevole  oltre  cui  la  pronuncia  estensiva non e' consentita -
Discriminazione rispetto alla posizione dell'imprenditore individuale
-  Irragionevolezza  -  Richiamo  alla  sent.  n. 66/1999 della Corte
costituzionale.
- R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 147.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.40 del 27-9-2000 )
                            IL TRIBUNALE
    Riunito  in  camera  di  consiglio  in  data  20 gennaio 2000 per
  discutere la causa civile avente ad oggetto: opposizione a sentenza
  di fallimento; iscritta al numero di ruolo generale sopra indicato,
  promossa  con  atto di citazione notificato in data 22 gennaio 1999
  da  Giuseppina  Brigada,  rappresentata  e difesa dall'avv.to Marco
  Moro   Visconti  per  delega  a  margine  dell'atto  di  citazione,
  elettivamente  domiciliata  presso  lo studio del difensore sito in
  Milano Piazza S. Pietro in Gessate n. 2 Attrice;
    Contro  Fallimento  s.n.c.  Italpneus  di Villa Angelo & c. e dei
  signori  Villa  Angelo  e  Fagioli  Giancarlo  nonche' della sig.ra
  Brigada   Giuseppina,   in  persona  del  curatore,  rag.  Calogero
  Azzaretto,  rappresentato  e difeso per delega in calce all'atto di
  citazione dall'avv.to Luciana Clerici, elettivamente domiciliato in
  Milano,  presso  lo studio del difensore via Visconti Venosta n. 3;
  convenuto   e   Michelin  Italia  S.p.a.,  rappresentata  e  difesa
  dall'avv.to Antonio D'Episcopo per delega in calce alla comparsa di
  costituzione,   elettivamente  domiciliata  presso  la  studio  del
  medesimo, in Milano, via Podgora n. 5; convenuta, terzo chiamato, e
  Goodyear Italiana s.p.a. rappresentata e difesa per delega in calce
  alla  comparsa  di  costituzione  e  risposta  dagli avv.ti Susanna
  Beltrame  e  Giulio Tognazzi del foro di Roma e dall'avv.to Daniela
  Meregalli  del  foro di Milano, elettivamente domiciliata presso lo
  studio  di quest'ultima in Milano via Carducci 15; contumace, terza
  chiamata.
    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    La  controversia  sottoposta all'esame del tribunale non riguarda
  il fallimento della S.n.c. Italpneus di Villa Angelo & c. bensi' la
  legittimita'  della  sua  estensione alla socia Brigada Giuseppina,
  illimitatamente   responsabile,   estensione  effettuata  ai  sensi
  dell'art. 147 l.f. sul presupposto che lo stato di insolvenza della
  societa'  era  gia'  insorto  alla  data  del  recesso  della socia
  Brigada.
    I  momenti cronologici che scandiscono l'evoluzione della vicenda
  possono  essere  sintetizzati come segue: in data 18 giugno 1998 il
  tribunale  di  Milano  ha  dichiarato  il fallimento della societa'
  S.n.c.  Italpneus  di  Villa Angelo & c, e dei soci illimitatamente
  responsabili,  con  ricorso  notificato in data 26 novembre 1998 il
  curatore  ha  richiesto  il  fallimento  in  estensione  della sig.
  Brigada Giuseppina, socia receduta dalla Italpneus in data 6 maggio
  1997.  Il  tribunale di Milano con sentenza del 29/30 dicembre 1998
  ha  dichiarato  il  fallimento  in  estensione  della  sig. Brigada
  Giuseppina.
    In   tale   situazione   l'opponente   ha  invocato  il  disposto
  dell'art. 10   l.f.   quale  elemento  impeditivo  dell'estensione,
  sottolineando  di  essere  stata  dichiarata  fallita a distanza di
  oltre l'anno dalla perdita della qualita' di socia.
    Stando  al paradigma interpretativo anteriore alla sentenza della
  Corte   costituzionale   del  12  marzo  1999  n. 66  assolutamente
  consolidato   in   giurisprudenza,  tale  motivo  di  lagnanza  era
  destinato a sicuro insuccesso, in quanto la sfera applicativa degli
  artt. 10    e   11   l.f.   si   riteneva   ristretta   all'ipotesi
  dell'imprenditore  individuale,  senonche' la pronunzia della Corte
  costituzionale  sopra  richiamata  ha  modificato  il  panorama  di
  riferimento,   determinando   una   serie   di   questioni  il  cui
  assestamento sistematico appare tutt'altro che agevole.
    L'argomentazione  sviluppata  con  la  sentenza 66/1999 si dipana
  attraverso   le   seguenti   proposizioni.   L'assoggettabilita'  a
  fallimento    dell'imprenditore    cessato    postula,   a   tutela
  dell'interesse  generale alla certezza delle situazioni giuridiche,
  la  fissazione  di  un  limite  temporale  entro  cui  possa essere
  pronunciato il fallimento.
    Un  limite  appare tanto piu' necessario in quanto le conseguenze
  del  fallimento possono ricadere, non solo sul diretto interessato,
  ma  anche sui terzi che con lui abbiano avuto a che fare. L'art. 10
  l.f.,  contemperando  le opposte esigenze di tutela dei creditori e
  di  certezza delle situazioni giuridiche, fissa detto termine in un
  anno.     Qualora fallisca una societa', l'art. 147 l.f. prevede il
  fallimento per ripercussione del socio illimitatamente responsabile
  e  non  puo'  dubitarsi  che  anche in tal caso ricorrano le stesse
  esigenza  di  tutela  a  cui  risponde l'art. 10 l.f., in modo che,
  simmetricamente,  la  soggezione  al  fallimento  del socio che sia
  receduto  dalla  societa'  va circoscritta entro un rigoroso limite
  temporale,   che,   non   risultando   fissato  dall'art. 147  l.f,
  dev'essere  rinvenuto  all'interno del sistema e precisamente nella
  stessa  norma  dettata  dall'art. 10  l.f.,  che "in considerazione
  della  sua ratio assume una portata generale ed e', in quanto tale,
  applicabile  anche  al fallimento degli ex soci".     Sulla base di
  dette  considerazioni,  la  Corte  e'  pervenuta  ad  una pronuncia
  cosiddetta  "interpretativa  di  rigetto"  in  ordine  al contenuto
  precettivo  dell'art. 147,  il  quale dovrebbe intendersi nel senso
  che  il  fallimento  dei soci illimitatamente responsabili receduti
  puo'  essere  dichiarato  soltanto  entro il termine di un anno dal
  venir meno del rapporto sociale.
    E'  diffusa  l'opinione  che  una pronuncia del genere, in virtu'
  della  sua  fisionomia  puramente interpretativa, non abbia portata
  strettamente  vincolante  al  di  fuori  del  caso deciso, giacche'
  formalmente  essa  non  incide  sul  corpus normativo, ne' in senso
  eliminativo,  ne'  in  senso  integrativo, ma, per l'appunto, opera
  esclusivamente sul piano esegetico.
    Cio',   a   fronte  dell'impatto  davvero  enorme  che  il  nuovo
  orientamento  della Consulta e' destinato ad assumere nella realta'
  giudiziaria, ha consentito ben presto che le perplessita' di alcune
  Corti  di  merito si traducessero in episodi di non adeguamento (v.
  trib.  Napoli  7  aprile  1999  opp. fall. Parrella Roberto e trib.
  Padova  10  maggio  1999 opp. fall. De Checchi Ferdinando, i quali,
  rifiutando   apertamente  l'interpretazione  proposta  dai  giudici
  costituzionali,   hanno  confermato  in  casi  del  tutto  identici
  l'orientamento    tradizionale,    oppure    suggerito    soluzioni
  alternative).
    Questo  tribunale  si  trova  a  dover affrontare una fattispecie
  analoga  a  quella  esaminata dalla sentenza n. 66/1999 della Corte
  costituzionale   e,   tralasciando   di   affrontare  la  questione
  dell'efficacia della sentenza interpretativa di rigetto (gran parte
  della  dottrina sostiene il carattere non vincolante), risolvendosi
  alla  fine  in  un risultato improduttivo dopo che il giudice delle
  leggi,  nel  ruolo di sovrano custode dei valori costituzionali, ha
  ormai   sancito   l'inadeguatezza   della  visione  corrente  circa
  l'operativita'  temporale  del  meccanismo  previsto  dall'art. 147
  l.f., il tentativo di mantenere il vecchio paradigma interpretativo
  o  di proporre soluzioni dissonanti appare improduttivo e destinato
  ad aumentare il disorientamento.
    Si  valuta  quindi  inevitabile rimettere la questione alla Corte
  costituzionale ravvisando non manifestamente infondata la questione
  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 147 l.f. nella parte in
  cui non contiene la precisazione di un termine ragionevole entro il
  quale    puo'   essere   dichiarato   il   fallimento   del   socio
  illimitatamente  responsabile  dopo che esso ha perso tale qualita'
  per recesso.
    Gli  argomenti  posti  a fondamento della presente ordinanza sono
  sostanzialmente   quelli  gia'  portati  all'attenzione  del  Corte
  costituzionale  con  l'ordinanza  del  16  settembre 1999 di questo
  tribunale  ed  ai  medesimi  ci si riporta atteso che la diversita'
  della   fattispecie   non   incide  sui  termini  essenziali  della
  questione.
    Si  impone,  prima  di  affrontare  argomentazioni esclusivamente
  giuridiche,  chiarire  la  realta'  dei  fatti.  Sarebbe  del tutto
  ipocrita   sottacere   che   gli  usuali  tempi  delle  istruttorie
  prefallimentari  presso  i tribunali italiani rendono irrealistico,
  in  una visione statistica allargata, il rispetto generalizzato del
  termine di un anno previsto dall'art. 10 l.f.
    Per  sincerarsene,  bisogna  domandarsi  qual'e'  il percorso che
  conduce  alla  dichiarazione  di  fallimento  nel  caso  in  cui il
  debitore   cessi  l'esercizio  dell'impresa  dopo  avere  contratto
  obbligazioni per le quali si rende subito insolvente.
    Ebbene,  il  creditore,  almeno  di regola, dopo avere constatato
  l'inadempimento  e  inviato  vanamente una diffida, dovra' agire in
  giudizio  per  ottenere  l'accertamento  del proprio diritto (nella
  migliore  delle  ipotesi  in  via monitoria, sperando di non subire
  strumentali   opposizioni);   dovra'   poi   promuovere   un'azione
  esecutiva, verificarne l'infruttuosita' e presentare infine istanza
  di fallimento; ottenuta la fissazione dell'udienza di comparizione,
  dovra'  notificare  il  ricorso  al  debitore  e  restare in attesa
  dell'udienza collegiale. Al termine di tutto cio', e' probabile che
  l'anno sia trascorso.
    Nella   situazione  descritta  (gia'  stigmatizzata  dalla  Corte
  europea  dei  diritti  dell'uomo),  non  ci  si puo' nascondere che
  l'interpretazione restrittiva dell'art. 10 l.f. svolgeva in pratica
  la  funzione  di  relegare  all'ipotesi  piu' marginale quella che,
  senza  esagerazioni, puo' definirsi una sorta di "trappola" legale,
  che,  da  un  lato,  rischia  di proteggere i debitori piu' furbi o
  fortunati   e,   dall'altro,   di  affrettare  precipitosamente  il
  fallimento di quelli piu' sprovveduti o sfortunati, contrassegnando
  le   relative   istruttorie   prefallimentari   da  una  speditezza
  sconosciuta   nella   normalita'   dei   casi,   che  impedisce  di
  approfondire  la  conoscenza  dello  stato di crisi e preclude oqni
  opportunita' di perseguire soluzioni stragiudiziali.
    Immaginando  di  generalizzare  l'applicazione  del termine di un
  anno  al socio illimitatamente responsabile che non e' piu' tale al
  momento  della  dichiarazione del fallimento sociale, l'area minata
  s'allarga notevolmente.
    Il   procedimento   accennato,   infatti,  dovra'  svolgersi  nei
  confronti  della  societa'  debitrice,  mentre  solo  in  un  tempo
  necessariamente  ancora  piu'  tardo  il  curatore  avra'  modo  di
  verificare  l'esistenza  di  obbligazioni  riferibili all'eventuale
  pregressa    permanenza    nella    compagine   sociale   di   soci
  illimitatamente  responsabili,  come  tali  potenziali  destinatari
  della domanda estensiva.
    Pertanto,  se  il  socio  ha  avuto  l'accortezza di uscire dalla
  compagine  al  delinearsi dei primi sintomi d'insolvenza, e' facile
  prevedere   che   il  limite  di  un  anno  gli  consentira'  quasi
  sicuramente  di  evitare  la dichiarazione di fallimento, tantopiu'
  che,  mentre la cessazione dell'impresa individuale coincide con la
  chiusura  esteriore  dell'attivita'  e  dunque  accende  un segnale
  d'allarme  per  i creditori, il semplice defilarsi di un socio, non
  inibendo  l'operativita' dell'azienda, passa molto piu' inosservato
  (la  motivazione  della  sentenza  dichiarativa di fallimento della
  socia  receduta  Brigada  Giuseppina  e'  altamente  illuminante  e
  conforme a quanto esposto).
    Passando all'analisi giuridica, il punto di partenza, ovviamente,
  non  puo' che essere rappresentato dal testo dell'art. 147 l.f., il
  quale  non  esprime  alcun  limite  temporale  per l'estensione del
  fallimento   ai   soci   illimitatamente   responsabili.   In  cio'
  consisterebbe  appunto  la  lacuna  che la Corte costituzionale, in
  relazione al caso del socio receduto, ha ritenuto di colmare in via
  analogica.
    Il  dubbio che la mancata previsione di un limite temporale anche
  per  l'estensione  del  fallimento  al socio receduto leda principi
  costituzionali  non  puo',  come  detto,  ritenersi  manifestamente
  infondato.
    Occorre  verificare  se  questo  dubbio  sia  rimediabile per via
  interpretativa,    in    particolare    servendosi   analogicamente
  dell'art. 10  l.f..  Effettivamente,  visto che tale norma si trova
  nella  parte generale della legge fallimentare, si sarebbe propensi
  ad  ammetterne l'utilizzazione piu' ampia, senonche' una costante e
  risalente  tradizione  giurisprudenziale relega la sua applicazione
  alla sola ipotesi dell'imprenditore individuale.
    In  verita', il testo normativo non suggerisce alcuna limitazione
  in  tal senso, anzi evoca la figura dell'imprenditore disciplinando
  gli    effetti   della   cessazione   dell'attivita'   di   impresa
  indipendentemente  da ogni connotazione di appartenenza; nondimeno,
  a  dispetto  delle  diffuse opinioni dottrinarie che valorizzano la
  lettura   piu'   intuitiva  del  dettato  legislativo,  il  diritto
  giurisprudenziale  "vivente"  ha sempre escluso la portata generale
  dell'art. 10 l.f. muovendo dall'osservazione per cui l'imprenditore
  collettivo  non si estingue fino a quando non abbia estinto tutti i
  suoi debiti.
    Risulta  difficile  negare  la fragilita' di tale motivazione che
  riposa   sostanzialmente  sulla  sovrapposizione  del  concetto  di
  estinzione  del  titolare  dell'impresa  e  di cessazione della sua
  attivita', che pure sono ontologicamente diversi.
    Cio',  tuttavia,  non  ha  impedito  alla  Corte  di avallare con
  perentoria   motivazione  (sen. 180/1998)  l'  interpretazione  del
  diritto  "vivente"  escludendo  ogni profilo di incostituzionalita'
  nella   disparita'  di  trattamento  che  si  viene  a  creare  tra
  imprenditore  individuale  e imprenditore collettivo, senza curarsi
  della certezza delle situazioni giuridiche che, per quanto riguarda
  i terzi, non si atteggiano in modo diverso.
    Con  la decisione 160/1998 la Corte ha, in ogni caso, mostrato di
  non  considerare  l'art. 10  l.f,  norma di portata generale, nella
  misura   in   cui   ne  ha  confermato  l'applicazione  restrittiva
  all'imprenditore individuale.
    Ora, il recupero per via analogica del disposto dell'art. 10 l.f.
  sembra inconciliabile col precedente atteggiamento della Corte, ma,
  in ogni caso, l'operazione ermeneutica appare poco convincente, sia
  per  il luogo dove attinge il principio normativo, sia per il luogo
  dove lo travasa. Sotto il primo profilo, la forza precettiva di una
  proposizione   normativa  non  si  puo'  espandere  e  contrarre  a
  piacimento,    tantopiu'    quando    la    strozzatura    s'annida
  nell'articolazione  centrale  del  passaggio  argomentativo:  ci si
  chiede  come  mai,  se  l'art. 10 l.f. non si applica al fallimento
  delle  societa',  dovrebbe  poi  applicarsi al fallimento dei soci,
  nonostante  che la posizione giuridica di costoro sia evidentemente
  subordinata alle vicende dell'ente a cui appartengono.
    Dopo  aver  rifiutato  l'applicazione  diretta  (non  era nemmeno
  necessaria  l'analogia)  dell'art. 10  l.f.  alle  societa' ed aver
  dunque  confermato  l'interpretazione  restrittiva  di  tale norma,
  appare   francamente   illogico   farne   un   principio   generale
  suscettibile d'applicazione analogica ai soci.
    Sotto il secondo profilo, lacuna significa che la fattispecie non
  e'  regolata  da  alcuna  norma,  ma l'art. 147 l.f., a ben vedere,
  contiene  un  accenno  al  fattore  cronologico  che non puo essere
  obliterato.  Il  secondo  comma,  infatti, prende in considerazione
  l'eventualita'   che   la   posizione   di   socio  illimitatamente
  responsabile   emerga   non   contestualmente,   bensi'  "dopo"  la
  dichiarazione  del fallimento sociale, eppure non pone alcun limite
  al sopravvenire della pronuncia estensiva.
    Davanti  all'impiego  di  un  avverbio  temporale  da  parte  del
  legislatore,  ci  si  aspetterebbe  che la volonta' di contenere la
  posteriorita'  entro  la  particolare  parentesi  di  un anno fosse
  chiarita  espressamente,  se  del  caso con un richiamo all'art. 10
  l.f.
    In  mancanza  di  qualsivoglia  precisazione,  si  e'  portati  a
  concludere  che,  pur  avendo  considerato  l'ipotesi di un ritardo
  nella  dichiarazione di fallimento del socio, la legge abbia inteso
  deliberatamente mantenere sine die la sua soggezione alla procedura
  concorsuale.
    Forse  questo disegno non e' costituzionalmente legittimo, ma non
  pare  ravvisabile  al  riguardo  una vera e propria lacuna sotto il
  profilo temporale nel meccanismo congegnato dall'art. 147 l.f.
    Ne'  l'osservazione  per cui la dizione normativa si riferisce al
  solo  sfasamento  tra  fallimento  sociale  e  fallimento personale
  (anziche'  allo  sfasamento  tra  perdita  della  qualita' di socio
  illimitatamente  responsabile  e fallimento sociale) puo' indurre a
  mutare  opinione, giacche' le esigenze di certezza delle situazioni
  giuridiche   che   inducono   a   porre   un   termine  massimo  al
  sopraggiungere  della  pronuncia  estensiva  si pongono esattamente
  allo stesso modo.
    Invero,   sarebbe   assurdo  lasciar  "consolidare"  in  un  anno
  l'esonero    dal   fallimento   del   socio   receduto   e   tenere
  indefinitamente  nell'incertezza il destino del socio attuale, dopo
  che egli ha comunque perso ogni dominio sull'impresa.
    Anzi,  la nettezza della cesura rappresentata dalla dichiarazione
  del  fallimento  principale  combinata con l'intrinseca esigenza di
  concentrazione  della  procedura  concorsuale  dovrebbero imporre a
  maggior  ragione  il rispetto di un termine perentorio per definire
  la posizione del socio.
    Basti  pensare  che  medio  tempore i creditori non saprebbero se
  promuovere  contro  di  lui  l'esecuzione  individuale  o aspettare
  d'insinuarsi  al  concorso. L'omessa determinazione di un limite al
  sopravvento  della  pronuncia  estensiva  dopo la dichiarazione del
  fallimento sociale urta dunque, non solo l'esigenza di perequare la
  posizione   del   socio   rispetto   a   quella   dell'imprenditore
  individuale,  non  solo  l'esigenza  di  certezza  delle situazioni
  giuridiche,  ma  anche  l'esigenza  di  garantire  ai  creditori un
  accesso  certo  ed  efficiente  alla  tutela giudiziaria, nonche' a
  tutti i cittadini una buona amministrazione della giustizia.
    Queste  riflessioni inducono a ritenere che, se occorre stabilire
  un  termine  per  l'estensione  del  fallimento  al  socio,  questo
  andrebbe  innanzi tutto fissato a decorrere dalla dichiarazione del
  fallimento  principale  ed  e'  il  caso  di  sottolineare che tale
  profilo  potrebbe  assumere  autonoma  e  concreta  rilevanza nella
  decisione  del  caso  di  specie, laddove la pronuncia estensiva e'
  intervenuta   entro   l'anno  dalla  dichiarazione  del  fallimento
  sociale.
    Riepilogando,   il   problema   non   pare  risolvibile  per  via
  interpretativa,  recependo  l'indicazione fornita dall'art. 10 l.f.
  nel  contenuto  precettivo  dell'art. 147,  sia  perche', come s'e'
  detto,  l'operazione ermeneutica sembra tecnicamente sbagliata, sia
  perche',  in  ogni  caso,  cio' determinerebbe altre disarmonie nel
  sistema  non  tollerabili  alla  luce  degli artt. 3, 24 e 92 della
  Carta costituzionale.
    Infatti,  il  termine  di  un  anno,  che  gia' di per se' appare
  eccessivamente    ristretto    nell'applicazione   all'imprenditore
  individuale,  diverrebbe  ancora  piu'  irragionevolmente  breve se
  applicato  al meccanismo estensivo del fallimento ai soci che hanno
  perso   la  responsabilita'  illimitata  in  epoca  anteriore  alla
  dichiarazione  del fallimento principale, giacche', come s'e visto,
  l'accertamento   dei  relativi  presuposti  di  fatto,  salvi  casi
  eccezionali, dipende dall'iniziativa del curatore e dunque non puo'
  che  intervenire  dopo  l'accertamento  giudiziale  dell'insolvenza
  sociale,  ossia  all'esito  di  una  fase  che, di per se', ha gia'
  inevitabilmente consumato un lasso di tempo non trascurabile.
    Tale  irragionevolezza, che si ravvisa in senso assoluto rispetto
  ai  tempi normali occorrenti per addivenire con cognizione di causa
  alla  dichiarazione  per ripercussione del fallimento personale dei
  soci  illimitatamente  responsabili  che  hanno perso tale qualita'
  prima  della  dichiarazione  del fallimento sociale, diviene ancora
  piu'   macroscopica   nel  confronto  tra  le  due  situazioni  che
  verrebbero  sottoposte  allo  stesso  termine,  ossia  la procedura
  basilare  (l'accertamento  dell'insolvenza  sociale) e la procedura
  consequenziale  (l'accertamento dei presupposti per l'estensione ai
  soci)  nonostante  la seconda possa essere realisticamente condotta
  solo in progressione.
    Una  disciplina  unitaria  e  indifferenziata  dei  due  fenomeni
  sarebbe dunque manifestamente incongrua.
    Inoltre,  la  brevita' del termine di un anno impedisce l'accesso
  dei creditori ad una efficace e realistica tutela concorsuale delle
  proprie  legittime  pretese  nei confronti dei soci illimitatamente
  responsabili  che hanno perso tale qualita' in epoca anteriore alla
  dichiarazione  del  fallimento sociale e ostacola il buon andamento
  dell'amministrazione della giustizia stimolando la giustapposizione
  di  una  pluralita'  di  azioni esecutive individuali contro i soci
  parallelamente   allo   svolgimento   della  procedura  concorsuale
  relativa alla societa'.
    Pertanto, preso atto delle indicazioni provenienti dalla sentenza
  n. 66/1999   della  Corte  costituzionale,  nell'impossibilita'  di
  risolvere  in  via  interpretativa  i  dubbi  di  costituzionalita'
  dell'art. 147   l.f.   rilevati   rispetto  all'ipotesi  del  socio
  illimitatamente  responsabile  che  abbia  perso  tale qualita' non
  resta  che  rimettere la questione alla stessa Corte costituzionale
  per le determinazioni di competenza.
                              P. Q. M.
    Ritenuto  rilevante  ai fini della decisione e non manifestamente
  infondato  il  dubbio  di legittimita' costituzionale dell'art. 147
  l.f.  nella parte in cui non contiene la precisazione di un termine
  ragionevole entro il quale puo' essere dichiarato il fallimento del
  socio  illimitatamente  responsabile dopo che esso abbia perso tale
  qualita' a seguito di recesso;
    Dispone  trasmettersi  gli  atti alla Corte costituzionale per le
  determinazioni di competenza in ordine a tale questione;
    Sospende   il   giudizio   sino   alla   decisione   della  Corte
  costituzionale;
    Ordina  che  la cancelleria provveda alla notifica della presente
  ordinanza  alle parti e alla Presidenza del Consiglio, nonche' alla
  comunicazione ai Presidenti del Senato e della Camera dei deputati.
        Milano, addi' 20 gennaio 2000.
                      Il Presidente: Peschiera
                   Il giudice relatore: Introini
00C0991