N. 722 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 ottobre 1998

Ordinanza  emessa  il  28  ottobre  1998  dal  pretore di Pescara nel
procedimento penale a carico di Datore Giansante Augusto

Ambiente  (Tutela  dell')  - Inquinamento - Scarichi da utilizzazione
agronomica  delle acque di vegetazione (nella specie: frantoi oleari)
-  Osservanza  delle  prescrizioni,  dei  limiti  e  degli  indici di
accettabilita'   previsti   dalla   legge  n. 319/1976  e  successive
modificazioni - Esclusione - Conseguente depenalizzazione di condotta
nociva  all'ambiente  e  alla  salute - Ingiustificato trattamento di
privilegio  rispetto agli scarichi di altri insediamenti produttivi -
Riferimento  alla  sentenza  della Corte costituzionale n. 330/1996 -
Riproposizione  di  questione  oggetto  di  restituzione atti per ius
superveniens con ordinanza della Corte costituzionale n. 20/1998.
- Legge  11 novembre 1996, n. 574, artt. 3 e 8 (in relazione all'art.
  10, commi 1, 3 e 4, stessa legge).
- Costituzione, artt. 3, 9, 32 e 41.
(GU n.48 del 22-11-2000 )
                             IL PRETORE

    Letti  gli  atti del procedimento n. 651/96 r.g. pretura a carico
  di  Datore  Giansante  per il reato di cui all'art. 2, primo comma,
  della legge 10 maggio 1976 n. 319;

                            O s s e r v a

    Nel processo in questione e' stata contestata la violazione della
  legge  n. 319  dei  1976  in  relazione allo scarico di un frantoio
  oleario,  considerato  dalla  legge  quale  scarico da insediamento
  produttivo,  quindi  soggetto agli obblighi ed alle sanzioni penali
  previsti per questi scarichi a tutela dall'inquinamento.
    Tuttavia  e'  nel frattempo intervenuta la legge 11 novembre 1996
  n. 574,   la   quale,   stabilendo   "Nuove  norme  in  materia  di
  utilizzazione  agronomica  delle acque di vegetazione e di scarichi
  dei  frantoi  oleari"  prevede una particolare disciplina di favore
  per  questi  scarichi  espressamente  derogatoria rispetto a quella
  stabilita  dalla  legge  n. 319/1976  tutti  gli  altri scarichi da
  insediamenti produttivi.
    Con   precedente   ordinanza   questo   pretore   ritenendo   non
  manifestamente infondato il sospetto che gli artt. 3, 8 e 10, comma
  1,  2,  3  e  4,  della legge 574/1996 fossero in contrasto con gli
  artt. 3,   9,   secondo   comma,  32  e  41,  secondo  comma  della
  Costituzione,  aveva  rimesso  gli  atti alla Corte, la quale si e'
  pronunziata con l'ordinanza n. 20 del 1998 dichiarando la manifesta
  inammissibilita'  delle questioni proposte giacche' nelle ordinanze
  del   pretore   di   Pescara,   che   sollevano   la   legittimita'
  costituzionale  dell'art.  10, commi 3 e 4 della legge n. 574/1996,
  manca  l'esposizione  del  fatto  che  chiarisca,  se ricorrono nei
  giudizi  principali, le condizioni alle quali la legge subordina la
  causa di non punibilita' per le violazioni della legge n. 319/1976,
  commesse prima dell'entrata in vigore della legge n. 574/1996; come
  pure  manca  la  motivazione  sulla  rilevanza  della  questione di
  legittimita'  costituzionale  della  norma che fa salvi gli effetti
  prodottisi sulla base dei decreti legge decaduti.
    La  riproposizione della questione di legittimita' costituzionale
  gia'  sollevata,  dopo  che  la  Corte costituzionale ha chiesto al
  giudice  a  quo  di  riesaminare  il  profilo  della  rilevanza con
  riguardo alla disciplina transitoria posta dall'art. 10 della legge
  574/1996  e'  giustificata  a  parere  di questo pretore sulla base
  delle seguenti considerazioni.
    L'imputato  ha  posto  in essere condotte che, per quel che si e'
  ricavato  dall'istruttoria  dibattimentale, non sono state conformi
  al  dettato degli artt. 1 e 2 del decreto legge 10/1987, convertito
  in  legge  119/1987. Egli, pertanto, alla luce di quanto stabilisce
  l'art. 10,   comma   4,   della  legge  574/1996,  dovrebbe  essere
  riconosciuto  responsabile  del  reato  p.  e p. dall'art. 21 legge
  319/1976,  per aver effettuato scarichi senza autorizzazione. Ma il
  medesimo  tipo  di  condotta  non  e'  piu' assoggettato a sanzione
  penale  dopo la promulgazione della legge 574, purche' si tratti di
  scarichi effettuati successivamente all'entrata in vigore di questa
  legge.
    Nel valutare la posizione dell'imputato il giudice applica dunque
  la  norma  transitoria  di  cui  al quarto comma dell'art. 10 della
  legge  574.  Ma  certamente  il  giudice  non  puo'  prescindere al
  contempo  dalle  altre  norme  della legge 574 ed in particolare da
  quelle  che  concernono  il  trattamento  sanzionatorio del tipo di
  scarichi  in  esame: vale a dire il primo ed il secondo comma dello
  stesso  art. 10 che sottraggono tali scarichi alla disciplina della
  legge  Merli  e  a  quella  del  decreto legge del 1987, e l'intero
  art. 8,    che   prevede   per   i   medesimi   scarichi   sanzioni
  amministrative.  E allora non puo' dirsi che per la definizione del
  processo  le disposizioni depenalizzanti non assumono rilevanza, ai
  sensi dell'art. 23 della legge 87/1953.
    D'altra  parte,  di fronte a norme che depenalizzano una materia,
  la  valutazione  del  requisito  della  rilevanza  sembra  a questo
  pretore  poter ispirarsi a margini piu' ampi che non in altri casi.
  Soprattutto  quando,  come  nel  caso  della  legge 574/1996, viene
  stabilita  una  disciplina  transitoria,  che  consente,  in deroga
  all'art. 2,  secondo comma, cod. pen., la sottoposizione a sanzione
  penale  delle  condotte  verificatesi  prima dell'entrata in vigore
  della  legge  di  depenalizzazione. In questo caso, infatti, accade
  che il giudice penale si trova nella condizione di dover condannare
  taluno per un fatto che ormai non e' piu' previsto come reato.
    Ed  e'  chiaro  che il giudizio sulla legittimita' costituzionale
  della   legge   di   depenalizzazione   riveste   allora  un  ruolo
  particolarmente  delicato: la successione di norme crea infatti una
  disparita'  di  trattamento  molto evidente fra cittadini, che, pur
  realizzando  la  medesima  condotta, si vedono soggetti, gli uni al
  rigore  della  sanzione  penale,  gli altri alla piu' mite sanzione
  amministrativa.  E  la disparita' e' ancora piu' stridente se, come
  nel  caso  in  esame,  la depenalizzazione non e' conseguenza di un
  mutamento  del  bene  giuridico protetto o di un'attenuazione della
  sua  esigenza di tutela: la salvaguardia dell'ambiente e' un valore
  non  contingente  ne'  regressivo,  ma anzi sempre piu' evidenziato
  dalle  scienze  naturali ed economiche, dagli stessi riconoscimenti
  operati  dalla  giurisprudenza  costituzionale e dalle piu' recenti
  previsioni  normative.  Diverso  puo' essere invece, ad esempio, il
  caso   di   una   normativa  a  tutela  dell'ordine  pubblico,  che
  ragionevolmente  ed  opportunamente puo' risentire del mutare delle
  condizioni politiche e sociali di una comunita' e del venir meno di
  situazioni di instabilita' e disordine.
    Un'interpretazione  eccessivamente  rigorosa  del requisito della
  rilevanza   sottrarrebbe,   di  fatto,  al  sindacato  della  Corte
  costituzionaie  tutte le leggi che eliminano la sanzione penale per
  talune  condotte:  e tale risultato appare inaccettabile sotto piu'
  di  un  profilo.  Innanzitutto,  in  quanto  ad  un  elemento  - la
  rilevanza  intesa  come  impossibilita'  di  definire  il  giudizio
  indipendentemente    dalla    risoluzione    della   questione   di
  costituzionalita'  - introdotto da disposizione di legge ordinaria,
  qual,  e'  l'art. 23  della  legge  87/1953  (pur  se fondata sulla
  previsione  dell'art. 1  della  legge costituzionale gennaio 1948),
  non puo' riconoscersi un'efficacia tanto forte da decurtare, in via
  generale   e   per   un'intera   tipologia   di  atti  legislativi,
  un'attribuzione    direttamente    fondata    sulle   norme   della
  Costituzione,  quale appunto il sindacato della Corte sulle leggi e
  gli atti aventi forza di legge.
    In  secondo  luogo,  perche' questo risultato potrebbe condurre a
  situazioni   aberranti:  si  pensi  a  leggi  che  depenalizzassero
  illeciti  particolarmente  gravi  o  introducessero  ingiustificate
  diversita'  di  sanzione, penale e amministrativa, per una medesima
  condotta,  che  rimarrebbero  al di fuori di qualunque controllo di
  costituzionalita'.  Infine,  perche'  le leggi di depenalizzazione,
  come  tutte  le  leggi  che incidono sul giudizio di liceita' delle
  condotte  umane  e  sulla  relativa sanzione, interagiscono in modo
  diretto con i diritti di liberta' dei cittadini e con i principi di
  eguaglianza e di ragionevolezza: appare dunque necessario, a parere
  dello  scrivente  che  proprio  su queste leggi il controllo che la
  Costituzione   prevede   per  gli  atti  legislativi  possa  essere
  esercitato in modo adeguato.
    Questo  problema  e'  stato  del resto affrontato e risolto dalla
  giurisprudenza  costituzionale,  con  specifico  riguardo alle c.d.
  leggi penali di favore. Il principio giurisprudenziale affermato in
  varie  pronunce, fra cui, fondamentale, la n. 148 del 1983, ripresa
  di  recente  dalla  n. 25  del  1994,  e'  quello  secondo  cui "il
  principio  costituzionale  della irretroattivita' dei reati e delle
  pene  non  vale  ad  esonerare  dal  sindacato della Corte le norme
  penali di favore quand'anche lesive degli imperativi costituzionali
  di  eguaglianza  in  materia  penale". E' noto a chi scrive che per
  contro  la  Corte,  pronunciando  su  alcune eccezioni sollevate in
  relazione alla disciplina di favore introdotta dalla legge 172/1995
  per  gli  scarichi  delle  pubbliche  fognature,  le  ha dichiarate
  manifestamente  inammissibili  in quanto "il fondamentale principio
  di  stretta  legalita' dei reati e delle pene preclude pronunce che
  configurino   nuove  ipotesi  di  reati  o  aggravamenti  di  pena"
  (ordinanza  n. 332  del  1996),  aggiungendo  che "le questioni che
  tendono ad introdurre o reintrodurre figure di reato o aggravamenti
  di  pena  chiedono  una  pronuncia che esula dai poteri spettanti a
  questa  Corte, giacche' il potere di creare fattispecie penali o di
  aggravare  le  pene  e' esclusivamente riservato al legislatore, in
  forza  del  principio  di  stretta legalita' dei reati e delle pene
  sancito  dall'art. 25, secondo comma, della Costituzione" (sentenza
  n. 330  del  1996).  Ma tae argomentazione puo' essere superata nel
  caso  di  specie,  poiche' non si chiede alla Corte di creare nuovi
  illeciti  penali  o  di aggravare le pene, bensi' di valutare se il
  nuovo regime di favore creato con la legge 574 per gli scarichi dei
  frantoi sia complessivamente in contrasto con principi fondamentali
  della  costituzione.  E  il ripristino della disciplina precedente,
  che   continua   ad   applicarsi  agli  scarichi  effettuati  prima
  dell'entrata in vigore della legge 574, eliminerebbe proprio quella
  disparita'   di   trattamento   che   contrasta  con  art. 3  della
  Costituzione.
    Nel   caso   in   esame   l'art   10,   comma  4  legge  574/1996
  sostanzialmente prevede che coloro che hanno effettuato scarichi di
  acque  di  vegetazione  derivanti dalla lavorazione meccanica delle
  olive  senza  richiedere  l'autorizzazione sindacale prevista dalla
  legge  119/1987  siano  puniti ai sensi della legge 319/1976 con le
  sanzioni penali previste dall'art. 21, primo comma, legge citata.
    Cio'   appare   conforme   al  principio  generale  che  sanziona
  penalmente   tutti   gli  scarichi  non  autorizzati  derivanti  da
  insediamenti  produttivi ma appare in netto contrasto con l'attuale
  disciplina   prevista  dalla  legge  574/1996.  Tale  ultima  legge
  prevede,  infatti,  lo  sversamento  delle acque di vegetazione sui
  terreni   (rectius   utilizzazione   agronomica   delle   acque  di
  vegetazione)   a   seguito   di   sola   comunicazione   da   parte
  dell'interessato al Sindaco prevedendo, pero', anche per le ipotesi
  di   scarico  non  comunicato  preventivamente  ed  effettuato,  in
  violazione  dei  limiti di accettabilita' e con effettivi rischi di
  danni ambientali, la sola sanzione amministrativa.
    In  particolare si consente lo scarico delle acque di vegetazione
  e delle sanse umide, cui l'art. 1, secondo comma, estende lo stesso
  regime  di favore, provenienti dalla lavorazione delle olive, oltre
  che  senza  autorizzazione  preventiva anche senza l'osservanza dei
  limiti  tabellari  previsti  dalla  legge  319,  pure gia' previsti
  dall'art. 2, secondo comma, legge 119/1987 (disposizioni urgenti in
  materia di scarico dei frantoi oleari), prevedendo al piu' sanzioni
  amministrative  non  superiori,  nel  massimo,  a  5  milioni; e si
  precisa in proposito che "L'utilizzazione agronomica delle acque di
  vegetazione ai sensi dell'art. 1, non e' subordinata all'osservanza
  da  parte dell'interessato delle prescrizioni dei limiti e degli di
  accettabilita'   previsti   dalla   legge   n. 319/1976   e   succ.
  modificazioni" (art. 10, primo comma).
    Peraltro  la  legge  in esame era stata preceduta sin dall'aprile
  1995  da  una  serie  di decreti legge reiterati e mai convertiti i
  quali  tendevano anch'essi a creare una disciplina di favore (anche
  se  piu' limitata) in deroga a quella generale per gli scarichi dei
  frantoi.
    Sotto  il  profilo  penale,  la  nuova legge oltre ad essere piu'
  favorevole,  fa  anche  salvi gli effetti prodottisi sulla base dei
  citati  decreti  legge, prevedendo in proposito, una espressa causa
  di non punibilita' (art. 10, commi 3 e 4).
    Ne  consegue  che  i titolari di impianti produttivi, diversi dai
  frantoi,  sono  sottoposti  per i relativi scarichi alla disciplina
  piu' stringente e penalmente sanzionata dalla 319/1976, altrettanto
  avviene per i titolari di frantoi che prima della entrata in vigore
  della  legge  574/1996,  abbiano  scaricato  le  acque reflue senza
  autorizzazione del Sindaco.
    Per  contro  non  e'  sottoposto  a sanzione penale chi sversa le
  acque  di  vegetazione  senza  alcuna  comunicazione  (art. 1 legge
  574/1996),  dove,  come  e  quando  voglia.  Sempre  e  solo in via
  amministrativa  e' sanzionata dall'art. 8 l'inosservanza del limite
  di  accettabilita' previsto dall'art. 2, primo comma, anche in caso
  di  particolare gravita', con rischio di danno alle acque al suolo,
  al  sottosuolo  o  alle  altre  risorse ambientali (art. 2, secondo
  comma),   nel  quale  art. 8,  terzo  comma,  prevede  la  sanzione
  amministrativa   massima   di   lire  quattro  milioni  laddove  il
  superamento  dei  limiti  di accettabilita' ambientale non puo' che
  essere  di grave pregiudizio di un bene costituzionalmente tutelato
  come fondamentale.
    Ma la sanzione penale e' altresi' esclusa in relazione all'art. 5
  anche  quando  acque di vegetazione e sanse umide siano sversate in
  zone  prossime  alle aree di salvaguardia delle captazione di acque
  destinate  a  consumo  umano o su terreni in cui siano localizzatte
  falde  che  possono  venire a contatto con le acque di percolazione
  del suolo o con falde a profondita' inferiore a 10 metri.
    Cio'   nonostante  che  la  legge  36/1994,  art. 1,  affermi  in
  attuazione del dettato costituzionale il fondamentale principio che
  qualsiasi  uso  delle  acque  e'  effettuato  secondo  principi  di
  solidarieta'  salvaguardando  le  aspettative  e  i  diritti  delle
  generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale.
    Si  tratta  di  condotte tutte in evidente violazione dei diritti
  fondamentali  all'ambiente  e  alla  salute  nella piu' classica ed
  ormai  tradizionale delle accezioni e che, tuttavia, il legislatore
  con  la  legge  574/1996 depenalizza in deroga a principi penali in
  virtu'  dei  quali  le  stesse  condotte sarebbero da inquadrare in
  fattispecie  previste  dallo  stesso  codice penale oltre che dalla
  disciplina speciale di settore sulle acque.
    Il  principio  di  specialita'  e  di  prevalenza  della sanzione
  amministrativa escluderebbe, infatti, anche l'applicazione di altre
  ipotesi  di  reato  salvo  la  previsione dell'art. 4, primo comma,
  legge   cit.   limitatamente  alle  ipotesi  ivi  previste  e  piu'
  restrittive rispetto alle fattispecie di cui agli artt. 2 e 5.
    A   parere  di  questo  pretore  sussistono,  pero',  profili  di
  incostituzionalita'  che  inducono questo, giudice a prospettare la
  questione alla Corte costituzionale.
    In  primo  luogo,  infatti, non sembra infondato ritenere che sia
  stato violato il principio di uguaglianza sancito dall'art. 3 della
  Costituzione.
    La   Corte  costituzionale  ha  costantemente  affermato  che  il
  rispetto  dell'art. 3  consente  al,  legislatore  di emanare norme
  differenziate  riguardo  a situazioni obiettivamente diverse solo a
  condizione   che   tali  norme  rispondano  alla  esigenza  che  la
  disparita'   di  trattamento  sia  fondata  su  presupposti  logici
  obiettivi,  i quali razionalmente ne giustifichino l'adozione (cfr.
  per  tutte  la  sentenza  n. 3  del  1963).  Per  cui  la  Corte ha
  dichiarato   illegittime   norme  che  prevedevano  un  trattamento
  sanzionatorio   irrazionalmente  differenziato  rispetto  a  quello
  previsto  da  altre  fattispecie, ovvero, con una decisione recente
  proprio relativo all'art. 21 della legge Merli (ove si fa' espresso
  riferimento   anche   al   complesso  della  normativa  ambientale)
  eliminando  il  divieto  di  applicazione  di  sanzioni sostitutive
  (sentenza n. 254 del 20-23 giugno 1994).
    In  questa sentenza la Corte ricorda che si viola il principio di
  eguaglianza qualora con leggi successive si dia vita ad un "sistema
  normativo assolutamente squilibrato".
    Ed  anzi,  proprio  a  proposito  del principio di eguaglianza in
  questo   delicato  settore  la  Corte,  come  rilevato  da  recente
  dottrina, ha anche precisato che si tratta di un modello "dinamico"
  il  quale,  in  presenza  di  una  diversa  disciplina giuridica di
  situazioni  omogenee, dovrebbe indurre l'interprete ad interrogarsi
  sul  "perche'  una  determinata  disciplina  operi, all'interno del
  tessuto egualitario dell'ordinamento, quella specifica distinzione"
  ed  a  "trarne  le  debite conseguenze in punto di corretto uso del
  potere  normativo" (sent. n. 89 del 28 marzo 1996); dichiarando, in
  tema di sanzioni, la "arbitrarieta' delle statuizioni non uniformi"
  per  "contrasto  con i principi di ragionevolezza e di razionalita'
  della  legislazione,  desumibili  dall'art. 3  della  Costituzione"
  (sent. n. 52 del 21 febbraio 1996).
    Esattamente  quello  che  ha  fatto  il  legislatore con la nuova
  legge.  Infatti con essa si e' introdotta, senza alcuna ragionevole
  giustificazione,  un  evidente  disparita' di trattamento, sia come
  obblighi   che   come   sanzione,   tra  scarichi  da  insediamenti
  produttivi;   tanto   piu'   che,   trattandosi   di  norme  contro
  l'inquinamento,  l'unico  presupposto  che dovrebbe giustificare un
  trattamento  di  favore  per  gli  scarichi  dei  frantoi  dovrebbe
  riguardare  la  loro  minore  pericolosita' per l'ambiente e non il
  tipo  di  attivita'.  Mentre  e'  vero il contrario, come si evince
  anche  da  tutta  la normativa tecnica elaborata per il trattamento
  delle acque di vegetazione (vedi tra gli altri d.m. 24 luglio 1987,
  n. 397).
    In  altri  termini  appare del tutto evidente che se lo scopo del
  legislatore  e' di evitare lo scarico nell'ambiente di sostanze con
  parametri che superino determinati limiti di accettabilita', e' del
  tutto  irrilevante,  ai fini eventuali "ragionevoli" esclusioni, la
  provenienza ed il tipo di attivita' svolta.
    Del  resto  appare  del  tutto  evidente  che  se  il legislatore
  ritenesse  che  gli scarichi dei frantoi sono da ritenersi innocui,
  in  quanto  non  superano  i limiti tabellari, non ci sarebbe stata
  alcuna necessita', (dopo avere stabilito l'obbligo del rispetto dei
  limiti  di  cui  alla tabella A della legge 319/1976 entro due anni
  dall'entrata  in vigore della legge n. 119/1997), di escludere oggi
  con  la  legge  n. 574/1996  il rispetto degli obblighi della legge
  319.
    Per  altro,  la  nuova legge configura una evidente disparita' di
  trattamento  rispetto  anche al sistema complessivo della normativa
  di  tutela  ambientale  (cfr ad es. il d.P.R. 24 maggio 1988 n. 203
  sull'inquinamento  atmosferico  da  industria) ed in particolare di
  altre  leggi  che si occupano, come la Merli, di inquinamento delle
  acque  (quale  27  gennaio  1992  n. 133 sugli scarichi di sostanze
  pericolose),  le  quali  prevedono  tutte  sanzioni  penali  (e non
  amministrative)  per  fatti  di inquinamento o per violazioni delle
  prescrizioni    dell'autorizzazione   commessi   da   titolari   di
  insediamenti produttivi.
    Ne  va sottaciuto che le stesse direttive della legge n. 146/94 e
  successive  proroghe,  nell'indicare i criteri generali ai quali il
  legislatore   deve   attenersi   nell'emanazione   delle  norme  di
  recepimento  delle  direttive  CEE sottolinea all'art. 2 lett. D la
  necessita'  di utilizzare sanzioni penali per infrazioni che ledano
  o espongono a pericolo interessi generali dell'ordinamento del tipo
  di  quelli  tutelati dagli artt. 34 e 35 della legge 689/1981 fra i
  quali   appunto   la   normativa   a  tutela  delle  acque.  (legge
  n. 319/1976).
    E'  da  sottolineare  ancora  in  proposito  come il piu' recente
  orientamento della giurisprudenza (Cass. Pen. III n. 5533/97) abbia
  rilevato    che    nelle   contravvenzioni   in   tema   ambientale
  indipendentemente  dalla  natura formale ricorre comunque l'aspetto
  sostanziale  della  messa in pericolo o lesioni del bene ambientale
  (fattispecie  relativa proprio all'ipotesi di scarico sprovvisto di
  autorizzazione l'art. 21, comma 1, legge 319/1976).
    Ma  il  nuovo testo appare in contrasto anche con l'art. 32 della
  Costituzione che garantisce il diritto alla salute.
    Se   infatti   secondo   il  costante  insegnamento  della  Corte
  costituzionale  e della Corte di Cassazione, l'art 32 stabilisce il
  diritto ad un ambiente salubre per cui "l'amministrazione non ha il
  potere  di  rendere l'ambiente insalubre neppure in vista di motivi
  di  interesse  pubblico  di particolare rilevanza" (Cass. 6 ottobre
  1979  n. 5172)  appare  evidente il contrasto con questo diritto di
  una  normativa  la  quale elimina per i soli titolari di scarico di
  frantoi  oleari  gli  obblighi  e le sanzioni penali previste dalla
  legge n. 319 per violazioni che danneggino l'ambiente.
    Altrettanto  evidente  appare  il  contrasto  della  citata legge
  575/1996 con l'art. 9, secondo comma della Costituzione laddove per
  insegnamento  della  Corte  costituzionale  l'ambiente  e'  diritto
  fondamentale  insuscettivo di essere subordinato a qualunque altro,
  mentre  in  questo  caso,  evidenti  ragioni di carattere economico
  conducono  non solo a prevedere diverse procedure amministrative di
  autorizzazione  o  di semplice comunicazione ma giungono comunque a
  depenalizzare  le  relative violazioni privando di effettiva tutela
  penale un bene ed un diritto fondamentale.
    Cio'  fa  sorgere  anche perplessita' sul possibile contrasto con
  l'art. 41,  secondo  comma  della Costituzione che vieta iniziative
  economiche private "in contrasto con l'utilita' sociale".
    Del  resto,  richiamando alcune considerazioni gia' accennate, e'
  pacifico  per  la Corte, che l'esercizio della discrezionalita' del
  Legislatore  in tema di sanzioni "puo' essere censurato quando esso
  non  rispetti  il  limite  della  ragionevolezza e dia luogo ad una
  disparita'    di    trattamento    palesemente    irrazionale    ed
  ingiustificata"  (sentenza n. 25 del 26 gennaio 1984); e che spetta
  alla   Corte   verificare,  caso  per  caso,  se  una  data  misura
  sanzionatoria  sia o meno proporzionata (sent. n. 110 del 12 aprile
  1996).
    Considerato  che  per  le  argomentazioni  sopra  esposte vi sono
  validi motivi per ritenere non manifestamente infondato il sospetto
  che  gli  artt. 3,  e  8,  in relazione all'art. 10 commi 1, 3, e 4
  della  legge  11  novembre  1996  n. 574 siano in contrasto con gli
  artt. 3, 9 secondo comma, 32, 41 secondo comma della Costituzione e
  che  ove  le  predette  norme  fossero dichiarate illegittime dalla
  Corte costituzionale si applicherebbero la disciplina e le sanzioni
  della legge n. 319/1976 che altrimenti dovrebbe applicarsi solo per
  le violazioni pregresse di cui in imputazione.
                              P. Q. M.
    Ritenuto    che   il   giudizio   non   possa   essere   definito
  indipendentemente  dalla  questione  di legittimita' costituzionale
  innanzi prospettata;
    Visti  gli  artt.  1  della legge costituzionale 9 febbraio 1948,
  n. 1, 23 della legge 11 marzo 1953;
    Sospende il procedimento e dispone l'immediata trasmissione degli
  atti alla Corte costituzionale;
    Dispone   che  la  presente  ordinanza,  letta  all'udienza,  sia
  notificata a cura della cancelleria al Presidente del Consiglio dei
  Ministri   e   comunicata   ai  Presidenti  delle  due  Camere  del
  Parlamento.
        Pescara, addi' 28 ottobre 1998.
                          Il pretore: Cillo
00C1280