N. 526 SENTENZA 15 - 22 novembre 2000

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Rilevanza  della  questione  -  Difetto  -  Esclusione - Eccezione di
inammissibilita' della questione - Reiezione.
Ordinamento penitenziario - Perquisizioni personali nei confronti dei
detenuti  -  Mancata previsione dell'obbligo per l'amministrazione di
redigere  un  atto  motivato circa i presupposti e le modalita' della
perquisizione e di comunicare l'atto all'autorita' giudiziaria per la
convalida   -   Asserita  violazione  del  principio  di  riserva  di
giurisdizione in tema di misure restrittive della liberta' personale,
del  principio di eguaglianza, per disparita' di trattamento rispetto
a fattispecie analoghe, e del diritto alla tutela giurisdizionale dei
diritti  dei  detenuti  incisi  dalle perquisizioni - Interpretazione
delle  norme  in  senso conforme a Costituzione - Non fondatezza, nei
sensi di cui in motivazione, della questione.
- Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 34.
- Costituzione,  artt.  3,  13,  secondo  e  terzo comma, 24, primo e
  secondo comma, 97, primo comma, 113, primo e secondo comma.
(GU n.49 del 29-11-2000 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Cesare MIRABELLI;
  Giudici:  Francesco  GUIZZI,  Fernando  SANTOSUOSSO,  Massimo VARI,
Cesare RUPERTO, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA,
Carlo  MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Franco BILE, Giovanni Maria FLICK
ha pronunciato la seguente


                              Sentenza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 34 della legge
26 luglio   1975,  n. 354  (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e
sull'esecuzione  delle  misure privative e limitative della liberta),
promosso  con  ordinanza  emessa il 28 ottobre 1998 dal Magistrato di
sorveglianza  di  Bologna,  iscritta  al n. 27 del registro ordinanze
1999  e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 5, 1a
serie speciale, dell'anno 1999.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella camera di consiglio del 27 settembre 2000 il giudice
relatore Valerio Onida.

                          Ritenuto in fatto


    1. - Chiamato  a  decidere  sul  reclamo  di  un detenuto avverso
l'ammonizione  inflittagli dal direttore del carcere per inosservanza
di  ordini,  il  magistrato di sorveglianza di Bologna, con ordinanza
emessa  il  28 ottobre  1998,  pervenuta  a questa Corte l'11 gennaio
1999,  ha  sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale, in
riferimento  agli  articoli 3, 13, secondo e terzo comma, 24, primo e
secondo  comma,  97,  primo  comma, 113, primo e secondo comma, della
Costituzione,  dell'art. 34 della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull'ordinamento   penitenziario   e   sull'esecuzione  delle  misure
privative e limitative della liberta), nella parte in cui non prevede
che   nel   disporre  le  perquisizioni  personali  l'amministrazione
penitenziaria rediga atto motivato circa i presupposti e le modalita'
della    perquisizione,   da   comunicare   entro   quarantotto   ore
all'autorita' giudiziaria per la convalida.
    Il  remittente  premette  che il detenuto reclamante lamentava la
illegittimita'  della  sanzione disciplinare irrogata a causa del suo
rifiuto  di  effettuare  nudo  le  flessioni sulle gambe davanti agli
agenti   della   polizia   penitenziaria  in  sede  di  perquisizione
personale,  sottolineando  il carattere lesivo della propria dignita'
di  tale  operazione;  che  in  risposta  al  quesito  posto  da esso
magistrato  in sede istruttoria circa la legittimita' di tale pratica
durante  le  perquisizioni  personali,  il  Ministero della giustizia
rilevava  che la suddetta modalita' di perquisizione consente, con la
collaborazione   del   detenuto   e   in  determinate  occasioni  che
giustificano  perquisizioni  piu'  accurate,  un controllo efficace e
tempestivo,    evitando   ritardi   o   disservizi   che   potrebbero
compromettere  l'ordine e la sicurezza all'interno dell'istituto o la
sicurezza  della  stessa  persona, precisando altresi' che dinanzi al
rifiuto  di collaborazione l'amministrazione puo' far ricorso all'uso
della  forza,  ai  sensi dell'art. 41 dell'ordinamento penitenziario,
per  prevenire  od  impedire  eventuali  situazioni pericolose per la
sicurezza,  e  che  il  prosieguo  della  perquisizione puo' assumere
natura  di  atto di polizia giudiziaria, disciplinata dalle norme del
codice  di  procedura penale; che la direzione del carcere comunicava
che  le perquisizioni personali nei confronti di detto detenuto erano
eseguite   con   modalita'   particolarmente   accurate   secondo  le
disposizioni  contenute  in  una  circolare  del 28 gennaio 1982, che
appunto  prevede  le  flessioni  sulle  gambe, a causa di una precisa
segnalazione   proveniente   dal   dipartimento  dell'amministrazione
penitenziaria  circa  la  pericolosita' del predetto detenuto; che la
difesa   del   reclamante  eccepiva  l'illegittimita'  costituzionale
dall'art. 34   della   legge  n. 354  del  1975,  per  contrasto  con
l'articolo  13  della  Costituzione,  nella  parte in cui non prevede
l'atto   motivato   dell'autorita'   giudiziaria   per   procedere  a
perquisizione  personale  nei confronti dei detenuti; che il pubblico
ministero concludeva per la rilevanza e la non manifesta infondatezza
di detta questione.
    Cio' premesso, il magistrato remittente motiva la rilevanza della
questione  di  legittimita' costituzionale osservando che, poiche' si
tratta  di  un  reclamo contro il provvedimento disciplinare adottato
per sanzionare il rifiuto del detenuto, considerato come inosservanza
di  ordine  legittimamente  impartito  dalla polizia penitenziaria in
sede   di   perquisizione   personale,   dal   riconoscimento   della
illegittimita'  costituzionale  della  norma denunciata discenderebbe
l'illegittimita'     dell'agire     amministrativo,     e    pertanto
l'illegittimita'  della  sanzione  inflitta  per l'inosservanza di un
ordine non legittimo.
    Osserva   poi   il  giudice  a  quo  quanto  alla  non  manifesta
infondatezza,    che    l'art. 34   dell'ordinamento   penitenziario,
prevedendo  il  potere  di perquisire le persone detenute o internate
qualora  sussistano  motivi  di sicurezza, e nel pieno rispetto della
personalita'  del  detenuto,  prescinde  totalmente  da un intervento
dell'autorita'  giudiziaria  a  garanzia  della  legittimita' di tale
restrizione della liberta' personale: il procedimento si svolge tutto
in  ambito  amministrativo, in quanto e' l'amministrazione che decide
l'an,  ravvisando la sussistenza dei motivi di sicurezza, il quando e
il quomodo.
    Ad avviso del remittente tali interventi sulla liberta' personale
sarebbero  in  contrasto  con  l'art. 13  della Costituzione, che non
ammette   alcuna   forma   di  perquisizione  personale  se  non  con
l'intervento,   sia   pure   successivo   in   sede   di   convalida,
dell'autorita'  giudiziaria. I detenuti non potrebbero essere esclusi
da  questa  garanzia,  se non considerando il potere di perquisizione
personale   come   inerente   alle   modalita'  di  esecuzione  della
detenzione,  e dunque l'ordinamento penitenziario come un ordinamento
separato   per   il   quale   non   varrebbero  i  principi  generali
dell'ordinamento  giuridico. Il contrasto di tale orientamento con la
Costituzione  apparirebbe  ancora  piu' evidente nei casi di soggetti
sottoposti  a  custodia  cautelare.  Piu'  in  generale, il detenuto,
secondo  quanto  riconosciuto  dalla  giurisprudenza di questa Corte,
sarebbe  titolare di un residuo di liberta' incomprimibile ad libitum
dell'amministrazione  penitenziaria,  residuo  tanto piu' prezioso in
quanto e' l'ultimo ambito in cui puo' espandersi la sua personalita'.
Onde   l'amministrazione   penitenziaria  potrebbe  adottare  solo  i
provvedimenti   in   ordine   alle   modalita'  di  esecuzione  della
detenzione,  dai  quali  sarebbero  escluse le misure suscettibili di
introdurre  ulteriori restrizioni, che richiederebbero l'esercizio di
una   funzione   giurisdizionale,   in   ossequio  all'art. 13  della
Costituzione.
    Il  giudice  a  quo  si  pone  il  problema del bilanciamento dei
principi costituzionali concorrenti nel caso in esame, in particolare
rilevando  come  a  fronte della posizione soggettiva del detenuto vi
sia  l'opposta  esigenza  della  difesa dell'ordine e della sicurezza
negli   istituti   penitenziari,   dell'ordine   giuridico   e  della
collettivita',   che   giustificherebbe  l'esercizio  dei  poteri  di
coazione  personale  sui  detenuti:  ma  ritiene  che  la  disciplina
costituzionale  sulla  liberta'  personale,  che  consente  in via di
urgenza la temporanea sostituzione degli organi di pubblica sicurezza
a  quelli  giudiziari  nell'adozione di atti coercitivi, sia idonea a
consentire  la  composizione  dell'eventuale  conflitto  tra esigenze
contrapposte.
    La   norma   denunciata   rimette  invece  l'esecuzione  di  tali
interventi    alla   completa   ed   insindacabile   discrezionalita'
dell'amministrazione  penitenziaria,  la  quale  non deve motivare in
alcun  atto  la  perquisizione,  mentre  la  prescrizione  che questa
avvenga  "nel  pieno  rispetto  della personalita'" (art. 34, secondo
comma)  potrebbe  costituire  "una  mera petizione di principio", dal
momento che la perquisizione e' effettuata dalla stessa autorita' che
la  dispone, la quale non deve renderne conto ad alcuno, ne' redigere
alcun  verbale.  Non  potrebbe  negarsi  che  negli  istituti di pena
sussista  l'esigenza  di interventi "a sorpresa" dettati dall'urgenza
di prevenire situazioni pericolose per la sicurezza, ma tali esigenze
potrebbero,  ad avviso del remittente, congruamente perseguirsi anche
nel  rispetto  del principio costituzionale che riserva all'autorita'
giudiziaria  la  formulazione di giudizi di disvalore sulla persona e
l'adozione di misure "degradanti".
    L'attuale sistema delle perquisizioni personali nei confronti dei
detenuti  appare,  secondo  il  giudice  a  quo, in contrasto con gli
invocati  parametri  costituzionali,  anzitutto  perche'  non prevede
nessun  potere di controllo ex post da parte di un organo giudiziario
circa  il  rispetto  dei  presupposti  e  dei limiti prescritti, onde
l'art. 34  violerebbe  la  previsione  della riserva di giurisdizione
sancita dall'art. 13 della Costituzione. Inoltre il controllo ex post
del  giudice  imporrebbe all'amministrazione l'obbligo di motivare le
ragioni  che  hanno giustificato l'intervento, con effetto deterrente
circa eventuali abusi e vessazioni, e a garanzia anche del diritto di
difesa. La mancata previsione della redazione di un atto che illustri
i   motivi   e   le   modalita'   della  perquisizione  eseguita  non
consentirebbe  al  destinatario  di  tutelare in modo adeguato i suoi
diritti  in  via giurisdizionale, in violazione degli artt. 24, commi
primo  e secondo, 97, comma primo e 113, commi primo e secondo, della
Costituzione.
    La  "lacuna  normativa"  apparirebbe  infine "in contrasto con il
principio  di  ragionevolezza  ex  art. 3 Cost." per la disparita' di
trattamento  rispetto  ad  altre situazioni in cui pure si richiedono
interventi  preventivi  nell'immediatezza  del  fatto,  per  le quali
tuttavia il legislatore prevede perquisizioni effettuate dagli organi
della  pubblica  sicurezza,  soggette a successiva convalida da parte
del  Procuratore  della  Repubblica  sulla  base del processo verbale
redatto:  si  richiamano in proposito l'art. 4 della legge n. 152 del
1975,  in  tema  di  perquisizioni  volte ad accertare il possesso di
armi,  nel  corso  di  operazioni di polizia, e l'art. 103 del d.P.R.
n. 309  del  1990,  in  tema  di  perquisizioni  urgenti nel corso di
operazioni  di  polizia  per  la  prevenzione  e  la  repressione del
traffico  illecito di sostanze stupefacenti. Non si giustificherebbe,
in  questa  prospettiva,  la scelta legislativa operata in materia di
perquisizioni personali sui detenuti.
    In definitiva, secondo il remittente, la previsione di un obbligo
in   capo  all'amministrazione  penitenziaria  di  redigere  un  atto
congruamente  motivato  sulla  perquisizione personale effettuata, da
sottoporre  al  vaglio  dell'autorita' giudiziaria, realizzerebbe, in
ossequio al principio di ragionevolezza, un equilibrato bilanciamento
dei  principi  costituzionali  in  gioco,  mentre  l'attuale  sistema
assicurerebbe  tutela  solo  alle esigenze di sicurezza a scapito dei
diritti di liberta' e di difesa.

    2. - E'  intervenuto nel giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile per
difetto di rilevanza, o, in subordine, infondata.
    Essa  sembrerebbe  difettare  di rilevanza, non avendo il giudice
remittente motivato in ordine alla legittimita' dell'ordine impartito
dall'autorita'  penitenziaria,  e  quindi in ordine alla legittimita'
della conseguente sanzione disciplinare.
    Infatti  la  legittimita'  della  normativa  sulle  perquisizioni
personali  dei detenuti potrebbe essere sindacata solo nella concreta
ipotesi  in  cui  il  giudice  abbia accertato preliminarmente che il
comportamento  della  amministrazione  sia  conforme  alla  normativa
censurata,    si'    che   la   proposizione   della   questione   di
costituzionalita'  si  porrebbe  come  ultimo  rimedio  possibile per
l'accoglimento del reclamo, altrimenti da respingere.
    La  questione  sarebbe  invece  posta come ipotetica o eventuale.
Cio'  risulterebbe  anche  considerando  che  lo stesso remittente ha
evidenziato  nelle  premesse  la  tesi  secondo  cui la pratica delle
flessioni  sulle  gambe  sarebbe consentita con la collaborazione del
detenuto,   in   mancanza   della  quale,  ove  ritenuto  necessario,
l'amministrazione   potrebbe   ricorrere   all'impiego  di  mezzi  di
coercizione,  ai  sensi  dell'art. 41 dell'ordinamento penitenziario.
Non   risultando   dall'ordinanza  che  oggetto  di  discussione  sia
l'applicazione di tale ultima norma, non sarebbe chiaro se il giudice
abbia  considerato  la  collaborazione  del detenuto per tale pratica
come  una  facolta'  a  lui  attribuita  (avendo l'amministrazione la
possibilita'  di  ricorrere  a  mezzi  diversi dalla perquisizione in
senso  stretto,  cioe'  ai  mezzi di coercizione), con la conseguenza
che,  in  mancanza  del consenso del detenuto, un ordine in tal senso
non  avrebbe  potuto essere impartito, risultando percio' illegittima
la sanzione disciplinare irrogata.
    Nel  merito,  in  subordine, l'Avvocatura erariale osserva che lo
stato  di  detenzione  comporterebbe necessariamente limitazioni alla
garanzia della inviolabilita' della liberta' personale.

                       Considerato in diritto


    1. - La   questione   sollevata  investe  l'art. 34  della  legge
26 luglio   1975,  n. 354  (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e
sull'esecuzione  delle  misure privative e limitative della liberta),
che  disciplina le perquisizioni personali nei confronti dei detenuti
e degli internati, stabilendo che esse possono essere effettuate "per
motivi  di  sicurezza"  (primo comma), e che devono essere effettuate
"nel   pieno   rispetto   della  personalita'"  (secondo  comma).  La
disposizione  e'  censurata  nella  parte in cui non prevede che, nel
disporre  la  perquisizione,  l'amministrazione  penitenziaria  debba
redigere  atto  motivato  circa  i  presupposti  e le modalita' della
stessa  e comunicarlo entro quarantotto ore all'autorita' giudiziaria
per  la  convalida,  secondo  quanto  e' previsto dall'art. 13, terzo
comma,  della  Costituzione  per  i  provvedimenti  restrittivi della
liberta'  personale  adottati  in  via  provvisoria dall'autorita' di
pubblica sicurezza.
    La  disciplina  denunciata  sarebbe in contrasto, in primo luogo,
con  l'art. 13  della Costituzione, appunto perche' non rispetterebbe
la  "riserva  di  giurisdizione"  ivi  stabilita,  non  prevedendo un
intervento   di   controllo  a  posteriori  da  parte  dell'autorita'
giudiziaria,  controllo  che imporrebbe all'amministrazione l'obbligo
di  motivare  i provvedimenti, con effetto deterrente circa eventuali
abusi e vessazioni, a garanzia altresi' del diritto di difesa.
    La   mancata  previsione  di  un  atto  dell'amministrazione  che
illustri  i  motivi  e  le  modalita'  della  perquisizione eseguita,
inoltre,  non  consentirebbe  al  destinatario  di  tutelare  in modo
adeguato  i  suoi  diritti  in  via  giurisdizionale, con conseguente
violazione  dei  diritti  di azione giudiziaria e di difesa (art. 24,
primo   e   secondo  comma,  della  Costituzione),  dei  principi  di
imparzialita'  e  buon andamento dell'amministrazione (art. 97, primo
comma,   della   Costituzione),   nonche'  del  diritto  alla  tutela
giurisdizionale contro gli atti della pubblica amministrazione, senza
esclusioni  o  limitazioni  (art. 113,  primo  e secondo comma, della
Costituzione).
    Sussisterebbe,    infine,    violazione    del    principio    di
eguaglianza-ragionevolezza  di  cui all'art. 3 della Costituzione per
la disparita' di trattamento rispetto ad altre ipotesi nelle quali la
legge, pur prevedendo il potere degli organi di pubblica sicurezza di
procedere  a  perquisizioni  personali  in  via di urgenza, impone la
successiva convalida da parte dell'autorita' giudiziaria.
    Secondo  il  giudice  a  quo  solo  la previsione dell'obbligo di
redigere  un  atto  motivato,  da sottoporre al vaglio dell'autorita'
giudiziaria, realizzerebbe un ragionevole bilanciamento fra i diritti
di  liberta'  e  di  difesa,  da un lato, e dall'altro le esigenze di
sicurezza che possono giustificare le perquisizioni.

    2. - L'eccezione  di  inammissibilita'  della questione, avanzata
dalla difesa del Presidente del Consiglio, non puo' essere accolta.
    Il  remittente  ha infatti motivato la rilevanza della questione,
osservando   che   la  risoluzione  di  essa  e'  pregiudiziale  alla
definizione  del  giudizio  davanti  ad esso instaurato, nel quale e'
contestata  la legittimita' di una sanzione disciplinare inflitta per
inosservanza   dell'ordine  di  sottoporsi  a  perquisizione  con  le
modalita'  indicate.  La  legittimita' costituzionale della norma che
prevede   il  potere  di  procedere  a  perquisizioni  personali  nei
confronti dei detenuti condiziona infatti la legittimita' dell'ordine
di  perquisizione,  e  la  legittimita'  di  tale  ordine a sua volta
condiziona la legittimita' della sanzione disciplinare.
    Non si puo' condividere la tesi dell'Avvocatura erariale, secondo
cui  la  questione  di  legittimita'  costituzionale  potrebbe essere
sollevata  solo  come  estremo  rimedio, una volta esclusa ogni altra
ragione  di  illegittimita'  dell'atto  sottoposto  al  controllo del
giudice.  Al  contrario, il quesito sulla legittimita' costituzionale
della  norma attributiva del potere esercitato, legittimita' messa in
dubbio   in  quanto  detta  norma  non  prevede  la  convalida  della
perquisizione    da   parte   dell'autorita'   giudiziaria,   e   non
consentirebbe  un efficace controllo giudiziario sulle perquisizioni,
precede  logicamente ogni questione circa la conformita' o meno, alla
norma stessa, dell'atto sottoposto a controllo.
    Ne'  vale  osservare,  come  fa  la  difesa  del  Presidente  del
Consiglio,  che,  nella  specie,  richiedendo  la  perquisizione,  da
effettuare  con  le particolari modalita' indicate, la collaborazione
del detenuto, il giudice a quo avrebbe dovuto chiarire se riteneva il
consenso  del detenuto condizione di legittimita' dell'ordine, con la
conseguenza  che, in mancanza di tale consenso, l'ordine, e dunque la
sanzione,  risulterebbero senz'altro illegittimi. Altro e' infatti la
collaborazione  necessaria  del  detenuto  per la effettuazione della
perquisizione   con  le  particolari  modalita'  indicate,  altro  il
consenso   dello   stesso,  non  richiesto  e  comunque  irrilevante,
vertendosi nell'ambito di diritti indisponibili.

    3. - Nel merito, la questione non e' fondata nei sensi di seguito
specificati.
    La  tesi del remittente, secondo cui le perquisizioni personali a
carico   dei   detenuti   dovrebbero  rispettare  le  regole  di  cui
all'art. 13,   secondo  e  terzo  comma,  della  Costituzione,  e  in
particolare   la   regola   che  impone  l'intervento  dell'autorita'
giudiziaria,  sia  pure per controllare e convalidare a posteriori la
perquisizione  disposta  ed  eseguita  dall'amministrazione in via di
urgenza, presuppone che dette perquisizioni incidano su un diritto di
liberta'  del  detenuto  non  venuto  meno per effetto dello stato di
detenzione.   Solo   in  questo  caso,  infatti,  potrebbero  trovare
applicazione le norme costituzionali che stabiliscono i presupposti e
le  modalita' per l'adozione di misure di "restrizione della liberta'
personale" (art. 13, secondo comma).
    Lo stato di detenzione comporta, per definizione, una limitazione
della  liberta' personale, che deve intervenire alle condizioni e nei
modi  previsti  dall'art. 13  della Costituzione, cioe' sulla base di
una misura legale, adottata o convalidata dall'autorita' giudiziaria.
    E' certamente vero che, come argomenta il giudice a quo, lo stato
di  detenzione  lascia  sopravvivere  in  capo  al  detenuto  diritti
costituzionalmente   protetti,  e  in  particolare  un  "residuo"  di
liberta'   personale.   Questa  Corte,  muovendo  proprio  da  questa
premessa,  ha piu' volte chiarito che l'amministrazione penitenziaria
non puo' adottare "provvedimenti suscettibili di introdurre ulteriori
restrizioni   in   tale  ambito,  o  che,  comunque,  comportino  una
sostanziale  modificazione  nel  grado  di  privazione della liberta'
personale" imposto al detenuto, il che puo' avvenire "soltanto con le
garanzie  (riserva di legge e riserva di giurisdizione) espressamente
previste  dall'art. 13,  secondo  comma, della Costituzione"; ma puo'
solo  adottare  "provvedimenti in ordine alle modalita' di esecuzione
della   pena   (rectius:  della  detenzione),  che  non  eccedono  il
sacrificio  della  liberta'  personale gia' potenzialmente imposto al
detenuto  con  la  sentenza  di condanna" (sentenza n. 349 del 1993),
ossia  "misure  di  trattamento rientranti nell'ambito di competenza"
della  medesima  amministrazione, "attinenti alle modalita' concrete,
rispettose  dei  diritti  del  detenuto,  di  attuazione  del  regime
carcerario  in  quanto  tale, e dunque gia' potenzialmente ricomprese
nel  quantum  di privazione della liberta' personale conseguente allo
stato di detenzione" (sentenza n. 351 del 1996).
    Pertanto,  il  quesito  preliminare  cui  la  Corte e' chiamata a
rispondere  nella presente occasione e' se le perquisizioni personali
previste  dal  regolamento  penitenziario  ed effettuate dagli agenti
della  polizia  penitenziaria  a  carico  dei  detenuti  siano misure
incidenti  sul  "residuo"  di liberta' personale di cui questi ultimi
sono  titolari,  ovvero  costituiscano  misure  rientranti nel regime
carcerario  e  dunque  non  eccedenti  il  sacrificio  della liberta'
personale  gia'  discendente  dallo stato di detenzione. Soltanto se,
infatti,  la  risposta  fosse  nel  primo  senso,  come  si e' detto,
dovrebbero  trovare  applicazione  le  garanzie  di  cui all'art. 13,
secondo e terzo comma, della Costituzione.

    4. - Il  remittente non contesta che vi sia un'esigenza di difesa
dell'ordine e della sicurezza negli istituti penitenziari, nonche' di
difesa  dell'ordine  giuridico  e della collettivita', che giustifica
l'esercizio  di  poteri  di coazione personale sui detenuti, e quindi
anche  di  poteri  di  perquisizione:  ma  ritiene  che tali esigenze
possano   giustificare  solo  la  previsione  di  misure  restrittive
adottate  con  le  garanzie dell'art. 13 della Costituzione, e quindi
sottintende  che da tali misure risulti inciso un diritto di liberta'
non compresso dallo stato di detenzione.
    Se   cosi'   fosse,   invero,  non  sarebbe  nemmeno  sufficiente
richiedere  solo,  come fa il giudice a quo, un intervento successivo
di convalida della perquisizione da parte dell'autorita' giudiziaria.
Se  si  trattasse  di  misure incidenti su uno spazio di liberta' non
pregiudicato   dallo  stato  di  detenzione,  dovrebbero  dispiegarsi
pienamente  le  garanzie  di  cui all'art. 13, secondo e terzo comma,
della  Costituzione,  e  dunque  i  "casi e modi" delle perquisizioni
personali  dovrebbero essere specificati tassativamente dalla legge -
non  essendo  sufficiente  in  proposito  il  generico riferimento ai
"motivi di sicurezza" che si trova nel testo dell'art. 34 della legge
n. 354 del 1975 -, e l'intervento motivato dell'autorita' giudiziaria
dovrebbe di norma essere preventivo, e non successivo, salva restando
solo  l'ipotesi  di  perquisizioni  effettuate  senza  previo  ordine
giudiziale  per  ragioni  di  urgenza  riscontrate in concreto, e con
successivo giudizio di convalida.
    In  realta',  la  restrizione  della liberta' personale in cui si
sostanzia  lo  stato  di  detenzione da' luogo all'applicazione di un
regime  -  risultante  dalla  complessiva disciplina dell'ordinamento
penitenziario,   nel   rispetto  dell'art. 13,  quarto  comma,  della
Costituzione  -  al  quale sono intrinseche le ragioni di ordine e di
sicurezza  che  consentono  o impongono un controllo della persona da
parte  degli  agenti  amministrativi.  Il  detenuto si trova sotto la
responsabilita' dell'amministrazione penitenziaria, a cui e' affidato
il  compito  di  assicurare  che  egli  rimanga  in carcere (evitando
pericoli  di evasione), di controllare il rispetto da parte sua delle
regole   della   disciplina   carceraria,   ma  anche  di  garantirne
l'incolumita'  proteggendolo  da  possibili  aggressioni  da parte di
altri detenuti.
    Del regime carcerario, come definito dalle norme che lo regolano,
fa  parte la previsione di perquisizioni, volte a prevenire i rischi,
che  l'esperienza della vita dei penitenziari dimostra sussistere, di
introduzione  in  carcere  e  di detenzione da parte dei carcerati di
armi, di oggetti atti ad offendere o comunque proibiti per ragioni di
disciplina,  di altre cose o sostanze vietate. Infatti il regolamento
penitenziario  (ora  il  d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230, che pero' non
reca   sostanziali   innovazioni,  a  questo  riguardo,  rispetto  al
previgente  d.P.R.  29 aprile  1976,  n. 431)  disciplina  le diverse
ipotesi  di  perquisizione  personale  dei  detenuti, all'ingresso in
istituto (art. 23, comma 1), in occasione dei trasferimenti (art. 83,
comma  2),  nelle  altre  situazioni  in  cui  il regolamento interno
dell'istituto  stabilisce  che  si effettuino perquisizioni ordinarie
(art. 74,  comma  4),  nonche',  in  via straordinaria, su ordine del
direttore  ovvero,  in  caso  d'urgenza,  su iniziativa del personale
(art. 74, commi 5 e 7).
    Deve  dunque  concludersi che le perquisizioni personali disposte
nei  confronti  dei detenuti, nei casi previsti dai regolamenti, sono
comprese  fra  le "misure di trattamento, rientranti nella competenza
dell'amministrazione penitenziaria, attinenti alle modalita' concrete
(...)  di  attuazione del regime carcerario in quanto tale" (sentenza
n. 351  del  1996).  Esse  non incidono, di per se', sul "residuo" di
liberta'  personale di cui sono titolari i detenuti, bensi' rientrano
nell'ambito delle restrizioni alla liberta' personale implicate dallo
stato  di  detenzione.  Non v'e' pertanto luogo, in questi limiti, ad
applicare  le  regole  dell'art. 13,  secondo  e  terzo  comma, della
Costituzione.

    5. - Neppure ha fondamento la censura di violazione del principio
di  eguaglianza  o  di  ragionevolezza,  fondata sul raffronto con le
ipotesi  di  perquisizioni  personali  effettuate  dalla  polizia per
accertare  l'eventuale  possesso  di  armi,  esplosivi e strumenti di
effrazione  (art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152) o nell'ambito
dei  controlli  per  la  prevenzione  e  la  repressione del traffico
illecito  di  sostanze  stupefacenti  (art. 109,  comma 3, del d.P.R.
9 ottobre  1990,  n. 309),  in  cui e' prevista la convalida da parte
dell'autorita'  giudiziaria. Si tratta infatti, in quelle ipotesi, di
perquisizioni  a  carico  di  persone  in stato di liberta', e dunque
nessun utile raffronto puo' effettuarsi con la diversa situazione dei
detenuti.

    6. - Questa  prima conclusione non esaurisce, pero', l'ambito dei
problemi   sollevati   con  la  presente  questione  di  legittimita'
costituzionale.
    Il    potere    di   perquisizione   dei   detenuti,   attribuito
all'amministrazione carceraria, non e' senza limiti, ne' con riguardo
ai  presupposti,  ne'  con riguardo alle modalita' del suo esercizio.
Inoltre,  e conseguentemente, la garanzia del rispetto di tali limiti
richiede  che  le  misure  adottate  ed eseguite dall'amministrazione
penitenziaria siano soggette a pieno controllo giurisdizionale.
    Per  cio'  che  attiene  ai presupposti, le perquisizioni possono
essere effettuate solo "per motivi di sicurezza" (art. 34 della legge
n. 354   del   1975),  come  specificati  dalle  norme  regolamentari
ricordate.  Queste  indicano le situazioni nelle quali le esigenze di
sicurezza    comportano   in   via   ordinaria   l'effettuazione   di
perquisizioni  personali, nonche' i presupposti e le procedure per le
perquisizioni  "fuori dei casi ordinari", che possono essere disposte
solo  per  ordine  del direttore (art. 74, comma 5, del d.P.R. n. 230
del  2000),  ovvero,  in caso di comprovata "particolare urgenza", su
iniziativa  del  personale  dell'istituto,  che deve pero' informarne
immediatamente   il  direttore,  "specificando  i  motivi  che  hanno
determinato  l'urgenza"  (art. 74,  comma  7,  del  d.P.R. n. 230 del
2000).
    Il  potere  di perquisizione non puo' dunque essere esercitato ad
libitum  dell'amministrazione  o della polizia penitenziaria, ma solo
nei  casi  in  cui  e' previsto dalle norme che definiscono il regime
carcerario.   Al   di  fuori  di  questi  presupposti,  esso  sarebbe
esercitato  arbitrariamente,  esulando  dalla applicazione del regime
carcerario  per  sconfinare  nell'indebita  incisione  della liberta'
personale del detenuto, onde le relative misure e attivita' sarebbero
contrarie al diritto.
    Quanto  ai modi della perquisizione che - e' il tema specifico da
cui  prende  origine  il giudizio a quo - vale anzitutto il principio
per cui i provvedimenti dell'amministrazione in ordine alle modalita'
di esecuzione della pena detentiva, non eccedenti il sacrificio della
liberta'   personale   gia'   imposto  al  detenuto  dallo  stato  di
detenzione,  "rimangono  soggetti ai limiti ed alle garanzie previsti
dalla  Costituzione  in  ordine  al divieto di ogni violenza fisica e
morale (art. 13, quarto comma), o di trattamenti contrari al senso di
umanita'  (art. 27,  terzo comma), ed al diritto di difesa (art. 24)"
(sentenza  n. 349 del 1993; e cfr. anche sentenza n. 410 del 1993). A
fronte  dunque del potere dell'amministrazione, fondato sulle ragioni
di  sicurezza  inerenti alla vita carceraria, e pur non opponendovisi
un  diritto  di  liberta'  personale,  gia'  compresso dallo stato di
detenzione,  stanno in ogni caso precisi ed inviolabili diritti della
personalita'  spettanti  al  detenuto;  e le misure di attuazione del
regime  carcerario devono essere in ogni caso "rispettose dei diritti
del detenuto" (sentenza n. 351 del 1996).
    Per   cio'   che   concerne   i   limiti  sostanziali,  la  legge
sull'ordinamento  penitenziario  li ribadisce espressamente, la' dove
stabilisce che "la perquisizione personale deve essere effettuata nel
pieno  rispetto  della  personalita'"  del detenuto (art. 34, secondo
comma,  della  legge  n. 354  del  1975),  con  una  prescrizione  da
ritenersi  di  portata sostanzialmente equivalente a quella contenuta
nell'art. 249,  comma  2, del codice di procedura penale, concernente
le  perquisizioni  per ragioni di ricerca di corpi di reato o di cose
pertinenti  al  reato, ai cui sensi "la perquisizione e' eseguita nel
rispetto  della  dignita'  e, nei limiti del possibile, del pudore di
chi   vi   e'   sottoposto".   Nella  stessa  linea,  il  regolamento
penitenziario   specifica   che   "il   personale   che  effettua  la
perquisizione  e  quello  che  vi  presenzia deve essere dello stesso
sesso  del  soggetto da perquisire" (art. 74, primo comma, del d.P.R.
n. 230  del  2000).  A  cio' si aggiunge, comunque, lo stretto dovere
dell'amministrazione  di  curare  e  sorvegliare  che  le circostanze
ambientali in cui le perquisizioni si svolgono, e i comportamenti del
personale  che vi procede, siano in concreto rispettosi della persona
e  della  sua inviolabile dignita'. Quanto piu', infatti, la persona,
trovandosi  in  stato di soggezione, e' esposta al possibile pericolo
di  abusi,  tanto  piu' rigorosa deve essere l'attenzione per evitare
che questi si verifichino.

    7. - L'affermazione   di   limiti   sostanziali   al   potere  di
perquisizione,  derivanti  da diritti della personalita', e per altro
verso  del  diritto  inviolabile  alla  tutela  giurisdizionale,  che
accompagna  per  necessita' costituzionale ogni situazione soggettiva
protetta, e dunque anche i diritti dei detenuti (cfr. sentenze n. 212
del  1997,  n. 26  del  1999),  comporta  che  ci si interroghi sulla
sussistenza  in concreto, nell'ordinamento penitenziario, di garanzie
effettive  di  tutela  giurisdizionale  dei  diritti  suscettibili di
essere   incisi   dalle   perquisizioni.   E'   questa,   al  di  la'
dell'improprio  richiamo  all'art. 13,  secondo  e terzo comma, della
Costituzione,   la   sostanza  della  censura  mossa  dal  remittente
all'art. 34  della  legge  penitenziaria, attraverso l'evocazione dei
parametri  degli  articoli  3,  24,  primo e secondo comma, 97, primo
comma, e 113 della Costituzione.
    Sarebbe   infatti  vano  rinvenire  nel  sistema  legislativo  il
riconoscimento  dei  diritti del detenuto, se non sussistessero forme
di  tutela  giurisdizionale  degli  stessi, o queste non risultassero
efficaci  per  mancanza  dei  presupposti necessari all'esercizio del
controllo giurisdizionale.
    Non basta il controllo che il giudice penale puo' essere chiamato
ad  esercitare  sulle perquisizioni illegittime in sede di cognizione
dei   reati  di  "perquisizione  e  ispezione  personale  arbitrarie"
(art. 609  del  codice  penale,  ai  cui sensi e' punito "il pubblico
ufficiale che, abusando dei poteri inerenti alle sue funzioni, esegue
una   perquisizione   o   un'ispezione   personale"),   che   fossero
eventualmente commessi dal personale delle istituzioni penitenziarie,
pur  dovendosi ritenere applicabile tale fattispecie delittuosa anche
alle  perquisizioni  arbitrarie  o  abusive  compiute  a  carico  dei
detenuti.  Ne'  basta  il controllo esercitabile dallo stesso giudice
penale  allorquando  sia  chiamato  a  valutare  la  sussistenza, nei
confronti   di   detenuti   imputati  di  reati  contro  la  pubblica
amministrazione,  come  la  violenza o minaccia o la resistenza ad un
pubblico   ufficiale,   compiuti   in   occasione   di  perquisizioni
illegittime, della esimente di aver reagito ad un atto arbitrario del
pubblico ufficiale (art. 4 del d.lgs. 14 settembre 1944, n. 288).
    Si  tratta  infatti,  in  entrambi i casi, di una cognizione solo
indiretta  ed eventuale, insufficiente ad apprestare una piena tutela
giurisdizionale  dei  diritti  dei  detenuti  nei  riguardi  di  atti
illegittimi dell'amministrazione.
    Per  la  stessa  ragione, non basta il sindacato giurisdizionale,
ancora   una  volta  indiretto,  sulla  legittimita'  dell'ordine  di
sottoporsi  a  perquisizione,  in  sede  di  reclamo al magistrato di
sorveglianza,  ai  sensi dell'art. 69, comma 6, lettera b della legge
penitenziaria  -  come  nella  specie  sottoposta  al giudice a quo -
avverso  la  sanzione  disciplinare  che  sia  stata  irrogata per il
rifiuto da parte del detenuto di ottemperarvi.
    Occorre   che   vi  sia  una  sede  giurisdizionale  nella  quale
l'eventuale  illegittimita'  della misura possa essere direttamente e
pienamente  fatta  valere  ex  se,  come motivo di impugnazione della
misura  medesima, per garantire l'osservanza sia dei limiti "esterni"
del  potere  esercitato,  sia  dei  limiti  "interni"  inerenti  alla
congruita'  dell'atto  rispetto al fine cui e' diretto (cfr. sentenze
n. 410 del 1993, n. 351 del 1996, n. 376 del 1997).
    Benche'  il  legislatore  della  legge  penitenziaria  "non abbia
esplicitamente   e  compiutamente  risolto  il  problema  dei  rimedi
giurisdizionali  idonei  ad  assicurare  la  tutela"  dei diritti dei
detenuti nell'ambito dell'istituzione carceraria (sentenza n. 212 del
1997),  a  censurare  tale  lacuna  ha  gia'  provveduto questa Corte
dichiarando  l'illegittimita'  costituzionale  degli articoli 35 e 69
della legge n. 354 del 1975 proprio "nella parte in cui non prevedono
un   tutela   giurisdizionale   nei   confronti   degli   atti  della
amministrazione  penitenziaria  lesivi  di diritti di coloro che sono
sottoposti  a  restrizione  della liberta' personale" (sentenza n. 26
del  1999).  Non  vi  e'  ragione dunque di tornare sul punto, avendo
detta  pronuncia  gia'  realizzato,  nei  limiti di cio' che spetta a
questa  Corte, l'adeguamento costituzionale dell'ordinamento sotto il
profilo  considerato:  mentre  spetta  al  legislatore  effettuare le
scelte  necessarie  per disciplinare la materia, e spetta ai giudici,
frattanto,  individuare  nell'ordinamento  in vigore lo strumento per
concretizzare  il principio affermato (cfr. sentenze n. 270 del 1999,
n. 295 del 1991).

    8. - In  questa  sede  resta  solo  da  esaminare se le modalita'
procedimentali  applicabili  alle  perquisizioni  dei  detenuti siano
sufficienti   ed   idonee   a   consentire   un  effettivo  controllo
giurisdizionale  degli  atti  dell'amministrazione. In particolare, a
questi   fini,   e'   necessario  che  tali  atti  siano  motivati  e
documentati.
    Gia'  si  e'  detto,  quanto ai presupposti della misura, come il
regolamento   penitenziario   contenga   una  disciplina,  ovviamente
vincolante,  dei  casi di perquisizione ordinaria, nonche' dei casi e
dei  modi  in  cui  si puo' procedere a perquisizione "fuori dei casi
ordinari".   In  quest'ultima  ipotesi,  non  manca  la  garanzia  di
motivazione dell'atto, sia nel caso di ordine del direttore (art. 74,
comma  5,  del  d.P.R.  n. 230  del  2000),  che, in base ai principi
generali   dell'attivita'  amministrativa,  specie  se  incidente  su
posizioni  individuali  tutelate,  deve essere motivato; sia nel caso
d'urgenza,  in  cui  il  personale  procede  di  propria  iniziativa,
dovendone   motivare   specificamente   le   ragioni  nell'informarne
"immediatamente"  il direttore (art. 74 cit., comma 7). Cio' comporta
che, in ogni caso, i presupposti dell'atto devono essere documentati.
    Quanto alle modalita', il regolamento, espressamente, si limita a
prescrivere   che  la  perquisizione  avvenga  alla  presenza  di  un
appartenente  al  corpo  di  polizia  penitenziaria, di qualifica non
inferiore  a  quella  di  vice sovrintendente (art. 74 cit., comma 1,
primo  periodo),  e  a precisare che la perquisizione puo' non essere
eseguita quando e' possibile compiere l'accertamento con strumenti di
controllo (art. 74 cit., comma 2).
    Tuttavia,  il  sistema  normativo  deve  essere  interpretato  in
conformita' alla Costituzione, e questa impone, come si e' detto, che
sia  assicurata  una  diretta ed effettiva tutela giurisdizionale dei
diritti  dei  detenuti. Perche' essa possa dispiegarsi, e' necessario
che  l'attivita'  dell'amministrazione  risulti  sempre documentata e
verificabile  -  in  conformita'  del  resto  anche  ai  principi  di
trasparenza e buon andamento che la governano - al fine di consentire
il controllo del giudice sul rispetto dei limiti ad essa posti.
    Deve  pertanto  ritenersi  che  sia sempre necessaria ed imposta,
proprio  per  consentire  un effettivo controllo giurisdizionale, una
forma  di documentazione dell'avvenuta perquisizione, che permetta di
conoscere  l'identita'  di  chi vi e' stato sottoposto e di chi vi ha
proceduto  e  assistito,  le  circostanze  di  luogo  e  di tempo, il
fondamento  giustificativo  della stessa, dato dal ricorrere dei casi
ordinari  o  dall'esistenza dell'ordine del direttore o dalle ragioni
di  particolare urgenza, specificate nell'informazione immediata data
al  direttore,  nonche' le modalita' con le quali la perquisizione e'
avvenuta,  in  particolare  nel  caso  in  cui  si  ritenga  di dover
ricorrere  a  modalita'  diverse da quelle ordinarie o che comportino
una  ispezione  corporale. In tali ultime ipotesi, inoltre, l'obbligo
di   motivazione,   e   la   conseguente  possibilita'  di  sindacato
giurisdizionale,  si  debbono ritenere estesi anche alla scelta delle
modalita',  che  debbono  essere,  oltre  che sempre rispettose della
personalita' del detenuto, adeguatamente giustificate, e cio' sia che
si  tratti  di  una iniziativa assunta nell'ambito dell'istituto, sia
che   sussistano   istruzioni   o  segnalazioni  dell'amministrazione
penitenziaria  centrale, a loro volta pienamente sindacabili da parte
del giudice.

    9. - Cosi'  interpretato,  alla luce dei principi costituzionali,
il  sistema  normativo,  non  hanno  ragione di sussistere le censure
mosse   dal   remittente   in   relazione   all'art. 34  della  legge
penitenziaria.
                          Per questi motivi

                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non  fondata,  nei  sensi  di  cui  in  motivazione, la
questione  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 34 della legge
26 luglio   1975,  n. 354  (Norme  sull'ordinamento  penitenziario  e
sull'esecuzione  delle  misure privative e limitative della liberta),
sollevata, in riferimento agli articoli 3, 13, secondo e terzo comma,
24,  primo  e  secondo  comma,  97, primo comma, 113, primo e secondo
comma,  della Costituzione, dal magistrato di sorveglianza di Bologna
con l'ordinanza in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 15 novembre 2000.
                      Il Presidente: Mirabelli
                         Il redattore: Onida
                      Il cancelliere: Di Paola
    Depositata in cancelleria il 22 novembre 2000.
              Il direttore della cancelleria: Di Paola
00C1341