N. 854 ORDINANZA (Atto di promovimento) 28 ottobre 2000

Ordinanza  emessa  il 28 ottobre 2000 dal Consiglio nazionale forense
sul ricorso proposto da D'Acquaviva Vincenzo

Avvocato e procuratore - Iscrizione all'albo - Divieto per i pubblici
dipendenti     -     Previsione,     con     norma    interpretativa,
dell'inapplicabilita'  agli impiegati pubblici con rapporto di lavoro
a  tempo  parziale  -  Abrogazione  delle  disposizioni  che  vietano
l'iscrizione  all'Albo  per  i  pubblici  dipendenti  con rapporto di
lavoro a tempo parziale - Irragionevolezza - Incidenza sul diritto di
difesa  e  sui  principi di indipendenza ed autonomia dei difensori -
Violazione  dei  doveri,  per i pubblici dipendenti, di fedelta' alla
Repubblica  e  di  servizio  esclusivo  alla  Nazione  -  Lesione dei
principi di imparzialita' e buon andamento della P.A. - Incidenza sul
diritto al lavoro.
- Legge 23 dicembre 1996, n. 662, art. 1, commi 56 e 56-bis (inserito
  dall'art. 6, legge 28 maggio 1997, n. 140).
- Costituzione, artt. 3, 4, 24, 97 e 98.
(GU n.1 del 3-1-2001 )
                   IL CONSIGLIO NAZIONALE FORENSE
    Ha pronunciato la seguente ordinanza;
    Visto  il  ricorso  n. 183/2000  R.G. proposto dal dott. Vincenzo
  D'Acquaviva  avverso  la  delibera in data 15 dicembre 1999, con la
  quale  il consiglio dell'ordine degli avvocati di Bari rigettava la
  sua domanda di iscrizione all'albo per incompatibilita';
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Visti gli atti di causa;
    Sentito  il  relatore  alla pubblica udienza del 28 ottobre 2000,
  consigliere  Paolo  Pauri e udito il sostituto procuratore generale
  presso  la  Corte di Cassazione, dott. Luigi Ciampoli e l'avv. Vito
  Nanna in rappresentanza del C.O.A. di Bari;
    Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue;

                              F a t t o

    Il dott. Vincenzo D'Acquaviva, dipendente di ruolo della ASL BA/5
  con   la   qualifica   di  ausiliario  specializzato,  in  possesso
  dell'abilitazione  all'esercizio della professione forense, in data
  22  dicembre 1997, presentava domanda di iscrizione nell'albo degli
  avvocati di Bari. Con racc. a.r. del 24-27 gennaio 1998 e con altra
  racc. a mano l'esponente reiterava nuovamente l'invito diffidando e
  sollecitando  il  consiglio  dell'ordine  affinche' procedesse alla
  iscrizione nell'albo.
    Decorso  inutilmente  il  termine  di  tre mesi, in data 31 marzo
  1998,  presentava ricorso al Consiglio nazionale forense, contro il
  comportamento  illegittimo del C.O.A. di Bari, ma il ricorso veniva
  rigettato per carenza dello jus postulandi.
    In  seguito  il  C.O.A. di Bari, con racc. a.r. del 3 aprile 1998
  faceva  presente,  con  riferimento  alla  domanda  del ricorrente,
  depositata il 22 dicembre 1997, "che nella seduta del 19 marzo 1998
  il  consiglio  ha  deliberato  di  (omissis)  sospendere  tutte  le
  richieste    di    iscrizione    di   dipendenti   della   pubblica
  amministrazione a part-time in quanto si e' avuta notizia informale
  della decisione del C.N.F. di rimessione della questione alla Corte
  costituzionale".
    Con  altra  racc.  a  mano  prot.  n. 4803 del 21 luglio 1998, il
  ricorrente  sollecitava  ancora  una  volta  l'iscrizione nell'albo
  evidenziando l'efficacia dell'art. 1, commi 56 e 56-bis della legge
  n. 662/1996,  almeno  fino alla pronuncia di incostituzionalita' da
  parte   della   Corte   costituzionale.  Esponeva  inoltre  che  la
  disciplina  sul part-time aveva fatto sorgere il diritto soggettivo
  all'iscrizione, azionabile giudizialmente e che continuava a subire
  il pregiudizio economico derivante dalla mancata iscrizione e dalla
  lesione della immagine sociale.
    A  seguito  della  nota,  il  presidente  del  C.O.A. di Bari, in
  riscontro  alla  medesima,  scriveva:  "Nel prendere buona nota del
  contenuto,  Le  comunico  che  la  Sua istanza sara' discussa nella
  prima seduta consiliare post-feriale".
    A  seguito  della  pronuncia n. 183/1999 del Giudice delle leggi,
  con  ennesima  raccomandata  del  10  giugno  1999,  il  ricorrente
  reiterava  la domanda di iscrizione. Non ricevendo alcun riscontro,
  in  data  7  settembre  1999,  presentava  un  esposto-denuncia  al
  procuratore   della   Repubblica   di  Bari  (inviandone  copia  al
  Presidente   della   Repubblica)   con   il   quale   lamentava  il
  comportamento  omissivo del C.O.A., sollecitando un intervento teso
  a ripristinare la legalita', se ritenuta violata.
    In  data  3  dicembre  1999,  a  distanza di sei mesi dall'ultima
  domanda di iscrizione, al ricorrente veniva notificata la citazione
  a  comparire  alla  seduta del C.O.A. di Bari del 15 dicembre 1999,
  "per  essere  ascoltato  nella  Sua reiterata istanza di iscrizione
  nell'albo  degli  avvocati  nella  qualita' di funzionario pubblico
  part-time". Il ricorrente replicava, evidenziando la illegittimita'
  di tale procedimento, non previsto da alcuna disposizione di legge,
  oltre  che  a  distanza  di  due  anni  dalla  data dell'istanza di
  iscrizione.
    Con  deliberazione  del  15  dicembre  1999  il  C.O.A.  di  Bari
  deliberava  infine  il  rigetto  della  domanda, richiamandosi agli
  orientamenti  e  motivazioni  contenuti  nella ordinanza del C.N.F.
  dell'8  gennaio  2000,  con  la quale e' stata rimessa dinanzi alla
  Corte  costituzionale  la questione delle iscrizioni previste dalla
  legge  n. 662/1996. Ha proposto ricorso il dr. Vincenzo D'Acquaviva
  eccependo   che  la  deliberazione  di  rigetto  della  domanda  e'
  illegittima,  e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi:
  1)  violazione di legge e mancata applicazione di norma: articoli 3
  e  33  della  Costituzione;  24-31,  r.d.l.  n. 1578/1933; 45, r.d.
  n. 37/1934;  1,  commi  56  e  56-bis, legge n. 662/1996; 39, legge
  n. 449/1997; 41, comma 31, legge n. 448/1998; 3, legge n. 241/1990;
  15,  disp.  prel.  c.c.  Eccesso  di potere: ingiustizia manifesta.
  Erroneita'  dei  presupposti. Violazione e mancata applicazione dei
  principi   del   giusto   procedimento,   di   legalita'   e  buona
  amministrazione,     logicita'     e    imparzialita'.    Sviamento
  dell'interesse      pubblico.     Disparita'.     Illogicita'     e
  contraddittorieta'  dell'atto.  In  via  preliminare ha chiarito di
  essere  dipendente  di  una A.S.L. con qualifica di ausiliario (III
  livello,  il piu' basso del comparto sanita') e che per cio' stesso
  non  puo'  essere  considerato alla stregua dei pubblici dipendenti
  cui  fa  riferimento  l'art.  3 del r.d. n. 1578/1933, posto che il
  d.lgs.   n. 29/1993  ha  introdotto  la  c.d.  privatizzazione  del
  pubblico  impiego, per cui non e' ipotizzabile alcuna violazione ai
  principi   di   buon   andamento   ed   efficienza   dell'attivita'
  amministrativa   anche   perche',  data  la  modesta  qualifica  di
  ausiliario  e',  percio'  stesso  autonomo,  indipendente nelle sue
  determinazioni e moralmente libero da qualsivoglia condizionamento.
    Ha poi evidenziato che il comportamento tenuto dal C.O.A. di Bari
  e'  risultato  in  palese  violazione della legislazione vigente in
  materia  di ordinamento professionale e della legge n. 241/1990 sul
  procedimento  amministrativo,  dal momento che invece di deliberare
  nel  termine  di  tre  mesi  dalla  presentazione  della domanda ha
  sospeso  le  iscrizioni  avendo  avuto  notizia  "informale"  della
  decisione  del  C.N.F.  di  rimessione  della  questione alla Corte
  costituzionale,   mentre  l'obbligo  giuridico  di  procedere  alla
  iscrizione e' atto dovuto, meramente ricognitivo, che non necessita
  di  una  valutazione  discrezionale. Ha poi sostenuto che il quinto
  comma dell'art. 33 della Costituzione prescrive, per l'abilitazione
  all'esercizio  professionale,  esclusivamente  il superamento di un
  esame  di  Stato,  senza  menzionare  l'iscrizione  in  albi  quale
  condizione per esercitare tale diritto.
    Sempre  in  tema di procedimento fondato su presupposti erronei e
  in  violazione della normativa vigente, ha ricordato come il C.O.A.
  di  Bari, a distanza di sei mesi dalla nuova istanza, ha notificato
  un   singolare   decreto  di  citazione  a  comparire,  definendolo
  "delibera",  fissando il termine di dieci giorni ... per le difese,
  e  come  la  delibera  di  rigetto,  pur essendo stata emessa il 15
  dicembre  1999  e'  stata notificata il 17 maggio 2000 (cinque mesi
  dopo),  anziche'  entro quindici giorni e non e' stata trasmessa al
  procuratore  della  Repubblica,  in  violazione  degli articoli 24,
  comma 6, e 31, comma 5, del r.d.l. n. 1578/1933.
    Ha infine rilevato che l'ordine degli avvocati di Bari ha violato
  anche  l'art. 15 delle disposizioni preliminari al codice civile in
  materia  di  successione e abrogazione di leggi, ponendosi in netto
  contrasto con il principio tempus regit actum, per il quale un atto
  e'  regolato  dalla  normativa e dalla forma vigente al momento del
  suo compimento.
    Ha quindi chiesto che il C.N.F. annulli la delibera del C.O.A. di
  Bari  15  dicembre  1999  notificata  il 17 maggio 2000 e ordini la
  iscrizione di esso ricorrente nell'albo degli avvocati di Bari, con
  vittoria di spese, diritti ed onorari.
    Il Consiglio nazionale forense, gia' investito della controversia
  in  materia  di  compatibilita'  tra  l'iscrizione  all'albo  degli
  avvocati  e il rapporto di pubblico impiego in regime di part-time,
  con  ordinanza  29 gennaio 1998 sollevava questione di legittimita'
  costituzionale  dell'art.  1,  comma 56 e 56-bis, legge 23 dicembre
  1996,  n. 662  per violazione degli articoli 3, 24, 54, 70, 97, 98,
  101 e 104 della Costituzione.
    La Corte costituzionale, con ordinanza n. 183 del 20 maggio 1999,
  ha  ritenuto la questione manifestamente inammissibile, per mancata
  integrazione  del contraddittorio nel giudizio dinanzi al Consiglio
  nazionale   forense   (C.N.F.),   con   riferimento   al  Consiglio
  dell'ordine  degli avvocati (C.O.A.) il cui provvedimento era stato
  impugnato.
    Pertanto,  non  essendosi  la Corte costituzionale pronunziata in
  merito,  il  Consiglio  nazionale  forense,  nella  sua qualita' di
  giudice  speciale  ai  sensi  dell'art. 111 Cost., e della VI disp.
  trans.   Cost.,  non  potendo  decidere  la  questione  senza  fare
  applicazione  delle  norme di cui ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1,
  legge   23   dicembre   1996,   n. 662,  solleva  la  questione  di
  legittimita'  costituzionale  delle  norme stesse, ex art. 23 della
  legge 11 marzo 1953, n. 87, per le seguenti argomentazioni in

                            D i r i t t o


    1. - La  Corte costituzionale, con ordinanza n. 183 del 20 maggio
  1999, riteneva la questione sollevata manifestamente inammissibile,
  per  mancata  integrazione del contraddittorio nel giudizio dinanzi
  al   Consiglio  nazionale  forense  (C.N.F.),  con  riferimento  ai
  Consigli  dell'ordine  degli  avvocati (C.O.A.) i cui provvedimenti
  sono stati impugnati.
    1.1. - La Corte ha infatti ritenuto, coerentemente con i principi
  generali  in  forza dei quali i Consigli dell'ordine degli avvocati
  (C.O.A.)  agiscono  in  qualita'  di autorita' amministrative i cui
  atti  possono  essere  impugnati  di  fronte  al giudice competente
  (appunto il C.N.F.), che i C.O.A. stessi siano parte necessaria nel
  giudizio dinanzi al C.N.F..
    1.2. - La Corte ha inoltre rilevato:
        che  non  sarebbero  stati  osservati  gli adempimenti che la
  legge impone al Consiglio nazionale forense (C.N.F.) per consentire
  ai  Consigli  dell'ordine di "... prender parte al giudizio, almeno
  mediante  l'esecuzione  degli adempimenti di cui agli articoli 60 e
  61   del   r.d.   22  gennaio  1934,  n. 37  (Norme  integrative  e
  d'attuazione  del r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578 sull'ordinamento
  della professione d'avvocato)";
        "che il mancato compimento dell'attivita' minima necessaria a
  porre  le  parti  in rapporto fra loro (e con il giudice) determina
  un'abnormita'  dei  procedimento  rilevabile  ictu oculi" e "che la
  suddetta  abnormita'  comporta  la manifesta inammissibilita' della
  questione ...".

    2. - In    merito    alla    questione    dell'integrazione   del
  contraddittorio  nel  caso  di  specie, si osserva che il Consiglio
  nazionale  forense (C.N.F.) ha regolarmente comunicato al Consiglio
  dell'ordine  degli  avvocati  di  Bari,  autore  del  provvedimento
  impugnato, l'avvenuta ricezione degli atti relativi al deposito del
  ricorso,  effettuato  presso  lo  stesso  C.O.A.  (art. 59, r.d. 22
  gennaio  1934, n. 37), con raccomandata r.r. 24 luglio 2000 (che si
  allega   in  copia),  nonche'  inviato  regolarmente  comunicazione
  dell'avvenuta  fissazione dell'udienza ai sensi del richiamato art.
  61,  con  raccomandata  r.r  4  settembre 2000 per l'udienza del 28
  ottobre 2000 (che si allega in copia);
    2.1   - Sulla  base  delle  considerazioni  espresse  sub  2,  il
  Consiglio  nazionale  forense  ritiene che siano state adempiute le
  prescrizioni   che   la   legge   impone  ai  fini  della  corretta
  instaurazione   del   contraddittorio,   e   che  la  questione  di
  costituzionalita'   sollevata   non   sia  pertanto  manifestamente
  inammissibile.

    3. - Il   Consiglio   nazionale  forense  ritiene  opportuno  non
  prescindere  dal  ribadire la propria legittimazione a sollevare la
  questione  di  costituzionalita',  in relazione alla considerazione
  resa  dalla  Corte costituzionale nell'ordinanza n. 183/1999, nella
  quale si legge "... anche a prescindere da qualsiasi valutazione in
  ordine  alla  conformita'  a  Costituzione  del Consiglio nazionale
  forense quale giudice speciale ...".
    3.1.  - Il  Consiglio  nazionale  forense,  in qualita' di organo
  esercitante  funzioni, oltre che amministrative, anche propriamente
  giurisdizionali,  e'  giudice  speciale  ai  sensi dell'art. 111, e
  della   VI   disposizione   transitoria  della  Costituzione  della
  Repubblica,  ed  e'  pertanto  pienamente  legittimato  a sollevare
  questione  di legittimita' costituzionale di norme o parti di norme
  di  legge e atti aventi forza di legge dello Stato e delle regioni,
  ex art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87.
    3.2.  - Com'e'  noto,  l'art.  102 della Costituzione si limita a
  disporre  il  divieto  di  "istituzione"  di  giudici speciali, nel
  quadro  di  una  generale  opzione del costituente verso l'unicita'
  della giurisdizione, ma non dispone ipso iure la soppressione delle
  giurisdizioni  speciali  operanti al momento dell'entrata in vigore
  della   Costituzione,   per   le   quali,  piu'  limitatamente,  la
  Costituzione stessa prevede, nella citata disposizione transitoria,
  la  possibilita'  di  una "revisione" (e non di una "soppressione")
  entro cinque anni dall'entrata in vigore della Costituzione stessa.
    3.3.  - La Corte costituzionale ha ritenuto il termine dei cinque
  anni  avente  natura  meramente  ordinatoria  (sentenza 23 dicembre
  1986,  n. 284,  in Foro it., 1988, I, 3563, punto 3 del considerato
  in  diritto).  Anche,  poi,  a  volere  considerare  perentorio  il
  termine,  e'  evidente  che  cio' non puo' di per se' comportare la
  radicale  incostituzionalita'  dei  giudici speciali esistenti, non
  essendo  l'espressione  "revisione"  certo  equivalente  al termine
  "soppressione", o "eliminazione". Solo il legislatore ordinario, in
  virtu'  della  riserva  di legge di cui alla VI disp. trans. Cost.,
  "... dovra' in quella sede valutare se sia conveniente sopprimerli,
  con   l'eventuale   trasformazione  in  sezioni  specializzate  dei
  tribunali   ordinari,   ovvero   mantenerli,   con   le   opportune
  modificazioni  ..."  (punto  3  del considerato in diritto). E cio'
  forse  a  temperare,  in  direzione  di  un  impianto  pluralistico
  dell'assetto  delle  istituzioni  di giustizia, l'opzione succitata
  verso il principio di unicita' della giurisdizione (Azzariti).
    3.4.  - Non  vale  certo,  ad  escludere  la  qualita' di giudice
  speciale del Consiglio nazionale forense allorche' giudichi in sede
  di  gravame  avverso  le decisioni dei C.O.A., la circostanza della
  contitolarita'  in  capo al C.N.F., di funzioni amministrative e di
  funzioni giurisdizionali.
    La  Corte  costituzionale  ha  avuto  modo  di  ribadire  che  la
  coesistenza di funzioni amministrative in capo ad organo che svolge
  funzioni  giurisdizionali  non  esclude  di per se' l'ineliminabile
  requisito  costituzionale  dell'indipendenza,  secondo  il disposto
  degli  articoli  101 e 108 della Costituzione (Corte costituzionale
  22  gennaio  1976,  n. 25,  in Foro it. 1976, I, 1; 27 maggio 1968,
  n. 49,  id.,  1968, I, 1383; 23 dicembre 1986, n. 284, id. I, 3563;
  e,  piu' di recente, Corte costituzionale 8 luglio 1992, n. 326, in
  Giur. cost., 1992, fasc. 4).
    3.5.   - Ne'   vale,   ad   escludere   la   natura  propriamente
  giurisdizionale  del Consiglio nazionale forense allorche' giudichi
  in  sede di gravame avverso le decisioni dei C.O.A., la circostanza
  della natura elettiva dell'organo.
    Nella  citata  sentenza  n. 284/1986,  la Corte costituzionale ha
  avuto   modo  di  chiarire  come  il  criterio  elettivo,  peraltro
  costituzionalmente  previsto  all'art.  106,  secondo comma, Cost.,
  possa  ben  conciliarsi  con  il requisito dell'indipendenza, e che
  occorra  avere  riguardo,  piuttosto,  alle  concrete  modalita' di
  scelta dei componenti l'organo giudicante.
    Ora,  secondo l'ordinamento vigente della professione d'avvocato,
  il  meccanismo  di  elezione  dei componenti il Consiglio nazionale
  forense,  basato  sull'elezione  da  parte  dei componenti dei vari
  Consigli  degli  ordini  degli  avvocati, a loro volta eletti dagli
  iscritti  all'albo, integra un sistema elettorale di secondo grado,
  di  per  se'  particolarmente  idoneo ad assicurare la selezione di
  candidati  di  alto  profilo morale e intellettuale, qualificati da
  esperienza   e   conoscenza   assai  approfondita  delle  questioni
  attinenti  l'ordinamento  forense,  e  del  tutto  al  riparo,  per
  l'autorevolezza  delle  personalita',  se  non  per l'autorita' che
  rivestono,   dalla   possibilita'  di  condizionamenti  contingenti
  nell'esercizio  delle  funzioni  loro assegnate, da qualsiasi parte
  essi provengano.
    Sembra  anzi  a  questo  Consiglio  nazionale che un tale assetto
  ordinamentale, che ha consentito in passato l'elezione a presidente
  del  Consiglio  nazionale e rappresentante dell'avvocatura italiana
  tutta  di personalita' quali Vittorio Scialoja e Piero Calamandrei,
  vada   gelosamente   custodito   nell'interesse   della   comunita'
  nazionale,  giacche'  la  conservazione  della  qualita'  di organo
  giurisdizionale  in  capo  al  C.N.F.  appare  il migliore presidio
  dell'indipendenza   e   dell'autonomia   dell'avvocatura   e  degli
  avvocati, e quindi dell'effettivita' della difesa e dell'assistenza
  in  giudizio,  secondo  il disposto dell'art. 24 della Costituzione
  della Repubblica.
    3.6.  - Non  depone  inoltre  nel  senso dell'incostituzionalita'
  della   c.d.  giurisdizione  disciplinare  la  circostanza  che  il
  Consiglio  nazionale forense giudichi su soggetti appartenenti alla
  medesima   categoria  professionale.  La  Corte  costituzionale  ha
  infatti ritenuto che tale circostanza non pregiudichi di per se' il
  requisito  dell'indipendenza  del giudice, riconoscendo in forza di
  tale  assunto  natura  propriamente  giurisdizionale  alla  sezione
  disciplinare  del  Consiglio superiore della magistratura, composto
  per due terzi da magistrati (sentenza n. 12 del 1971, in Foro. it.,
  1971, I, 536).
    3.7.  - Al  riconoscimento  della  natura giurisdizionale di tale
  attivita'  decisoria  del  Consiglio nazionale forense e' pervenuto
  del  resto esplicitamente lo stesso Giudice delle leggi, allorche',
  nella  sentenza  6 luglio 1970, n. 114, (in Foro it. 1970, I, 2303)
  ha  osservato  che  "...  il  Consiglio nazionale, a differenza dei
  singoli consigli dell'ordine, svolge, quando e' chiamato a decidere
  sui  ricorsi  contro  i  provvedimenti  adottati da detti consigli,
  funzione   giurisdizionale   per   la   tutela   di   un  interesse
  pubblicistico,  esterno  e  superiore  a  quello dell'interesse del
  gruppo   professionale:   il   che   puo'  trovare  conferma  nella
  ricorribilita'  contro  le  decisioni  del Consiglio nazionale alle
  sezioni unite della Corte di cassazione".
      Per  gli  stessi  motivi  la Corte costituzionale aveva infatti
  escluso  la  legittimazione  alla  sollevazione  della questione di
  costituzionalita'  di  un Consiglio dell'ordine degli avvocati, che
  aveva erroneamente argomentato circa la propria qualita' di giudice
  a quo muovendo dalla considerazione dei poteri che spettano al p.m.
  nell'ambito del procedimento disciplinare dinanzi al C.O.A. stesso;
  tali  poteri  vanno piu' propriamente inquadrati nell'ambito di una
  attivita'   di   collaborazione   all'esercizio   di  una  funzione
  amministrativa,   resa   a   tutela  di  un  interesse  del  gruppo
  professionale,  mentre  "... quando il procedimento si sposta nella
  sede  del  reclamo le funzioni del pubblico ministero si esercitano
  ai  fini  della tutela di un interesse esterno a quello del gruppo,
  diverso e distinto dall'altro che si incentra nell'ordine".
    La  Corte  mostra  di  riconoscere come la natura giurisdizionale
  dell'attivita' decisoria resa dal C.N.F. in sede di gravame avverso
  le  decisioni dei C.O.A. sia collegata all'esigenza superiore della
  tutela di interessi pubblici, mentre l'attivita' resa dai C.O.A. in
  sede disciplinare resta a presidio degli interessi collettivi della
  categoria professionale.

    4. - Nella succitata sentenza n. 284/1986, la Corte si riserva di
  valutare,  a prescindere dal potere di "revisione" del legislatore,
  se,  nel  caso  concreto,  il  giudizio che si svolge innanzi ad un
  Consiglio  nazionale  professionale istituito prima dell'entrata in
  vigore  della Costituzione sia conforme ai canoni costituzionali, e
  specialmente, come prima accennato, al canone dell'indipendenza del
  giudice e al principio della piena garanzia del contraddittorio nel
  procedimento.
    4.1.  - Il C.N.F. ritiene che le caratteristiche del procedimento
  decisorio  che si instaura innanzi al Consiglio nazionale forense a
  seguito dell'impugnazione di un provvedimento di un C.O.A. presenti
  anche   sul   piano  oggettivo  le  caratteristiche  strutturali  e
  funzionali di un'attivita' propriamente giurisdizionale.
    4.2.   - Con   riguardo   infatti   al   profilo   oggettivo  del
  funzionamento  dell'organo, si osserva che le particolari modalita'
  del  procedimento  a  conclusione  del  quale  e' resa la decisione
  sembrano  soddisfare  pienamente  il  rispetto dei canoni di cui al
  suesteso punto 4.
    Il   procedimento  innanzi  al  Consiglio  nazionale  forense  e'
  disciplinato  dal capo IV del r.d. 22 gennaio 1934, n. 37 (articoli
  59 e ss.).
    Il ricorso avverso la decisione del C.O.A. e' effettuato mediante
  deposito  presso  la  segreteria  del  C.O.A.  stesso, che provvede
  immediatamente a darne comunicazione alle altre parti e al pubblico
  ministero.
    Le   parti  interessate  possono  prendere  visione  degli  atti,
  produrre  deduzioni  ed esibire documenti, che vengono inseriti nel
  fascicolo trasmesso al Consiglio nazionale forense.
    Le  parti  interessate  devono eleggere domicilio in Roma ai fini
  delle  comunicazioni  e  delle  notificazioni  prescritte,  e darne
  avviso alla segreteria del Consiglio nazionale forense.
    Il  professionista  interessato  puo' farsi assistere da avvocato
  abilitato   al  patrocinio  dinanzi  alle  giurisdizioni  superiori
  (iscritto cioe' nell'albo speciale di cui all'art. 33 del r.d.l. 27
  novembre 1933, n. 1578).
    La   segreteria  del  Consiglio  nazionale  forense,  non  appena
  ricevuti  gli  atti  del ricorso, li comunica al pubblico ministero
  presso  la Corte di cassazione, che li restituisce entro i quindici
  giorni  successivi  alla  ricezione,  e  avverte il ricorrente e le
  altre  parti  interessate  che gli atti rimarranno depositati negli
  uffici  del  Consiglio  nazionale  per il termine di dieci giorni a
  decorrere  dal  giorno  successivo  a  quello  in  cui  il pubblico
  ministero deve effettuarne la restituzione.
    Durante  il  termine  succitato  il ricorrente, il difensore e le
  altre  parti  hanno  facolta'  di  prendere  visione degli atti, di
  proporre  deduzioni  e  di  esibire  documenti.  La stessa facolta'
  spetta al pubblico ministero presso la Corte di cassazione.
    Il   presidente   del   Consiglio  nazionale  forense  nomina  il
  consigliere   relatore   e   fissa  la  data  dell'udienza  per  la
  discussione.
    Di   tale   provvedimento  e'  data  immediata  comunicazione  al
  ricorrente  ed  alle  altre  parti  con  indicazione  del  giorno e
  dell'ora in cui la seduta avra' luogo.
    La  discussione  del  ricorso  avviene  in  udienza pubblica, con
  intervento del pubblico ministero, dopo la relazione effettuata dal
  consigliere relatore.
    Il  professionista  interessato  puo'  esporre  le  sue deduzioni
  personalmente o a mezzo del difensore.
    Il  Consiglio  nazionale  procede,  su  richiesta  delle  parti o
  d'ufficio  a  tutte  le  indagini necessarie per l'accertamento dei
  fatti.
    La  decisione  del  ricorso e' deliberata senza la presenza delle
  parti,  cioe'  dell'incolpato  e del suo difensore, e del C.O.A. il
  cui  provvedimento  e'  stato  impugnato,  e  senza la presenza del
  pubblico  ministero.  Mentre  infatti la norma originaria disponeva
  che  "il  pubblico  ministero  assiste  alla  decisione"  (art. 63,
  secondo  comma,  r.d.  22 gennaio 1934), la Corte costituzionale ha
  dichiarato  illegittima per violazione dell'art. 24, secondo comma,
  Cost.,  l'assistenza del p.m. nel momento della deliberazione della
  decisione,  a  fronte  del  corrispondente  obbligo di allontanarsi
  dell'incolpato  e  del di lui difensore (sentenza 17 febbraio 1972,
  n. 27, in Foro It. 1972, I, 568).
    Nella  citata  sentenza,  la Corte ha rilevato che "l'esame delle
  disposizioni  concernenti  i  procedimenti  disciplinari innanzi al
  Consiglio nazionale forense (art. 59 e 68, r.d. n. 37 del 1934) non
  lascia  adito  a  dubbi  sulla  posizione  di  parte  che assume il
  pubblico ministero ...".
    La   Corte  ha  ritenuto  inoltre  di  equiparare  pienamente  ai
  procedimenti giurisdizionali ordinari il procedimento che si svolge
  in  sede di giurisdizione disciplinare innanzi al C.N.F., asserendo
  che   "la  veste  e  le  attribuzioni  del  p.m.  nei  procedimenti
  disciplinari  innanzi  al  Consiglio  nazionale  forense  non  sono
  dissimili  da  quelle spettanti al p.m. nei procedimenti ordinari e
  cio' nondimeno per questi ultimi, l'ordinamento giudiziario vigente
  detta  una  norma  generale  di  contenuto  diametralmente  opposto
  sancendo   appunto   il  divieto  per  i  p.m.  di  assistere  alla
  deliberazione  della decisione delle cause civili e penali da parte
  dei giudici di merito".
    4.3.   - La   Corte  costituzionale  ha  dunque  sancito  che  la
  deliberazione  della,  decisione del Consiglio nazionale forense e'
  "la  fase  conclusiva  piu'  delicata  del  giudizio,  (e') compito
  esclusivo   dell'organo   giudicante",   e   proprio   a   garanzia
  dell'indipendenza  di  tale  organo,  la  presenza  del p.m., parte
  processuale,  non  ha ragione di essere, realizzando piuttosto "una
  situazione  di  vantaggio  con  evidente menomazione del diritto di
  difesa dell'incolpato".
    4.4.  - Anche  le  caratteristiche  della  decisione  del ricorso
  confermano  la  natura  propriamente giurisdizionale dell'attivita'
  resa.
    Il  provvedimento  decisorio  assume  infatti  le  forme  di  una
  sentenza  pronunziata  in nome del popolo italiano, e presenta come
  elementi  necessari,  l'indicazione:  dell'oggetto  del ricorso, le
  deduzioni  del ricorrente, le conclusioni del pubblico ministero, i
  motivi  sui  quali  si  fondano,  il dispositivo, l'indicazione del
  giorno   del   mese   e  dell'anno  in  cui  sono  pronunziate,  la
  sottoscrizione  del  presidente  e del segretario, la pubblicazione
  mediante  deposito nella segreteria del Consiglio, la comunicazione
  immediata  al  procuratore  generale  presso la Corte di cassazione
  (cui  si comunicano anche le date delle notificazioni eseguite alle
  altre  parti  interessate),  e  soprattutto  l'impugnabilita' delle
  sentenze   stesse   dinanzi  alle  sezioni  unite  della  Corte  di
  cassazione,  presidio dell'uniforme interpretazione ed applicazione
  del diritto oggettivo nell'ordinamento.
    4.5.   - In  conclusione,  la  natura  di  giudice  speciale  del
  Consiglio  nazionale  forense  appare  confermata da un'analisi del
  profilo  soggettivo delle caratteristiche dell'organo giudicante, e
  dall'analisi  del  profilo  oggettivo  attinente  alle modalita' di
  svolgimento  di  un  procedimento decisorio scandito da particolari
  ritualita'  e  requisiti di forma, a garanzia dell'indipendenza del
  giudice  e del rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa
  di  cui all'art. 24 Cost., anche in virtu' delle ulteriori garanzie
  introdotte dalla citata giurisprudenza del giudice delle leggi.

    5. - Il   Consiglio  nazionale  forense,  ritenendo  pertanto  la
  questione ammissibile, e reputando di essere pienamente legittimato
  a  sollevarla, intende riproporre, per i seguenti ordini di motivi,
  la  questione  di legittimita' costituzionale della norma di cui al
  comma  56  dell'art.  1  della  legge 23 dicembre 1996, n. 662, che
  recita:
        "56.  Le  disposizioni  di  cui all'articolo 58, comma 1, del
  decreto   legislativo   3   febbraio   1993,  n. 29,  e  successive
  modificazioni  ed  integrazioni, nonche' le disposizioni di legge e
  di  regolamento  che vietano l'iscrizione in albi professionali non
  si  applicano  ai  dipendenti  delle  pubbliche amministrazioni con
  rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non
  superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno";
nonche' della norma di cui al comma 56-bis dell'art. 1 della legge 23
  dicembre 1999, n. 662, inserito in forza dell'art. 6 della legge 28
  maggio 1997, n. 140, che recita:
        "2.  Dopo  il  comma  56  dell'art. 1 della legge 23 dicembre
  1996, n. 662, e' inserito il seguente:
          56-bis.   Sono   abrogate   le   disposizioni  che  vietano
  l'iscrizione ad albi e l'esercizio di attivita' professionali per i
  soggetti di cui al comma 56. Restano ferme le altre disposizioni in
  materia  di  requisiti per l'iscrizione ad albi professionali e per
  l'esercizio   delle  relative  attivita'.  Ai  dipendenti  pubblici
  iscritti   ad   albi   professionali  e  che  esercitano  attivita'
  professionale  non possono essere conferiti incarichi professionali
  dalle  amministrazioni pubbliche; gli stessi dipendenti non possono
  assumere  il  patrocinio  in controversie nelle quali sia parte una
  pubblica amministrazione".
    6.  - La  questione di legittimita' costituzionale delle norme di
  cui  ai commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996,
  n. 662,  e'  rilevante  per  la  decisione  del giudizio principale
  innanzi al Consiglio nazionale forense, che non puo' infatti essere
  definito  indipendentemente dalla risoluzione della questione (art.
  23, legge 11 marzo 1953, n. 87).
    Il ricorrente chiede infatti l'iscrizione all'albo degli avvocati
  in  forza  dell'applicazione  delle norme succitate, che dispongono
  l'abrogazione    parziale   delle   disposizioni   che   sanciscono
  l'incompatibilita'  tra  l'esercizio della professione forense e la
  condizione  di dipendente pubblico (art. 3, r.d.l. 27 novembre 1933
  n. 1578).

    7. - La  questione  di  legittimita'  costituzionale  delle norme
  succitate  non e' manifestamente infondata (art. 23, legge 11 marzo
  1953, n. 87).
    Invero  diversi  appaiono  i  profili di dubbio circa la coerenza
  delle   norme  con  diverse  disposizioni  della  Costituzione,  in
  particolare  rispetto  all'art. 3, all'art. 4 all'art. 24, all'art.
  97, all'art. 98.

    8. - Numerosi sono i profili di dubbio circa la costituzionalita'
  della  norma rispetto all'art. 97 e all'art. 98 della Costituzione,
  che  sanciscono  i  principi  di  imparzialita' e di buon andamento
  della  pubblica  amministrazione,  nonche'  l'obbligo  esclusivo di
  fedelta' alla Nazione dei pubblici impiegati.
    Va  innanzi  tutto  precisato  che  le  norme  hanno  un campo di
  applicazione  particolarmente  vasto, rimuovendo l'incompatibilita'
  tra  l'attivita' di dipendente pubblico part-time, e l'esercizio di
  tutte le professioni intellettuali.
    8.1.  - Con riferimento al principio di imparzialita', si osserva
  che l'attivita' di dipendente pubblico, seppure part-time, comporta
  in   capo  al  soggetto  una  serie  di  obblighi  e  facolta'  che
  identificano  uno  status  particolare  di  lavoratore subordinato,
  qualificato,  nonostante  le tendenze in atto nell'ordinamento alla
  progressiva  equiparazione  del  rapporto  di  impiego  pubblico al
  rapporto  di impiego privato, da uno stringente obbligo di fedelta'
  alla  pubblica  amministrazione  presso  la  quale  il  soggetto e'
  incardinato,  secondo il suo specifico rapporto di servizio: status
  simbolicamente   ed  enfaticamente  ipostatizzato  in  Costituzione
  all'art.  98,  primo  comma,  che  appunto sancisce che "I pubblici
  impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione".
    ll   rapporto   d'ufficio,   a   volte  addirittura  rapporto  di
  immedesimazione    organica,   tra   il   pubblico   dipendente   e
  l'amministrazione  per  la  quale  svolge  le  proprie  prestazioni
  lavorative   e'   basato  sul  dovere  d'ufficio  di  perseguire  e
  proteggere   l'interesse   pubblico  primario  affidato  alla  cura
  dell'amministrazione  stessa,  in  base  al  principio di legalita'
  dell'azione amministrativa.
    Il  dovere  di  imparzialita'  si  concreta  sia in una posizione
  soggettiva   di  prudente  equidistanza  dagli  interessi  privati,
  collettivi    e/o    individuali,   eventualmente   coinvolti   nel
  procedimento,  con conseguente obbligo di astensione ogni qualvolta
  "...  l'amministratore  non  si  trovi in una posizione di assoluta
  serenita'  rispetto  alla deliberazione da adottare" (Barile), sia,
  sul  piano  oggettivo, nella necessita', per la p.a. procedente, di
  valutare  e  ponderare  tutti  gli interessi tutelati dalla legge e
  coinvolti  nell'azione amministrativa, e nella conseguente adozione
  delle  scelte discrezionali in base a criteri previsti dalla legge,
  o   conformemente  ad  indirizzi  generali,  fissati  dagli  organi
  competenti o dalla stessa p.a. (Cerri, Berti).
    8.2. - Anche il principio di buon andamento, del quale i principi
  di  economicita' efficacia e pubblicita' dell'azione amministrativa
  costituiscono  esplicazione,  ai  sensi  dell'art.  1 della legge 7
  agosto   1990,  n. 241,  contribuisce  a  ritagliare  intorno  alla
  posizione  del pubblico dipendente uno status caratterizzato da una
  notevole  serie  di  obblighi  e doveri. Dopo un primo orientamento
  della giurisprudenza e della dottrina volto a negare giuridicita' e
  precettivita'  al principio in parola, considerato oggetto di norma
  programmatica,  dottrina  (Andreani)  e giurisprudenza (vedi ad es.
  Corte  costituzionale  25  luglio  1996,  n. 313)  ne  hanno invece
  individuato un duplice significato giuridico: obbligo di conseguire
  un  risultato  che  assicuri  ponderata  soddisfazione  a tutti gli
  interessi  pubblici  coinvolti;  indicazione dei mezzi attraverso i
  quali conseguire quel risultato.
    Coordinando  tali  esiti  dottrinari  con  l'impianto democratico
  della   Costituzione,   ed  in  particolare  con  il  principio  di
  eguaglianza  sostanziale  di  cui  all'art. 3, il principio di buon
  andamento  assumerebbe una differente prospettiva in riferimento ad
  un'amministrazione  di "prestazione" e ad una di "regolazione"; nel
  primo   settore  il  principio  implicherebbe  l'adeguamento  delle
  strutture,   dei   mezzi   e   del   personale  alle  esigenze  del
  cittadino-utente,  in  modo  da  assicurare il pieno sviluppo della
  persona  e la sua effettiva partecipazione; nell'amministrazione di
  regolazione,  quella basata sui provvedimenti autoritativi, il buon
  andamento  consterebbe  invece nell'adeguamento dei procedimenti al
  fine  di  assicurare  una combinazione degli interessi coinvolti in
  concorso  con  i  soggetti  pubblici e privati, singoli e associati
  titolari  di  quegli interessi. Cosi', dunque, come l'imparzialita'
  mira  ad  assicurare  l'eguaglianza  "formale",  il  buon andamento
  mirerebbe  all'eguaglianza  "sostanziale"  nell'amministrazione  di
  prestazione,    al    superamento    del    carattere   unilaterale
  nell'amministrazione di regolazione.
    8.3. - Tali doveri mal si conciliano con la fisiologica vicinanza
  agli   interessi  giuridicamente  rilevanti  -  od  anche  ai  meri
  interessi  materiali - della clientela, che la condizione di libero
  professionista ontologicamente comporta.
    Si  pensi ad un dottore o ragioniere commercialista che sia anche
  pubblico dipendente di un ufficio dell'amministrazione finanziaria,
  centrale o periferica, o dell'ufficio imposte di un ente locale. In
  questo  caso  si  appalesa  evidente  l'immanente  contrasto tra il
  dovere d'ufficio e il dovere professionale che gravano sul medesimo
  soggetto,    con   il   rischio   di   un   sistematico   nocumento
  all'imparzialita'  dell'azione amministrativa arrecato dal pubblico
  dipendente che sia anche libero professionista.
    8.4.   - Se  l'inconciliabilita'  tra  il  dovere  d'ufficio  del
  pubblico  dipendente  e  il dovere professionale del professionista
  assume   carattere  generale,  pur  tuttavia  la  questione  e'  di
  particolare   delicatezza   con   riferimento  all'esercizio  della
  professione  d'avvocato,  la  cui  indipendenza  ed  autonomia sono
  presupposto dell'effettivita' del diritto costituzionale di difesa,
  secondo il disposto dell'art. 24 Cost., e laddove l'imparzialita' e
  il  buon  andamento  colpiti  sarebbero quelli dell'amministrazione
  della giustizia.
    Mal    si    concilia    con    la   legalita'   e   l'efficienza
  dell'amministrazione    della    giustizia,    gia'    cronicamente
  problematiche  nel nostro paese, la posizione dell'avvocato che sia
  anche  dipendente  di  un  ufficio  giudiziario,  e sia magari alle
  dipendenze  funzionali  di un magistrato in servizio. Sorge inoltre
  il  dubbio  che  l'avvocato dipendente pubblico part-time possa non
  sentirsi    pienamente    libero    di    assumere   nell'interesse
  dell'assistito,  iniziative  e condotte difensive che sappia essere
  invise  al  titolare  dell'ufficio  giudiziario a lui sovraordinato
  nell'ambito del rapporto di pubblico impiego.
    Nel  conflitto  tra le due appartenenze e le due responsabilita',
  l'avvocato  -  a  torto o a ragione non rileva - potrebbe ritenersi
  limitato  nel  dispiegamento di tutte le attivita' di difesa che la
  legge   consente,   e   rinunziare  a  taluni  atti,  con  evidente
  pregiudizio   della   posizione   dell'assistito,  oppure  potrebbe
  giovarsi della sua posizione all'interno dell'amministrazione della
  giustizia per procurare indebiti vantaggi, con evidente pregiudizio
  dell'imparzialita'   e  del  buon  andamento  dell'amministrazione:
  nell'un  caso avremmo una grave violazione dell'art. 24, nell'altro
  una grave violazione degli artt. 97 e 98 della Costituzione.
    Le  considerazioni  qui  esposte giustificherebbero una pronunzia
  addittiva della Corte costituzionale, nel senso della dichiarazione
  di  illegittimita'  costituzionale delle norme di cui ai commi 56 e
  56-bis  dell'art.  1  della  legge  23 dicembre 1996, n. 662, nella
  parte  in  cui  queste  non escludono la professione d'avvocato dal
  proprio campo di applicazione (vedi oltre, punto n. 13).
    9.  - All'atto  di  valutare la legittimita' costituzionale della
  compatibilita'   tra   l'esercizio   della   libera  professione  e
  l'attivita' di docenza nelle scuole (disposta dall'art. 92, sesto e
  settimo   comma,   d.P.R.   31   maggio   1974,  n. 417,  la  Corte
  costituzionale  ha  avuto  modo di giustificare la deroga al regime
  ordinario  di  incompatibilita'  previsto nell'ordinamento di varie
  professioni  libere,  con  la  considerazione  "...  dell'influenza
  positiva  che  all'attivita'  didattica puo' derivare dalla pratica
  professionale   ..."  (sentenza  n. 284/1986,  cit.,  punto  8  del
  considerato  in  diritto),  e  solo  in ragione di tale specialita'
  della  condizione  del  dipendente  pubblico-docente ha ritenuto la
  norma  censurata  in quell'occasione conforme a Costituzione. Se e'
  vero  che  il  libero  professionista  puo'  in  ragione  della sua
  attivita' arricchire i contenuti didattici dell'insegnamento con il
  patrimonio  culturale  dell'esperienza  concreta,  la  norma citata
  prevede che, in ogni caso, l'esercizio delle libere professioni non
  debba   recare   "...  pregiudizio  all'assolvimento  di  tutte  le
  attivita'  inerenti  alla  funzione  docente"  e  che  tali  libere
  professioni  "...  siano compatibili con l'orario di insegnamento e
  di  servizio";  cio' che qui piu' conta evidenziare e' che la Corte
  riconosce  essenziale  l'apposizione  di questo limite generale per
  escludere  l'incostituzionalita'  della  norma per violazione degli
  artt. 97 e 98 Cost.
    9.1.  - Ora,  nel  caso in esame, i commi 56 e 56-bis dell'art. 1
  della  legge  23  dicembre  1996,  n. 662, non pongono alcun limite
  specifico,  in  ragione degli interessi costituzionalmente protetti
  dagli  artt.  97  e  98,  alla  facolta'  di  esercitare  la libera
  professione   per  i  dipendenti  pubblici  part-time,  se  non  la
  precisazione  che  "...  Ai  dipendeti  pubblici  iscritti  ad albi
  professionali  e che esercitano attivita' professionale non possono
  essere  conferiti  incarichi  professionali  dalle  amministrazioni
  pubbliche; gli stessi dipendenti non possono assumere il patrocinio
  in    controversie    nelle    quali   sia   parte   una   pubblica
  amministrazione".
    Tale   preclusione   non   appare   assolutamente  sufficiente  a
  scongiurare  il  pericolo  di  violazione  sistematica  delle norme
  costituzionali citate, e sia sufficiente al riguardo richiamare gli
  esempi e le argomentazioni spese sub 7.2.1, e 7.2.2.
    10.   - E  non  sembra  a  questo  Consiglio  nazionale  che  sia
  irrilevante   per  la  valutazione  della  costituzionalita'  delle
  disposizioni   in   oggetto  la  condizione  di  evidente  maggiore
  appetibilita'  sul  mercato  di  un  professionista  che  sia anche
  pubblico dipendente, e che possa pertanto giovarsi della conoscenza
  oggettiva   della   macchina  amministrativa,  e  della  conoscenza
  personale di interlocutori istituzionali della clientela.
    E  cio'  non tanto per la lesione del principio della liberta' di
  concorrenza    tra   operatori   professionali,   quanto   per   la
  considerazione  che  chi  entra  in  un  mercato  professionale  da
  pubblico  dipendente  si avvale di un bagaglio di nozioni tecniche,
  scientifiche,  o  anche  solo  di  carattere  organizzativo, che ha
  acquisito   proprio   grazie   al   suo   inserimento   all'interno
  dell'amministrazione. In altre parole, l'amministrazione - e quindi
  l'intera  comunita'  nazionale  -  ha  nella maggior parte dei casi
  subito  dei  costi  spesso  cospicui  per  la formazione dei propri
  quadri, formazione che gli altri cittadini che esercitano la libera
  professione si sono dovuti procacciare a proprie spese.
    Appare  a  questo Consiglio nazionale che la situazione da ultimo
  descritta   integri   molteplici   violazioni   del   principio  di
  eguaglianza  (art. 3 Cost.), sia in senso formale, sotto il profilo
  della disparita' di trattamento, sia in senso sostanziale, sotto il
  profilo  di  una lesione del principio delle pari opportunita': nel
  caso  di  specie  il  legislatore  anziche'  rimuovere, finisce per
  aggiungere  indebitamente  "...  ostacoli  di  ordine  economico  e
  sociale,  che,  limitando  di fatto la liberta' e l'eguaglianza dei
  cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana ...".

    11. - Invero  l'art. 3 della Costituzione viene in considerazione
  anche, e ancor piu' significativamente, per un rilievo di carattere
  generale  circa  l'assoluta  irragionevolezza delle norme di cui ai
  commi 56 e 56-bis dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662.
    La   Corte   costituzionale,   pur   nel  rispetto  della  natura
  discrezionale  e  politica  delle  scelte  operate  dal legislatore
  ordinario,  si e' infatti sempre riservata il potere di valutare in
  concreto  se  l'attivita'  di  ponderazione  e di bilanciamento tra
  interessi  costituzionalmente  protetti  operata  nel  caso singolo
  integri  o  meno una violazione dell'art. 3 Cost., sotto il profilo
  dell'assoluta  mancanza  di ragionevolezza e logicita' della scelta
  operata.
    Nel  caso  di  specie,  in ragione di un'esigenza di contenimento
  della  spesa  pubblica, rinvenibile, oltre che nella ratio generale
  del  provvedimento,  persino nell'intitolazione dell'atto normativo
  che  per  primo  ha introdotto le disposizioni in oggetto (trattasi
  del  d.l.  28  marzo  1997,  n. 79,  recante "Misure urgenti per il
  riequilibrio  della  finanza pubblica", poi convertito con parziali
  modificazioni  in  legge  28 maggio 1997, n. 79), il legislatore ha
  dettato  una  disciplina  che  pone  seriamente  in pericolo valori
  costituzionali   ben   piu'   rilevanti,   quali   l'integrita'   e
  l'effettivita'  del diritto di difesa - che ben puo' ascriversi tra
  i  diritti  inviolabili  deIl'uomo  di  cui  all'art.  2 Cost, - in
  ragione del vulnus all'indipendenza ed all'autonomia del difensore,
  e   quali   i   principi   di   imparzialita'   e   buon  andamento
  dell'amministrazione.
    Appare  a  questo Consiglio nazionale irragionevole pretermettere
  alla  garanzia  di principi fondamentali quali quelli richiamati le
  pur  rilevanti  esigenze di contenimento dell'erogazione di risorse
  pubbliche  che  sono  alla  base  dell'intervento  normativo, volto
  manifestamente  ad  agevolare  il passaggio dei pubblici dipendenti
  dal  regime a tempo pieno, ovviamente piu' oneroso per l'Erario, al
  regime a tempo parziale.

    12. - Un ulteriore profilo che consente di non dubitare della non
  manifesta    infondatezza    della    questione   di   legittimita'
  costituzionale   delle   norme   de  quibus  concerne  la  sospetta
  violazione dell'art. 4 Cost.
    Per   quanto   la   proclamazione   dell'Italia  come  Repubblica
  democratica  fondata  sul lavoro e la statuizione di cui all'art. 4
  della  Costituzione  non  comportino  una concezione del diritto al
  lavoro come garanzia dell'effettivo accesso al lavoro delle persone
  prive  di  occupazione (Corte costituzionale, 3 marzo 1988, n. 238,
  in  Giur.  cost.,  1988,  I,1027)  e  per  quanto  l'art.  4  della
  Costituzione  non  garantisca  a  ciascun  cittadino  il diritto al
  conseguimento   od  alla  conservazione  di  un'occupazione  (Corte
  costituzionale  22 novembre 1985, n. 300, in Cons. Stato, 1985, II,
  1529),  pur  tuttavia  cio'  non  esclude  che  il  legislatore sia
  chiamato,  anche  in  forza del secondo comma dell'art. 3 Cost., ad
  effettuare  scelte  di  politica  occupazionale tese ad ampliare le
  concrete  possibilita' di impiego, e, conseguentemente, la generale
  offerta di lavoro del sistema pubblico e privato.
    Appare   pertanto   poco  ragionevole,  se  non  direttamente  in
  violazione  dell'art.  4  Cost.,  ogni ipotesi normativa che invece
  consenta   al   medesimo   soggetto   di  svolgere  piu'  attivita'
  lavorative, specie in una situazione socioeconomica caratterizzata,
  in  molte  regioni d'Italia, da notevoli difficolta' di inserimento
  nei  circuiti  della  produzione  di  beni  e servizi, in un quadro
  generale  ben  lontano  dalla  piena  occupazione.  Lo  svolgimento
  contemporaneo  di piu' attivita' lavorative inevitabilmente sottrae
  al  mercato  del  lavoro ambiti e spazi che potrebbero assorbire la
  domanda   di   occupazione  di  soggetti  che  ne  sono  totalmente
  sprovvisti.
    13.  - Per  questi  motivi, sembra al Consiglio nazionale forense
  che  la questione di legittimita' costituzionale delle norme di cui
  ai  commi  56  e  56-bis  dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996,
  n. 662, non sia manifestamente infondata, e che debba, tanto essere
  rivolta  alla  Corte  costituzionale, affinche' questa proceda alla
  declatatoria   di   illegittimita'   costituzionale   delle   norme
  succitate,  o  addivenga  ad  una  pronunzia di incostituzionalita'
  delle  suddette  norme  nella  parte in cui queste non escludono la
  professione d'avvocato dal proprio campo di applicazione.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuta rilevante e non manifestamente infondata, in riferimento
  agli  artt.  3,  4, 24, 97 e 98 della Costituzione, la questione di
  legittimita' costituzionale delle norme di cui ai commi 56 e 56-bis
  dell'art. 1 della legge 23 dicembre 1996, n. 662;
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
  costituzionale;
    Sospende   il   giudizio   fino   alla   decisione   della  Corte
  costituzionale;
    Ordina  che,  a  cura della segreteria, la presente ordinanza sia
  notificata  alle  parti,  nonche'  al  Presidente del Consiglio dei
  ministri e sia comunicata al Presidente del Senato della Repubblica
  ed al Presidente della Camera dei deputati.
        Roma, addi' 28 ottobre 2000.
                        Il presidente: Galati
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