N. 526 SENTENZA 15 - 22 novembre 2000
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Rilevanza della questione - Difetto - Esclusione - Eccezione di inammissibilita' della questione - Reiezione. Ordinamento penitenziario - Perquisizioni personali nei confronti dei detenuti - Mancata previsione dell'obbligo per l'amministrazione di redigere un atto motivato circa i presupposti e le modalita' della perquisizione e di comunicare l'atto all'autorita' giudiziaria per la convalida - Asserita violazione del principio di riserva di giurisdizione in tema di misure restrittive della liberta' personale, del principio di eguaglianza, per disparita' di trattamento rispetto a fattispecie analoghe, e del diritto alla tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti incisi dalle perquisizioni - Interpretazione delle norme in senso conforme a Costituzione - Non fondatezza, nei sensi di cui in motivazione, della questione. - Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 34. - Costituzione, artt. 3, 13, secondo e terzo comma, 24, primo e secondo comma, 97, primo comma, 113, primo e secondo comma.(GU n.49 del 29-11-2000 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Cesare MIRABELLI; Giudici: Francesco GUIZZI, Fernando SANTOSUOSSO, Massimo VARI, Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente Sentenza nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 34 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della liberta), promosso con ordinanza emessa il 28 ottobre 1998 dal Magistrato di sorveglianza di Bologna, iscritta al n. 27 del registro ordinanze 1999 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, 1a serie speciale, dell'anno 1999. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il giudice relatore Valerio Onida. Ritenuto in fatto 1. - Chiamato a decidere sul reclamo di un detenuto avverso l'ammonizione inflittagli dal direttore del carcere per inosservanza di ordini, il magistrato di sorveglianza di Bologna, con ordinanza emessa il 28 ottobre 1998, pervenuta a questa Corte l'11 gennaio 1999, ha sollevato questione di legittimita' costituzionale, in riferimento agli articoli 3, 13, secondo e terzo comma, 24, primo e secondo comma, 97, primo comma, 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dell'art. 34 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della liberta), nella parte in cui non prevede che nel disporre le perquisizioni personali l'amministrazione penitenziaria rediga atto motivato circa i presupposti e le modalita' della perquisizione, da comunicare entro quarantotto ore all'autorita' giudiziaria per la convalida. Il remittente premette che il detenuto reclamante lamentava la illegittimita' della sanzione disciplinare irrogata a causa del suo rifiuto di effettuare nudo le flessioni sulle gambe davanti agli agenti della polizia penitenziaria in sede di perquisizione personale, sottolineando il carattere lesivo della propria dignita' di tale operazione; che in risposta al quesito posto da esso magistrato in sede istruttoria circa la legittimita' di tale pratica durante le perquisizioni personali, il Ministero della giustizia rilevava che la suddetta modalita' di perquisizione consente, con la collaborazione del detenuto e in determinate occasioni che giustificano perquisizioni piu' accurate, un controllo efficace e tempestivo, evitando ritardi o disservizi che potrebbero compromettere l'ordine e la sicurezza all'interno dell'istituto o la sicurezza della stessa persona, precisando altresi' che dinanzi al rifiuto di collaborazione l'amministrazione puo' far ricorso all'uso della forza, ai sensi dell'art. 41 dell'ordinamento penitenziario, per prevenire od impedire eventuali situazioni pericolose per la sicurezza, e che il prosieguo della perquisizione puo' assumere natura di atto di polizia giudiziaria, disciplinata dalle norme del codice di procedura penale; che la direzione del carcere comunicava che le perquisizioni personali nei confronti di detto detenuto erano eseguite con modalita' particolarmente accurate secondo le disposizioni contenute in una circolare del 28 gennaio 1982, che appunto prevede le flessioni sulle gambe, a causa di una precisa segnalazione proveniente dal dipartimento dell'amministrazione penitenziaria circa la pericolosita' del predetto detenuto; che la difesa del reclamante eccepiva l'illegittimita' costituzionale dall'art. 34 della legge n. 354 del 1975, per contrasto con l'articolo 13 della Costituzione, nella parte in cui non prevede l'atto motivato dell'autorita' giudiziaria per procedere a perquisizione personale nei confronti dei detenuti; che il pubblico ministero concludeva per la rilevanza e la non manifesta infondatezza di detta questione. Cio' premesso, il magistrato remittente motiva la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale osservando che, poiche' si tratta di un reclamo contro il provvedimento disciplinare adottato per sanzionare il rifiuto del detenuto, considerato come inosservanza di ordine legittimamente impartito dalla polizia penitenziaria in sede di perquisizione personale, dal riconoscimento della illegittimita' costituzionale della norma denunciata discenderebbe l'illegittimita' dell'agire amministrativo, e pertanto l'illegittimita' della sanzione inflitta per l'inosservanza di un ordine non legittimo. Osserva poi il giudice a quo quanto alla non manifesta infondatezza, che l'art. 34 dell'ordinamento penitenziario, prevedendo il potere di perquisire le persone detenute o internate qualora sussistano motivi di sicurezza, e nel pieno rispetto della personalita' del detenuto, prescinde totalmente da un intervento dell'autorita' giudiziaria a garanzia della legittimita' di tale restrizione della liberta' personale: il procedimento si svolge tutto in ambito amministrativo, in quanto e' l'amministrazione che decide l'an, ravvisando la sussistenza dei motivi di sicurezza, il quando e il quomodo. Ad avviso del remittente tali interventi sulla liberta' personale sarebbero in contrasto con l'art. 13 della Costituzione, che non ammette alcuna forma di perquisizione personale se non con l'intervento, sia pure successivo in sede di convalida, dell'autorita' giudiziaria. I detenuti non potrebbero essere esclusi da questa garanzia, se non considerando il potere di perquisizione personale come inerente alle modalita' di esecuzione della detenzione, e dunque l'ordinamento penitenziario come un ordinamento separato per il quale non varrebbero i principi generali dell'ordinamento giuridico. Il contrasto di tale orientamento con la Costituzione apparirebbe ancora piu' evidente nei casi di soggetti sottoposti a custodia cautelare. Piu' in generale, il detenuto, secondo quanto riconosciuto dalla giurisprudenza di questa Corte, sarebbe titolare di un residuo di liberta' incomprimibile ad libitum dell'amministrazione penitenziaria, residuo tanto piu' prezioso in quanto e' l'ultimo ambito in cui puo' espandersi la sua personalita'. Onde l'amministrazione penitenziaria potrebbe adottare solo i provvedimenti in ordine alle modalita' di esecuzione della detenzione, dai quali sarebbero escluse le misure suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni, che richiederebbero l'esercizio di una funzione giurisdizionale, in ossequio all'art. 13 della Costituzione. Il giudice a quo si pone il problema del bilanciamento dei principi costituzionali concorrenti nel caso in esame, in particolare rilevando come a fronte della posizione soggettiva del detenuto vi sia l'opposta esigenza della difesa dell'ordine e della sicurezza negli istituti penitenziari, dell'ordine giuridico e della collettivita', che giustificherebbe l'esercizio dei poteri di coazione personale sui detenuti: ma ritiene che la disciplina costituzionale sulla liberta' personale, che consente in via di urgenza la temporanea sostituzione degli organi di pubblica sicurezza a quelli giudiziari nell'adozione di atti coercitivi, sia idonea a consentire la composizione dell'eventuale conflitto tra esigenze contrapposte. La norma denunciata rimette invece l'esecuzione di tali interventi alla completa ed insindacabile discrezionalita' dell'amministrazione penitenziaria, la quale non deve motivare in alcun atto la perquisizione, mentre la prescrizione che questa avvenga "nel pieno rispetto della personalita'" (art. 34, secondo comma) potrebbe costituire "una mera petizione di principio", dal momento che la perquisizione e' effettuata dalla stessa autorita' che la dispone, la quale non deve renderne conto ad alcuno, ne' redigere alcun verbale. Non potrebbe negarsi che negli istituti di pena sussista l'esigenza di interventi "a sorpresa" dettati dall'urgenza di prevenire situazioni pericolose per la sicurezza, ma tali esigenze potrebbero, ad avviso del remittente, congruamente perseguirsi anche nel rispetto del principio costituzionale che riserva all'autorita' giudiziaria la formulazione di giudizi di disvalore sulla persona e l'adozione di misure "degradanti". L'attuale sistema delle perquisizioni personali nei confronti dei detenuti appare, secondo il giudice a quo, in contrasto con gli invocati parametri costituzionali, anzitutto perche' non prevede nessun potere di controllo ex post da parte di un organo giudiziario circa il rispetto dei presupposti e dei limiti prescritti, onde l'art. 34 violerebbe la previsione della riserva di giurisdizione sancita dall'art. 13 della Costituzione. Inoltre il controllo ex post del giudice imporrebbe all'amministrazione l'obbligo di motivare le ragioni che hanno giustificato l'intervento, con effetto deterrente circa eventuali abusi e vessazioni, e a garanzia anche del diritto di difesa. La mancata previsione della redazione di un atto che illustri i motivi e le modalita' della perquisizione eseguita non consentirebbe al destinatario di tutelare in modo adeguato i suoi diritti in via giurisdizionale, in violazione degli artt. 24, commi primo e secondo, 97, comma primo e 113, commi primo e secondo, della Costituzione. La "lacuna normativa" apparirebbe infine "in contrasto con il principio di ragionevolezza ex art. 3 Cost." per la disparita' di trattamento rispetto ad altre situazioni in cui pure si richiedono interventi preventivi nell'immediatezza del fatto, per le quali tuttavia il legislatore prevede perquisizioni effettuate dagli organi della pubblica sicurezza, soggette a successiva convalida da parte del Procuratore della Repubblica sulla base del processo verbale redatto: si richiamano in proposito l'art. 4 della legge n. 152 del 1975, in tema di perquisizioni volte ad accertare il possesso di armi, nel corso di operazioni di polizia, e l'art. 103 del d.P.R. n. 309 del 1990, in tema di perquisizioni urgenti nel corso di operazioni di polizia per la prevenzione e la repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti. Non si giustificherebbe, in questa prospettiva, la scelta legislativa operata in materia di perquisizioni personali sui detenuti. In definitiva, secondo il remittente, la previsione di un obbligo in capo all'amministrazione penitenziaria di redigere un atto congruamente motivato sulla perquisizione personale effettuata, da sottoporre al vaglio dell'autorita' giudiziaria, realizzerebbe, in ossequio al principio di ragionevolezza, un equilibrato bilanciamento dei principi costituzionali in gioco, mentre l'attuale sistema assicurerebbe tutela solo alle esigenze di sicurezza a scapito dei diritti di liberta' e di difesa. 2. - E' intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per difetto di rilevanza, o, in subordine, infondata. Essa sembrerebbe difettare di rilevanza, non avendo il giudice remittente motivato in ordine alla legittimita' dell'ordine impartito dall'autorita' penitenziaria, e quindi in ordine alla legittimita' della conseguente sanzione disciplinare. Infatti la legittimita' della normativa sulle perquisizioni personali dei detenuti potrebbe essere sindacata solo nella concreta ipotesi in cui il giudice abbia accertato preliminarmente che il comportamento della amministrazione sia conforme alla normativa censurata, si' che la proposizione della questione di costituzionalita' si porrebbe come ultimo rimedio possibile per l'accoglimento del reclamo, altrimenti da respingere. La questione sarebbe invece posta come ipotetica o eventuale. Cio' risulterebbe anche considerando che lo stesso remittente ha evidenziato nelle premesse la tesi secondo cui la pratica delle flessioni sulle gambe sarebbe consentita con la collaborazione del detenuto, in mancanza della quale, ove ritenuto necessario, l'amministrazione potrebbe ricorrere all'impiego di mezzi di coercizione, ai sensi dell'art. 41 dell'ordinamento penitenziario. Non risultando dall'ordinanza che oggetto di discussione sia l'applicazione di tale ultima norma, non sarebbe chiaro se il giudice abbia considerato la collaborazione del detenuto per tale pratica come una facolta' a lui attribuita (avendo l'amministrazione la possibilita' di ricorrere a mezzi diversi dalla perquisizione in senso stretto, cioe' ai mezzi di coercizione), con la conseguenza che, in mancanza del consenso del detenuto, un ordine in tal senso non avrebbe potuto essere impartito, risultando percio' illegittima la sanzione disciplinare irrogata. Nel merito, in subordine, l'Avvocatura erariale osserva che lo stato di detenzione comporterebbe necessariamente limitazioni alla garanzia della inviolabilita' della liberta' personale. Considerato in diritto 1. - La questione sollevata investe l'art. 34 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della liberta), che disciplina le perquisizioni personali nei confronti dei detenuti e degli internati, stabilendo che esse possono essere effettuate "per motivi di sicurezza" (primo comma), e che devono essere effettuate "nel pieno rispetto della personalita'" (secondo comma). La disposizione e' censurata nella parte in cui non prevede che, nel disporre la perquisizione, l'amministrazione penitenziaria debba redigere atto motivato circa i presupposti e le modalita' della stessa e comunicarlo entro quarantotto ore all'autorita' giudiziaria per la convalida, secondo quanto e' previsto dall'art. 13, terzo comma, della Costituzione per i provvedimenti restrittivi della liberta' personale adottati in via provvisoria dall'autorita' di pubblica sicurezza. La disciplina denunciata sarebbe in contrasto, in primo luogo, con l'art. 13 della Costituzione, appunto perche' non rispetterebbe la "riserva di giurisdizione" ivi stabilita, non prevedendo un intervento di controllo a posteriori da parte dell'autorita' giudiziaria, controllo che imporrebbe all'amministrazione l'obbligo di motivare i provvedimenti, con effetto deterrente circa eventuali abusi e vessazioni, a garanzia altresi' del diritto di difesa. La mancata previsione di un atto dell'amministrazione che illustri i motivi e le modalita' della perquisizione eseguita, inoltre, non consentirebbe al destinatario di tutelare in modo adeguato i suoi diritti in via giurisdizionale, con conseguente violazione dei diritti di azione giudiziaria e di difesa (art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione), dei principi di imparzialita' e buon andamento dell'amministrazione (art. 97, primo comma, della Costituzione), nonche' del diritto alla tutela giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, senza esclusioni o limitazioni (art. 113, primo e secondo comma, della Costituzione). Sussisterebbe, infine, violazione del principio di eguaglianza-ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione per la disparita' di trattamento rispetto ad altre ipotesi nelle quali la legge, pur prevedendo il potere degli organi di pubblica sicurezza di procedere a perquisizioni personali in via di urgenza, impone la successiva convalida da parte dell'autorita' giudiziaria. Secondo il giudice a quo solo la previsione dell'obbligo di redigere un atto motivato, da sottoporre al vaglio dell'autorita' giudiziaria, realizzerebbe un ragionevole bilanciamento fra i diritti di liberta' e di difesa, da un lato, e dall'altro le esigenze di sicurezza che possono giustificare le perquisizioni. 2. - L'eccezione di inammissibilita' della questione, avanzata dalla difesa del Presidente del Consiglio, non puo' essere accolta. Il remittente ha infatti motivato la rilevanza della questione, osservando che la risoluzione di essa e' pregiudiziale alla definizione del giudizio davanti ad esso instaurato, nel quale e' contestata la legittimita' di una sanzione disciplinare inflitta per inosservanza dell'ordine di sottoporsi a perquisizione con le modalita' indicate. La legittimita' costituzionale della norma che prevede il potere di procedere a perquisizioni personali nei confronti dei detenuti condiziona infatti la legittimita' dell'ordine di perquisizione, e la legittimita' di tale ordine a sua volta condiziona la legittimita' della sanzione disciplinare. Non si puo' condividere la tesi dell'Avvocatura erariale, secondo cui la questione di legittimita' costituzionale potrebbe essere sollevata solo come estremo rimedio, una volta esclusa ogni altra ragione di illegittimita' dell'atto sottoposto al controllo del giudice. Al contrario, il quesito sulla legittimita' costituzionale della norma attributiva del potere esercitato, legittimita' messa in dubbio in quanto detta norma non prevede la convalida della perquisizione da parte dell'autorita' giudiziaria, e non consentirebbe un efficace controllo giudiziario sulle perquisizioni, precede logicamente ogni questione circa la conformita' o meno, alla norma stessa, dell'atto sottoposto a controllo. Ne' vale osservare, come fa la difesa del Presidente del Consiglio, che, nella specie, richiedendo la perquisizione, da effettuare con le particolari modalita' indicate, la collaborazione del detenuto, il giudice a quo avrebbe dovuto chiarire se riteneva il consenso del detenuto condizione di legittimita' dell'ordine, con la conseguenza che, in mancanza di tale consenso, l'ordine, e dunque la sanzione, risulterebbero senz'altro illegittimi. Altro e' infatti la collaborazione necessaria del detenuto per la effettuazione della perquisizione con le particolari modalita' indicate, altro il consenso dello stesso, non richiesto e comunque irrilevante, vertendosi nell'ambito di diritti indisponibili. 3. - Nel merito, la questione non e' fondata nei sensi di seguito specificati. La tesi del remittente, secondo cui le perquisizioni personali a carico dei detenuti dovrebbero rispettare le regole di cui all'art. 13, secondo e terzo comma, della Costituzione, e in particolare la regola che impone l'intervento dell'autorita' giudiziaria, sia pure per controllare e convalidare a posteriori la perquisizione disposta ed eseguita dall'amministrazione in via di urgenza, presuppone che dette perquisizioni incidano su un diritto di liberta' del detenuto non venuto meno per effetto dello stato di detenzione. Solo in questo caso, infatti, potrebbero trovare applicazione le norme costituzionali che stabiliscono i presupposti e le modalita' per l'adozione di misure di "restrizione della liberta' personale" (art. 13, secondo comma). Lo stato di detenzione comporta, per definizione, una limitazione della liberta' personale, che deve intervenire alle condizioni e nei modi previsti dall'art. 13 della Costituzione, cioe' sulla base di una misura legale, adottata o convalidata dall'autorita' giudiziaria. E' certamente vero che, come argomenta il giudice a quo, lo stato di detenzione lascia sopravvivere in capo al detenuto diritti costituzionalmente protetti, e in particolare un "residuo" di liberta' personale. Questa Corte, muovendo proprio da questa premessa, ha piu' volte chiarito che l'amministrazione penitenziaria non puo' adottare "provvedimenti suscettibili di introdurre ulteriori restrizioni in tale ambito, o che, comunque, comportino una sostanziale modificazione nel grado di privazione della liberta' personale" imposto al detenuto, il che puo' avvenire "soltanto con le garanzie (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente previste dall'art. 13, secondo comma, della Costituzione"; ma puo' solo adottare "provvedimenti in ordine alle modalita' di esecuzione della pena (rectius: della detenzione), che non eccedono il sacrificio della liberta' personale gia' potenzialmente imposto al detenuto con la sentenza di condanna" (sentenza n. 349 del 1993), ossia "misure di trattamento rientranti nell'ambito di competenza" della medesima amministrazione, "attinenti alle modalita' concrete, rispettose dei diritti del detenuto, di attuazione del regime carcerario in quanto tale, e dunque gia' potenzialmente ricomprese nel quantum di privazione della liberta' personale conseguente allo stato di detenzione" (sentenza n. 351 del 1996). Pertanto, il quesito preliminare cui la Corte e' chiamata a rispondere nella presente occasione e' se le perquisizioni personali previste dal regolamento penitenziario ed effettuate dagli agenti della polizia penitenziaria a carico dei detenuti siano misure incidenti sul "residuo" di liberta' personale di cui questi ultimi sono titolari, ovvero costituiscano misure rientranti nel regime carcerario e dunque non eccedenti il sacrificio della liberta' personale gia' discendente dallo stato di detenzione. Soltanto se, infatti, la risposta fosse nel primo senso, come si e' detto, dovrebbero trovare applicazione le garanzie di cui all'art. 13, secondo e terzo comma, della Costituzione. 4. - Il remittente non contesta che vi sia un'esigenza di difesa dell'ordine e della sicurezza negli istituti penitenziari, nonche' di difesa dell'ordine giuridico e della collettivita', che giustifica l'esercizio di poteri di coazione personale sui detenuti, e quindi anche di poteri di perquisizione: ma ritiene che tali esigenze possano giustificare solo la previsione di misure restrittive adottate con le garanzie dell'art. 13 della Costituzione, e quindi sottintende che da tali misure risulti inciso un diritto di liberta' non compresso dallo stato di detenzione. Se cosi' fosse, invero, non sarebbe nemmeno sufficiente richiedere solo, come fa il giudice a quo, un intervento successivo di convalida della perquisizione da parte dell'autorita' giudiziaria. Se si trattasse di misure incidenti su uno spazio di liberta' non pregiudicato dallo stato di detenzione, dovrebbero dispiegarsi pienamente le garanzie di cui all'art. 13, secondo e terzo comma, della Costituzione, e dunque i "casi e modi" delle perquisizioni personali dovrebbero essere specificati tassativamente dalla legge - non essendo sufficiente in proposito il generico riferimento ai "motivi di sicurezza" che si trova nel testo dell'art. 34 della legge n. 354 del 1975 -, e l'intervento motivato dell'autorita' giudiziaria dovrebbe di norma essere preventivo, e non successivo, salva restando solo l'ipotesi di perquisizioni effettuate senza previo ordine giudiziale per ragioni di urgenza riscontrate in concreto, e con successivo giudizio di convalida. In realta', la restrizione della liberta' personale in cui si sostanzia lo stato di detenzione da' luogo all'applicazione di un regime - risultante dalla complessiva disciplina dell'ordinamento penitenziario, nel rispetto dell'art. 13, quarto comma, della Costituzione - al quale sono intrinseche le ragioni di ordine e di sicurezza che consentono o impongono un controllo della persona da parte degli agenti amministrativi. Il detenuto si trova sotto la responsabilita' dell'amministrazione penitenziaria, a cui e' affidato il compito di assicurare che egli rimanga in carcere (evitando pericoli di evasione), di controllare il rispetto da parte sua delle regole della disciplina carceraria, ma anche di garantirne l'incolumita' proteggendolo da possibili aggressioni da parte di altri detenuti. Del regime carcerario, come definito dalle norme che lo regolano, fa parte la previsione di perquisizioni, volte a prevenire i rischi, che l'esperienza della vita dei penitenziari dimostra sussistere, di introduzione in carcere e di detenzione da parte dei carcerati di armi, di oggetti atti ad offendere o comunque proibiti per ragioni di disciplina, di altre cose o sostanze vietate. Infatti il regolamento penitenziario (ora il d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, che pero' non reca sostanziali innovazioni, a questo riguardo, rispetto al previgente d.P.R. 29 aprile 1976, n. 431) disciplina le diverse ipotesi di perquisizione personale dei detenuti, all'ingresso in istituto (art. 23, comma 1), in occasione dei trasferimenti (art. 83, comma 2), nelle altre situazioni in cui il regolamento interno dell'istituto stabilisce che si effettuino perquisizioni ordinarie (art. 74, comma 4), nonche', in via straordinaria, su ordine del direttore ovvero, in caso d'urgenza, su iniziativa del personale (art. 74, commi 5 e 7). Deve dunque concludersi che le perquisizioni personali disposte nei confronti dei detenuti, nei casi previsti dai regolamenti, sono comprese fra le "misure di trattamento, rientranti nella competenza dell'amministrazione penitenziaria, attinenti alle modalita' concrete (...) di attuazione del regime carcerario in quanto tale" (sentenza n. 351 del 1996). Esse non incidono, di per se', sul "residuo" di liberta' personale di cui sono titolari i detenuti, bensi' rientrano nell'ambito delle restrizioni alla liberta' personale implicate dallo stato di detenzione. Non v'e' pertanto luogo, in questi limiti, ad applicare le regole dell'art. 13, secondo e terzo comma, della Costituzione. 5. - Neppure ha fondamento la censura di violazione del principio di eguaglianza o di ragionevolezza, fondata sul raffronto con le ipotesi di perquisizioni personali effettuate dalla polizia per accertare l'eventuale possesso di armi, esplosivi e strumenti di effrazione (art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152) o nell'ambito dei controlli per la prevenzione e la repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti (art. 109, comma 3, del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), in cui e' prevista la convalida da parte dell'autorita' giudiziaria. Si tratta infatti, in quelle ipotesi, di perquisizioni a carico di persone in stato di liberta', e dunque nessun utile raffronto puo' effettuarsi con la diversa situazione dei detenuti. 6. - Questa prima conclusione non esaurisce, pero', l'ambito dei problemi sollevati con la presente questione di legittimita' costituzionale. Il potere di perquisizione dei detenuti, attribuito all'amministrazione carceraria, non e' senza limiti, ne' con riguardo ai presupposti, ne' con riguardo alle modalita' del suo esercizio. Inoltre, e conseguentemente, la garanzia del rispetto di tali limiti richiede che le misure adottate ed eseguite dall'amministrazione penitenziaria siano soggette a pieno controllo giurisdizionale. Per cio' che attiene ai presupposti, le perquisizioni possono essere effettuate solo "per motivi di sicurezza" (art. 34 della legge n. 354 del 1975), come specificati dalle norme regolamentari ricordate. Queste indicano le situazioni nelle quali le esigenze di sicurezza comportano in via ordinaria l'effettuazione di perquisizioni personali, nonche' i presupposti e le procedure per le perquisizioni "fuori dei casi ordinari", che possono essere disposte solo per ordine del direttore (art. 74, comma 5, del d.P.R. n. 230 del 2000), ovvero, in caso di comprovata "particolare urgenza", su iniziativa del personale dell'istituto, che deve pero' informarne immediatamente il direttore, "specificando i motivi che hanno determinato l'urgenza" (art. 74, comma 7, del d.P.R. n. 230 del 2000). Il potere di perquisizione non puo' dunque essere esercitato ad libitum dell'amministrazione o della polizia penitenziaria, ma solo nei casi in cui e' previsto dalle norme che definiscono il regime carcerario. Al di fuori di questi presupposti, esso sarebbe esercitato arbitrariamente, esulando dalla applicazione del regime carcerario per sconfinare nell'indebita incisione della liberta' personale del detenuto, onde le relative misure e attivita' sarebbero contrarie al diritto. Quanto ai modi della perquisizione che - e' il tema specifico da cui prende origine il giudizio a quo - vale anzitutto il principio per cui i provvedimenti dell'amministrazione in ordine alle modalita' di esecuzione della pena detentiva, non eccedenti il sacrificio della liberta' personale gia' imposto al detenuto dallo stato di detenzione, "rimangono soggetti ai limiti ed alle garanzie previsti dalla Costituzione in ordine al divieto di ogni violenza fisica e morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari al senso di umanita' (art. 27, terzo comma), ed al diritto di difesa (art. 24)" (sentenza n. 349 del 1993; e cfr. anche sentenza n. 410 del 1993). A fronte dunque del potere dell'amministrazione, fondato sulle ragioni di sicurezza inerenti alla vita carceraria, e pur non opponendovisi un diritto di liberta' personale, gia' compresso dallo stato di detenzione, stanno in ogni caso precisi ed inviolabili diritti della personalita' spettanti al detenuto; e le misure di attuazione del regime carcerario devono essere in ogni caso "rispettose dei diritti del detenuto" (sentenza n. 351 del 1996). Per cio' che concerne i limiti sostanziali, la legge sull'ordinamento penitenziario li ribadisce espressamente, la' dove stabilisce che "la perquisizione personale deve essere effettuata nel pieno rispetto della personalita'" del detenuto (art. 34, secondo comma, della legge n. 354 del 1975), con una prescrizione da ritenersi di portata sostanzialmente equivalente a quella contenuta nell'art. 249, comma 2, del codice di procedura penale, concernente le perquisizioni per ragioni di ricerca di corpi di reato o di cose pertinenti al reato, ai cui sensi "la perquisizione e' eseguita nel rispetto della dignita' e, nei limiti del possibile, del pudore di chi vi e' sottoposto". Nella stessa linea, il regolamento penitenziario specifica che "il personale che effettua la perquisizione e quello che vi presenzia deve essere dello stesso sesso del soggetto da perquisire" (art. 74, primo comma, del d.P.R. n. 230 del 2000). A cio' si aggiunge, comunque, lo stretto dovere dell'amministrazione di curare e sorvegliare che le circostanze ambientali in cui le perquisizioni si svolgono, e i comportamenti del personale che vi procede, siano in concreto rispettosi della persona e della sua inviolabile dignita'. Quanto piu', infatti, la persona, trovandosi in stato di soggezione, e' esposta al possibile pericolo di abusi, tanto piu' rigorosa deve essere l'attenzione per evitare che questi si verifichino. 7. - L'affermazione di limiti sostanziali al potere di perquisizione, derivanti da diritti della personalita', e per altro verso del diritto inviolabile alla tutela giurisdizionale, che accompagna per necessita' costituzionale ogni situazione soggettiva protetta, e dunque anche i diritti dei detenuti (cfr. sentenze n. 212 del 1997, n. 26 del 1999), comporta che ci si interroghi sulla sussistenza in concreto, nell'ordinamento penitenziario, di garanzie effettive di tutela giurisdizionale dei diritti suscettibili di essere incisi dalle perquisizioni. E' questa, al di la' dell'improprio richiamo all'art. 13, secondo e terzo comma, della Costituzione, la sostanza della censura mossa dal remittente all'art. 34 della legge penitenziaria, attraverso l'evocazione dei parametri degli articoli 3, 24, primo e secondo comma, 97, primo comma, e 113 della Costituzione. Sarebbe infatti vano rinvenire nel sistema legislativo il riconoscimento dei diritti del detenuto, se non sussistessero forme di tutela giurisdizionale degli stessi, o queste non risultassero efficaci per mancanza dei presupposti necessari all'esercizio del controllo giurisdizionale. Non basta il controllo che il giudice penale puo' essere chiamato ad esercitare sulle perquisizioni illegittime in sede di cognizione dei reati di "perquisizione e ispezione personale arbitrarie" (art. 609 del codice penale, ai cui sensi e' punito "il pubblico ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue una perquisizione o un'ispezione personale"), che fossero eventualmente commessi dal personale delle istituzioni penitenziarie, pur dovendosi ritenere applicabile tale fattispecie delittuosa anche alle perquisizioni arbitrarie o abusive compiute a carico dei detenuti. Ne' basta il controllo esercitabile dallo stesso giudice penale allorquando sia chiamato a valutare la sussistenza, nei confronti di detenuti imputati di reati contro la pubblica amministrazione, come la violenza o minaccia o la resistenza ad un pubblico ufficiale, compiuti in occasione di perquisizioni illegittime, della esimente di aver reagito ad un atto arbitrario del pubblico ufficiale (art. 4 del d.lgs. 14 settembre 1944, n. 288). Si tratta infatti, in entrambi i casi, di una cognizione solo indiretta ed eventuale, insufficiente ad apprestare una piena tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti nei riguardi di atti illegittimi dell'amministrazione. Per la stessa ragione, non basta il sindacato giurisdizionale, ancora una volta indiretto, sulla legittimita' dell'ordine di sottoporsi a perquisizione, in sede di reclamo al magistrato di sorveglianza, ai sensi dell'art. 69, comma 6, lettera b della legge penitenziaria - come nella specie sottoposta al giudice a quo - avverso la sanzione disciplinare che sia stata irrogata per il rifiuto da parte del detenuto di ottemperarvi. Occorre che vi sia una sede giurisdizionale nella quale l'eventuale illegittimita' della misura possa essere direttamente e pienamente fatta valere ex se, come motivo di impugnazione della misura medesima, per garantire l'osservanza sia dei limiti "esterni" del potere esercitato, sia dei limiti "interni" inerenti alla congruita' dell'atto rispetto al fine cui e' diretto (cfr. sentenze n. 410 del 1993, n. 351 del 1996, n. 376 del 1997). Benche' il legislatore della legge penitenziaria "non abbia esplicitamente e compiutamente risolto il problema dei rimedi giurisdizionali idonei ad assicurare la tutela" dei diritti dei detenuti nell'ambito dell'istituzione carceraria (sentenza n. 212 del 1997), a censurare tale lacuna ha gia' provveduto questa Corte dichiarando l'illegittimita' costituzionale degli articoli 35 e 69 della legge n. 354 del 1975 proprio "nella parte in cui non prevedono un tutela giurisdizionale nei confronti degli atti della amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della liberta' personale" (sentenza n. 26 del 1999). Non vi e' ragione dunque di tornare sul punto, avendo detta pronuncia gia' realizzato, nei limiti di cio' che spetta a questa Corte, l'adeguamento costituzionale dell'ordinamento sotto il profilo considerato: mentre spetta al legislatore effettuare le scelte necessarie per disciplinare la materia, e spetta ai giudici, frattanto, individuare nell'ordinamento in vigore lo strumento per concretizzare il principio affermato (cfr. sentenze n. 270 del 1999, n. 295 del 1991). 8. - In questa sede resta solo da esaminare se le modalita' procedimentali applicabili alle perquisizioni dei detenuti siano sufficienti ed idonee a consentire un effettivo controllo giurisdizionale degli atti dell'amministrazione. In particolare, a questi fini, e' necessario che tali atti siano motivati e documentati. Gia' si e' detto, quanto ai presupposti della misura, come il regolamento penitenziario contenga una disciplina, ovviamente vincolante, dei casi di perquisizione ordinaria, nonche' dei casi e dei modi in cui si puo' procedere a perquisizione "fuori dei casi ordinari". In quest'ultima ipotesi, non manca la garanzia di motivazione dell'atto, sia nel caso di ordine del direttore (art. 74, comma 5, del d.P.R. n. 230 del 2000), che, in base ai principi generali dell'attivita' amministrativa, specie se incidente su posizioni individuali tutelate, deve essere motivato; sia nel caso d'urgenza, in cui il personale procede di propria iniziativa, dovendone motivare specificamente le ragioni nell'informarne "immediatamente" il direttore (art. 74 cit., comma 7). Cio' comporta che, in ogni caso, i presupposti dell'atto devono essere documentati. Quanto alle modalita', il regolamento, espressamente, si limita a prescrivere che la perquisizione avvenga alla presenza di un appartenente al corpo di polizia penitenziaria, di qualifica non inferiore a quella di vice sovrintendente (art. 74 cit., comma 1, primo periodo), e a precisare che la perquisizione puo' non essere eseguita quando e' possibile compiere l'accertamento con strumenti di controllo (art. 74 cit., comma 2). Tuttavia, il sistema normativo deve essere interpretato in conformita' alla Costituzione, e questa impone, come si e' detto, che sia assicurata una diretta ed effettiva tutela giurisdizionale dei diritti dei detenuti. Perche' essa possa dispiegarsi, e' necessario che l'attivita' dell'amministrazione risulti sempre documentata e verificabile - in conformita' del resto anche ai principi di trasparenza e buon andamento che la governano - al fine di consentire il controllo del giudice sul rispetto dei limiti ad essa posti. Deve pertanto ritenersi che sia sempre necessaria ed imposta, proprio per consentire un effettivo controllo giurisdizionale, una forma di documentazione dell'avvenuta perquisizione, che permetta di conoscere l'identita' di chi vi e' stato sottoposto e di chi vi ha proceduto e assistito, le circostanze di luogo e di tempo, il fondamento giustificativo della stessa, dato dal ricorrere dei casi ordinari o dall'esistenza dell'ordine del direttore o dalle ragioni di particolare urgenza, specificate nell'informazione immediata data al direttore, nonche' le modalita' con le quali la perquisizione e' avvenuta, in particolare nel caso in cui si ritenga di dover ricorrere a modalita' diverse da quelle ordinarie o che comportino una ispezione corporale. In tali ultime ipotesi, inoltre, l'obbligo di motivazione, e la conseguente possibilita' di sindacato giurisdizionale, si debbono ritenere estesi anche alla scelta delle modalita', che debbono essere, oltre che sempre rispettose della personalita' del detenuto, adeguatamente giustificate, e cio' sia che si tratti di una iniziativa assunta nell'ambito dell'istituto, sia che sussistano istruzioni o segnalazioni dell'amministrazione penitenziaria centrale, a loro volta pienamente sindacabili da parte del giudice. 9. - Cosi' interpretato, alla luce dei principi costituzionali, il sistema normativo, non hanno ragione di sussistere le censure mosse dal remittente in relazione all'art. 34 della legge penitenziaria.
Per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara non fondata, nei sensi di cui in motivazione, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 34 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sull'esecuzione delle misure privative e limitative della liberta), sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, secondo e terzo comma, 24, primo e secondo comma, 97, primo comma, 113, primo e secondo comma, della Costituzione, dal magistrato di sorveglianza di Bologna con l'ordinanza in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000. Il Presidente: Mirabelli Il redattore: Onida Il cancelliere: Di Paola Depositata in cancelleria il 22 novembre 2000. Il direttore della cancelleria: Di Paola 00C1341