N. 725 ORDINANZA (Atto di promovimento) 16 settembre 2000
Ordinanza emessa il 16 settembre 2000 dal tribunale di Milano sull'istanza proposta da P. L. Aborto e interruzione volontaria della gravidanza - Gestante minorenne - Possibilita' di interrompere volontariamente la gravidanza nei primi novanta giorni su autorizzazione del giudice tutelare - Violazione del diritto alla vita del concepito - Inosservanza del principio del bilanciamento fra tale valore e il diritto alla vita e alla salute della gestante - Contrasto con la protezione della maternita'. - Legge 22 maggio 1978, n. 194, combinato disposto degli artt. 4, 5 e 12. - Costituzione, artt. 2, 3, 31, comma secondo, e 32. Aborto e interruzione volontaria della gravidanza - Interruzione volontaria della gravidanza da parte di donna minorenne - Richiesta di autorizzazione al giudice tutelare - Possibilita' per quest'ultimo di sollevare obiezione di coscienza - Mancata previsione - Lesione della liberta' di coscienza del magistrato - Discriminazione rispetto al personale sanitario. - Legge 22 maggio 1978, n. 194, art. 12. - Costituzione, artt. 2, 3, 19 e 21.(GU n.48 del 22-11-2000 )
IL GIUDICE TUTELARE Ha pronunciato la seguente ordinanza: 1. - Questo giudice deve deliberare ai sensi dell'art. 12 della legge n. 184/1978 se autorizzare o no la minore indicata in epigrafe a decidere la interruzione della gravidanza, avendo essa espletata la procedura di cui agli artt. 4 e 5 della stessa legge, e avendo in base ad essi ottenuto la relazione del consultorio e il certificato medico. Nella relazione si indica quale motivazione della scelta il fatto che "attualmente si sente impreparata ad affrontare una maternita' non desiderata, che peraltro impedirebbe di intraprendere gli studi artistici intrapresi". Nel certificato medico e' indicata come motivazione della richiesta la "scadenza dei termini previsti dalla legge 194". Nella relazione si indica che la minore non ha informato i genitori, per "evitare di esporli a ulteriori preoccupazioni", essendo il clima in famiglia appesantito a causa di crisi depressiva del fratello maggiore. La minore e' stata sentita da questo giudice, anche in presenza del padre del concepito, che l'accompagnava. 2. - Questo giudice dubita della legittimita' costituzionale dell'an. 12, degli artt. 4 e 5, e del loro combinato disposto. Non ignora che le questioni sono state piu' volte sollevate davanti alla Corte costituzionale, e giudicate infondate (art. 12) o irrilevanti (art. 4 e 5). Ritiene tuttavia che la lettura del congegno normativo che il giudice si trova tra le mani, sul campo concreto della decisione d'una vicenda che tocca la vita, il diritto e la responsabilita' di piu' persone, presenti aspetti che esigono qualche nuova riflessione, e totale schiettezza e aderenza al vissuto che scorre nelle aule giudiziarie. La definizione al quanto riduttiva con cui la Corte ha confinato il compito del giudice tutelare, dicendo che il provvedimento verso la minore sarebbe "meramente attributivo della facolta' di decidere" (cosi' l'Ord. 463 del 1988), dentro la schema giuridico della "integrazione della volonta' della minore che non possiede ancora la piena capacita'" (tesi quest'ultima poi ulteriormente indicata nell'Ord. n. 76 del 1996 come un compito "non co-decisionale, la decisione essendo rimessa, alle condizioni previste, soltanto alla responsabilita' della donna"), sembra un paralogisma proprio nel suo primo assunto, quando parla di "attribuzione della facolta' di decidere". La minore non chiede affatto al giudice "dammi la facolta' di decidere" "che vuol dire per il si' o per il no); infatti, se decide di tenere il bambino, non ha bisogno di nessuna autorizzazione, ne' alcuno al mondo, genitore o giudice, potrebbe impedirglielo. La minore chiede al giudice esattamente "ho deciso di abortire, dammene facolta', integra la mia capacita' con la tua autorita'". Non si tratta di autorizzazione a decidere, ma a decidere "quello". E se il giudice non autorizza, quella decisione non si realizza, quella facolta' non c'e' (quella capacita' non si integra). Non e' conseguentemente possibile espellere il provvedimento del giudice (che e' un atto volitivo, e ponderato, e dunque soggetto a criteri, e non certo ad nutum, e dunque giusto o sbagliato se rispetta o viola quei criteri, e dunque "doveroso" e regolato, e infine "voluto", come ogni decisione, come conforme all'ordine giuridico) dal congegno di formazione di una volonta' efficace nella realizzazione di un progetto di interruzione della gravidanza; e dunque non e' possibile espellerlo dal primo e fondamentale problema, se l'atto la cui decisione esecutiva e' da autorizzare sia secondo il diritto o contro il diritto. 3. - Invero, il primo problema (la prima regola decisionale, assoluta, onnipresente) che il giudice incontra, e' la verifica della conformita' all'ordinamento giuridico di cio' che gli vien chiesto di autorizzare. Non potrebbe mai il giudice autorizzare la violazione della legge. Ma si badi a come deve leggersi la parola "legge" (da non violare): le leggi (ordinarie) non possono violare la Legge (somma, la Costituzione). Quando una condotta venga definita secundum legem da una legge che in realta' e' contra legem perche' contro la Costituzione, quella stessa condotta e' contraria al diritto, cosi' come e' contraria al diritto la decisione di esplicarla, e cosi' come e' contraria al diritto la autorizzazione alla decisione di esplicarla. Le pronunce della Corte hanno ritenuto irrilevanti le questioni sollevate dai giudici tutelari remittenti, sostenendo che la verifica o il riscontro delle condizioni previste dal legislatore per consentire l'interruzione di gravidanza non sono affare dei giudici, ma dei consultori, ed entrano nella procedura tutelare come "antefatto". Cosi' sarebbe fatto il congegno normativo (artt. 4 e 5). Si osserva pero' che il giudice dell'autorizzazione non puo' pacificarsi davanti a un qualsiasi congegno normativo che faccia da supporto al suo compito di autorizzare, senza chiedersi se anche questo congegno normativo sia legittimo o illegittimo; altrimenti, anche (e proprio) questa espulsione del giudice dal controllo se cio' che sta autorizzando e' secondo, legge o contro legge sarebbe a sua volta incostituzionale. Infatti, funzione del giudice e' quella di applicare la legge. Il giudice e' soggetto alla legge (art. 101 Cost). Cio' significa che quando un comportamento e' consegnato nelle mani del giudice come "adempimento della legge" e il giudice dubita che quella legge che si e' adempiuta sia legittima in faccia alla Costituzione, non puo' assumere i suoi frutti come "antefatto" svincolato dall'obbedienza alla Costituzione. In quel momento, per stabilire se dall'osservanza di una legge e' sorto davvero un diritto (di determinarsi soggettivamente ad abortire), che per la minore abbisogna di una integrazione autorizzativa, il giudice non puo' fare a meno di "applicare" quella legge, come efficace; sapendo peraltro che se quella legge e' incostituzionale, essa efficace non e', e dunque non e' sorto quel diritto, ma soltanto una parvenza di diritto, che egli allora non potrebbe mai dare come antefatto, al fine di integrare la capacita' della minore. Non si puo' dire al giudice che qualunque decisione altrui preconfezionata, quand'anche fosse contraria ai precetti costituzionali e vulnerasse i diritti inviolabili d'un altro, puo' essere autorizzata perche' una norma dice che in sede di consultorio nasce un diritto cosi', di decidere cosi'. Quando tocca al giudice decidere in sede di art. 12, il giudice inciampa necessariamente nella lettura, nell'osservanza e nell'applicazione dell'altra norma (artt. 4 e 5). In altre parole, la norma giuridica "adempiuta" che la minore reca al giudice (sono stata al Consultorio, ho fatto il colloquio, ho il certificato, ho deciso di abortire, dopo che ho fatto tutta questa procedura cio' che conta e' solo la mia determinazione, mi sono determinata, mi manca solo la capacita', autorizzami), e' la prima norma che il giudice deve verificare e applicare (se non e' stata adempiuta, non si procede); ma deve allora anche chiedersi se sta obbedendo e applicando una norma costituzionalmente legittima o illegittima. Se il congegno normativo sotto esame gli sottrae questo potere-dovere, e' anch'esso a sua volta incostituzionale (rif. art. 101 Cost: la soggezione del giudici "alle leggi" chiama in primis la soggezione e il rispetto della massima legge, che e' la Costituzione). 4. - Cio' posto, le ragioni per le quali la norma degli artt. 4 e 5, che questo giudice dovrebbe assumere come fonte del diritto della minore a determinarsi a interrompere la gravidanza, appare in conflitto con la Costituzione, sono molteplici. Ma il nocciolo pare a questo giudice risiedere nella violazione dell'art. 2 Cost., in riferimento al diritto alla vita, che e' il piu' elementare fra i diritti nativi e "inviolabili" dell'uomo. Gli artt. 4 e 5 della legge n. 194 non lo prendono neppure in considerazione, parlando solo di un "problema". Non attuano quella valutazione comparativa dei diritti in conflitto o in potenziale conflitto, di cui la Corte ha parlato fin dal 1975. E in cio' violano anche l'an. 3 della Costituzione. Non badano alla verifica dell'esistenza reale o meno di pericoli per la salute, ne' alla "serieta'" del pericolo. Non mettono a raffronto con tale pericolo (quando vi sia) il pericolo per la salute (fisica e psichica) che puo' derivare dall'aborto (profilo ex art. 32 Cost.). Violano il precetto di protezione della maternita' (art. 31, secondo comma Cost.) nel senso che la dottrina costituzionale da' alla parola "maternita'" contenuta nell'art. 31, secondo comma (non la donna incinta, non il concepito nel grembo di sua madre, ma la "maternita'" cioe' madre e bambino). La dottrina sottolinea che viene assegnata valenza costituzionale al rapporto che si instaura tra due soggetti legati dal vincolo biologico dipendente dal concepimento e dalla gestazione; situazione che coinvolge entrambi e che entrambi concorrono a realizzare, con la loro dignita'. Una visione piu' profonda e piu' illuminata dello sfondo problematico che contrassegna le norme della legge in esame si rinviene nella sentenza n. 35 del 1997. Ivi la Corte costituzionale parla sei volte di "diritto alla vita" del concepito, e lo assegna "all'essenza dei valori supremi su cui si fonda la costituzione italiana". L'espressione "diritto alla vita" non e' usata in senso generico, ma in senso tecnico, come diritto di cui il concepito e' titolare. Il riferimento all'art. 2 Cost., e' il grande filo conduttore. Quanto al possibile incrocio conflittuale fra diritto alla vita del concepito e diritto alla vita e alla salute della madre, lo schema essenziale vi e' ribadito: a) nell'obbligo costituzionale di tutela giuridica del concepito; b) nel principio costituzionale del "bilanciamento" tra il diritto alla vita del concepito e il diritto della madre alla vita e alla salute; c) nel dovere costituzionale del legislatore di prevedere una "previa valutazione delle condizione atte a giustificare" la liceita' dell'aborto per impedire che "l'aborto venga procurato senza serii accertamenti sulla realta' e gravita' del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire la gestazione". E anche in considerazione di questa maggior luce e maggior attenzione, e anche nella stessa osservazione della Corte che nel corso degli anni e' andato crescendo il livello di riconoscimento, di consapevolezza, e "si e' rafforzata la concezione, insita nella Costituzione italiana, in panicolare nell'art. 2, secondo la quale il diritto alla vita, inteso nella accezione piu' lata, sia da iscriversi tra i diritti inviolabili". Questo giudice sottomette pertanto la questione relativa al combinato disposto degli artt. 4, 5, e 12 della legge 194/1978, in relazione agli art. 2, 3, 31, secondo comma e 32 Cost.. La questione e' rilevante anche per gli artt. 4 e 5 della legge 194/1978, perche' devono essere necessariamente applicati dal giudice come presupposto indispensabile per intendere che e' sorta una "facolta' legittima di abortire", e solo inidonea per la minore che abbisogna di autorizzazione per la sua incapacita'. Ma se il comportamento deciso e' lecito o illecito, e dunque in radice autorizzabile o no dal giudice, dipende dalla legittimita' o illegittimita' della norma che lo configura. E se la norma e' incostituzionale, non puo' trasformare in lecito (secundum ius) cio' che e' illecito (contra ius). Per il procedimento in corso, la rilevanza appare evidente perche' se le norme fossero giudicate illeggittime dalla Corte costituzionale, questo giudice non potrebbe decidere di autorizzare una condotta antigiuridica (le motivazioni esaminate in sede di consultorio, nella fattispecie, esulano da problemi di salute di alcun genere). 5. - Per autonoma ragione questo giudice dubita della legittimita' dell'art. 12 della legge 194/1978 per violazione dell'artt. 3, 2, 21 e 19 Cost. in ragione della mancata previsione della possibilita' per il giudice di sollevare l'obiezione di coscienza. L'art. 3 Cost. ha rilievo di fronte all'obiezione disciplinata dall'art. 9 legge n. 194/1978. L'art. 2 Cost. ha rilievo in quanto la coscienza etica, la coscienza umana elementare, di fronte a un comportamento proprio (l'autorizzazione) da cui puo' derivare la morte di un essere umano innocente, esige un rispetto come di fronte a una liberta' (di coscienza) inviolabile e non sottoponibile a violenza o a vertigine morale. Significativi richiami alla liberta' di coscienza in questioni di fondamentale importanza (con "diritto all'obiezione") sono contenuti anche nel diritto europeo. Nel campo dell'obiezione al servizio militare, la Corte costituzionale ha mostrato fin dal 1984 una acutezza che ha aperto le porte a penetranti riforme normative. Gli artt. 19 e 21 sono del pari inerenti alla garanzia di diritti inviolabili (come anche la Corte costituzionale riconosce nella sentenza 196/1987. Tale sentenza ha respinto la questione. Ma essa viene qui riproposta, chiedendo di riverificare, anche alla luce delle considerazioni precedenti, che non si puo' nella concretezza della giurisdizione quotidiana e dei casi specifici che si presentano, fingere di tenere estraneo" il giudice alla "vicenda", all'evento, al frutto che implica anche la sua condotta volitiva, quando l'evento e' la morte del concepito. Si ha un bel dire che il compito del giudice e' diverso dal dire si' o no alla realizzazione della decisione abortiva. Che lui non sarebbe chiamato a ingerirsi nella valutazione delle condizioni che consentono l'aborto. Che a lui sarebbe demandato di formarsi un giudizio "in ordine alla capacita' della giovane di dare adeguata valutazione alla gravita' e all'importanza dell'atto che si accinge a compiere" (Ord. 463 del 1988). Che "la funzione del giudice tutelare costituisce strumento di garanzia circa la effettiva consapevolezza della scelta della minore nella valutazione dei beni in gioco, in un sistema che vede coinvolti tutti gli interventi di carattere sociale a tutela della maternita' e della vita del concepito, potendo il giudice negare l'autorizzazione quando escluda, nel suo prudente apprezzamento, tale consapevolezza" (Ord. n. 293 del 1993). Che deve badare anche alla "garanzia del rispetto delle procedure che la legge ha previsto a tale scopo"; ma senza badare all'interesse del concepito (come se questo, di fronte a un problema di coscienza come qui si pone, fosse una rassicurazione di serena "irresponsabilita'", o non piuttosto ribadisse il problema di coscienza proprio per tale asserzione), bensi' alla verifica "delle condizioni nelle quali la decisione della minore possa essere presa in piena liberta' morale", e facendo infine coincidere questa piena liberta' con "la consapevolezza piu' ampia e approfondita possibile" dei beni che la decisione coinvolge, dei presupposti sulla salute della madre, sulla conoscenza e la valutazione di tutti gli altri fattori di natura economico-sociale e giuridica che l'ordinamento e' tenuto a predisporre (Ord. n. 76 del 1996). Ma per quanto un giudice possa cercare di "chiamarsi fuori" e dire a se stesso che sta solo verificando se la minore ha raggiunto la consapevolezza piu' ampia e possibile eccetera (e come possa riuscire a farlo e' arduo dire) non riesce a cancellare la sua propria consapevolezza, questa si, che la realizzazione del manifestato proposito di abortire dipende dal suo si o dal suo no. Sia ricostruito come si vuole, codecisione o non codecisione, integrazione della volonta' o integrazione della capacita', giudizio sulla consapevolezza o altro; l'autorizzazione (da "augeo", aumentare) resta essenzialmente e strutturalmente un atto di "aumento" che fa diventare idoneo a un fine deliberato cio' che idoneo non sarebbe, che solleva fino al livello necessario cio' che da se' avrebbe statura insufficiente per arrivare allo scopo. In cio' vi e' un coinvolgimento nella vicenda abortiva ben maggiore di quello che compete al personale sanitario e ausiliario che partecipa alle procedure dell'art. 5; e che anzi puo' svolgere la funzione di soccorso, istituzionale, per aiutare la donna "a rimuovere le cause che la porterebbero alla interruzione di gravidanza" a far valere i suoi diritti di lavoratrice e di madre, a "promuovere ogni opportuno intervento atto a sostenere la donna, offrendole tutti gli aiuti necessari sia durante la gravidanza, sia dopo il parto". E l'atto finale che si richiede a questo personale e' un certificato che attesta la gravidanza, l'avvenuta richiesta, l'invito a soprassedere per sette giorni. Eppure l'obiezione e' ammessa dal legislatore. A fortiori dovrebbe essere ammessa per il giudice. Quando la Corte sostiene che ai magistrati puo' spettare un trattamento meno rispettoso della coscienza, cita l'art. 98 terzo comma Cost. (ma riguarda l'iscrizione ai partiti, e il problema e' tutto diverso). Quando cita l'art. 54 Cost. dimentica che anche il personale dell'art. 9 legge n. 194/1978 e' composto da cittadini che svolgono funzioni pubbliche. Quando cita il privilegio dell'inamovibilita' (art. 107) non si comprende come ne possa inferire che la sua coscienza e' meno degna di rispetto e salvaguardia di quella delle persone amovibili. Del resto, certe soluzioni pratiche suggerite tra le righe della sentenza 196/1987, ricorrendo all'organizzabilita' interna degli uffici, lasciano trapelare un margine problematico d'incertezza che fa confidare questo giudice in una nuova riflessione della Corte. La questione e' rilevante, perche' se fosse illegittima la norma che non prevede l'obiezione di coscienza del giudice che per inderogabili motivi di coscienza non si sente di autorizzare la decisione dell'aborto, questo giudice potrebbe deliberare di non partecipare al procedimento autorizzato
P. Q. M. Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 4, 5, e 12 della legge 194/1978 in relazione alle norme costituzionali menzionate in motivazione; Sospende il procedimento; Manda la cancelleria per le notificazione e le comunicazioni previste dalla legge. Milano, addi' 16 settembre 2000. Il giudice:Anzani 00C1283