N. 469 ORDINANZA (Atto di promovimento) 20 settembre 2000

Ordinanza   emessa   il  20  settembre  2000  (pervenuta  alla  Corte
costituzionale   l'11 maggio   2001)   dalla  Commissione  tributaria
regionale  di  Ancona  sui  ricorso  propostoda Polimor S.r.l. contro
Ufficio I.V.A. di Pesaro

Imposte e tasse - Accertamento delle imposte sui redditi e sul valore
  aggiunto - Utilizzazione in sede tributaria di accertamenti bancari
  eseguiti  in  sede  penale  -  Operativita', anche in tale ipotesi,
  della   presunzione   legale   di  imponibilita'  delle  operazioni
  risultanti dai conti bancari - Compromissione del diritto di difesa
  fiscale  e  penale  del  contribuente-imputato,  in  ragione  degli
  opposti regimi probatori del processo penale e di quello tributario
  (qualificato  l'uno  dal diritto dell'imputato al silenzio, l'altro
  dall'obbligo-onere per il contribuente di rispondere).
- D.P.R.  26  ottobre  1972,  n. 633,  art.  51, secondo comma, n. 2;
  d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 31, primo comma, n. 1.
- Costituzione, art. 24, secondo comma.
(GU n.25 del 27-6-2001 )
                 LA COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE

    Ha   emesso  la  seguente  ordinanza  sull'appello  R.G.  Appelli
n. 919/1999   depositato  il  12 ottobre  1999  avverso  la  sentenza
n. 312/04/99  emessa  dalla  commissione  tributaria  provinciale  di
Pesaro   da:   Polimor  S.r.l.  legalerappresentante  Moroni  Franco,
residente  a  Pesaro  in via della Tecnologia s.n.c., difeso da: avv.
SalvatorePettinato,  dott. Silvia Farina, residente a Pesaro in viale
dei  Partigiani n. 31. Controparti: I.V.A. di Pesaro; atti impugnati:
avv. rett. parz. n. 818184/98 - I.V.A., 93.
    La  sentenza  di primo grado emessa dalla commissione provinciale
di  Pesaro che ha respinto il ricorso presentato dalla S.r.l. Polimor
in  persona  del  presidente  del consiglio di amministrazione Moroni
Franco  avversol'accertamento  parziale emesso dall'ufficio I.V.A. di
Pesaro,   e'   stata   tempestivamente   appellata  dal  contribuente
riproponendo tutte le ragioni esposte nel ricorso iniziale.
    Il   Moroni  deduce  infatti  principalmente  la  nullita'  della
verifica e del conseguente accertamento perche' operati in violazione
dei  diritti  di  difesa  spettanti  al contribuente in ragione della
rilevanza penale della vicenda ed adduce inoltre subordinatamente una
serie  di violazioni di norme specificamente tributarie relative alla
procedura  di  contestazione,  ai  soggetti  operanti ed alla valenza
probatoria  dei  risultati  affermati  dall'ufficio, violazioni dalle
quali   deriverebbe   l'illegittimita'  della  pretesa  tributaria  o
comunque la sua infondatezza totale o parziale.
    L'esecutivita'  della  sentenza  impugnata  e' stata sospesa, sul
ricorso  del  contribuente e nella sola parte relativa alle sanzioni,
sul  rilievo  dell'omesso esame da parte dei primi giudici del motivo
principale  del  ricorso  relativo  all'  incidenza  del procedimento
penale gia' iniziato per gli stessi fatti.
    L'ufficio  I.V.A. si e' costituito per resistere all'impugnazione
sotto  ogni  profilo  in rito e per contestarla nel merito, adottando
tuttavia  nelle  more  consistenti  rettifiche alla pretesa iniziale,
nelle forme dell'autotutela.
    Osserva  la  commissione  che  l'accertamento impugnato prende le
mosse  dalle  risultanze di una indagine penale condotta dalla G.d.F.
in  relazione a libretti di risparmio intestati a societa' fiduciaria
(Willmar),   ma   poi   lasciati  nella  disponibilita'  diretta  dei
fiducianti che nella specie erano Moroni Franco, Moroni Anteo, Moroni
Antonio  e  Moroni  Anna,  vale  a  dire  la totalita' dei soci della
Polimor nella quale peraltro rivestivano le cariche, rispettivamente,
di  presidente del consiglio di amministrazione, consigliere delegato
e  componenti  del  consiglio.  L'assunto  accusatorio  posto  a base
dell'attivita' di polizia giudiziaria era che i libretti al portatore
nel numero complessivo di 75 per i quattro fratelli, solo formalmente
intestati  alla  societa'  fiduciaria  ed  in realta' materialmente e
direttamente   gestiti   dai  singoli  fiducianti  Moroni,  venissero
utilizzati  per occultare ricavi della societa' Polimor, mediante una
interposizione  soggettiva  fittizia (quella della Willmar) rilevante
per eludere ogni controllo bancario-tributario.
    Trattasi  dunque  con  tutta  evidenza  in  base  ai  riferimenti
contenuti  nel processo verbale di constatazione in atti, di indagini
penali  a  carico dell'intera famiglia Moroni per il delitto di frode
fiscale  c.d.  esterna  di cui all'art. 4 lett. f) legge n. 516/1982,
frode   asseritamente   realizzata   omettendo   di   indicare  nella
dichiarazione  dei redditi sociali e personali i ricavi occultati sui
libretti,  mediante  i quali, fittiziamente intestati ma direttamente
gestiti, si realizzava dunque uno specifico comportamento fraudolento
idoneo   ad   ostacolare  l'accertamento  tributario  degli  introiti
effettivi.
    Cio'   premesso   va  subito  esposta  e  vagliata  la  tesi  del
contribuente  che deduce la radicale illegittimita' dell'accertamento
tributario   come   tale  perche'  condotto  sulla  medesima  materia
rilevante  penalmente  in  violazione  dell'art. 220  att.  c.p.p.  e
specificamente  dell'art. 75  del  d.P.R.  n. 633/1972  in materia di
I.V.A..   La   regola  di  cui  all'art. 220  predetto  viene  intesa
dall'appellante  come ostativa all'inizio o alla prosecuzione di ogni
attivita'  di  verifica tributaria in presenza di indizi di reato; in
ogni caso, ove compiute, le indagini tributarie in quanto eseguite in
violazione  dei  diritti di difesa specifici della materia penale (ed
in    specie    di    quelli   relative   alle   garanzie   difensive
nell'interrogatorio  dell'indagato) sarebbero inutilizzabili anche in
sede  tributaria  perche'  illegittime in sede penale e come tali non
trasferibili  in  sede  fiscale  esistendo  il  divieto  generale  di
utilizzazione  di  prove  illegittimamente  acquisite,  codificato in
materia di I.V.A. dal predetto art. 75.
    Le  ragioni cosi' proposte, ignorate in prime cure; pongono gravi
questioni  di  principio  circa  i rapporti fra procedimento penale e
accertamento   tributario,  sulle  quali  non  esistono  orientamenti
concordi  e consolidati in dottrina e in giurisprudenza, condizionate
entrambe  da  esigenze  sostanziali  settoriali  proprie  del diritto
tributario  e  del  diritto  penale e delle relative procedure. Nella
presente  sede  tali  questioni vanno esaminate unicamente nella loro
specifica  rilevanza  ai  fini  della decisione ed esclusivamente con
riferimento a quanto risulta in concreto dagli atti processuali.
    Va   pertanto   ricordato  preliminarmente  che  in  ordine  alla
rilevanza   dell'art. 220   att.   c.p.p.   la  giurisprudenza  della
Cassazione  penale ha ormai chiarito che la violazione delle garanzie
difensive  proprie  del processo penale ove attuata nelle forme della
verifica  tributaria  pur in presenza di indizi di reato, comporta la
radicale  inutilizzabilita'  in  sede  penale  degli atti di verifica
tributaria  e  comunque la nullita' dei singoli atti (interrogatorio,
acquisizioni  documentali, ecc.) ove ricorrente secondo il c.p.p. (da
ultimo  Cass.  Sez. I, 6 marzo 1999 n. 1932), ferma restando tuttavia
la validita' di quegli stessi atti in sede tributaria.
    Dal  canto suo la giurisprudenza costante della Cassazione civile
che  continuamente  ribadisce  che  la  prova  tributaria e' sempre e
comunque  condizionata alla legalita' della sua acquisizione consente
di  affermare  che una prova penale nulla non puo' mai valere in sede
tributaria quando vi venga trasferita come tale e perche' tale.
    Il  problema  posto dall'appellante va dunque trattato in termini
generali  limitatamente  al  punto  dell'asserito divieto di indagini
tributarie  in  presenza  di indagini penali desumibile appunto dalla
regola dell'art. 220. Tale questione, controversa in dottrina e nella
giurisprudenza di merito, va risolta ad avviso del collegio, in senso
negativo  in base alla legislazione vigente che prevede espressamente
l'ipotesi di svolgimento di indagini tributarie coeve a quelle penali
con  l'unico  e  specifico  limite  giuridico  e cronologico del c.d.
segreto  istruttorio,  limite  che  peraltro  puo' essere rimosso con
l'autorizzazione del p.m.
    Difatti se l'utilizzazione tributaria puo' essere autorizzata dal
p.m.  anche in una fase "protetta" delle indagini penali,se ne evince
che  dalla  mera rilevanza penale del fatto puo' derivare soltanto un
ostacolo  temporaneo,  nel  senso  che sarebbe illegale, oltre che in
sede  di  processo penale, anche in sede tributaria lo svolgimento di
indagini   penali   in   forme  tributarie  da  parte  della  polizia
giudiziaria  con  o  senza autorizzazione del p.m. e che tuttavia dal
momento   dell'autorizzazione  ogni  eventuale  divieto  di  indagini
tributarie nelle forme loro proprie verrebbe meno.
    Le  osservazioni  che precedono, pur nella loro sommarieta', sono
sufficienti per risolvere i residui problemi che attengono unicamente
all'eventuale  nullita'  non dell'indagine tributaria in quanto tale,
ma di singoli atti rispetto alla regola dell'art. 220 ove in concreto
applicabile.  In  sostanza  si  tratta  di  accertare  se siano stati
compiuti  atti  penalmente nulli perche' in tal caso da tale nullita'
conseguirebbe  l'illegittimita'  derivata  della  loro  utilizzazione
tributaria.
    Orbene  nella  specie dagli atti processuali non e' dato in alcun
modo di rilevare violazioni dell'art. 220 art. c.p.p. nel corso delle
indagini  di  polizia  giudiziaria per il reato di frode fiscale c.d.
esterna.  I  libretti  risultano acquisiti mediante sequestro (vale a
dire  in  forma  garantita  dalla  convalida e dal riesame secondo le
norme  del  c.p.p.)  ed anche per gli assegni di cui a f. 12 seg. del
P.V.C.   l'acquisizione  e'  avvenuta  mediante  formale  decreto  di
sequestro   del   p.m.  L'utilizzazione  di  tali  risultanze  penali
(libretti   e   assegni)   in  sede  tributaria  risulta  formalmente
autorizzata  dal  p.m.  sicche' anche sotto tale specifico profilo di
illegittimita'  tributaria  non  si ravvisano irregolarita', non gia'
perche'  l'autorizzazione  del p.m. possa valere come tale per sanare
irregolarita'  proprie  dell'indagine  penale (e' vero il contrario e
cioe'  che  neppure  l'autorizzazione  preventiva del p.m. a compiere
atti  d'indagine  nelle  forme  della  verifica tributaria varrebbe a
renderle   legittime),   ma  perche',  come  si  e'  gia'  accennato,
l'utilizzabilita'  tributaria degli atti penali costituisce la regola
generale,  vuoi in relazione ai principi ed alle norme specifiche che
reggono  l'accertamento  tributario, vuoi in relazione alle norme del
contenzioso tributario che ora recepiscono in toto le ben note regole
generali  sull'acquisizione  e  sulla rilevanza degli atti penali nel
processo civile.
    In  conclusione  l'autorizzazione  del  p.m. rileva unicamente ai
fini  della  rimozione  anticipata  dell'eventuale limite del segreto
istruttorio e la mancata autorizzazione rileva unicamente quale causa
speciale  di  illegittimita'  propriamente  tributaria sancita da una
norma limitativa della regola generale di piena trasferibilita' delle
risultanze penali alla sede tributaria.
    La  commissione pertanto ritiene che nella specie l'utilizzazione
tributaria  della  documentazione  (libretti  e assegni) acquisita in
sede penale risulti pienamente legittima come tale.
    L'affermazione che precede non e' tuttavia risolutiva, occorrendo
ancora  esaminare  in  concreto  l'utilizzazione  che  dei  documenti
bancari   e'   stata   fatta  nel  corso  della  verifica  tributaria
successivamente  iniziata  nei  confronti della Polimor. Nel relativo
P.V.C.  infatti  si  da' atto di una serie di violazioni di rilevanza
penale asseritamente accertate nel corso della verifica e riferite al
p.m.  separatamente.  Trattasi  per  l'esattezza  (f. 17 seg. P.V.C.)
dell'irregolare   tenuta  del  libro  giornale  per  omissioni  nella
registrazione  degli  introiti  e  dell'omessa  contabilizzazione  di
ingenti  ricavi a fini I.V.A., omissioni che integravano all'epoca le
contravvenzioni di cui all'art. 1, secondo comma e di cui all'art. 1,
sesto  comma legge n. 516/1982, ora depenalizzate ad opera del d.lgs.
n. 74/2000.
    E'  appena  il  caso di notare che la successiva depenalizzazione
non  varrebbe  a sanare eventuali nullita' processuali rette, come e'
noto,    dalla    regola   tempus   regit   actum.   Tali   omissioni
contravvenzionali  vennero dunque riferite, all'epoca (1998), al p.m.
come  si  evidenzia a f. 52 del PVC; allo stesso fine venne trasmesso
al p.m. anche il PVC con i relativi allegati.
    Riguardo  agli  accertamenti penali compiuti in corso di verifica
mediante  PVC,  si  ripropone  dunque  il  problema della violazione,
asserita  dall'appellante,  della  regola  di  cui all'art.. 220 att.
c.p.p.  L'ufficio  I.V.A.  nega ogni irregolarita' sul rilievo che le
omissioni  contravvenzionali  sarebbero  emerse  solo alla fine della
verifica e non gia' nel suo corso. Al riguardo va invece rilevato che
gia'  all'inizio  della  verifica  i  dati quantitativi emergenti dai
libretti   erano  talmente  imponenti  da  vietare  ogni  pretestuosa
affermazione di insorgenza successiva degli indizi.
    Ad  avviso  del  collegio  tuttavia,  nonostante  le disinvolture
procedurali  dei verificatori, l'art. 220 non risulta violato neppure
in sede di verifica tributaria. Va infatti ricordato che l'irregolare
tenuta  del  libro giornale, per costante giurisprudenza ove consegua
all'omessa  fatturazione dei ricavi, non e' punibile autonomamente ex
art. 1   sesto  comma  legge  n. 516/1982  restando  assorbita  nella
contravvenzione  di cui al secondo comma dell'art. 1 stessa legge; va
inoltre ricordato che l'ipotesi di frode fiscale di cui alla lett. f)
dell'art. 4  legge n. 516/1982, ipotesi sulla quale, come si e' visto
erano  state  fondate  ed  erano  state svolte le indagini di polizia
giudiziaria  sotto  la  direzione  del p.m., contiene una clausola di
esclusione ("fuori dei casi previsti dall'art. 1") con la quale nella
novella  del  1991  si  volle  escludere  che la frode potesse essere
integrata  mediante  condotte  meramente  omissive nella tenuta delle
scritture  contabili  obbligatorie  ed  al  tempo stesso escludere il
concorso  fra  le  relative  contravvenzioni  ed  il delitto di frode
fiscale generica.
    Per  conseguenza  tutte  le  ipotesi  di  reato segnalate al p.m.
all'esito   della   verifica   fiscale   sulla   Polimor,  altro  non
rappresentano  che  condotte irrilevanti sotto il profilo della frode
gia'  denunciata,  come  tali  non  punibili  autonomamente  restando
comunque  assorbite  nella  figura  delittuosa  vuoi  in  ragione del
principio  di  specialita' vuoi in ragione della espressa clausola di
esclusione.  Pertanto  all'esito  della  verifica  al p.m. non andava
segnalato  alcunche'  di  penalmente rilevante in aggiunta alla frode
fiscale   gia'  segnalata.  E  cosi'  come  si  suole  affermare  che
l'insorgenza  di  indizi  di  reato  rilevanti ai fini delle garanzie
difensive (ex art. 220 att. c.p.p. ovvero in relazione ad altre norme
piu'  generali  quali  l'art. 63  c.p.p.)  integra  una situazione di
rilevanza  obbiettiva  che  non  puo' essere rimessa alla valutazione
discrezionale  o  addirittura arbitraria degli inquirenti (Cass. Sez.
VI  15 giugno  1998  n. 7181;  per  l'art. 220  tribunale  di  Rimini
2 gennaio  1999  n. 12),  si  deve ugualmente affermare che l'erronea
rilevazione  di  ulteriori  reati  che invece non sussistono, seppure
espressamente  enunciata  dagli inquirenti, non vale ad integrare gli
estremi  per  l'applicazione  della  regola  di cui all'art. 220 att.
c.p.p.  in difetto di una situazione obbiettiva che la esiga, come e'
nella specie.
    Conclusivamente  la  commissione  non  ravvisa  in base agli atti
alcuna  violazione  dell'art. 220  neppure  nella  seconda fase delle
indagini   effettuata  nelle  forme  della  verifica  tributaria:  le
risultanze  penali  iniziali (documenti bancari acquisiti in funzione
dell'accusa   di   frode   fiscale)  risultano  dunque  correttamente
utilizzate   per  iniziare  e  concludere  la  verifica  fiscale  nei
confronti della Polimor.
    Cio'  posto  parrebbe  che la sovrapposizione delle due indagini,
penale  e  tributaria,  sulla stessa identica materia debba ritenersi
irrilevante  ai  fini della presente decisione. Acquisita ritualmente
la   documentazione  bancaria  e  disposta  ritualmente  la  verifica
fiscale,  le  risultanze penali risulterebbero utilizzate altrettanto
ritualmente  secondo  le  norme  tributarie vale a dire applicando la
procedura  tributaria  che accolla al contribuente l'onere di provare
di  averne  tenuto  conto  nelle  dichiarazioni  fiscali o che non si
riferiscono  ad  operazioni  imponibili,  previo specifico interpello
scritto,  e  che consente all'esito di procedere all'accertamento con
rettifica  in  via presuntiva (art. 51 secondo comma e settimo d.P.R.
26 ottobre 1972 in materia di I.V.A.; identica e' la normativa per le
imposte  sui  redditi  dettata  dall'art. 32 d.P.R. 29 settembre 1973
n. 600).  E  difatti  la G.d.F. (all. 10 del PVC) invito' formalmente
per  iscritto  i  fratelli  Moroni a giustificare i prelevamenti ed i
versamenti  effettuati sui libretti al portatore nella loro materiale
disponibilita',  ne raccolse le dichiarazioni giustificative (all. 11
del  PVC)  e, all'esito, applicando la presunzione di legge, formulo'
le  valutazioni  relative  ad  operazioni  non fatturate, valutazioni
recepite  integralmente  dall'ufficio  I.V.A.  che  provvide anche al
calcolo ed all'applicazione delle sanzioni secondo la sua competenza.
L'accertamento  tributario avvenne dunque in forma corretta in base a
norme  tributarie  regolanti  la  medesima materia gia' al vaglio del
giudice  penale (occultamento di materia imponibile mediante artifici
di interposizioni soggettive fittizie).
    A  ben  vedere,  ad  avviso  del  collegio,  l'applicazione delle
presunzioni  legali  tributarie  pone tuttavia non pochi e non facili
problemi di principio.
    In  sede penale dopo l'acquisizione di documentazione bancaria il
normale  sviluppo delle indagini prevede l'identificazione dei titoli
e delle controparti, la loro audizione ed il raffronto, eventualmente
peritale,   con   le  risultanze  contabili.  Trattasi  di  attivita'
istruttoria  diretta  all'acquisizione  di  dati  storici e concreti,
svolta interamente dall'accusa alla quale spetta l'onere della prova.
    In  sede  tributaria  al contrario le indagini si arrestano molto
prima  giacche' non si identifica nulla e nessuno se non a campione e
l'onere della prova della correttezza fiscale delle operazioni spetta
al contribuente, vale a dire alla difesa.
    Le regole probatorie sono dunque pienamente invertite.
    E' noto che la caduta del c.d. segreto bancario nei confronti del
fisco  e'  stata  progressivamente  attuata  secondo  una  disciplina
specifica,  via  via  piu'  permissiva,  caratterizzata  da  garanzie
procedurali  per  il  contribuente. Tali sono la competenza riservata
alle sedi gerarchiche superiori degli organi accertatori, l'invito al
contribuente  ad  indicare gli enti creditizi ed i relativi rapporti,
l'acquisizione  documentale  delle  risultanze presso i predetti enti
creditizi  con  successiva (e obbligatoria secondo la giurisprudenza)
contestazione  delle  risultanze, l'invito scritto a giustificarne la
compatibilita'  con le scritture e le dichiarazioni fiscali ed infine
l'applicazione    della   presunzione   contraria   in   difetto   di
giustificazioni   idonee.   In   tale   procedura  la  posizione  del
contribuente  trova  garanzia  legale  procedimentale  nel diritto di
intervento  preventivo  a  fronte della tutela legale sostanziale del
fisco attuata mediante l'inversione dell'onere probatorio.
    Quando  la  procedura  di  controllo  bancario non viene promossa
autonomamente  dagli  organi tributari, ma viene attivata utilizzando
risultanze  bancarie  legalmente  acquisite in sede penale, la regola
del  contraddittorio  non  viene  attuata  nella fase di acquisizione
documentale (come e' ovvio in quanto per un verso operano le garanzie
proprie  della  procedura  penale  e  per altro verso il procedimento
penale  non ammette l'intervento di parti diverse da quelle tipiche),
ma  l'intervento del contribuente e' obbligatoriamente previsto nella
fase  successiva  (interpello) come e' accaduto nel caso in esame. La
materia delle indagini, penali e tributarie, e le persone interessate
sono   tuttavia   le  stesse,  con  la  conseguenza  di  interferenze
inevitabili:  si  tratta  di  bis  in  idem  sostanziale  con  regole
probatorie antitetiche.
    La  rilevanza  giuridica  di  siffatta anomalia, non percepita in
alcun  modo  dal  legislatore  in  forma  espressa, si rende tuttavia
evidente  sotto  vari  aspetti  raffrontando le specifiche discipline
procedimentali.
    Il   principio   della   partecipazione  del  contribuente  nella
procedura tributaria e' reso rilevante nel senso dell'obbligatorieta'
in  due  momenti. Il primo, rilevante perche' formalmente sanzionato,
e'  quello dell'obbligo del contribuente di rispondere all'interpello
che  il  fisco  gli  rivolga  per farsi indicare i rapporti creditizi
intrattenuti  ed  i  relativi  enti:  l'inosservanza  di tale obbligo
comporta   specifiche   sanzioni   tributarie   (ora  art. 11  D.lgs.
n. 471/1997)  sicche'  al contribuente fa capo sicuramente un obbligo
di  rispondere  la  cui  inosservanza e' sanzionata come tale. Questa
fase  di interpello preventivo tuttavia e' soltanto eventuale potendo
il  fisco  ometterla discrezionalmente: sotto questo profilo pertanto
la  derivazione  penale degli accertamenti bancari appare irrilevante
come  tale,  dal  momento  che  trattasi  di  acquisizioni probatorie
d'ufficio autorizzate anche nella procedura tributaria ad opera degli
organi fiscali.
    C'e'   poi   una   seconda   fase,   questa  volta  necessaria  e
indefettibile  nella  procedura  di  accertamento tributario mediante
utilizzazione  di  risultanze  bancarie,  che  consiste appunto nella
contestazione  al  contribuente  di  tali  risultanze e nell'invito a
comparire  per giustificarne la rispondenza alle scritture contabili.
La  mancata  o  insufficiente giustificazione comporta l'applicazione
della   presunzione   di   ricavi   sicche'  dalla  mancata  risposta
automaticamente   derivano  conseguenze  altamente  negative  per  il
contribuente. La mancata comparizione e' peraltro sanzionata, al pari
di  quella relativa all'interpello preventivo, con le pene pecuniarie
di cui all'art. 11 D.lgs. n. 471/1977.
    L'intera  procedura tributaria e' dunque qualificata dall'obbligo
di   rispondere,  rilevante  come  tale  in  senso  negativo  per  il
contribuente,  sia  in  linea  formale  (sanzioni) sia soprattutto in
linea sostanziale (presunzione legale).
    Il  quadro  della  procedura  penale  relativamente  ai  medesimi
accertamenti   sulla  medesima  materia  (ricavi  occultati  mediante
posizioni   bancarie   non   contabilizzate)   e'   retto  da  regole
radicalmente  diverse  dal  momento  che  il  contribuente  in quanto
indagato  non  solo non ha nessun obbligo di partecipazione, ma ha il
diritto  di  non  rispondere  comunque.  Tutta  le  indagini  debbono
svolgersi  nel  pieno rispetto del diritto al silenzio dell'indagato,
diritto  che  come  e'  noto  va  inteso  nel senso che dalla mancata
partecipazione  o dalla mancata risposta dell'indagato non possono in
alcun modo derivare conseguenze negative per l'indagato stesso.
    La  procedura  tributaria  e' dunque fondata e disciplinata sulla
regola  dell'obbligo  di  partecipare  e  di  rispondere, obbligo che
invece  nella  procedura penale viene escluso al punto che proprio la
sua inosservanza e' elevata a diritto intangibile.
    Nel  caso  di  accertamenti  bancari  penali  trasferiti  in sede
tributaria si assiste allora ad una singolare vicenda procedurale che
vede      le      medesime      persone      (nella      specie     i
fratelli-soci-contribuenti-indagati  Moroni)  in ordine alle medesime
indagini  a loro carico destinata ad incider al tempo stesso sul loro
portafoglio  e  sulla  loro  liberta',  dapprima  in  una  condizione
giuridica  di  pieno  rispetto  del diritto di difesa (garanzie per i
sequestri,  diritto di non rispondere, ecc.) e successivamente in una
condizione  giuridica  opposta  e  antitetica  (obbligo di rispondere
assistito   da   sanzioni  formali  e  sostanziali  ).  La  sfasatura
cronologica iniziale non fa venir meno l'antinomia giacche' di regola
le due procedure procedono poi contemporaneamente.
    Vi  e'  dunque un momento necessario e tipico di questa procedura
in  cui  il  contribuente-indagato si trova a dover obbligatoriamente
scegliere  se  rinunciare  ai suoi diritti di indagato (silenzio) per
far  valere  i  suoi  diritti di contribuente ovvero se rinunciare ai
secondi  per far valere i primi esponendosi in tal modo alle previste
sanzioni  tributarie  compresa  l'applicazione  di presunzioni legali
sfavorevoli.
    Ne'  vale  osservare che l'indagato-contribuente sarebbe comunque
garantito  dal  fatto  che  le  risposte  date e verbalizzate in sede
tributaria non sarebbero comunque utilizzabili in sede penale perche'
acquisite  senza  le  necessarie garanzie difensive. Difatti, anche a
non  voler  tenere  conto  della prassi diffusa e quasi generalizzata
secondo  cui  la  G.d.F.  operando addirittura attraverso le medesime
persone  fisiche nella doppia e mutevole veste di polizia giudiziaria
o  di polizia tributaria, suole disinvoltamente riversare i risultati
delle indagini nell'una come nell'altra sede (anche nel caso in esame
si  e'  visto  che  il  PVC  venne  trasmesso al p.m. quale specifica
notitia  criminis  con  tutti  gli allegati compreso l'interpello del
contribuente  e  le  relative  risposte),  occorre  ricordare che nel
complesso  sistema ordinamentale dei rapporti. fra processo penale ed
accertamento  tributario  non  sono  poche  le  normative  specifiche
attraverso  le  quali l'accertamento tributario diventa rilevante nel
processo penale e ne condiziona l'esito.
    La  piu'  recente e piu' generale connessione deriva dall'art. 19
D.lgs.  n. 74/2000,  applicabile  anche retroattivamente in base alla
regola  del  favor rei estesa ormai anche alla materia tributaria, in
materia  di sanzioni tributarie laddove si prevede l'applicazione del
principio  di  specialita' fra sanzioni penali e sanzioni tributarie,
sicche'  in  presenza  di  regole  probatorie  diverse  e divergenti,
possono   facilmente   ipotizzarsi  situazioni  in  cui  la  notevole
divergenza  nei  risultati  dell'accertamento  risulta  difficilmente
componibile  invocando l'applicazione della norma speciale (di regola
quella  penale)  come  e'  nell'ipotesi in cui la soglia di rilevanza
penale  debba  essere definita in relazione al quantum, raggiunto con
la prova tributaria e non con quella penale o viceversa.
    Si    pensi   agli   effetti   sananti   del   concordato   sulle
contravvenzioni,  effetti che derivano direttamente dalla definizione
tributaria    che   e'   necessariamente   misurata   sui   parametri
dell'accertamento,  sicche' l'effetto penale benefico viene vincolato
e   pregiudicato  dalla  tipologia  dell'accertamento.  Assolutamente
identico   e'   il  meccanismoattraverso  il  quale  in  questi  anni
attraverso  la definizione del contesto tributario si e' pervenuti in
varie   forme  (sanatoria,  condono,  regolarizzazione,  ravvedimento
operoso,   ecc.)   anche  alla  definizione  penale.  La  definizione
tributaria  e'  peraltro divenuta istituzionalmente rilevante in sede
penale  nelle  nuove forme dettate dal d.lgs. n. 74/2000 (attenuanti,
risarcimento,  pagamento,  ecc.).  Ancor  piu'  rilevanti nel caso in
esame  sono  i  ricordati  istituti  di  definizione  penale mediante
definizione  tributaria che in varie forme hanno caratterizzato tutti
i periodi d'imposta addebitati ai fratelli Moroni.
    Ancor  piu'  diretta  ed  evidente  e' l'incidenza, come definita
dalla  legge  e  dalla  giurisprudenza, di alcuni atti tributari come
tali  nel  processo  penale.  In  base  all'art. 238 e 238-bis c.p.p.
possono  acquisirsi  al  processo penale le sentenze tributarie anche
non irrevocabili seppure con valenza probatoria comunque limitata, ma
specificamente  disciplinata, genericamente indiziaria per quelle non
irrevocabili  e  con  valenza  ex art. 192 3o comma c.p.p. per quelle
irrevocabili.
    La  giurisprudenza  ha inoltre definito in termini non certamente
rigorosi  l'utilizzabilita'  ex  art. 234 c.p.p. del PVC affermandone
(cfr. da ultimo Cass. pen. Sez. III 5 ottobre 1999 n. 3214) la natura
di  atto  amministrativo extraprocessuale acquisibile come tale salvo
che nella parte compilata successivamente all' insorgere di indizi di
reato,   sicche'   il   limite   all'utilizzabilita'  viene  definito
principalmente  in senso cronologico ed appare pertanto oscillante ed
opinabile.   Sempre   in   riferimento   all'art. 234   c.p.p.  viene
comunemente  ammessa  la  produzione  e  l'utilizzazione dell'atto di
accertamento tributario vero e proprio (avviso, rettifica, ecc.).
    Per   cio'   che   attiene   specificamente   alle  risposte  del
contribuente  per  vincere  la  presunzione  fondata sulle risultanze
degli accertamenti bancari vengono infine in rilevo le ipotesi in cui
il  contribuente,  a  fini  di  difesa  fiscale,  avrebbe interesse a
fornire risposte in ordine ai soggetti beneficiari dei prelevamenti e
cio'  per  evitare  che persino le uscite gli vengano calcolate quale
ricavo  o quale reddito (art. 33 primo comma n. 2 d.P.R. n. 600/1973)
mentre  ai fini penali, vuoi per la natura illecita dei pagamenti (si
pensi  al  comune  sistema  di  ristorno sull'ammontare della fatture
fittizie   ovvero  a  ricompense  o  donativi  non  confessabili,  ma
fiscalmente  detraibili  )  vuoi per l'incidenza che tali indicazioni
avrebbero  sui  reati connessi anche non tributari nei casi in cui si
procede anche per reati comuni: in tali casi appare di tutta evidenza
che   la  difesa  fiscale  implica  rinuncia  alla  difesa  penale  e
viceversa.  La  collocazione  procedurale tributaria di tali risposte
non  garantisce  dal  rischio di riflussi penali data l'identita' dei
verbalizzanti  e  la  prassi generalizzata di trasmissione al p.m. di
tutti  gli atti di accertamento fiscale. Esiste inoltre uno specifico
riflesso  sul  processo  tributario  della mancata o carente risposta
all'interpello  sulle risultanze bancarie dal momento che l'omissione
nella  sede  tributaria  preclude ora ogni integrazione probatoria in
sede   di   giudizio   tributario  vero  e  proprio  (art. 32  d.P.R.
n. 600/1973 terzo e quarto comma).
    Tirando  le  somme riguardo al significato delle varie discipline
elencate  piu'  sopra,  si rileva facilmente che in tutti questi casi
all'esercizio  del  diritto  di non rispondere spettante all'imputato
derivano  per  l'imputato  che  sia  anche  contribuente  conseguenze
automaticamente   negative  sul  piano  tributario  vuoi  nel  merito
(presunzione  legale)  vuoi  in  rito  (divieto di prove successive a
discarico).  Anche  il  diritto  di difesa penale ne risulta comunque
compresso  o sacrificato addirittura, giacche' sia dalla risposta sia
dalla  mancata  risposta  derivano  o possono derivare pregiudizi nel
processo   penale,  sia  in  termini  probatori  sia  in  termini  di
meccanismi definitori mediante monetizzazione.
    L'antinomia fra le due normative compromette dunque il diritto di
difesa  come  configurato  dall'art. 24  della  Costituzione  sia nel
processo  tributario  che  in  quello penale. Questo accade non gia',
come suol dirsi, in ragione del diverso regime probatorio vigente nei
due   processi,   ma   perche'   sullo   specifico  punto  il  regime
istruttorio-probatorio  dell'uno  e' assolutamente inconciliabile con
quello  dell'altro  processo.  Il  problema  non  e' dunque quello di
rendere omogenee le regole probatorie per consentire il trasferimento
delle  prove  dall'uno  all'altro processo e in particolare da quello
tributario  a  quello  penale;  il  problema, molto piu' limitato, e'
soltanto   quello  di  regole  non  confliggenti  sul  medesimo  tema
probatorio  in  modo  da  evitare  che,  come  nella specie, la prova
tributaria  si  identifichi  e consista esclusivamente nell'esercizio
del diritto di non rispondere dell'imputato-contribuente. In tal modo
infatti il diritto di difesa penale e' compromesso dall'obbligo-onere
tributario  e  il  diritto  di  difesa  tributario  viene compromesso
definitivamente dall'esercizio di una facolta' difensiva fondamentale
(silenzio) della persona penalmente inquisita.
    Una  parte  della  giurisprudenza (Comm. Trib: Reg. Venezia, Sez.
XI,  17 dicembre 1998; Comm. Prov. Trib. Vicenza Sez. VII, 5 novembre
1997)  ebbe a suo tempo a percepire l'antinomia di cui si tratta ed a
cercare  di  superarla  escludendo  l'operativita'  della presunzione
legale   ed  affermando  che  gli  accertamenti  bancari  penali  ove
trasferiti  in  sede  penale operano quali presunzioni semplici, vale
dire alla stregua di una regola probatoria ormai identica e comune al
processo tributario come al processo penale.
    Avverso  questa  interpretazione  si  e'  pronunciata tuttavia la
giurisprudenza  piu'  diffusa  e  quasi  unanime  sul  rilievo che la
provenienza  penale  degli  accertamenti  bancari non incide sul loro
valore  probatorio dal momento che la legge non fa distinzione alcuna
e  richiama  espressamente  (secondo  comma n. 2 dell'art.. 51 d.P.R.
n. 633/1972  che richiama testualmente la derivazione penale prevista
dall'art. 63,  primo  comma; identica tecnica di richiamo all'art. 33
terzo   comma   viene   adottata  nel  testo  del  primo  comma  n. 2
dell'art. 32   d.P.R.   n. 600/1973)   le   varie  provenienze  della
documentazione  bancaria  per  parificarne  la  rilevanza  probatoria
presuntiva.
    L'antinomia  e' dunque codificata nelle norme surrichiamate e per
rimuoverne  l'efficacia  negativa  del  diritto di difesa sia in sede
tributaria  che  in  sede  penale occorre invocare l'intervento della
Corte  costituzionale per giudicare della legittimita' costituzionale
degli  effetti che derivano dai richiami contenuti nelle disposizioni
sopra  menzionate,  con  la  precisazione che il problema non si pone
quando  il  processo  penale  sia  gia'  stato  definito con sentenza
irrevocabile.  L'abrogazione  di tali richiami varrebbe a fornire gli
accertamenti  bancari  penali  trasferiti  in  sede tributaria di una
valenza probatoria meramente presuntiva.
    La  questione  di costituzionalita' cosi' come prospettata appare
non  manifestamente  infondata  in  riferimento  all'art. 24, secondo
comma della Costituzione per le ragioni tutte sopra esposte.
    La  questione  appare  inoltre rilevante ai fini della decisione.
Respinta  l'eccezione  di  nullita' degli accertamenti bancari penali
ora  trasferiti  in  sede  tributaria,  tutti  gli  altri  motivi  di
impugnazione  attinenti  all'an debeaturvengono ad essere risolti una
volta stabilita la natura della presunzione operante. Se si tratta di
presunzione  legale  l'accertamento tributario effettuato nella forma
dell'accertamento  parziale  ex art. 53 terzo comma d.P.R.n. 633/1972
appare  ammissibile  atteso  che  non  vi  e'  nulla di piu' "certo e
diretto"   di   una   presunzione   legale;  alcontrario  il  ricorso
all'accertamento   parziale  e'  sicuramente  vietato,  per  espressa
previsione  dell'art. 53,  in  presenza  di  presunzioni semplici. In
presenza   di  presunzioni  semplici  tutte  le  questioni  sollevate
nell'impugnazione  in ordine agli ambiti di competenza della G.d.F. e
degli   Uffici  tributari  nella  procedura  di  contestazione  delle
risultanze  bancarie  risulterebbero  ultronee al contrario di quanto
dovrebbe ritenersi nell'ipotesi opposta.
                              P. Q. M.
    Respinta  l'eccezione  di  nullita' dell'utilizzazione tributaria
degli   accertamenti   bancari  eseguiti  in  sede  penale,  dichiara
rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 51,  secondo  comma  secondo,  n. 2  d.P.R.
26 ottobre 1972 n. 633 limitatamente all'inciso "rilevate a norma ...
dell'art. 63  primo  comma"  e dell'art. 32, comma primo, n. 1 d.P.R.
29 settembre  1973  n. 600 limitatamente all'inciso "rilevate a norma
dell'art. 33  ...  terzo  comma",  in  relazione all'art. 24, secondo
comma della Costituzione;
    Sospende  il  giudizio  in  corso e dispone la trasmissione degli
atti alla Corte costituzionale per la decisione;
    Ordina  che  a  cura della segreteria la presente ordinanza venga
notificata  alle  parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri e
venga  comunicata  al  Presidente  della  Camera  dei  deputati ed al
Presidente  del  Senato della Repubblica, il tutto ai sensi e per gli
effetti  di  cui  all'art. 23  legge della Costituzione 11 marzo 1953
n. 1.
        Ancona, addi' 20 settembre 2000
                   Il presidente estensore: Casula
01C0563