N. 129 ORDINANZA (Atto di promovimento) 22 novembre 2000

Ordinanza  emessa  il  22  novembre  2000 dal tribunale di appello di
Venezia nel procedimento penale a carico di Ramaro Paolo

Processo  penale  -  Giudizio  abbreviato  -  Disciplina  transitoria
conseguente  alla  legge  16 dicembre 1999, n. 479 - Procedimenti per
delitti  puniti  con  la  pena  dell'ergastolo  -  Giudizio  in grado
d'appello  - Possibilita' per il giudice di rifiutare l'ammissione al
rito  abbreviato,  in  caso  di incompatibilita' delle prove, gia' da
esso  ammesse,  assumibili o in corso di assunzione, ex art. 603 cod.
proc.  pen., con le finalita' di economia processuale del rito stesso
-  Omessa  previsione  -  Possibilita'  per  il  giudice d'appello di
escludere  la  riduzione  premiale, tutte le volte in cui, ammessa la
parte  al giudizio abbreviato, i dati desunti dal fascicolo del p.m.,
ed  opportunamente  valutati,  non  appaiono  in grado di impedire la
prosecuzione  della  gia' deliberata rinnovazione istruttoria ex art.
603 cod. proc. pen. - Omessa previsione - Violazione del principio di
uguaglianza,     sotto    il    profilo    dell'irragionevolezza    e
dell'ingiustificato  trattamento  di  privilegio per gli accusati che
facciano  richiesta  del  rito abbreviato in appello, con conseguente
cumulo  dei  benefici, delle risorse processuali del rito ordinario e
del  rito  speciale - Incidenza sul principio di imparzialita' e buon
andamento     della     pubblica     amministrazione     (estensibile
all'amministrazione della giustizia).
- D.L.  7  aprile  2000, n. 82, conv. in legge 5 giugno 2000, n. 144,
  art.  4-ter,  commi  3, lett. b); codice di procedura penale, artt.
  438,  comma  5,  in  relazione  all'art.  603,  commi 1 e 3, stesso
  codice.
- Costituzione, artt. 3 e 97.
(GU n.9 del 28-2-2001 )
                    LA CORTE DI ASSISE D'APPELLO

    Riunita  in  camera  di  consiglio  nel  procedimento a carico di
Ramaro Paolo nato il 24 gennaio 1966 ad Este (Padova), imputato:
        A) del delitto di cui agli artt. 575, 576 n. 5 C.P., per aver
volontariamente   cagionato   la   morte   di  C.  E.,  percuotendola
selvaggiamente,  anche  con  oggetti  contundenti,  colpendola con un
coltello  da  cucina al collo, e con un piccone alla regione vertebro
cervicale   ed  in  altre  parti  del  corpo;  commettendo  il  fatto
contestualmente  a  quello di cui al capo b). Megliadino S. Fidenzio,
24 novembre 1997;
        B)  del  delitto  di cui agli artt. 81, 609-bis C.P. per aver
con  violenza,  ossia  nel  contesto  degli  atti  di cui al capo a),
costretto C. E. - mentre era ancora in vita - a subire l'introduzione
di  pali  o  manici  di  scopa  in  bocca ed in vagina. Megliadino S.
Fidenzio, 24 novembre 1997;
    Appellante  avverso la sentenza in data 7 aprile 1999 della Corte
di  assise  di  Padova  che lo ha condannato (concesse le circostanze
attenuanti  generiche,  ritenuta  la diminuente del vizio parziale di
mente,  dichiarate equivalenti alla contestata aggravante ex art. 576
n. 5  C.P.)  alla pena di anni 22 di reclusione in quanto reponsabile
del delitto di omicidio volontario e violenza sessuale in danno di C.
E  .  Con  applicazione  della misura di sicurezza ex art. 219 C.P. e
condanna  al  risarcimento  dei  danni  in  favore della parte civile
costituita.
    Ha pronunciato la seguente ordinanza
               Premessa sullo svolgimento del processo
      a - La difesa dell'appellante, accusato del delitto di omicidio
aggravato,  perche'  realizzato  nell'atto  di commettere il reato di
violenza  sessuale,  ha sostenuto nel suo gravame, con consistenti ed
articolate  argomentazioni  di  natura  tecnica,  l'erroneita'  delle
assunte conclusioni del primo giudice sulla dinamica e la successione
degli  eventi,  nonche'  sulle  condizioni  di  mente  del  prevenuto
all'atto  della  commissione  dei  fatti, ed ha chiesto ex art. 603.1
C.P.P. l'espletamento di una perizia sulle dette due tematiche.
      b  -  La  Corte, attesa l'insufficienza e l'inadeguatezza degli
esiti  delle  prove  in  primo  grado,  ha  aderito alla richiesta di
rinnovazione  istruttoria, disponendo l'assunzione del mezzo di prova
dato  da  una  perizia  collegiale,  con una estensione e quesiti che
hanno  superato  il tenore delle richieste della parte privata, ed in
tale ambito provvedendo a sensi dell'art. 603.3 C.P.P.
      c  -  Prima  dell'esame  dei periti (i quali hanno proposto una
inversione   della  scansione  cronologica  degli  eventi  illeciti),
l'appellante  ha  formulato istanza di ammissione al rito abbreviato,
giusta  disposto dell'art. 4-ter, comma 3), lettera b) legge 5 giugno
2000 n. 144, senza opposizione del Procuratore generale, e la Corte:
        ha  provveduto  in  conformita' alla richiesta, ex art. 438.4
C.P.P. con ordinanza in data 29 maggio u.s.;
        ha   disposto   l'acquisizione  del  fascicolo  del  Pubblico
ministero;
        ed  ha  comunque  completato  gli  incombenti  istruttori  in
precedenza stabiliti ex art. 603 C.P.P.
      d  -  Il  Procuratore  generale  in  data  20  novembre 2000 ha
sollevato,  nel corso della discussione finale ex art. 523 C.P.P., la
questione  della  legittimita'  costituzionale  delle  norme  di  cui
all'art. 4-ter,  comma  2  e 3 lettera b) legge 5 giugno 2000 n. 144,
(Conversione  in legge, con modificazioni, del decreto-legge 7 aprile
2000  n. 82,  recante  "Modificazioni  alla disciplina dei termini di
custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato"), in relazione
all'art. 603  commi  1  e 3 C.P.P. per violazione degli artt. 3 e 97,
nonche'  27,  101  e  111 della Carta costituzionale, ed il Collegio,
esaurita  la  discussione e chiuso il dibattimento, si e' riunito per
la deliberazione della sentenza ex art. 525 C.P.P.
    Ritenuto  che  la  sollevata  questione appare non manifestamente
infondata,  sotto  il  profilo  dei  dedotti  vizi  di illegittimita'
costituzionale,  nei  termini  che  verranno  illustrati,  e  che  il
presente    giudizio    d'appello    non    puo'   essere   definito,
indipendentemente  dalla risoluzione della prospettata questione, con
riferimento  alla  statuizione  della  sentenza  concernente  la pena
finale complessiva da irrogare
                            O s s e r v a
quanto  segue,  in ordine alle formalita' di accesso al rito speciale
ex art. 4-ter, comma 3 lettera b legge 5 giugno 2000 n. 144:
        1.  l'ordinanza  di ammissione al rito abbreviato e' avvenuta
in un quadro di richieste probatorie dell'accusato ex art. 603 C.P.P,
e prima della conclusione della disposta perizia medico legale, sulle
sequenze  degli  atti  di rilievo sessuale in relazione al verificato
omicidio, nonche' sull'imputabilita' dell'accusato;
        2.  pertanto, il provvedimento di ammissione al rito speciale
e'   stato   deliberato   "de   plano"  previa  necessaria,  positiva
valutazione  da  parte di questo giudice della persistente necessita'
delle  prove  ammesse ex art. 603 C.P.P., pur dopo l'allargamento del
materiale   processuale   conseguito  all'avvenuta  acquisizione  del
fascicolo del Pubblico ministero;
        3. nessun giudizio sulla compatibilita' o meno della disposta
rinnovazione,  rispetto  alla  funzionalita', ai fini ed all'economia
del rito, e' stato quindi effettuato dal giudice dell'appello, attesa
l'assenza   di  norme  in  proposito.  L'art. 438.5  C.P.P.  infatti,
teoricamente  applicabile  al  giudizio  di appello in relazione alla
regola  estensiva  dell'art. 598  C.P.P.,  non risulta operante nella
fattispecie,  posto  che  non  si tratta di "integrazione probatoria"
richiesta  dall'imputato,  quale condizione per l'ammissione al rito,
ma  si  versa  in  una situazione nella quale e' lo stesso giudice di
secondo  grado che ha espresso (ed esprime, pur dopo l'acquisizione e
l'utilizzazione   degli   atti   contenuti   nel   fascicolo  di  cui
all'art. 416.2  C.P.P.)  la  constatazione "di non essere in grado di
decidere",  nelle ipotesi di cui al primo comma dell'art. 603 C.P.P.,
oppure   l'esigenza   di  una  "rinnovazione  ritenuta  assolutamente
necessaria" nelle situazioni di cui al comma 3 del medesimo articolo.
    Cio'  posto, va verificato se la norma dell'art. 4-ter, commi 2 e
3  lettera  b),  legge  144/2000,  la  quale consente nel giudizio di
appello  la  riduzione  della  sanzione  da  irrogare,  quale effetto
derivato  dell'ammissione  al rito abbreviato, sia o meno affetta dai
vizi di illegittimita' prospettati dalla parte pubblica.
    A  tal  fine,  pare  opportuno premettere una breve sintesi della
nuova fisionomia del procedimento speciale de quo (punto sub a), alla
quale fare riferimento nella individuazione dei profili di fondatezza
e rilevanza (punto sub b) delle norme censurate.
    A - Quadro normativo.
    E'  noto  che  la legge 16 dicembie 1999, n. 479 ("Modifiche alle
disposizioni  sul  procedimento  davanti al tribunale in composizione
monocratica  e  altre  modifiche  al  codice di procedura penale") ha
innovato,  tra  l'altro, in modo radicale, la disciplina del giudizio
abbreviato,  nell'intento  di  renderlo  piu' appetibile, e quindi di
alleggerire il giudizio celebrato nelle forme ordinarie.
    Almeno  cinque  sono  state  le  innovazioni significative1), nel
senso   di  un  ampliamento  della  fruibilita'  del  rito  da  parte
dell'imputato:
      a)  e'  stata  esclusa  l'esigenza  del  consenso  del pubblico
ministero,   il   quale,  pure  a  seguito  dei  ripetuti  interventi
limitativi  della Corte costituzionale, conservava ancora un limitato
potere di interdetto;
    1) Parte  delle  considerazioni  sono state tratte dal Disegno di
legge  d'iniziativa  dei  senatori Fassone, Russo e Calvi, comunicato
alla  presidenza  il  3  maggio  2000.        b)  e' stato fortemente
.ridotto il potere di rifiuto del giudice (di I grado), il quale puo'
negare  l'ammissione  al  rito  speciale  solamente quando l'imputato
subordini la sua richiesta ad un'integrazione probatoria cosi' estesa
che  il giudice la ritenga incompatibile con le finalita' di economia
processuale propria del procedimento;
      c)  e'  scomparso  il  rigore della caratteristica del giudizio
abbreviato  come  "giudizio  allo  stato  degli  atti",  perche'  sia
l'imputato, sia il pubblico ministero di riflesso, possono chiedere e
il  giudice  (di  I  grado)  puo' disporre una contenuta integrazione
probatoria;
      d)  e'  venuta meno la preclusione del rito per i delitti per i
quali  la  legge stabilisce la pena dell'ergastolo (senza distinzione
tra ergastolo con o senza isolamento diurno2));
      e)  e'  stata  ampliata  la  possibilita'  di  proporre appello
avverso la sentenza di condanna.
    Per  il  grado  di  appello,  la  legge  5  giugno  2000  n. 144.
(Conversione  in  legge,  con  modificazioni,  del  decreto - legge 7
aprile  2000  n. 82,  recante:  "Modificazioni  alla  disciplina  dei
termini di custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato") ha
ulteriormente e specificamente stabilito:
        all'art. 4-ter  comma 2: Nei processi penali per reati puniti
con  la  pena dell'ergastolo, in corso alla data di entrata in vigore
della  legge  di  conversione del presente decreto e nei quali, prima
della data di entrata in vigore della legge 16 dicembre 1999, n. 479,
era  scaduto  il  termine  per  la  proposizione  della  richiesta di
giudizio abbreviato, l'imputato, nella prima udienza utile successiva
alla  data  di  entrata  in  vigore  della  legge  di conversione del
presente  decreto,  puo'  chiedere  che  il  processo, ai fini di cui
all'art. 442,   comma   2,   del  codice  di  procedura  penale,  sia
immediatamente  definito,  anche  sulla base degli atti contenuti nel
fascicolo di cui all'art. 416 comma 2 del medesimo codice;
        all'art. 4-ter  comma  3:  La  richiesta di cui al comma 2 e'
ammessa se e' presentata:
      a)  nel  giudizio  di  primo  grado,  prima  della  conclusione
dell'istruzione dibattimentale;
      b)  nel  giudizio  di  appello,  qualora  sia stata disposta la
rinnovazione dell'istruzione ai sensi dell'articolo 603 del codice di
procedura penale, prima della conclusione della istruzione stessa;
      c)  nel  giudizio  di rinvio, se ricorrono le condizioni di cui
alle lettere a) e b).
    Tale  disciplina,  frutto di una doppia, ed integrata statuizione
legislativa,  sta  concretamente producendo una sistematica richiesta
di   rito   speciale,  in  appello,  negli  ambiti  di  attivita'  di
rinnovazione dibattimentale, in particolare per i delitti per i quali
e'   prospettabile  l'applicabilita'  di  una  pesante  pena,  e,  di
riflesso,  il  vantaggio di un'automatica attenuazione della risposta
sanzionatoria per effetto della diminuente prevista dall'articolo 442
del codice di procedura penale. Il giudizio abbreviato3), infatti non
presenta  per l'imputato - sia in primo che in secondo grado - rischi
maggiori  del  giudizio  ordinario  (essendo  esso,  a differenza del
cosiddetto  patteggiamento, "a doppia uscita", cioe' con possibilita'
di  assoluzione,  ed  essendo  ora anche suscettibile di integrazione
probatoria),  ed  offre  un beneficio, in termini di pena, che cresce
con la gravita' dell'addebito.
    B  -  termini  e  motivi  della questione ex art. 23 comma 21. 11
marzo 1953 n. 87.
    Ritiene   il   Collegio,   anche  a  prescindere  dalla  avvenuta
eliminazione  del  presupposto del consenso del Pubblico ministero ai
fini dello svolgimento del giudizio abbreviato
    (la  quale,  secondo  un chiaro e non lontano monito della stessa
Corte  Costituzionale,  oltre a risultare non coerente con il disegno
attuale   del  processo  penale,  varrebbe  a  determinare  ulteriori
disarmonie   di   dubbia   costituzionalita'   nel   sistema:   Corte
costituzionale  26  febbraio  1998,  Ord.  n. 33 Cass. pen. 1998,1589
Giur.  cost.  1998,  208),  che  ci  si  trovi  di fronte, in caso di
giudizio in appello, alla violazione del principio della possibilita'
concreta    di   controllo   (ribadita   piu'   volte   dalla   Corte
costituzionale4))  sulla  ritualita'  del chiesto rito abbreviato, da
parte  del  giudice del dibattimento di secondo grado, tutte le volte
in  cui  detto giudice abbia necessariamente disposto la rinnovazione
(d'ufficio  o  su istanza di parte) dell'istruzione dibattimentale ex
art. 603  C.P.P.,  ed  abbia  ritenuto  di  non  modificare  tale sua
decisione,  pur dopo aver acquisito e valutato gli atti contenuti nel
fascicolo del Pubblico ministero, a giudizio abbreviato ammesso.
    2) Su tale omessa previsione si veda il disegno di legge n. 4737,
presentato  dal ministro della Giustizia e comunicato alla presidenza
il  17  luglio  2000,  il  quale, nella constatata incertezza su come
debba  essere  determinata,  nelle  ipotesi di concorso di reati o in
quella di reato continuato, la pena sulla quale operare la diminuente
per  la  scelta del rito abbreviato, propone, con una norma di natura
interpretativa,  che  il riferimento alla pena dell'ergastolo, di cui
al  comma  2  dell'articolo 442 del codice di procedura penale, debba
intendersi  come  relativa  alla pena dell'ergastolo senza isolamento
diurno.
    3) Cfr. in termini: il disegno di legge d'iniziativa dei senatori
Fassone, Russo e Calvi, comunicato alla presidenza il 3 maggio 2000.
    4) Cfr.:  Corte costituzionale 4 dicembre 1998, Ord. n. 396 Giur.
cost. 1998, fasc. 6 Cons. Stato 1998, I, 1764.
    In  buona  sostanza  il  giudice d'appello non ha alcun potere di
impedire   l'accesso   al   rito,   nonostante  la  presenza  di  una
consistente,   estesa,   massiccia   e  qualitativamente  impegnativa
attivita'   probatoria   (ad   esempio:   rinnovazione   che  preveda
l'assunzione  di  mezzi  di prova con l'esame delle parti e di testi,
oppure  l'espletamento  di  una perizia), la quale appaia in concreto
incompatibile  per  la  sua  durata  e  per  le risorse impiegate dal
Giudicante,  con  le  finalita'  di  economia processuale proprie del
procedimento,   pur   modificato,   e   ristrutturato  dalle  novelle
16 dicembre   1999,   n. 479   ("Modifiche   alle   disposizioni  sul
procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre
modifiche  al  codice  di  procedura penale") e 5 giugno 2000 n. 144.
(Conversione  in  legge,  con  modificazioni,  del  decreto - legge 7
aprile  2000  n. 82,  recante:  "Modificazioni  alla  disciplina  dei
termini  di  custodia cautelare nella fase del giudizio abbreviato"),
ed  in relazione ai criteri connotativi ed alle finalita' proprie del
rito  speciale,  quali  individuate  dalla sentenza n. 277/1990 della
Corte costituzionale.
    La  Corte  infatti, con detta decisione (23-31 maggio 1990, Pres.
Conso,   rel.   Dell'Andro),   aveva   autorevolmente  stabilito  che
l'istituto  del  rito  abbreviato, contemplato dall'art. 438 C.P.P. e
che  ha  il  fine di consentire la sollecita definizione del giudizio
escludendo  la  fase  dibattimentale, non puo' essere ragionevolmente
applicato  quando  il  suo  scopo  non  possa essere piu' perseguito,
essendo  iniziata  la fase dibattimentale ed avendo quindi l'imputato
avuto  la  possibilita'  di  valutare  le  prove  e  l'andamento  del
dibattimento.
    Nella   fattispecie   la   decisione  della  Corte  di  rinnovare
l'espletamento  del  rilevante  e  consistente  mezzo  di prova della
perizia   collegiale   (per  chiarire  la  successione  degli  eventi
delittuosi, e l'imputabilita' dell'accusato), pur dopo l'acquisizione
del  fascicolo  del  pubblico  ministero  (la quale non ha risolto le
difficolta'  decisorie  del  giudice  dell'appello), ha comportato in
secondo grado la ripresa ampia dell'attivita' istruttoria, ed ha reso
del  tutto  irragionevole  sotto piu' profili il trattamento di pena,
che   conseguirebbe   all'appellante,  ad  istruzione  dibattimentale
conclusa,   laddove   venisse   confermato  l'appellato  giudizio  di
responsabilita' penale.
    Invero,   a   perizia   gia'   deliberata,  ed  in  tale  momento
processuale,  la  Corte  mancava  di  scelte alternative in ordine al
chiesto  rito,  nel  senso che essa doveva dar comunque corso ai fini
del conseguimento della verita' (e per la ricorrenza del disposto del
terzo comma dell'art. 603 C.P.P.), alle ritenute essenziali attivita'
istruttorie,   non   ovviabili   in  alcun  modo  per  effetto  della
valutazione  dei  dati  di  conoscenza  desunti  dal fascicolo di cui
all'art. 416.2 C.P.P.
    Nel  caso contrario, e cioe' nell'ipotesi in cui il Collegio, pur
dopo  aver  soppesata  l'assoluta  necessita' della prova al fine del
decidere  (nella specie la perizia collegiale sulla successione degli
eventi   di   natura   sessuale   ed   omicidiaria,   e   la  perizia
sull'imputabilita'),  avesse  deliberato  invece  la rinuncia a detta
ulteriore  attivita'  processuale,  a causa della mera sopravvenienza
del  rito  abbreviato,  quel  collegio  sarebbe  andato in insanabile
contrasto  argomentativo  con  le sue stesse premesse di logica della
decisione,  a  meno  che  non  si fossero rinvenuti (esito questo non
determinatosi  nella  presente vicenda), negli atti del fascicolo del
pubblico  ministero,  elementi  di  giudizio idonei e sufficienti per
superare  l'incertezza  decisoria  che  aveva  dato  causa  a  quella
specifica rinnovazione istruttoria dibattimentale ex art. 603 C.P.P..
    Appare  chiaro  infatti  che  in  caso  di  rinuncia  del giudice
d'appello  alla  prova,  gia' ritenuta di "cogente indispensabilita'"
(senza   che   dal  fascicolo  del  pubblico  ministero  siano  stati
recuperati elementi in grado di risolvere l'incertezza decisoria), ci
si troverebbe di fronte al paradossale ed imprevedibile comportamento
processuale di un decidente, il quale prima:
        asserisce  la  sua  impossibilita'  a  formulare  il giudizio
finale sulla scorta del materiale versato in atti, e ritiene decisive
le istanze probatorie del condannato appellante ex art. 603.1 C.P.P.,
        oppure,  afferma  la  sussistenza  delle  condizioni  di  cui
all'art. 603.3   C.P.P.   (ovviamente   necessarie   e  funzionali  a
determinare il giudizio conclusivo di innocenza o reita'),
        poi  quello  stesso  decidente  delibera,  invece e comunque,
sull'oggetto  delle  prove,  quale  delineato  dall'art. 187  C.P.P.,
condannando  quell'imputato  per  il  quale  egli aveva espressamente
ritenuto  non  decisive  le  prospettazioni  accusatorie, al punto da
rinnovare l'istruzione dibattimentale.
    Le  parti private quindi, che in appello, come nella fattispecie,
hanno  ottenuto  la rinnovazione ex art. 603 C.P.P., hanno la certa e
valida  aspettativa  (quale emerge dalla lettura logica e sistematica
delle  regole  prospettate  dal  detto articolo) che quel giudice, il
quale  ha  gia' inequivocamente manifestato di non essere in grado di
decidere  (a  sensi delle ipotesi dell'art. 603, primo e terzo comma,
C.P.P.),  e  non  ha revocato tale sua deliberazione, successivamente
all'ingresso  del rito abbreviato (una volta avuta integrale contezza
del   tenore   degli   atti  del  fascicolo  del  Pubblico  ministero
acquisito),  non  potra' poi astenersi dal proseguire nell'intrapresa
attivita'  di arricchimento probatorio, perche', se a cio' il giudice
rinunciasse, l'esito dovrebbe essere soltanto, per l'appellante parte
privata, quello - scontato - del capoverso dell'art. 530 C.P.P.
    In tale quadro di alternative deriva che la stabilita facolta' di
chiedere  il  rito  abbreviato  in grado di appello, per delitti che,
prima  della  novella del 5 giugno 2000 n. 144, non consentivano tale
procedimento speciale, si pone in contrasto con il combinato disposto
degli  arti.  3  e 97 della Costituzione per violazione del parametro
della ragionevolezza in quanto equipara tra loro, senza alcuna logica
giustificazione,   la   situazione   dell'imputato  che,  ammesso  al
beneficio  del  rito  in  prime  cure,  ha,  ab origine, rinunciato a
proporre  istanze probatorie, o le ha proposte in via subordinata, ex
art. 538.5  C.P.P.,  rispetto  all'imputato  che,  gia' condannato in
primo  grado, in grado di appello (non potendolo fare in prime cure),
ha  invece  facolta'  e favorevole opportunita' di scegliere il rito,
non solo a "strategie difensive di parte" pressocche' esaurite, ma in
un quadro di sviluppi probatori tendenzialmente favorevoli (o, "quoad
minus",  non - pregiudizievoli) per l'avvenuto ricorso all'art. 603.3
C.P.P.,e  senza  alcuna  contropartita reale per lo Stato. Invero non
puo'  certo  assurgere  a  reale  contropartita,  anche in termini di
risultato   deflativo,   la  semplice  acquisizione  degli  atti  del
fascicolo  del Pubblico ministero, tutte le volte in cui il contenuto
di tali atti sia stato - nella specie ed in concreto - ritenuto privo
di  efficacia  risolutiva  per  dirimere  il  dubbio  del giudice del
gravame,   il  quale  aveva  per  cio'  fatto  ricorso  alle  risorse
eccezionali della citata norma dell'art. 603 C.P.P.
    Nella  specie  e'  convincimento  della  Corte  che  la decisione
dell'imputato  Ramaro,  di  essere giudicato allo stato degli atti in
sede  di  giudizio  di  II  grado,  non ha comportato alcuna rinuncia
concreta  ad  effettive  risorse probatorie, ne' lo comporta in tutti
gli  altri  casi  in  cui  il  giudice di appello ha gia' disposto ex
art. 603  C.P.P.  una  o  piu' prove e, cio', per la semplice ragione
che,  quando  il  giudice  in  appello  ha  un  dubbio,  consistente,
ragionevole  e  decisivo,  sulla  verita' che gli e' prospettata, non
puo'  rilevare l'accordo delle parti o la loro iniziativa (successiva
alla  sua decisione di ammettere le prove idonee a togliere il dubbio
su una delle tematiche dell'art. 187 C.P.P.), al fine di ostacolare e
precludere la ricerca della verita'.
    Nel  nuovo  codice  di  rito, invero, il potere dispositivo delle
parti  nella  formazione  della prova non puo' giungere al livello di
paralizzare   l'iniziativa   attivata  ex  officio  dal  giudice  per
conseguire  la  certezza del risultato di verita', ne' aver forza per
togliere efficacia a quelle altre iniziative di istruzione probatoria
che  lo  stesso  giudice  d'appello  abbia in concreto attivato (come
nella specie ex art. 603 C.P.P.) anche su impulso delle stesse parti,
poi venuto meno, per la scelta del rito.
    In    assoluta    sintesi,    va   ribadito   che   l'alternativa
comportamentale del giudice di appello, che abbia gia' dato vita alla
rinnovazione  istruttoria ex art. 603 C.P.P., si muove tra due argini
- linee assolutamente distinti, e cioe':
        da  un lato, la rinuncia ed il "blocco" della gia' deliberata
ed  ammessa  prova  in  appello,  con  assoluzione  dell'accusato, in
rigorosa  aderenza  al  canone del "in dubio pro reo, se gli atti del
fascicolo  del  Pubblico  ministero nulla di efficace hanno apportato
per escludere i dubbi decisori del giudice di II grado;
        dall'altro,   la   prosecuzione  ed  il  completamento  delle
attivita'  di  rinnovazione  deliberate, indipendentemente dal regime
probatorio  del  rito  speciale adottato (che e' nato e rimane, anche
dopo  le  recenti  modifiche,  come "rito a prova contratta" e con un
bilanciamento di "contropartite" tra Stato e singolo accusato).
    La  prima  alternativa, con la rinuncia all'attivita' istruttoria
considerata  essenziale  viola il canone, non solo normativo ma etico
del  giudizio  penale, dell'obbligo di ricercare la verita', anche al
di la' ed in assenza di stimoli di parte.
    La  seconda alternativa, laddove praticata, fa si' che il giudice
d'appello  prosegua  la  gia'  deliberata  ed intrapresa attivita' di
rinnovazione  dibattimentale.  Ma anche in questo caso lo Stato nulla
ottiene  nell'economia  del reciproco scambio e l'imputato, dopo aver
espresso,  con  la  piu'  ampia  delle  latitudini,  le sue strategie
difensive   -   probatorie  in  prime  cure,  potra'  tranquillamente
attendere  gli  esiti  in  appello dell'attivita' istruttoria, decisa
d'ufficio  dal  giudicante,  senza rischi di rinunciare ad alcunche',
anzi,  beneficiando  degli  "scrupoli  probatori" di tale giudice del
gravame.
    Trattasi,  all'evidenza,  di un'irragionevole scelta di un regime
che  omologa  tra  loro  situazioni diverse, equiparando la "normale"
istruttoria dibattimentale di primo grado pur temperata dall'art. 507
C.P.P.  alla  "eccezionale" rinnovazione in grado di appello5), e che
non prevede, appunto, per il giudizio di appello (una volta acquisito
il  fascicolo  di cui all'art. 416.2 C.P.P. ed esaminati gli atti ivi
contenuti),  che  il  giudice  dell'impugnazione  possa formulare, in
concreto,  un  giudizio  di compatibilita' del chiesto rito, rispetto
all'attivita'  istruttoria  disposta ex art. 603 C.P.P., in relazione
alle  finalita'  di  economia  processuale  proprie  del procedimento
abbreviato, e tenuto conto degli atti del Pubblico ministero, appunto
gia' acquisiti ed utilizzabili.
    5) Nel  vigente  sistema processuale, la rinnovazione istruttoria
in  appello  mantiene le connotazioni di istituto eccezionale, attesa
la presunzione di completezza dell'indagine probatoria dibattimentale
in  primo grado, cui va fatto discrezionale ricorso solo nell'ipotesi
di una impossibile decisione allo stato degli atti (Cass. Pen. SS.UU.
26  gennaio  1996 in ric. Panigoni, sez. III, 20 novembre-23 dicembre
1997, Pres. Papadia, rel. Grillo, in ric. Cantoni).
    La  formulata  questione  di costituzionalita' delle norme di cui
agli artt. 438.5 C.P.P., in relazione all'art. 603 commi 1 e 3 C.P.P.
e  dell'art. 4-ter,  comma  3  lettera b) legge 5 giugno 2000 n. 144,
appare  quindi ampiamente fondata laddove la si rapporti al parametro
della ragionevolezza ex art. 97 Cost. e la si raccordi ai principi di
eguaglianza indicati dall'art. 3 Carta costituzionale:
        sia in relazione all'omessa previsione della possibilita' per
il  giudice  in appello di rifiutare l'ammissione al rito allorquando
le  prove,  da  esso  gia'  ammesse  ex art. 603 C.P.P., appaiano non
compatibili  con  le  finalita'  di  economia processuale proprie del
procedimento  (rimane  infatti incomprensibile come sia consentito al
giudice  di  I  grado  di escludere, agli effetti della richiesta del
rito,  l'integrazione  probatoria  prospettata  dalla  parte privata,
anche  se  necessaria,  quando  essa  risulti  incompatibile  con  le
finalita'  di economia processuale proprie del giudizio abbreviato, e
tale  potere  non  sia invece attribuito al giudice di appello per le
prove  assumibili  od  in  corso  di  assunzione  ex art. 603 C.P.P.,
qualora  dette  prove  siano  del pari incompatibili con le identiche
finalita' di economia processuale proprie dell'ammesso rito);
        sia  in  relazione  all'omessa  previsione  per il giudice di
appello  di  poter escludere la riduzione premiale, tutte le volte in
cui,  ammessa  la  parte  al  giudizio abbreviato, i dati desunti dal
fascicolo  del  pubblico  ministero,  ed opportunamente valutati, non
appaiono  in  grado di impedire la prosecuzione della gia' deliberata
rinnovazione  istruttoria  ex  art. 603  C.P.P.,  con  la conseguente
necessita'  di  un'attivita'  di  istruttoria  dibattimentale a tutto
campo,  senza alcun vantaggio in termini di speditezza del processo e
vantaggi per lo Stato;
        sia   infine   con   riferimento   alla   diversa  situazione
processuale,  sotto  il profilo probatorio, tra imputati che facciano
richiesta  del  rito  in  primo  grado, e quelli che cio' facciano in
appello (forti della nuova istruzione dibattimentale, e ad istruzione
dibattimentale  gia'  completata e conclusa davanti al primo giudice)
sia   pure   quale  effetto  di  una  nuova  attribuzione  di  potere
processuale,  realizzandosi per questi ultimi accusati il paradossale
risultato  di  un  inammissibile  cumulo dei benefici e delle risorse
processuali del rito ordinario e del rito speciale.
    E'  noto  che  il  giudizio di eguaglianza, in quanto giudizio di
relazione,  comporta che la disamina della conformita' di una norma a
quel principio si sviluppi secondo un modello dinamico, incentrandosi
sul  perche' una data disciplina operi una specifica distinzione, con
la  conseguenza  che il vizio puo' essere identificato solo a seguito
della verifica della carenza della causa della disciplina introdotta,
siccome  fondata  sulla irragionevole scelta di un regime che omologa
tra   loro  situazioni  diverse,  o,  al  contrario,  differenzia  il
trattamento  in  situazioni  analoghe (Corte cost. n. 386, 5 novembre
1996, Pres. Ferri, rel. Vari, Corte cost. n. 89, 28 marzo 1996; Corte
cost.,   n. 454,   30   dicembre  1997,  Pres.  Guizzi,  rel.  Vari).
Conclusione    questa    che   trova   fondamento   nella   pregevole
prospettazione  di  regole espressa dalla sentenza n. 89 del 28 marzo
1996 (Pres. Ferri. rel. Vassalli. in Sarlo e Presidente del Consiglio
dei ministri).
    Da tale decisione si rileva infatti:
        I.  che  il parametro dell'eguaglianza davanti alla legge non
determina l'obbligo di rendere immutabilmente omologhi tra loro fatti
o  rapporti  che,  sul  piano  fenomenico,  ammettono  una  gamma  di
variabili  estesa  quante sono le situazioni in concreto storicamente
verificabili;
        II. che tale parametro pero' individua il rapporto funzionale
che  correla  la  positiva  disciplina  di  quei  fatti o rapporti al
paradigma dell'armonico trattamento da riservare ai destinatari della
disciplina  normativa in modo da scongiurare l'intrusione di elementi
arbitrariamente discriminatori;
        III.  che  lo sbarramento all'intrusione di detti elementi di
arbitrarieta'   impone   che   la  conduzione  della  disamina  della
conformita' di una norma al principio di eguaglianza si muova secondo
un  modello  dinamico,  incentrandosi  sul  "perche'" una determinata
disciplina operi quella specifica distinzione all'interno del tessuto
egalitario dell'ordinamento;
        IV.  che  siffatto  modello  dinamico  porta  pertanto  ad un
giudizio  di ragionevolezza, ossia ad un apprezzamento di conformita'
tra regola introdotta e la "causa" normativa, obiettivata nel sistema
che la deve assistere;
        V.  che  il  controllo  di costituzionalita' deve saldarsi al
generale  principio  di conservazione dei valori giuridici, e restare
comunque  circoscritto all'interno dei confini propri dello scrutinio
di legittimita';
        VI.  che l'ambito della disamina di costituzionalita', quando
sia  invocato  il  principio  di eguaglianza, non puo' travalicare in
apprezzamenti  della  ragionevolezza  che sconfinino sul merito delle
opzioni legislative, specie nelle ipotesi in cui la questione dedotta
investa   sistemi   normativi  complessi  all'interno  dei  quali  la
ponderazione  dei beni e degli interessi non si possa ritenere frutto
di soluzione univoche;
        VII.  che  pertanto,  non qualsiasi incoerenza, disarmonia, o
contraddittorieta',   che   sotto   taluni   profili   o  per  alcune
conseguenze,  una  data  previsione  possa  lasciar  trasparire, sono
rilevanti,  giacche',  in  tale prospettiva verrebbe a sovrapporsi al
controllo  di  legittimita',  una  verifica  di  opportunita', spesso
condotta  alla  stregua  di  un  etereo  parametro  di  equita'  e di
giustizia,  al  cui  fondo sta una composita selezione di valori, non
appartenente ai compiti della Corte costituzionale.
    Orbene,  nella fattispecie, e' proprio il rigoroso rispetto delle
impeccabili  regole  di  confine  tra  "il  consentito  controllo  di
costituzionalita'",  secondo  un  modello  dinamico,  e  "la  vietata
verifica  di  opportunita'",  che  suggerisce ed impone alla Corte di
merito    il   ricorso   alla   suprema   valutazione   del   giudice
costituzionale.
    Non   si   tratta   infatti,  nella  specie,  di  una  scelta  di
opportunita',  la  quale  ha  indotto  il  legislatore  a  limitare i
benefici  del  rito abbreviato, e soltanto in prime cure, al giudizio
di  compatibilita'  rispetto  alle  integrazioni probatorie richieste
dalla    parte    privata,    ma   nella   intrusione   di   elementi
irragionevolmente  discriminatori tra il giudice di I e II grado, con
ulteriore derivata disparita' di trattamento tra l'imputato, il quale
in  prime  cure  ha  accettato  il  giudizio allo stato degli atti, e
l'imputato  che,  in  grado  di  appello,  avendo  gia' esaurito ogni
Strategia    difensiva,   sicuro   della   rinnovazione   istruttoria
dibattimentale,  disposta  ex  art. 603  C.P.P.,  senza  alcuna reale
contropartita  e  non avendo nulla da rischiare, formula la richiesta
di ammissione al procedimento speciale, prima non consentitagli.
    Da  ultimo,  detta  questione  di  legittimita',  oltre  che  non
manifestamente  infondata, risulta di concreta rilevanza nel giudizio
di    appello   a   carico   del   Ramaro,   attesa   l'inoppugnabile
attribuibilita' alla sua azione dell'evento mortale in danno della C.
con  la  derivata  conseguenza  che  potra'  procedersi  o  meno alla
riduzione   premiale  della  sanzione  da  irrogarsi  a  seconda  del
corrispondente  esito  del  provocato controllo di legittimita' della
Corte   costituzionale,   sugli   artt. 438.5  C.P.P.,  in  relazione
all'art. 603 commi 1 e 3 C.P.P. e dell'art. 4-ter, comma 3 lettera b)
legge 5 giugno 2000 n. 144.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953 n. 87;
    Dichiara rilevanti e non manifestamente infondate le questioni di
legittimita'    costituzionale   sollevate   con   riferimento   agli
artt. 4-ter,  comma  3,  lettera  b)  legge 5 giugno 2000 n. 144, 438
comma 5 C.P.P. in relazione all'art. 603, primo e terzo comma C.P.P.;
    Dispone  la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per
l'indicato  giudizio di legittimita' costituzionale delle dette norme
in relazione al parametro della ragionevolezza ex art. 97 Cost. e con
riferimento  ai  principi  di  eguaglianza indicati dall'art. 3 Carta
costituzionale;
    Sospende il giudizio penale in corso a carico di Ramaro Paolo;
    Ordina  ex art. 23.4 legge 87/1953 che, a cura della cancelleria,
la  presente ordinanza sia notificata al Presidente del Consiglio dei
ministri ed ai Presidenti del Senato e della Camera dei deputati.
        Venezia-Mestre, addi' 22 novembre 2000.
                        Il Presidente: Lanza
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