N. 465 ORDINANZA (Atto di promovimento) 27 marzo 2001
Ordinanza emessa il 27 marzo 2001 dal tribunale di Pisa nel procedimento civile vertente tra Martini Angiolo e I.N.P.S. Previdenza e assistenza sociale - Rendita INAIL e trattamento previdenziale INPS derivanti dal medesimo evento invalidante - Divieto di cumulo - Irrazionalita' - Ingiustificato deteriore trattamento rispetto alle ipotesi di invalidita' dello stesso grado percentuale complessivo derivante da piu' eventi, nonche' alla ipotesi di rendita INAIL ai superstiti cumulabile con il trattamento di riversibilita' INPS (art. 73 legge n. 338/2000) - Incidenza sulla garanzia previdenziale - Riferimento alle sentenze della Corte costituzionale nn. 240/1993 (recte 495/1993), 495/1994 (recte 240/1994). - Legge 8 agosto 1995, n. 335, art. 1, comma 43. - Costituzione, artt. 2, 3 e 38.(GU n.25 del 27-6-2001 )
IL TRIBUNALE A scioglimento della riserva di cui al verbale di udienza in data 13 settembre 2000, nel procedimento promosso da Martini Angiolo (Avv. Cerrai e Bartalena) contro I.N.P.S. (Avv. Pinto e Perani) O s s e r v a Angiolo Martini e' titolare di rendita Inail rapportata ad una percentuale inabilitante pari al 25% avendo contratto una tecnopatia derivante dalla esposizione lavorativa ad anilina aromatica; in considerazione della medesima patologia egli era anche titolare, dal 1993, dell'assegno ordinario di invalidita' a carico dell'Inps, oggi soppresso ai sensi dell'art. 1, comma 43, della legge n. 335/1995, secondo cui "le pensioni di inabilita', di reversibilita' o l'assegno ordinario di invalidita' a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidita', la vecchiaia e i superstiti, liquidati in conseguenza di infortunio sul lavoro o malattia professionale, non sono cumulabili con la rendita vitalizia liquidata per lo stesso evento invalidante a norma del testo unico delle disposizioni per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali approvato con decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124, fino a concorrenza della rendita stessa". La ratio della disposizione (oggi modificata per quanto concerne il cumulo delle pensioni di reversibilita' con la rendita al superstite dall'art. 73 della legge n. 338 del 2000) risiede nella necessita' di impedire che, per il medesimo evento invalidante, siano corrisposte piu' prestazioni a carico di enti diversi (cosi' in motivazione Cass. 22 dicembre 2000, n. 16135), ancorche' si tratti di forme distinte di assicurazione obbligatoria, aventi finalita' e natura diversa (risarcitoria quella gestita dall'Inail, previdenziale quella gestita dall'Inps: v. Cass. n. 16135 cit.). Come e' noto, poi, le due provvidenze obbediscono a distinti (e cumulati) sistemi di finanziamento, la rendita presupponendo il pagamento del premio e la pensione o l'assegno il pagamento della contribuzione, sicche' il divieto di cumulo in caso di medesimo evento invalidante finisce per connotare di inutilita' soggettiva il versamento della contribuzione previdenziale. Sul punto il giudice di legittimita' (Cass. ult., cit.) cosi' si esprime: "Cio' risponde ad una scelta del legislatore, ispirata essenzialmente ad un notevole rigore finanziario e giustificata dall'esigenza di contenimento della spesa previdenziale, accentuatasi all'epoca della riforma pensionistica. In mancanza di questa previsione espressa opererebbe normalmente il cumulo, trattandosi di due assicurazioni distinte (... omissis) alimentate da distinte contribuzioni, tantopiu' che le prestazioni a carico dell'Inail hanno una connotazione marcatamente risarcitoria, che non hanno i trattamenti di inabilita' a carico dell'Inps. Pero' in un momento contingente di difficolta' della finanza pubblica il legislatore puo' porre la regola secondo cui il lavoratore assicurato e parimenti i suoi superstiti possono, per cosi' dire, spendere l'inabilita' conseguente ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale una sola volta, senza che da quella inabilita' derivino, come conseguenze sul piano previdenziale, due distinte attribuzioni patrimoniali in senso lato compensative della medesima riduzione di capacita' lavorativa e di guadagno". Dunque e' chiaro che la ragione del divieto di cumulo risiede esclusivamente nella esigenza di contenimento della finanza pubblica previdenziale. E' chiaro, cioe', che un diritto costituzionalmente garantito (art. 38) viene sacrificato all'esigenza di limitare l'esborso previdenziale. Non vi e' altra motivazione. E', allora, compito di questo giudice, cosi' stando le cose, verificare se la ragione di contenimento della spesa pubblica possa immediatamente colpire provvidenze costituzionalmente garantite che appartengono all'impianto fondamentale del nostro ordinamento, posto che "l'Italia e' una Repubblica democratica fondata sul lavoro (art. 1 Cost.), "richiede l'adempimento dei doveri inderogabili di solidarieta'.., economica e sociale (art. 2 Cost.) e deve assicurare ai lavoratori i mezzi adeguati "in caso di infortunio, malattia, invalidita'... " (art. 38 Cost.); o se l'incidere su attribuzioni patrimoniali ispirate a criteri di tutela del reddito in caso di invalidita', solidarieta' sociale, non debba piuttosto ritenersi quale extrema ratio. Il nostro ordinamento costituzionale e', come e' noto, ispirato ai principia del c.d. stato sociale, ancorche' una trascorsa mala gestio degli strumenti di tutela abbia posto in crisi, nei tempi attuali, tale assetto; gli operatori del diritto conoscono le molte vicende che hanno portato ad imporre rilevantissimi sacrifici proprio alle categorie piu' deboli (cioe' ai pensionati ed agli invalidi): la vicenda della c.d. cristallizzazione e dell'integrazione al minimo affidata all'autorevole interpretazione della Corte costituzionale (nn. 240/1993 e 495/1994) ha visto una conclusione amara realizzata attraverso l'estinzione dei giudizi in corso, la limitazione di parte del diritto affermato dalla giurisprudenza consolidata, la rateizzazione delle spettanze; la vicenda dei c.d. falsi invalidi (a parte la catastrofe giudiziaria) ha visto una indiscriminata operazione di vera e propria bonifica in danno di soggetti debolissimi; la stessa interpretazione fornita dall'Inps sulla questione del divieto di cumulo che ci occupa ha visto sopprimere tutte le pensione di reversibilita' sul presupposto - smentito dai giudici di merito ed oggi anche dalla S.C. (v. loc. ult.cit.) - che la "morte" fosse da ritenere "il medesimo evento invalidante" anche nei confronti di chi avesse maturato in vita il diritto alla pensione di vecchiaia. Insomma tutto converge verso il convincimento che il risanamento della finanza pubblica sia affidato quasi esclusivamente al legislatore della previdenza e dell'assistenza ed in danno di quei soggetti che, per ragioni di salute o di eta', non sono in condizioni di produrre redditi sufficienti. Non sfugge a questo giudice che la Corte costituzionale in piu' occasioni (da ultimo Corte costituzionale n. 495/2000) ha ritenuto legittimo un tale tipo di intervento, sempre sul presupposto della impellente necessita' di governare correttamente la spesa pubblica; ma non sfugge neppure che le descritte operazioni di profonda chirurgia hanno finito per riguardare quasi sempre i soggetti piu' deboli, quelli dotati di minore capacita' di resistenza, colpendo dove colpire e' piu' semplice. Tutti, infatti, ricordiamo che quando l'applicazione delle due note sentenze della Corte costituzionale in tema di integrazione al minimo e ricalcolo della reversibilita' si diceva comportasse un esborso di circa trentaseimila miliardi, si sapeva anche che l'evasione fiscale ammontava a duecentocinquantamila miliardi: qui il legislatore di uno stato sociale - quale e' il nostro - non avrebbe dovuto aver alcun dubbio su dove ricavare la provvista per risanare i conti pubblici. Ma, come sappiamo, la scelta e' caduta ancora una volta sui pensionati, probabilmente sull'onda di istanze di tipo produttivistico che oggi tendono ad emarginare sempre di piu' chi, per eta' o salute, non e' piu' competitivo od efficiente (ancorche' abbia per molti anni adempiuto, per un salario di sopravvivenza, al dovere "di svolgere secondo le proprie possibilita' e la propria scelta, una attivita' od una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della societa'" (Art. 4 Cost.) E' nozione certamente acquisita quella secondo la quale i principia affermati dalla nostra costituzione si pongano secondo criteri di priorita' e sicuramente al vertice dell'impianto costituzionale si collocano quelle regole rubricate nella parte prima ("principia fondamentali"): la valenza della partecipazione lavorativa, il dovere di solidarieta' sociale ed i principio di eguaglianza "di fatto" connotano indubbiamente il nostro ordinamento e lo qualificano come "stato sociale", nel senso di valorizzare come assolutamente prioritarie le esigenze di intervento concreto in favore dei soggetti piu' deboli. Ne' tale impianto puo', oggi, essere posto in dubbio dalle incalzanti istanze aziendalistiche e produttivistiche che pretendono di suggerire diverse chiavi di lettura della nostra costituzione: la scelta del costituente, infatti, originata dalla necessita di equilibrare le ragioni dell'impresa con quelle del lavoratore ( art. 41 Cost.), di assicurare comunque al lavoratore una vita libera e dignitosa (art. 36 Cost.), di approntare i mezzi di sopravvivenza all'invalido (art. 38 Cost.), anche attraverso la tutela diretta della salute (art. 32 Cost.), e' chiara nel senso indicato e connota i suoi fondamenti, fra l'altro, nel ripudio esplicito (art. 1 Cost.) di forme di governo inspirate a criteri di puro liberismo. Il che si traduce nella affermazione "forte" della necessita' di assicurare comunque ai soggetti deboli i mezzi necessari per una dignitosa partecipazione alla vita sociale. In tale contesto procurarsi la provvista finanziaria per le necessita' di bilancio pubblico attingendo indiscriminatamente nel settore tutelato dagli artt. 2, 3 e 38 della Costituzione rappresenta indubbiamente una operazione costituzionalmente scorretta, quando il legislatore non dimostri di aver escusso inutilmente anche altri settori della economia pubblica. Se dobbiamo credere ai dati diffusi dai mezzi di comunicazione, l'ammontare annuo dell'evasione fiscale, per esempio, basterebbe a confezionare piu' di una finanziaria (o di una riforma pensionistica) solo che il legislatore prendesse atto della sussistenza del fenomeno e della possibilita' di recuperare quanto l'evasore sottrae alla collettivita' ed in particolare a quei soggetti deboli (pensionati, lavoratori dipendenti, pubblici impiegati) che sono sottoposti ad un regime rigido e severo di trattenuta alla fonte. Ma a fronte di questa enorme provvista (il fenomeno e' sotto gli occhi di tutti ed appartiene alla nostra esperienza quotidiana) il nostro "stato sociale" rincorre - con provvedimenti sempre piu' ablativi - trattamenti pensionistici inferiori al milione al mese e derivanti addirittura da infortunio sul lavoro o malattia professionale, conseguenza cioe' di un pregiudizio fisico cagionato dalla partecipazione del soggetto alla vita lavorativa collettiva. Dunque la scelta del legislatore del 1995 e' caduta sul lavoratore invalido, su quel soggetto, cioe', che lavorando ha perso parte della sua capacita' di produrre un reddito. Per cio' solo l'art. 1, comma 43. della legge 8 agosto 1995, n. 335, e' sospetto di incostituzionalita' con riferimento agli artt. 2, 3, 38 Cost. Ma vi e' di piu'. Perche' la norma e' connotata da una macroscopica irrazionalita'. Il divieto di cumulo, infatti, opera solo se l'invalidita' deriva dal medesimo evento, non opera se gli eventi invalidanti sono distinti. Immaginiamo, allora, che un soggetto assicurato subisca un infortunio sul lavoro da cui derivi una inabilita' al 100% determinata dalla perdita di capacita' motoria ed immaginiamo che questo stesso soggetto sia titolare di un assegno di invalidita' Inps per una patologia cardiaca extralavorativa. Questo soggetto cumulera' le due prestazioni. Immaginiamo, invece, che un diverso soggetto in conseguenza di un grave infortunio perda completamente la capacita' lavorativa: egli non avra' diritto al trattamento Inps perche' l'invalidita' deriva dal medesimo evento invalidante. Si avranno due soggetti entrambi privi di capacita' lavorativa ai quali saranno attribuiti trattamenti quantitativamente diversi solo perche' in un caso gli eventi invalidanti sono stato diversi e nell'altro si e' trattato di un unico evento. L'irrazionalita' di una norma che affida praticamente al caso la misura del trattamento previdenziale e', dunque, agli occhi di tutti. Vi e', poi, un ultimo argomento che evidenzia altri aspetti di asistematicita'. L'art. 73 della legge n. 338 del 2000 (legge finanziaria) ha stabilito che "a decorrere dal 1o luglio 2001. Il divieto di cumulo di cui all'art. 1, comma 43, della legge 8 agosto 1995, n. 335, non opera tra il trattamento di reversibilita' a carico dell'assicurazione generale obbligatoria per l'invalidita', la vecchiaia e i superstiti, nonche' delle forme esclusive esonerative e sostitutive della medesima, e la rendita ai superstiti erogata dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro o malattia professionale (Inail) spettante in caso di decesso del lavoratore conseguente ad infortunio sul lavoro o malattia professionale ai sensi dell'art. 85 del decreto del Presidente della Repubblica 30 giugno 1965, n. 1124". Qui il legislatore della finanziaria, probabilmente prendendo atto della evoluzione interpretativa fornita dai giudici di merito e di legittimita', ha escluso il divieto di cumulo fra pensione di reversibilita' e rendita al superstite e lo ha fatto tout court, senza conferire piu' alcun rilievo alla sussistenza del medesimo evento invalidante. In tal modo il dante causa di chi in vita avesse goduto dei due trattamenti cumulati (perche' decorrenti ante legge n. 335) continuera' a percepire i due trattamenti di reversibilita' ancorche' attribuiti al de cuius in conseguenza del medesimo evento invalidante. Vero e' che si tratta di una regola "ad esaurimento", poiche' vigendo il divieto di cumulo in vita fra qualche anno non si porra' piu' il problema del cumulo della reversibilita', ma e' altrettanto vero che in attesa che il sistema operi "a regime" si viene a creare una evidente disparita' di trattamento fra soggetti che si trovino nelle medesime condizioni, privilegiando il trattamento di reversibilita' rispetto a quello diretto. La rilevanza della questione e' in re ipsa essendo pacifico che il ricorrente avesse maturato i due trattamenti in conseguenza del medesimo evento invalidante.
P. Q. M. Il giudice dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1, comma 43, della legge 8 agosto 1995 n. 335, con riferimento agli artt. 2, 3 e 38 Cost., nella parte in cui prevede il divieto di cumulo fra rendita Inail e trattamento previdenziali Inps derivanti dal medesimo evento invalidante. Manda alla cancelleria per la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il presente giudizio. Visto l'art. 23 legge 11 marzo 1953, n. 87, dispone che la presente ordinanza sia notificata a cura della cancelleria alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri. Dispone, altresi', che la presente ordinanza sia comunicata ai Presidenti delle due Camere. Pisa, addi' 27 marzo 2001 Il giudice: Nistico' 01c0556