N. 469 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 settembre 2000
Ordinanza emessa il 20 settembre 2000 (pervenuta alla Corte costituzionale l'11 maggio 2001) dalla Commissione tributaria regionale di Ancona sui ricorso propostoda Polimor S.r.l. contro Ufficio I.V.A. di Pesaro Imposte e tasse - Accertamento delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto - Utilizzazione in sede tributaria di accertamenti bancari eseguiti in sede penale - Operativita', anche in tale ipotesi, della presunzione legale di imponibilita' delle operazioni risultanti dai conti bancari - Compromissione del diritto di difesa fiscale e penale del contribuente-imputato, in ragione degli opposti regimi probatori del processo penale e di quello tributario (qualificato l'uno dal diritto dell'imputato al silenzio, l'altro dall'obbligo-onere per il contribuente di rispondere). - D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 51, secondo comma, n. 2; d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 31, primo comma, n. 1. - Costituzione, art. 24, secondo comma.(GU n.25 del 27-6-2001 )
LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE Ha emesso la seguente ordinanza sull'appello R.G. Appelli n. 919/1999 depositato il 12 ottobre 1999 avverso la sentenza n. 312/04/99 emessa dalla commissione tributaria provinciale di Pesaro da: Polimor S.r.l. legalerappresentante Moroni Franco, residente a Pesaro in via della Tecnologia s.n.c., difeso da: avv. SalvatorePettinato, dott. Silvia Farina, residente a Pesaro in viale dei Partigiani n. 31. Controparti: I.V.A. di Pesaro; atti impugnati: avv. rett. parz. n. 818184/98 - I.V.A., 93. La sentenza di primo grado emessa dalla commissione provinciale di Pesaro che ha respinto il ricorso presentato dalla S.r.l. Polimor in persona del presidente del consiglio di amministrazione Moroni Franco avversol'accertamento parziale emesso dall'ufficio I.V.A. di Pesaro, e' stata tempestivamente appellata dal contribuente riproponendo tutte le ragioni esposte nel ricorso iniziale. Il Moroni deduce infatti principalmente la nullita' della verifica e del conseguente accertamento perche' operati in violazione dei diritti di difesa spettanti al contribuente in ragione della rilevanza penale della vicenda ed adduce inoltre subordinatamente una serie di violazioni di norme specificamente tributarie relative alla procedura di contestazione, ai soggetti operanti ed alla valenza probatoria dei risultati affermati dall'ufficio, violazioni dalle quali deriverebbe l'illegittimita' della pretesa tributaria o comunque la sua infondatezza totale o parziale. L'esecutivita' della sentenza impugnata e' stata sospesa, sul ricorso del contribuente e nella sola parte relativa alle sanzioni, sul rilievo dell'omesso esame da parte dei primi giudici del motivo principale del ricorso relativo all' incidenza del procedimento penale gia' iniziato per gli stessi fatti. L'ufficio I.V.A. si e' costituito per resistere all'impugnazione sotto ogni profilo in rito e per contestarla nel merito, adottando tuttavia nelle more consistenti rettifiche alla pretesa iniziale, nelle forme dell'autotutela. Osserva la commissione che l'accertamento impugnato prende le mosse dalle risultanze di una indagine penale condotta dalla G.d.F. in relazione a libretti di risparmio intestati a societa' fiduciaria (Willmar), ma poi lasciati nella disponibilita' diretta dei fiducianti che nella specie erano Moroni Franco, Moroni Anteo, Moroni Antonio e Moroni Anna, vale a dire la totalita' dei soci della Polimor nella quale peraltro rivestivano le cariche, rispettivamente, di presidente del consiglio di amministrazione, consigliere delegato e componenti del consiglio. L'assunto accusatorio posto a base dell'attivita' di polizia giudiziaria era che i libretti al portatore nel numero complessivo di 75 per i quattro fratelli, solo formalmente intestati alla societa' fiduciaria ed in realta' materialmente e direttamente gestiti dai singoli fiducianti Moroni, venissero utilizzati per occultare ricavi della societa' Polimor, mediante una interposizione soggettiva fittizia (quella della Willmar) rilevante per eludere ogni controllo bancario-tributario. Trattasi dunque con tutta evidenza in base ai riferimenti contenuti nel processo verbale di constatazione in atti, di indagini penali a carico dell'intera famiglia Moroni per il delitto di frode fiscale c.d. esterna di cui all'art. 4 lett. f) legge n. 516/1982, frode asseritamente realizzata omettendo di indicare nella dichiarazione dei redditi sociali e personali i ricavi occultati sui libretti, mediante i quali, fittiziamente intestati ma direttamente gestiti, si realizzava dunque uno specifico comportamento fraudolento idoneo ad ostacolare l'accertamento tributario degli introiti effettivi. Cio' premesso va subito esposta e vagliata la tesi del contribuente che deduce la radicale illegittimita' dell'accertamento tributario come tale perche' condotto sulla medesima materia rilevante penalmente in violazione dell'art. 220 att. c.p.p. e specificamente dell'art. 75 del d.P.R. n. 633/1972 in materia di I.V.A.. La regola di cui all'art. 220 predetto viene intesa dall'appellante come ostativa all'inizio o alla prosecuzione di ogni attivita' di verifica tributaria in presenza di indizi di reato; in ogni caso, ove compiute, le indagini tributarie in quanto eseguite in violazione dei diritti di difesa specifici della materia penale (ed in specie di quelli relative alle garanzie difensive nell'interrogatorio dell'indagato) sarebbero inutilizzabili anche in sede tributaria perche' illegittime in sede penale e come tali non trasferibili in sede fiscale esistendo il divieto generale di utilizzazione di prove illegittimamente acquisite, codificato in materia di I.V.A. dal predetto art. 75. Le ragioni cosi' proposte, ignorate in prime cure; pongono gravi questioni di principio circa i rapporti fra procedimento penale e accertamento tributario, sulle quali non esistono orientamenti concordi e consolidati in dottrina e in giurisprudenza, condizionate entrambe da esigenze sostanziali settoriali proprie del diritto tributario e del diritto penale e delle relative procedure. Nella presente sede tali questioni vanno esaminate unicamente nella loro specifica rilevanza ai fini della decisione ed esclusivamente con riferimento a quanto risulta in concreto dagli atti processuali. Va pertanto ricordato preliminarmente che in ordine alla rilevanza dell'art. 220 att. c.p.p. la giurisprudenza della Cassazione penale ha ormai chiarito che la violazione delle garanzie difensive proprie del processo penale ove attuata nelle forme della verifica tributaria pur in presenza di indizi di reato, comporta la radicale inutilizzabilita' in sede penale degli atti di verifica tributaria e comunque la nullita' dei singoli atti (interrogatorio, acquisizioni documentali, ecc.) ove ricorrente secondo il c.p.p. (da ultimo Cass. Sez. I, 6 marzo 1999 n. 1932), ferma restando tuttavia la validita' di quegli stessi atti in sede tributaria. Dal canto suo la giurisprudenza costante della Cassazione civile che continuamente ribadisce che la prova tributaria e' sempre e comunque condizionata alla legalita' della sua acquisizione consente di affermare che una prova penale nulla non puo' mai valere in sede tributaria quando vi venga trasferita come tale e perche' tale. Il problema posto dall'appellante va dunque trattato in termini generali limitatamente al punto dell'asserito divieto di indagini tributarie in presenza di indagini penali desumibile appunto dalla regola dell'art. 220. Tale questione, controversa in dottrina e nella giurisprudenza di merito, va risolta ad avviso del collegio, in senso negativo in base alla legislazione vigente che prevede espressamente l'ipotesi di svolgimento di indagini tributarie coeve a quelle penali con l'unico e specifico limite giuridico e cronologico del c.d. segreto istruttorio, limite che peraltro puo' essere rimosso con l'autorizzazione del p.m. Difatti se l'utilizzazione tributaria puo' essere autorizzata dal p.m. anche in una fase "protetta" delle indagini penali,se ne evince che dalla mera rilevanza penale del fatto puo' derivare soltanto un ostacolo temporaneo, nel senso che sarebbe illegale, oltre che in sede di processo penale, anche in sede tributaria lo svolgimento di indagini penali in forme tributarie da parte della polizia giudiziaria con o senza autorizzazione del p.m. e che tuttavia dal momento dell'autorizzazione ogni eventuale divieto di indagini tributarie nelle forme loro proprie verrebbe meno. Le osservazioni che precedono, pur nella loro sommarieta', sono sufficienti per risolvere i residui problemi che attengono unicamente all'eventuale nullita' non dell'indagine tributaria in quanto tale, ma di singoli atti rispetto alla regola dell'art. 220 ove in concreto applicabile. In sostanza si tratta di accertare se siano stati compiuti atti penalmente nulli perche' in tal caso da tale nullita' conseguirebbe l'illegittimita' derivata della loro utilizzazione tributaria. Orbene nella specie dagli atti processuali non e' dato in alcun modo di rilevare violazioni dell'art. 220 art. c.p.p. nel corso delle indagini di polizia giudiziaria per il reato di frode fiscale c.d. esterna. I libretti risultano acquisiti mediante sequestro (vale a dire in forma garantita dalla convalida e dal riesame secondo le norme del c.p.p.) ed anche per gli assegni di cui a f. 12 seg. del P.V.C. l'acquisizione e' avvenuta mediante formale decreto di sequestro del p.m. L'utilizzazione di tali risultanze penali (libretti e assegni) in sede tributaria risulta formalmente autorizzata dal p.m. sicche' anche sotto tale specifico profilo di illegittimita' tributaria non si ravvisano irregolarita', non gia' perche' l'autorizzazione del p.m. possa valere come tale per sanare irregolarita' proprie dell'indagine penale (e' vero il contrario e cioe' che neppure l'autorizzazione preventiva del p.m. a compiere atti d'indagine nelle forme della verifica tributaria varrebbe a renderle legittime), ma perche', come si e' gia' accennato, l'utilizzabilita' tributaria degli atti penali costituisce la regola generale, vuoi in relazione ai principi ed alle norme specifiche che reggono l'accertamento tributario, vuoi in relazione alle norme del contenzioso tributario che ora recepiscono in toto le ben note regole generali sull'acquisizione e sulla rilevanza degli atti penali nel processo civile. In conclusione l'autorizzazione del p.m. rileva unicamente ai fini della rimozione anticipata dell'eventuale limite del segreto istruttorio e la mancata autorizzazione rileva unicamente quale causa speciale di illegittimita' propriamente tributaria sancita da una norma limitativa della regola generale di piena trasferibilita' delle risultanze penali alla sede tributaria. La commissione pertanto ritiene che nella specie l'utilizzazione tributaria della documentazione (libretti e assegni) acquisita in sede penale risulti pienamente legittima come tale. L'affermazione che precede non e' tuttavia risolutiva, occorrendo ancora esaminare in concreto l'utilizzazione che dei documenti bancari e' stata fatta nel corso della verifica tributaria successivamente iniziata nei confronti della Polimor. Nel relativo P.V.C. infatti si da' atto di una serie di violazioni di rilevanza penale asseritamente accertate nel corso della verifica e riferite al p.m. separatamente. Trattasi per l'esattezza (f. 17 seg. P.V.C.) dell'irregolare tenuta del libro giornale per omissioni nella registrazione degli introiti e dell'omessa contabilizzazione di ingenti ricavi a fini I.V.A., omissioni che integravano all'epoca le contravvenzioni di cui all'art. 1, secondo comma e di cui all'art. 1, sesto comma legge n. 516/1982, ora depenalizzate ad opera del d.lgs. n. 74/2000. E' appena il caso di notare che la successiva depenalizzazione non varrebbe a sanare eventuali nullita' processuali rette, come e' noto, dalla regola tempus regit actum. Tali omissioni contravvenzionali vennero dunque riferite, all'epoca (1998), al p.m. come si evidenzia a f. 52 del PVC; allo stesso fine venne trasmesso al p.m. anche il PVC con i relativi allegati. Riguardo agli accertamenti penali compiuti in corso di verifica mediante PVC, si ripropone dunque il problema della violazione, asserita dall'appellante, della regola di cui all'art.. 220 att. c.p.p. L'ufficio I.V.A. nega ogni irregolarita' sul rilievo che le omissioni contravvenzionali sarebbero emerse solo alla fine della verifica e non gia' nel suo corso. Al riguardo va invece rilevato che gia' all'inizio della verifica i dati quantitativi emergenti dai libretti erano talmente imponenti da vietare ogni pretestuosa affermazione di insorgenza successiva degli indizi. Ad avviso del collegio tuttavia, nonostante le disinvolture procedurali dei verificatori, l'art. 220 non risulta violato neppure in sede di verifica tributaria. Va infatti ricordato che l'irregolare tenuta del libro giornale, per costante giurisprudenza ove consegua all'omessa fatturazione dei ricavi, non e' punibile autonomamente ex art. 1 sesto comma legge n. 516/1982 restando assorbita nella contravvenzione di cui al secondo comma dell'art. 1 stessa legge; va inoltre ricordato che l'ipotesi di frode fiscale di cui alla lett. f) dell'art. 4 legge n. 516/1982, ipotesi sulla quale, come si e' visto erano state fondate ed erano state svolte le indagini di polizia giudiziaria sotto la direzione del p.m., contiene una clausola di esclusione ("fuori dei casi previsti dall'art. 1") con la quale nella novella del 1991 si volle escludere che la frode potesse essere integrata mediante condotte meramente omissive nella tenuta delle scritture contabili obbligatorie ed al tempo stesso escludere il concorso fra le relative contravvenzioni ed il delitto di frode fiscale generica. Per conseguenza tutte le ipotesi di reato segnalate al p.m. all'esito della verifica fiscale sulla Polimor, altro non rappresentano che condotte irrilevanti sotto il profilo della frode gia' denunciata, come tali non punibili autonomamente restando comunque assorbite nella figura delittuosa vuoi in ragione del principio di specialita' vuoi in ragione della espressa clausola di esclusione. Pertanto all'esito della verifica al p.m. non andava segnalato alcunche' di penalmente rilevante in aggiunta alla frode fiscale gia' segnalata. E cosi' come si suole affermare che l'insorgenza di indizi di reato rilevanti ai fini delle garanzie difensive (ex art. 220 att. c.p.p. ovvero in relazione ad altre norme piu' generali quali l'art. 63 c.p.p.) integra una situazione di rilevanza obbiettiva che non puo' essere rimessa alla valutazione discrezionale o addirittura arbitraria degli inquirenti (Cass. Sez. VI 15 giugno 1998 n. 7181; per l'art. 220 tribunale di Rimini 2 gennaio 1999 n. 12), si deve ugualmente affermare che l'erronea rilevazione di ulteriori reati che invece non sussistono, seppure espressamente enunciata dagli inquirenti, non vale ad integrare gli estremi per l'applicazione della regola di cui all'art. 220 att. c.p.p. in difetto di una situazione obbiettiva che la esiga, come e' nella specie. Conclusivamente la commissione non ravvisa in base agli atti alcuna violazione dell'art. 220 neppure nella seconda fase delle indagini effettuata nelle forme della verifica tributaria: le risultanze penali iniziali (documenti bancari acquisiti in funzione dell'accusa di frode fiscale) risultano dunque correttamente utilizzate per iniziare e concludere la verifica fiscale nei confronti della Polimor. Cio' posto parrebbe che la sovrapposizione delle due indagini, penale e tributaria, sulla stessa identica materia debba ritenersi irrilevante ai fini della presente decisione. Acquisita ritualmente la documentazione bancaria e disposta ritualmente la verifica fiscale, le risultanze penali risulterebbero utilizzate altrettanto ritualmente secondo le norme tributarie vale a dire applicando la procedura tributaria che accolla al contribuente l'onere di provare di averne tenuto conto nelle dichiarazioni fiscali o che non si riferiscono ad operazioni imponibili, previo specifico interpello scritto, e che consente all'esito di procedere all'accertamento con rettifica in via presuntiva (art. 51 secondo comma e settimo d.P.R. 26 ottobre 1972 in materia di I.V.A.; identica e' la normativa per le imposte sui redditi dettata dall'art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600). E difatti la G.d.F. (all. 10 del PVC) invito' formalmente per iscritto i fratelli Moroni a giustificare i prelevamenti ed i versamenti effettuati sui libretti al portatore nella loro materiale disponibilita', ne raccolse le dichiarazioni giustificative (all. 11 del PVC) e, all'esito, applicando la presunzione di legge, formulo' le valutazioni relative ad operazioni non fatturate, valutazioni recepite integralmente dall'ufficio I.V.A. che provvide anche al calcolo ed all'applicazione delle sanzioni secondo la sua competenza. L'accertamento tributario avvenne dunque in forma corretta in base a norme tributarie regolanti la medesima materia gia' al vaglio del giudice penale (occultamento di materia imponibile mediante artifici di interposizioni soggettive fittizie). A ben vedere, ad avviso del collegio, l'applicazione delle presunzioni legali tributarie pone tuttavia non pochi e non facili problemi di principio. In sede penale dopo l'acquisizione di documentazione bancaria il normale sviluppo delle indagini prevede l'identificazione dei titoli e delle controparti, la loro audizione ed il raffronto, eventualmente peritale, con le risultanze contabili. Trattasi di attivita' istruttoria diretta all'acquisizione di dati storici e concreti, svolta interamente dall'accusa alla quale spetta l'onere della prova. In sede tributaria al contrario le indagini si arrestano molto prima giacche' non si identifica nulla e nessuno se non a campione e l'onere della prova della correttezza fiscale delle operazioni spetta al contribuente, vale a dire alla difesa. Le regole probatorie sono dunque pienamente invertite. E' noto che la caduta del c.d. segreto bancario nei confronti del fisco e' stata progressivamente attuata secondo una disciplina specifica, via via piu' permissiva, caratterizzata da garanzie procedurali per il contribuente. Tali sono la competenza riservata alle sedi gerarchiche superiori degli organi accertatori, l'invito al contribuente ad indicare gli enti creditizi ed i relativi rapporti, l'acquisizione documentale delle risultanze presso i predetti enti creditizi con successiva (e obbligatoria secondo la giurisprudenza) contestazione delle risultanze, l'invito scritto a giustificarne la compatibilita' con le scritture e le dichiarazioni fiscali ed infine l'applicazione della presunzione contraria in difetto di giustificazioni idonee. In tale procedura la posizione del contribuente trova garanzia legale procedimentale nel diritto di intervento preventivo a fronte della tutela legale sostanziale del fisco attuata mediante l'inversione dell'onere probatorio. Quando la procedura di controllo bancario non viene promossa autonomamente dagli organi tributari, ma viene attivata utilizzando risultanze bancarie legalmente acquisite in sede penale, la regola del contraddittorio non viene attuata nella fase di acquisizione documentale (come e' ovvio in quanto per un verso operano le garanzie proprie della procedura penale e per altro verso il procedimento penale non ammette l'intervento di parti diverse da quelle tipiche), ma l'intervento del contribuente e' obbligatoriamente previsto nella fase successiva (interpello) come e' accaduto nel caso in esame. La materia delle indagini, penali e tributarie, e le persone interessate sono tuttavia le stesse, con la conseguenza di interferenze inevitabili: si tratta di bis in idem sostanziale con regole probatorie antitetiche. La rilevanza giuridica di siffatta anomalia, non percepita in alcun modo dal legislatore in forma espressa, si rende tuttavia evidente sotto vari aspetti raffrontando le specifiche discipline procedimentali. Il principio della partecipazione del contribuente nella procedura tributaria e' reso rilevante nel senso dell'obbligatorieta' in due momenti. Il primo, rilevante perche' formalmente sanzionato, e' quello dell'obbligo del contribuente di rispondere all'interpello che il fisco gli rivolga per farsi indicare i rapporti creditizi intrattenuti ed i relativi enti: l'inosservanza di tale obbligo comporta specifiche sanzioni tributarie (ora art. 11 D.lgs. n. 471/1997) sicche' al contribuente fa capo sicuramente un obbligo di rispondere la cui inosservanza e' sanzionata come tale. Questa fase di interpello preventivo tuttavia e' soltanto eventuale potendo il fisco ometterla discrezionalmente: sotto questo profilo pertanto la derivazione penale degli accertamenti bancari appare irrilevante come tale, dal momento che trattasi di acquisizioni probatorie d'ufficio autorizzate anche nella procedura tributaria ad opera degli organi fiscali. C'e' poi una seconda fase, questa volta necessaria e indefettibile nella procedura di accertamento tributario mediante utilizzazione di risultanze bancarie, che consiste appunto nella contestazione al contribuente di tali risultanze e nell'invito a comparire per giustificarne la rispondenza alle scritture contabili. La mancata o insufficiente giustificazione comporta l'applicazione della presunzione di ricavi sicche' dalla mancata risposta automaticamente derivano conseguenze altamente negative per il contribuente. La mancata comparizione e' peraltro sanzionata, al pari di quella relativa all'interpello preventivo, con le pene pecuniarie di cui all'art. 11 D.lgs. n. 471/1977. L'intera procedura tributaria e' dunque qualificata dall'obbligo di rispondere, rilevante come tale in senso negativo per il contribuente, sia in linea formale (sanzioni) sia soprattutto in linea sostanziale (presunzione legale). Il quadro della procedura penale relativamente ai medesimi accertamenti sulla medesima materia (ricavi occultati mediante posizioni bancarie non contabilizzate) e' retto da regole radicalmente diverse dal momento che il contribuente in quanto indagato non solo non ha nessun obbligo di partecipazione, ma ha il diritto di non rispondere comunque. Tutta le indagini debbono svolgersi nel pieno rispetto del diritto al silenzio dell'indagato, diritto che come e' noto va inteso nel senso che dalla mancata partecipazione o dalla mancata risposta dell'indagato non possono in alcun modo derivare conseguenze negative per l'indagato stesso. La procedura tributaria e' dunque fondata e disciplinata sulla regola dell'obbligo di partecipare e di rispondere, obbligo che invece nella procedura penale viene escluso al punto che proprio la sua inosservanza e' elevata a diritto intangibile. Nel caso di accertamenti bancari penali trasferiti in sede tributaria si assiste allora ad una singolare vicenda procedurale che vede le medesime persone (nella specie i fratelli-soci-contribuenti-indagati Moroni) in ordine alle medesime indagini a loro carico destinata ad incider al tempo stesso sul loro portafoglio e sulla loro liberta', dapprima in una condizione giuridica di pieno rispetto del diritto di difesa (garanzie per i sequestri, diritto di non rispondere, ecc.) e successivamente in una condizione giuridica opposta e antitetica (obbligo di rispondere assistito da sanzioni formali e sostanziali ). La sfasatura cronologica iniziale non fa venir meno l'antinomia giacche' di regola le due procedure procedono poi contemporaneamente. Vi e' dunque un momento necessario e tipico di questa procedura in cui il contribuente-indagato si trova a dover obbligatoriamente scegliere se rinunciare ai suoi diritti di indagato (silenzio) per far valere i suoi diritti di contribuente ovvero se rinunciare ai secondi per far valere i primi esponendosi in tal modo alle previste sanzioni tributarie compresa l'applicazione di presunzioni legali sfavorevoli. Ne' vale osservare che l'indagato-contribuente sarebbe comunque garantito dal fatto che le risposte date e verbalizzate in sede tributaria non sarebbero comunque utilizzabili in sede penale perche' acquisite senza le necessarie garanzie difensive. Difatti, anche a non voler tenere conto della prassi diffusa e quasi generalizzata secondo cui la G.d.F. operando addirittura attraverso le medesime persone fisiche nella doppia e mutevole veste di polizia giudiziaria o di polizia tributaria, suole disinvoltamente riversare i risultati delle indagini nell'una come nell'altra sede (anche nel caso in esame si e' visto che il PVC venne trasmesso al p.m. quale specifica notitia criminis con tutti gli allegati compreso l'interpello del contribuente e le relative risposte), occorre ricordare che nel complesso sistema ordinamentale dei rapporti. fra processo penale ed accertamento tributario non sono poche le normative specifiche attraverso le quali l'accertamento tributario diventa rilevante nel processo penale e ne condiziona l'esito. La piu' recente e piu' generale connessione deriva dall'art. 19 D.lgs. n. 74/2000, applicabile anche retroattivamente in base alla regola del favor rei estesa ormai anche alla materia tributaria, in materia di sanzioni tributarie laddove si prevede l'applicazione del principio di specialita' fra sanzioni penali e sanzioni tributarie, sicche' in presenza di regole probatorie diverse e divergenti, possono facilmente ipotizzarsi situazioni in cui la notevole divergenza nei risultati dell'accertamento risulta difficilmente componibile invocando l'applicazione della norma speciale (di regola quella penale) come e' nell'ipotesi in cui la soglia di rilevanza penale debba essere definita in relazione al quantum, raggiunto con la prova tributaria e non con quella penale o viceversa. Si pensi agli effetti sananti del concordato sulle contravvenzioni, effetti che derivano direttamente dalla definizione tributaria che e' necessariamente misurata sui parametri dell'accertamento, sicche' l'effetto penale benefico viene vincolato e pregiudicato dalla tipologia dell'accertamento. Assolutamente identico e' il meccanismoattraverso il quale in questi anni attraverso la definizione del contesto tributario si e' pervenuti in varie forme (sanatoria, condono, regolarizzazione, ravvedimento operoso, ecc.) anche alla definizione penale. La definizione tributaria e' peraltro divenuta istituzionalmente rilevante in sede penale nelle nuove forme dettate dal d.lgs. n. 74/2000 (attenuanti, risarcimento, pagamento, ecc.). Ancor piu' rilevanti nel caso in esame sono i ricordati istituti di definizione penale mediante definizione tributaria che in varie forme hanno caratterizzato tutti i periodi d'imposta addebitati ai fratelli Moroni. Ancor piu' diretta ed evidente e' l'incidenza, come definita dalla legge e dalla giurisprudenza, di alcuni atti tributari come tali nel processo penale. In base all'art. 238 e 238-bis c.p.p. possono acquisirsi al processo penale le sentenze tributarie anche non irrevocabili seppure con valenza probatoria comunque limitata, ma specificamente disciplinata, genericamente indiziaria per quelle non irrevocabili e con valenza ex art. 192 3o comma c.p.p. per quelle irrevocabili. La giurisprudenza ha inoltre definito in termini non certamente rigorosi l'utilizzabilita' ex art. 234 c.p.p. del PVC affermandone (cfr. da ultimo Cass. pen. Sez. III 5 ottobre 1999 n. 3214) la natura di atto amministrativo extraprocessuale acquisibile come tale salvo che nella parte compilata successivamente all' insorgere di indizi di reato, sicche' il limite all'utilizzabilita' viene definito principalmente in senso cronologico ed appare pertanto oscillante ed opinabile. Sempre in riferimento all'art. 234 c.p.p. viene comunemente ammessa la produzione e l'utilizzazione dell'atto di accertamento tributario vero e proprio (avviso, rettifica, ecc.). Per cio' che attiene specificamente alle risposte del contribuente per vincere la presunzione fondata sulle risultanze degli accertamenti bancari vengono infine in rilevo le ipotesi in cui il contribuente, a fini di difesa fiscale, avrebbe interesse a fornire risposte in ordine ai soggetti beneficiari dei prelevamenti e cio' per evitare che persino le uscite gli vengano calcolate quale ricavo o quale reddito (art. 33 primo comma n. 2 d.P.R. n. 600/1973) mentre ai fini penali, vuoi per la natura illecita dei pagamenti (si pensi al comune sistema di ristorno sull'ammontare della fatture fittizie ovvero a ricompense o donativi non confessabili, ma fiscalmente detraibili ) vuoi per l'incidenza che tali indicazioni avrebbero sui reati connessi anche non tributari nei casi in cui si procede anche per reati comuni: in tali casi appare di tutta evidenza che la difesa fiscale implica rinuncia alla difesa penale e viceversa. La collocazione procedurale tributaria di tali risposte non garantisce dal rischio di riflussi penali data l'identita' dei verbalizzanti e la prassi generalizzata di trasmissione al p.m. di tutti gli atti di accertamento fiscale. Esiste inoltre uno specifico riflesso sul processo tributario della mancata o carente risposta all'interpello sulle risultanze bancarie dal momento che l'omissione nella sede tributaria preclude ora ogni integrazione probatoria in sede di giudizio tributario vero e proprio (art. 32 d.P.R. n. 600/1973 terzo e quarto comma). Tirando le somme riguardo al significato delle varie discipline elencate piu' sopra, si rileva facilmente che in tutti questi casi all'esercizio del diritto di non rispondere spettante all'imputato derivano per l'imputato che sia anche contribuente conseguenze automaticamente negative sul piano tributario vuoi nel merito (presunzione legale) vuoi in rito (divieto di prove successive a discarico). Anche il diritto di difesa penale ne risulta comunque compresso o sacrificato addirittura, giacche' sia dalla risposta sia dalla mancata risposta derivano o possono derivare pregiudizi nel processo penale, sia in termini probatori sia in termini di meccanismi definitori mediante monetizzazione. L'antinomia fra le due normative compromette dunque il diritto di difesa come configurato dall'art. 24 della Costituzione sia nel processo tributario che in quello penale. Questo accade non gia', come suol dirsi, in ragione del diverso regime probatorio vigente nei due processi, ma perche' sullo specifico punto il regime istruttorio-probatorio dell'uno e' assolutamente inconciliabile con quello dell'altro processo. Il problema non e' dunque quello di rendere omogenee le regole probatorie per consentire il trasferimento delle prove dall'uno all'altro processo e in particolare da quello tributario a quello penale; il problema, molto piu' limitato, e' soltanto quello di regole non confliggenti sul medesimo tema probatorio in modo da evitare che, come nella specie, la prova tributaria si identifichi e consista esclusivamente nell'esercizio del diritto di non rispondere dell'imputato-contribuente. In tal modo infatti il diritto di difesa penale e' compromesso dall'obbligo-onere tributario e il diritto di difesa tributario viene compromesso definitivamente dall'esercizio di una facolta' difensiva fondamentale (silenzio) della persona penalmente inquisita. Una parte della giurisprudenza (Comm. Trib: Reg. Venezia, Sez. XI, 17 dicembre 1998; Comm. Prov. Trib. Vicenza Sez. VII, 5 novembre 1997) ebbe a suo tempo a percepire l'antinomia di cui si tratta ed a cercare di superarla escludendo l'operativita' della presunzione legale ed affermando che gli accertamenti bancari penali ove trasferiti in sede penale operano quali presunzioni semplici, vale dire alla stregua di una regola probatoria ormai identica e comune al processo tributario come al processo penale. Avverso questa interpretazione si e' pronunciata tuttavia la giurisprudenza piu' diffusa e quasi unanime sul rilievo che la provenienza penale degli accertamenti bancari non incide sul loro valore probatorio dal momento che la legge non fa distinzione alcuna e richiama espressamente (secondo comma n. 2 dell'art.. 51 d.P.R. n. 633/1972 che richiama testualmente la derivazione penale prevista dall'art. 63, primo comma; identica tecnica di richiamo all'art. 33 terzo comma viene adottata nel testo del primo comma n. 2 dell'art. 32 d.P.R. n. 600/1973) le varie provenienze della documentazione bancaria per parificarne la rilevanza probatoria presuntiva. L'antinomia e' dunque codificata nelle norme surrichiamate e per rimuoverne l'efficacia negativa del diritto di difesa sia in sede tributaria che in sede penale occorre invocare l'intervento della Corte costituzionale per giudicare della legittimita' costituzionale degli effetti che derivano dai richiami contenuti nelle disposizioni sopra menzionate, con la precisazione che il problema non si pone quando il processo penale sia gia' stato definito con sentenza irrevocabile. L'abrogazione di tali richiami varrebbe a fornire gli accertamenti bancari penali trasferiti in sede tributaria di una valenza probatoria meramente presuntiva. La questione di costituzionalita' cosi' come prospettata appare non manifestamente infondata in riferimento all'art. 24, secondo comma della Costituzione per le ragioni tutte sopra esposte. La questione appare inoltre rilevante ai fini della decisione. Respinta l'eccezione di nullita' degli accertamenti bancari penali ora trasferiti in sede tributaria, tutti gli altri motivi di impugnazione attinenti all'an debeaturvengono ad essere risolti una volta stabilita la natura della presunzione operante. Se si tratta di presunzione legale l'accertamento tributario effettuato nella forma dell'accertamento parziale ex art. 53 terzo comma d.P.R.n. 633/1972 appare ammissibile atteso che non vi e' nulla di piu' "certo e diretto" di una presunzione legale; alcontrario il ricorso all'accertamento parziale e' sicuramente vietato, per espressa previsione dell'art. 53, in presenza di presunzioni semplici. In presenza di presunzioni semplici tutte le questioni sollevate nell'impugnazione in ordine agli ambiti di competenza della G.d.F. e degli Uffici tributari nella procedura di contestazione delle risultanze bancarie risulterebbero ultronee al contrario di quanto dovrebbe ritenersi nell'ipotesi opposta.
P. Q. M. Respinta l'eccezione di nullita' dell'utilizzazione tributaria degli accertamenti bancari eseguiti in sede penale, dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 51, secondo comma secondo, n. 2 d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633 limitatamente all'inciso "rilevate a norma ... dell'art. 63 primo comma" e dell'art. 32, comma primo, n. 1 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 limitatamente all'inciso "rilevate a norma dell'art. 33 ... terzo comma", in relazione all'art. 24, secondo comma della Costituzione; Sospende il giudizio in corso e dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione; Ordina che a cura della segreteria la presente ordinanza venga notificata alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e venga comunicata al Presidente della Camera dei deputati ed al Presidente del Senato della Repubblica, il tutto ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 23 legge della Costituzione 11 marzo 1953 n. 1. Ancona, addi' 20 settembre 2000 Il presidente estensore: Casula 01C0563