N. 503 ORDINANZA (Atto di promovimento) 7 dicembre 1999
Ordinanza emessa il 7 dicembre 1999 (pervenuta alla Corte costituzionale il 21 maggio 2001) dal Consiglio di Stato sul ricorso proposto dal Ministero della difesa - Stabilimento chimico-farmaceutico di Firenze presso Bracco S.p.a. ed altra. Giustizia amministrativa - Giurisdizione generale di legittimita' del giudice amministrativo e residui ambiti di giurisdizione esclusiva non incisi dalla sentenza della Corte costituzionale n. 146/1987, ne' disciplinati dall'art. 35 d.lgs. n. 80/1998 - Esperibilita' di perizie, accertamenti tecnici e consulenze tecniche d'ufficio - Esclusione - Ingiustificata diversa disciplina rispetto al processo civile - Incidenza sul diritto di azione e di difesa in giudizio - Violazione del principio di tutela giurisdizionale. - Legge 6 dicembre 1971, n. 1034, art. 19; regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, art. 44; regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, art. 26. - Costituzione, artt. 3, 24, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma.(GU n.26 del 4-7-2001 )
IL CONSIGLIO DI STATO Ha pronunciato la seguente ordinanza sul ricorso in appello n.r.g. 2055/1998, proposto dal Ministero della difesa, Stabilimento chimico farmaceutico di Firenze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, presso cui domicilia ex lege in Roma, via dei Portoghesi 12; Contro la Bracco S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; nonche' la Abbot Servizi Diagnostici S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale amministrativo regionale Toscana (sezione I) 7 novembre 1997, n. 498; Visto il ricorso con i relativi allegati; Visti gli atti tutti del giudizio; Relatore, all'udienza del 7 dicembre 1999, il Consigliere Ermanno de Francisco; Udito, per la parte costituita, l'avvocato dello Stato Volpe; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. F a t t o Viene in decisione l'appello avverso la sentenza indicata in epigrafe, che ha accolto il ricorso proposto dalla S.p.a. Bracco contro il provvedimento di aggiudicazione alla Abbot Servizi Diagnostici S.p.a. - in base a licitazione privata indetta dal Ministero della difesa, Stabilimento chimico farmaceutico di Firenze - della fornitura di cinque sistemi analitici di chimica clinica, per la determinazione di droghe d'abuso nelle urine, completi del necessario materiale di consumo e dei relativi kit di reattivi per complessivi n. 300.000 test. Nel corso del giudizio di primo grado - come risulta dalla narrativa in fatto dell'appellata sentenza - il Tribunale amministrativo regionale, con sentenza interlocutoria 21 luglio 1995, n. 405, aveva disposto incombenti istruttori intesi, da un lato, ad acquisire la documentazione tecnica prodotta dalle ditte contendenti in occasione della loro partecipazione alla gara de qua; e, dall'altro, a ottenere una precisa e dettagliata informativa - supportata da appropriate verifiche strumentali - atta a dirimere le perplessita' ravvisate su alcuni punti controversi della questione dedotta in lite. Mentre la prima parte della richiesta istruttoria veniva puntualmente eseguita dall'onerata Amministrazione della difesa, che trasmetteva la documentazione relativa alle offerte tecniche prodotte sia dalla ricorrente Bracco sia dalla controinteressata Abbott, al contrario il profilo piu' squisitamente tecnico-scientifico del predetto ordine istruttorio rimaneva privo di concreto riscontro. Infatti, il Consiglio nazionale delle ricerche - Area della ricerca di Firenze, cui era stato affidato l'incarico, si dichiarava sprovvisto delle specifiche competenze tecniche al riguardo necessarie. Detto Istituto indicava, peraltro, nel prof. Francesco Mari, dell'Istituto di medicina legale dell'Ateneo fiorentino, l'autorita' scientifica in grado di rispondere adeguatamente ai diversi quesiti formulati con la menzionata sentenza. Il Tribunale amministrativo regionale - sulla scorta dell'indicazione ricevuta dal C.N.R. - dava, quindi, incarico al predetto prof. Mari, con l'ulteriore sentenza interlocutoria del 25 ottobre 1995, n. 477, "di effettuare un'articolata verificazione, volta ad accertare, in punto di fatto e sulla base di risultanze oggettive, la rispondenza delle proposte apparecchiature (con le rispettive metodologie) alle condizioni stabilite per la partecipazione alla gara". Il cattedratico dava corso all'incarico ricevuto, depositando nella segreteria del tribunale l'elaborato tecnico dallo stesso redatto. Come si apprende, poi, dall'esposizione in "diritto" della medesima sentenza qui appellata, la verificazione, affidata dalla sentenza istruttoria della sezione al prof. Francesco Mari, titolare della Cattedra di tossicologia forense presso l'Istituto di medicina legale e delle assicurazioni dell'Universita' degli studi di Firenze, ha evidenziato che le due tecniche immuno-tossicologiche EMIT (Bracco) e FPIA (Abbott) sono perfettamente sovrapponibili, sotto il profilo dell'applicabilita' nel campo della ricerca delle droghe d'abuso nelle urine. Peraltro, fermo restando che gli anzidetti metodi analitici si equivalgono completamente in relazione alle finalita' perseguite, risulta sostanzialmente piu' idoneo e, quindi, preferibile, per motivi di praticita', versatilita' economia di tempo e reattivi, il sistema strumentale (ELAN) offerto dalla ditta Bracco, siccome in grado di per se' di eseguire 200 test/ora per l'accertamento urinario delle droghe d'abuso, nonche' in grado di eseguire anche analisi chimico-cliniche. Per contro, l'apparecchiatura tecnica proposta dalla Societa' Abbott e costituita da tre elementi HTDT (nell'opzione avanzata), collegati con un autoanalizzatore di chimica clinica CCX, con funzioni di coordinamento, ma inidoneo ad eseguire i test FPIA per la ricerca delle droghe d'abuso nelle urine, puo' solo teoricamente, operando con sistemi di deposizione in "mode 1" o "mode 12" o "mode 5" e con l'impiego contemporaneo di tutti e tre gli apparecchi, pervenire alla determinazione del dosaggio semiquantitativo delle droghe da abuso nelle urine, con cadenza analitica non inferiore ai 200 test/ora. La possibilita' soltanto teorica di eseguire almeno 200 test/ora nasce dal fatto che, anche se l'uso di particolari programmi particolari velocizza i tempi di lettura delle analisi con una riduzione (per ogni caricatore di 20 campioni) da venti minuti rispettivamente a 17, 15, 13 minuti, devonsi pur sempre considerare i tempi necessari per l'allestimento e posizionamento dei vari caricatori che nella fattispecie devono essere necessariamente in numero di 10. In sostanza, mentre l'associazione di tre apparecchi HTDT con un apparecchio CCX appare come una forzatura resa necessaria solo dal presupposto di dover rientrare necessariamente in un novero di test 200/ora quando gli apparecchi medesimi sono progettati in realta' per un numero inferiore di analisi, l'apparecchiatura della Societa' Bracco si rivela di piu' pratico uso e rispondente ad una effettiva esecuzione (e non solo teorica) di 200 test/ora, in quanto e' dotata di una attrezzatura che consente di ridurre il tempo di carica dei campioni ed e', inoltre, in grado di eseguire analisi chimico-cliniche. Sulla base di tali risultanze dell'esame tecnico svolto dal prof. Mari, il Tribunale amministrativo regionale Toscana giungeva quindi a concludere che, "cio' posto, appare, in ogni caso, evidente che il sistema offerto dalla Societa' Abbott non giustifica la netta preferenza che, con il giudizio di "eccellente , a tale concorrente e' stata accordata, sotto il profilo del controllo di qualita' (punti 5), a fronte della valutazione di "buono , accompagnata dall'attribuzione di soli due punti, formulata con riferimento al sistema proposto dalla ricorrente". Pertanto, oltre che con riguardo al settimo motivo aggiunto, in cui si censura l'insufficienza dell'offerta Abbott sotto il profilo della sua incapacita' a rispettare lo standard minimo dei 200 test/ora, prescritto inderogabilmente dalla lex specialis della gara, il Tribunale amministrativo regionale Toscana affermava che "il ricorso si rivela fondato e, quindi, meritevole di accoglimento, anche nell'ottica del terzo motivo aggiunto, con il quale si lamenta l'irragionevole trasformazione, nell'offerta Abbott, di un obiettivo svantaggio, qual'e' quello rappresentato da una pluralita' di apparecchi gestibili da un'unita' centrale, in una ragione di superiorita', tant'e' che alla controinteressata e' stato attribuito un punteggio maggiore, di ben tre punti, rispetto a quello assegnato alla ricorrente". In conclusione, il Tribunale amministrativo regionale Toscana, sul ricorso della fondatezza dei menzionati motivi del ricorso - oltre che delle due ulteriori censure contenute nel IV e nel V motivo aggiunto - accoglieva il ricorso della Bracco S.p.a. e, respinto il ricorso incidentale della Abbott, annullava l'aggiudicazione della fornitura, compensando tra le parti le spese del giudizio, "tenuto conto della particolare complessita' della materia trattata". Poneva, tuttavia, a carico della societa' soccombente "le competenze spettanti al prof. Francesco Mari, per la verificazione da questi effettuata in ottemperanza alla sentenza interlocutoria n. 477/1995". Avverso tale sentenza ha interposto appello il Ministero della difesa. Non si sono costituite in questo grado le due parti private. D i r i t t o 1. - L'appello formula una sola censura avverso la sentenza gravata. "Tale decisione - secondo l'appellante Ministero della difesa - e' abnorme perche' il Tribunale amministrativo regionale ha deciso la causa sulla base delle risultanze di una vera e propria consulenza tecnica d'ufficio, che come e' noto non e' ammessa nel processo amministrativo in sede di giurisdizione generale di legittimita' (art. 44 t.u. n. 1054/1924, art. 27 [rectius: 26] R.D. n. 642/1907, art. 19 legge n. 1034/1971)". Sostiene l'anzidetta Amministrazione "che la consulenza richiesta al professor Mari non rientra tra i "chiarimenti" e le "verificazioni" di cui all'articolo 44 del T.U. citato, sia perche' questi ultimi devono essere richiesti all'amministrazione e non ad un privato cittadino, sia perche' gli stessi hanno ad oggetto l'accertamento di fatti e non valutazioni tecniche di merito. E' pacifico che le verificazioni consistono in meri accertamenti disposti al fine di completare la conoscenza di fatti che non siano desumibili dalle risultanze documentali laddove, invece, la consulenza tecnica si sostanzia non tanto in un accertamento, quanto in una valutazione tecnica di determinate situazioni da utilizzare ai fini della decisione della controversia. Nella fattispecie non e' un caso che la presunta "verificazione" commissionata al prof. Mari abbia dato luogo ad un documento intitolato "Relazione di consulenza tecnica" in cui si fa espresso riferimento all'incarico "di consulenza tecnica" affidato dal Tribunale amministrativo regionale D'altra parte basta leggere la sentenza interlocutoria n. 477/1995 per rendersi conto che l'incarico e' stato affidato non gia' ad un organo dell'Amministrazione, bensi' direttamente "al prof. Francesco Mari, dell'Istituto di medicina legale dell'Universita' degli studi di Firenze. Tant'e' che nella sentenza impugnata e' stato liquidato al suddetto professionista l'onorario della c.d. "verificazione". 2. - Ritiene la sezione che l'esame di tale unico motivo di appello implichi necessariamente una riconsiderazione del tradizionale divieto di consulenza tecnica d'ufficio nel processo amministrativo di legittimita'. Deve in primo luogo valutarsi se, effettivamente, l'attivita' istruttoria svolta in primo grado abbia trasceso i limiti di una "verificazione". Ritiene la sezione che si imponga, in proposito, una risposta positiva. Sebbene, infatti, il Tribunale amministrativo regionale Toscana abbia tentato, in ossequio alla tradizione, di qualificare come "verificazione" l'accertamento istruttorio disposto nel corso del primo grado del presente giudizio, non sembra esatto sostenere che effettivamente l'incombente svolto sia rimasto entro i limiti connaturati al tradizionale mezzo istruttorio della verificazione. E' evidente che il Tribunale amministrativo regionale abbia inizialmente inteso mantenersi entro l'ambito dei poteri istruttori del giudice amministrativo, risultanti dai citati artt. 26 r.d. 17 agosto 1907, n. 642, 44 t.u. 26 giugno 1924, n. 1054 e 19 legge 6 dicembre 1971, n. 1034; tanto cio' e' vero, che ebbe ad incaricare dell'indagine istruttoria, con la prima sentenza interlocutoria, il Consiglio nazionale delle ricerche. E' noto che ormai la giurisprudenza del tutto prevalente non considera piu' necessario che la verificazione venga svolta dalla stessa amministrazione che adotto' il provvedimento impugnato, come era invece nella logica e nell'intenzione storica del legislatore, sia di quello del 1907, sia di quello del 1924. In casi sempre piu' frequenti, ormai, l'incarico viene affidato ad un'Amministrazione terza; ma pur sempre rimanendo nei limiti di un'esegesi della vigente normativa che, sebbene estensiva o evolutiva, si muove nell'ambito dello strumentario di cui la legge dota il giudice amministrativo. Sembra potersi affermare, infatti, che il limite oggi intrinseco alla verificazione non attenga all'identificazione tra l'amministrazione che adotto' il provvedimento impugnato e quella cui e' commesso l'incombente istruttorio, bensi' alla qualifica dell'Ente verificatore quale pubblica amministrazione in senso soggettivo ed al conseguente obbligo di espletamento dell'incarico da parte del soggetto incaricato per effetto dei suoi doveri derivanti dal rapporto di servizio (cfr. in proposito C.d.S., V, 23 maggio 1984, n. 396, secondo cui "al potere, attribuito al giudice amministrativo, di richiedere la verificazione a cura dell'Amministrazione pubblica ex art. 26 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, corrisponde il dovere della stessa di disporla e, pertanto, il tecnico dipendente che la esegue espleta attivita' di istituto, per la quale possono competere le indennita' per lavoro straordinario e - se del caso - di missione, ma non gli onorari professionali"). Al contrario, nei casi in cui faccia, invece, difetto ogni nesso di causalita' tra la qualifica di pubblico dipendente ed il conferimento dell'incarico, si verifica questa duplice conseguenza: da un lato, si ha l'impossibilita' di fondare nel rapporto cli servizio l'obbligo del soggetto incaricato di ottemperare all'ordine istruttorio del giudice amministrativo; e, dall'altro lato, sorge, per il medesimo incaricato, il diritto al compenso per l'attivita' svolta (appunto in quanto quest'ultima esula dalle funzioni tipiche del dipendente pubblico, nonche' dal correlato sinallagma retributivo). In tali casi sembra esatto ritenere che l'incombente istruttorio si collochi oltre l'ambito della verificazione, per quanto estensivamente ed evolutivamente essa venga intesa, e debba, invece, qualificarsi perizia, accertamento tecnico o consulenza tecnica d'ufficio. Questa, effettivamente, e' la situazione verificatasi nel caso di specie. Va, invero, considerato che - come esattamente rileva l'appellante - l'incarico non e' stato affidato dal Tribunale amministrativo regionale ad un Istituto universitario (sicuramente incardinato nella pubblica amministrazione), ma direttamente ad un docente (che gia' come tale gode, invece, di una qualificata autonomia scientifica e didattica) e per giunta neppure in quanto tale, bensi', uti singulus, in quanto scienziato particolarmente esperto dello specifico settore. Il Tribunale amministrativo regionale ha dapprima tentato - come si e' visto - di rivolgersi ad un soggetto amministrativo (il C.N.R.); ma, constatatane l'inidoneita' allo svolgimento degli accertamenti richiesti, si e' dovuto rivolgere a terzi, e segnatamente ad un luminare del settore (che, solo accidentalmente, era anche un pubblico dipendente, in quanto docente di un'universita' statale; ma che ben avrebbe potuto essere uno scienziato libero professionista, cosi' come un dipendente di una struttura privata). L'esigenza di rivolgersi a esperti estranei all'amministrazione, invero, puo' diventare ineludibile quando siano particolarmente complesse, sul piano tecnico, le indagini necessarie all'accertamento dei fatti. In tali casi, si reputa che il giudice amministrativo debba poter derogare, ricorrendone la necessita' (al pari di quanto, in analoga ipotesi, dispongono il secondo ed il terzo comma dell'art. 22 delle disp. di att. al cod. proc. civ), al normale criterio di affidamento dell'incarico ad "uno o piu' funzionari tecnici dello Stato", di cui all'art. 31 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642. Alla stregua dei rilievi svolti e delle conclusioni sin qui raggiunte, emerge con evidenza la rilevanza, ai fini del decidere sull'unico motivo di appello proposto a questo Consiglio cli Stato, della questione giuridica sottesa all'appello: se, cioe', in casi come quello in esame, sia effettivamente vietato al giudice amministrativo avvalersi, per l'accesso al fatto, di mezzi di prova (o di valutazione di essa) ulteriori rispetto alla verificazione, ed in particolare, per quanto qui interessa e rileva, di perizie, accertamenti tecnici o consulenze tecniche d'ufficio. Ove effettivamente sussista tale divieto, infatti, l'appello proposto dall'Amministrazione dovrebbe essere accolto; in caso contrario, invece, l'unico motivo di gravame dovrebbe essere disatteso. 3. - La questione di costituzionalita' degli artt. 19 legge 6 dicembre 1971, n. 1034, 44 regio decreto 26 giugno 1924, n. 1054, e 26 regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, nelle parti in cui non consentono al giudice amministrativo, nella giurisdizione generale di legittimita' (nonche' nei residui ambiti di giurisdizione esclusiva non incisi dalla sentenza della Corte costituzionale 23 aprile 1987, n. 146, ne' disciplinati dall'art. 35 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80), di avvalersi, per l'accesso al fatto, di perizie, accertamenti tecnici o consulenze tecniche d'ufficio, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione - che questa sezione ritiene di sollevare d'ufficio - risulta, dunque, rilevante alla stregua di quanto si e' sopra osservato, nonche' non manifestamente infondata, in forza delle considerazioni che si svolgeranno in seguito. La questione, peraltro, non e' risolta ne' dall'art. 27 del citato R.D. n. 642 del 1907, ne' dal II comma dell'art. 44 del R.D. 1054 del 1924, in quanto tali norme sono riferite esclusivamente ai casi di giurisdizione estesa al merito, dai quali esula quello in esame. Neppure essa trova soluzione nell'art. 35 del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 80. Infatti, il suo terzo comma, a tenore del quale "il giudice amministrativo, nelle controversie di cui al comma 1, puo' disporre l'assunzione dei mezzi di prova previsti dal codice di procedura civile, nonche' della consulenza tecnica d'ufficio, esclusi l'interrogatorio formale e il giuramento", e' riferito, appunto, ai soli casi di "controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva ai sensi degli articoli. 33 e 34", da cui esula, dunque, la giurisdizione generale di legittimita', cui va ascritta la presente controversia. 4. - Si pone, in primo luogo, il problema dell'ammissibilita' del sindacato della Corte costituzionale sull'art. 26 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642; in ordine al quale, per vero, risposte discordanti sono state fornite in diverse occasioni dalla stessa Corte costituzionale. Chiesta, con sentenza 18 maggio 1989, n. 251, ha ritenuto di dover dichiarare l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale riguardante detto articolo "in quanto il sindacato di disposizioni contenute in atti privi di forza di legge esorbita dalla competenza della Corte costituzionale, al cui giudizio possono essere sottoposti solo gli atti aventi forza di legge. Come e' stato gia' affermato da questa Corte (sentenza n. 118 del 1968) il regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, e' privo di tale forza, essendo stato emanato sulla base dell'articolo 16, primo comma, legge 7 marzo 1907, n. 62, che conferiva all'autorita' governativa il potere di stabilire le modificazioni da apportarsi, fra l'altro, al "regolamento" per la procedura davanti alle sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Essendo stata quindi la stessa legge a qualificare, sia pure indirettamente, la natura dell'atto normativo da emanarsi da parte del governo, e poiche' nulla contraddice nella specie alla qualifica regolamentare risultante dal testo della legge che ha conferito al governo la relativa potesta', non puo' revocarsi in dubbio che si sia in presenza di norme di carattere regolamentare come tali non sottoponibili al sindacato del giudice delle leggi". Va tuttavia osservato, in senso contrario, che la stessa Corte costituzionale, in altra precedente occasione, con la citata sentenza 23 aprile 1987, n. 146, non rilevando tale impedimento, ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale del medesimo art. 26 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, nella parte in cui non ammette l'esperibilita' dei mezzi di prova previsti nel processo civile del lavoro, nei giudizi amministrativi relativi al contenzioso sul pubblico impiego riservati alla giurisdizione amministrativa esclusiva. E cosi', sostanzialmente, ha aderito proprio a proposito della disposizione sui mezzi di prova racchiuse nell'art. 26 - alla opposta tesi della natura primaria della normazione contenuta nel citato regio decreto n. 642 del 1907. Inoltre, ancora con la recentissima ordinanza 21 ottobre 1998, n. 359, la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza (e non gia' l'inammissibilita) di una questione di legittimita' costituzionale dell'art. 47 dello stesso regio decreto 17 agosto 1907, n. 642. E' palese che il contenuto di tale declaratoria postula, implicitamente quanto ineluttabilmente, il riconoscimento della natura primaria della norma sottoposta a verifica di costituzionalita', poiche', altrimenti, la questione sarebbe stata inammissibile, prima ancora che infondata. Ne' puo' negarsi rilievo alla circostanza che la prima sentenza (28 novembre 1968, n. 118) con cui la Corte costituzionale ritenne la natura regolamentare, anziche' di normazione primaria delegata, del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642 - sentenza poi richiamata, quale unico argomento motivazionale, dalla citata pronuncia 18 maggio 1989, n. 251 - e' stata oggetto di puntuale critica da parte di autorevolissima dottrina. Nello stesso senso di quest'ultima, si erano in precedenza pronunciate concordemente, del resto, le prevalenti dottrina e la giurisprudenza amministrative (C.d.S., IV, 22 gennaio 1891, n. 14; IV, 2 aprile 1909, n. 109; A.G. 4 giugno 1924, n. 83), le quali, fondandosi sui principi ricevuti all'epoca dell'emanazione del regolamento circa la distinzione fra esercizio di potesta' legislativa delegata ed esercizio di potesta' regolamentare, qualificavano il regolamento di procedura come atto normativo delegato con contenuto ed efficacia legislativi. Peraltro, nello stesso senso si e' a piu' riprese pronunciata la Corte costituzionale in riferimento al regolamento di procedura della Corte dei conti, approvato con regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038 (cfr., ex plurimus, le sentenze 12 aprile 1973, n. 41, 15 gennaio 1976, n. 8, e 28 luglio 1976, n. 201), parimenti emanato in forza della previsione contenuta nell'art. 32 della legge 3 aprile 1933, n. 255 (ora art. 97 testo unico approvato con regio decreto 12 luglio 1934, n. 1214), a tenore della quale "con decreti reali a relazione del Capo del Governo, primo ministro segretario di Stato, su proposta della Corte dei conti, sono stabilite ... le forme del procedimento nei giudizi della Corte". Non e', quindi, agevole comprendere per quali effettive ragioni di ordine giuridico analoga natura primaria non debba riconoscersi al regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, di cui qui trattasi. In presenza dell'evidenziato contrasto non soltanto tra dottrina e giurisprudenza amministrative, da un lato, e Corte costituzionale, dall'altro, ma anche tra diverse pronunce della stessa Corte costituzionale rese a proposito del medesimo art. 26 del citato regio decreto n. 642/1907, sembra opportuno includere anche la norma teste' citata tra quelle che vengono, con la presente ordinanza, rimesse all'esame del giudice delle leggi. La soluzione opposta - che implicherebbe un sindacato diffuso del giudice amministrativo, mediante lo strumento della disapplicazione, sulla legittimita' anche costituzionale del regolamento di procedura che dovrebbe guidare l'azione processuale di quello stesso giudice - non sembra, infatti, la piu' ragionevole. Percio' essa non puo' essere seguita, almeno fino a quando non vi sara' stato, sul punto, un pronunciamento definitivamente dirimente della Corte costituzionale sulla natura, primaria o secondaria, della normazione processuale amministrativa in discorso. Si consideri anche, in proposito, quanto sarebbe incongruo ritenere affidata gran parte della normazione processuale amministrativa ad una fonte secondaria, sostanzialmente inidonea ad incidere sulle situazioni giuridiche soggettive e sui corrispondenti poteri processuali delle parti in causa e, percio', continuamente esposta al rischio della disapplicazione (in favore della normativa processuale comune, di cui al vigente codice di rito). Il che ingenererebbe, da un lato, incertezza giuridica e, dall'altro, frustrazione dei significativi elementi di specificita' che caratterizzano, tuttora, il processo amministrativo. 5. - In secondo luogo - e venendo cosi' a trattare della non manifesta infondatezza della sollevata questione di costituzionalita' - sembra opportuno trattare del rapporto tra giudice amministrativo e fatti di causa, anche in riferimento ai giudizi tecnici a valle (o talora a monte) dei quali si innesta la vera e propria discrezionalita' amministrativa. Vi e' accordo, in dottrina, nel ritenere ancor oggi valida la definizione dell'attivita' amministrativa come cura concreta del pubblico interesse; dal che si fa derivare che il fondamento dell'organizzazione della pubblica amministrazione debba essere coerente e funzionale al raggiungimento di tale fine, altresi' desumendone che sia compito essenziale del giudice amministrativo quello di verificare - e, quindi, di poterlo fare con tutta l'incisivita' compatibile col momento storico di riferimento - il corretto uso del potere discrezionale (vincolato, cioe', nei propri scopi) da parte della pubblica amministrazione. Dal rilievo che il giudizio di legittimita' sull'atto amministrativo, cioe' il c.d. giudizio di annullamento, si vada trasformando in giudizio di piena giurisdizione (atto, cioe', a tutelare diritti ed interessi in relazione alla situazione fatta valere), la piu' recente dottrina trae spunto per affermare che il giudice amministrativo, per poter assolvere le sue funzioni, deve conoscere al meglio la fattispecie; vale a dire, in altri termini, che deve conoscere fino in fondo il fatto alla base del caso sottoposto al suo esame. Tale conoscenza assume ormai, anche in questo tipo di giudizi, un ruolo centrale assai maggiore di quello avuto in precedenza. Innanzitutto, il giudice deve, essere munito di tutti gli strumenti idonei ad una piena verifica del fatto: che sono, in generale, gli strumenti probatori disciplinati, con la forza di un'antica tradizione, dal codice di procedura civile; e tra essi, in particolare, la consulenza tecnica o, se si preferiscono diverse dizioni, l'accertamento tecnico o la perizia. La prevalente dottrina non dubita che il potere di indagine attribuito al giudice amministrativo per consentirgli il pieno accesso al fatto costituisca un aspetto, certamente non secondario, dell'effettivita' della tutela giurisdizionale, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione. In proposito, come peraltro si e' gia' poc'anzi accennato, si sostiene da piu' parti in dottrina - forse anche per effetto di stimolanti suggestioni comparatistiche - che il riconoscere l'oggetto della cognizione del giudice amministrativo nel rapporto giuridico dedotto in giudizio (anziche' nell'atto impugnato), postuli necessariamente un piu' ampio ed adeguato strumentario istruttorio, nel cui ambito non possa prescindersi dalla consulenza tecnica come mezzo di conoscenza e di valutazione tecnico-scientifica della realta' fenomenica su cui vada ad incidere l'esercizio del potere di amministrazione attiva. Ne' e un caso che ipotesi di parziale riforma della giustizia amministrativa in corso di esame da parte del Parlamento prevedano modifiche normative atte ad estendere anche al giudizio di legittimita' (il principale ambito cui essa rimane, ad oggi, ancora estranea) la possibilita' del giudice amministrativo di disporre la consulenza tecnica d'ufficio quale ulteriore mezzo di prova o - piu' esattamente ed in aderenza alla sua configurazione ad opera del vigente codice di procedura civile - di valutazione della stessa. Sotto altro profilo, giova ricordare l'improprieta' - piu' volte rimarcata dalla dottrina a fronte degli abusi della pratica - del concetto che viene usualmente compendiato nel termine "discrezionalita' tecnica" chiesto, in realta', dovrebbe esprimere un accertamento tecnico dei fatti avente carattere oggettivo (e dunque privo di profili discrezionali), a valle del quale si innesta, invece, tutta la pienezza valutativa insita nelle scelte amministrative propriamente discrezionali. Sulla base dello stesso ordine di ragioni, larga parte della dottrina attuale considera spuria, o impropria, anche la nozione della c.d. "discrezionalita' mista": invero, in tutti i casi in cui il giudizio tecnico preceda, segua o si innesti in un apprezzamento di interessi, i due momenti devono restare, almeno a livello concettuale, nettamente distinti tra loro. Da cio' la conclusione, diffusa in dottrina, che il giudizio tecnico dell'amministrazione pubblica deve poter formare oggetto di sindacato giurisdizionale. La stessa giurisprudenza ha fatto propria tale conclusione, giungendo, recentissimamente, "ad una riconsiderazione dell'argomento"; si e' cosi' chiarito da parte del Consiglio di Stato, IV, 9 aprile 1999, n. 601) che "la discrezionalita' tecnica ... e' altra cosa dal merito amministrativo. Essa ricorre quando l'amministrazione, per provvedere su un determinato oggetto, deve applicare una norma tecnica cui una norma giuridica conferisce rilevanza diretta o indiretta". E' noto, del resto, che, secondo una tesi suggestiva, la regola tecnica dovrebbe sempre considerarsi recepita nella fattispecie normativa, in quanto l'amministrazione sarebbe vincolata ad agire razionalmente, cioe' secondo i canoni di una societa' tecnologicamente avanzata, in forza del principio ricavabile da un'esegesi evolutiva dell'art. 97, primo comma, della Costituzione. Ne', comunque, possono ipotizzarsi profili di "sconfinamento nella sfera del merito" da parte del giudice amministrativo che (in qualsiasi modo e con qualunque mezzo) "indaghi sui presupposti di fatto del provvedimento impugnato", come pacificamente riconoscono le sezioni unite, della Corte di cassazione adite - ex artt. 111, ultimo comma, Costituzione e 36 legge n. 1034/1971 - per motivi inerenti la giurisdizione (cosi' Cass. 5 agosto 1994, n. 7261; cfr. anche, nello stesso senso, cass. 14 marzo 1984, n. 1736, e cass. 2 febbraio 1977, n. 456). "Anzi, il potere di accertare i presupposti di fatto del provvedimento impugnato viene considerato come lo specifico della giurisdizione amministrativa di legittimita'" (C.d.S., IV, n. 601/1999, citata). "Del resto, e' ragionevole l'esistenza di una "riserva di amministrazione" in ordine al merito amministrativo, elemento specializzante della funzione amministrativa; non anche in ordine all'apprezzamento dei presupposti di fatto del provvedimento amministrativo, elemento attinente ai requisiti di legittimita' e di cui e' ragionevole, invece, la sindacabilita' giurisdizionale" (n. 601/1999, citata). Si puo' affermare, in sostanza, che, anche quando il legislatore non riproduce nella norma giuridica quella tecnica, quest'ultima sia, comunque, oggetto di controllo giurisdizionale. Nel primo caso, ovviamente, si tratta di un controllo piu' diretto ed automatico, in quanto la violazione della norma tecnica da parte dell'amministrazione riverbera di per se' in violazione della legge che ne ha recepito il contenuto; nel secondo caso, il controllo del giudice passa (comunque, pur a prescindere dal richiamo all'art. 97 della Costituzione) attraverso l'uso dei tradizionali strumenti di verifica sintomatica elaborati dalla giurisprudenza (eccesso di potere per travisamento dei fatti, per falsita' dei presupposti, per difetto di istruttoria, per irrazionalita', etc.). Anche il tema della razionalita' della scelta tra diversi procedimenti o mezzi tecnici che, in ipotesi, si prospettino come - alternativi tra loro, costituisce a sua volta un problema tecnico o scientifico, la cui soluzione, se non pregiudicata dalle scelte del legislatore, deve poter essere controllata da parte del giudice. Ne deriva che la rilevanza della tecnica, nel processo d'interpretazione e valutazione giudiziale dell'attivita' posta in essere dalla pubblica amministrazione, non puo' mai essere disconosciuta. Dall'interpretazione della norma agendi non possono essere artificiosamente escluse le regole tecniche, che concorrono a determinare il comportamento dell'amministrazione (in ordine alla cui razionalita', in ipotesi, sia stato invocato il controllo giurisdizionale). E' stato in proposito osservato, da una dottrina, che la circostanza che il giurista non sia piu' in grado, oggi, di comprendere da solo la norma agendi, per quale risultante dall'integrazione con i principi delle regole di una determinata scienza o tecnica, e' constatazione tanto ovvia quanto inconcludente. Se, infatti, la pretesa del giurista ad una sorta di esclusiva assoluta nell'interpretazione della norma sembra ormai del tutto insostenibile agli occhi della citata dottrina, e' anche vero - per contro - che il diritto processuale ha da tempo reso possibile la piena verifica giurisdizionale della corretta ed esatta applicazione delle norme tecniche, da parte di tutti i soggetti tenutivi, mediante il ricorso a perizie, accertamenti tecnici e consulenze tecniche d'ufficio. Tali strumenti processuali permettono l'acquisizione dei fatti sui quali deve fondarsi la decisione giuridica della causa, nonche' la loro valutazione sotto il profilo tecnico, e dunque senza alcun pregiudizio dell'ambito di cognizione del giudice (il quale peraltro, se e' in grado, quale peritus peritorum ha, comunque, titolo per interloquire, in ultima istanza, anche sul predetto profilo tecnico). Quanto appena esposto viene di solito riconosciuto valido, almeno in linea di principio, anche nei confronti della pubblica ammmistrazione, ma - come si e' autorevolmente rilevato in dottrina - con cautela estrema e spesso con riserve non sufficientemente argomentate; con la conseguenza che, nella concreta esperienza giurisdizionale amministrativa, tale verifica viene effettuata solo in certi casi, e generalmente entro limiti piuttosto angusti (che, peculiarmente, talora coincidono con la concreta attitudine del giudice ad attingere ai giudizi tecnici su cui sono basate le scelte dell'ammmistrazione). Viceversa, ammettendo che il giudice amministrativo possa ricorrere - ove necessario - a mezzi di prova del fatto, e di relativa valutazione tecnica, come le perizie, gli accertamenti tecnici e le consulenze tecniche d'ufficio, si eliminerebbero aree di privilegio amministrativo ormai generalmente percepite come del tutto incompatibili con i principi elementari dello Stato di diritto ed integranti, nella sostanza, sacche di ingiustificata esenzione dalla giurisdizione. Queste si risolvono, in chiave costituzionale, in effettive limitazioni dei principi di uguaglianza e di ragionevolezza (art. 3 Costituzione) di tutela degli interessi legittimi degli amministrati (art. 24, primo e secondo comma, e art. 113, primo comma, della Costituzione), e che concretano una sostanziale esclusione (sopratutto, in determinati ambiti altamente tecnologici) della possibilita' di censurare in sede giurisdizionale il vizio di eccesso di potere per travisamento dei fatti, per falsita' dei presupposti, per difetto di istruttoria, per irrazionalita' della scelta tecnica operata dall'amministrazione, etc. (art. 113, secondo comma, della Costituzione). Nelle fattispecie indicate, solo il ricorso ai mezzi istruttori in discorso sembra poter consentire quella definitiva disaggregazione dei profili tecnici dall'esercizio del potere amministrativo, in difetto della quale alcune scelte comportamentali dell'amministrazione, che dovrebbero adeguarsi a precise regole tecniche, finiscono per essere, incongruamente, del tutto insindacabili sul piano concreto. Assai spesso, nella prassi giurisprudenziale, pur senza ricorrere all'ausilio di un consulente il giudice amministrativo verifica direttamente il presupposto tecnico del provvedimento sulla scorta di un criterio meramente probabilistico (l'evidente rischio di errori e' tanto piu' alto quanto piu' elevata sia la complessita' tecnica della fattispecie). Altre volte, invece, il giudice procede ai riscontri in discorso mediante il ricorso ad una verificazione, demandata, come si e' detto, alla stessa o ad un'altra amministrazione. Tutto questo e' perfettamente legittimo e praticamente assai utile, almeno nella maggior parte dei casi. Vi sono, tuttavia, fattispecie in cui cio', semplicemente, non e' possibile; ad esempio, per incapacita' tecnica dell'amministrazione di eseguire una verificazione scientificamente affidabile, come appunto e' accaduto, per dichiarazione dello stesso C.N.R., nella controversia dedotta nel primo grado del presente giudizio. Non puo' dubitarsi che vi siano casi in cui la valutazione c.d. tecnica dell'organo amministrativo impinge nelle scelte di merito allo stesso demandate. Tra questi vanno certamente compresi quelli in cui la scelta dell'amministrazione si basa sulle risultanze di discipline insuscettibili di un apprezzamento "neutrale" (caratterizzato, cioe', dall'indifferenza del risultato valutativo rispetto all'osservatore), come quando devono utilizzarsi criteri di ordine sociale, storico, artistico, estetico, etc., in cui nel giudizio sul valore culturale e' gia' insita la ponderazione dell'interesse pubblico alla prevalenza di un determinato bene rispetto ad un altro. In altri casi, per contro, riesce difficile comprendere perche' l'accertamento demandato al giudice amministrativo non debba estendersi al riscontro dell'esattezza degli apprezzamenti compiuti dall'amministrazione. Cio', in particolare, quando si pongano problemi relativi a fatti o situazioni che siano suscettibili di controllo tecnico sulla base di una disciplina che, sia pure entro l'ampio ambito di relativismo che e' connaturato ad ogni branca del sapere scientifico, possa assimilarsi, o quantomeno accostarsi, alle c.d. "scienze esatte". Tra queste vanno ascritte, ad esempio, la fisica, la matematica, la chimica e l'ingegneria; nonche', ma solo entro certi ambiti, la biologia, la medicina, etc. Queste ultime due partecipano talora dei connotati delle "scienze esatte", essendo passibili di apprezzamenti oggettivi, e talora, invece, di quelli delle "scienze umane", caratterizzate cioe' da apprezzamenti soggettivamente condizionati e, dunque, non neutrali. Precludendo al giudice la possibilita', anche astratta, di compiere gli anzidetti riscontri e la "verifica diretta dell'attendibilita' delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto a criterio tecnico ed a procedimento applicativo" (C.d.S., IV, n. 601/1999, citata), in qualche caso l'interesse legittimo di una parte processuale potrebbe scadere ad oggetto di una tutela meno intensa e rigorosa in violazione del canone di cui all'art. 113, secondo comma, della Costituzione. Invero, l'annullamento invocato dal ricorrente potrebbe essere talora precluso dall'inesatta ascrizione all'insindacabile ambito del merito anche di quei giudizi dell'amministrazione che, invece, dovrebbero essere frutto esclusivo della corretta utilizzazione di criteri tecnici "neutrali". Una parte della dottrina, estremizzando il discorso oltre il necessario, ha contestato - non ritenendola suffragata da valide argomentazioni - la distinzione tra accertamenti (direttamente controllabili dal giudice) ed apprezzamenti (insindacabili in quanto afferenti al merito). Non occorre, verosimilmente, giungere a tanto per rendersi conto del fatto che gli accertamenti integralmente controllati dalla tecnica non possono essere posti sullo stesso piano della ponderazione d'interessi. Ne' la relativa opinabilita' di ogni giudizio tecnico-scientifico (che deve essere affrontata nel suo corretto ambito prospettico) puo' implicare l'astratta esclusione di ogni sindacato giurisdizionale in proposito. Il giudizio tecnico scorretto (e, quindi, probabilmente falso) non puo' continuare ad equipararsi a un giudizio di opportunita' forse opinabile, ma tuttavia fondato, a monte, su una corretta applicazione della regola tecnica. Mentre in quest'ultima ipotesi effettivamente si e' in presenza di una questione di merito, insindacabile, di norma, dal giudice amministrativo, nel primo caso e' riscontrabile, invece, un vero e proprio vizio di legittimita' dell'atto: cio' tanto se la falsita' del giudizio derivi dall'applicazione di un criterio tecnico scientificamente riconosciuto inadeguato, quanto se discenda da operazioni materiali non corrette o insufficienti dell'amministrazione che ha operato l'apprezzamento. A ben vedere, la controversa distinzione, di cui si e' detto, tra accertamenti ed apprezzamenti puo' ancora avere una propria utilita', ove venga utilizzata per demarcare - alla stregua del contingente stato di sviluppo tecnico-scientifico di ciascuna disciplina nel singolo contesto storico e sulla base della conseguente esistenza, o meno, di regole tecniche univoche, oggettive o neutrali - il confine tra due gruppi di ambiti. L'uno nel quale siano possibili, per quanto applicativamente complesse, misurazioni e valutazioni le cui risultanze costituiscono oggetto, secondo il comune sentire, di generale e convinta accettazione (atti che, convenzionalmente, possono qualificarsi "accertamenti tecnici"), se l'altro in cui ogni misurazione e valutazione assuma necessariamente connotazioni di equivocita', soggettivita' e "non neutralita'", come tipicamente accade per tutti i fenomeni umani, sociali e culturali, definibili, per analoga convenzione, "apprezzamenti tecnici". Solo in riferimento agli apprezzamenti, nel significato predetto, residua spazio per un concetto di "discrezionalita' tecnica", che sia al contempo distinta dal merito amministrativo in senso stretto e, purtuttavia, allo stato, ancora esclusa dalla cognizione e dal sindacato diretto del giudice amministrativo di legittimita'. Invece - ed e' questo cio' che effettivamente rileva ai fini della sollevata questione di legittimita' costituzionale - in nessun caso il concetto in parola potrebbe essere fondatamente invocato per escludere, o limitare, gli strumenti istruttori di accesso al fatto e relativa valutazione sotto il profilo tecnico da parte del giudice amministrativo, in relazione a quanto si e' sopra fatto confluire nel novero dei c.d. accertamenti tecnici. Si e' gia' detto, del resto, che la possibilita' di una verifica in sede giudiziaria degli accertamenti tecnici non inficia l'insindacabilita' nel merito, in tale sede, della scelta propriamente discrezionale, collocata, appunto, a valle della valutazione tecnica dell'amministrazione. Analoga conclusione si avra' nei casi, piu' complessi sul piano pratico, ma concettualmente non dissimili, in cui una serie di scelte effettivamente discrezionali si intersecano, in momenti successivi, con un'altra serie di accertamenti tecnici - eventualmente compiuti su base probabilistica, anziche' strettamente eziologica - che di tali scelte costituiscano le premesse ovvero le conseguenze intermedie o finali. In tutti questi casi, il giudice amministrativo - esercitando correttamente i propri poteri istruttori, auspicabilmente pieni, di accesso al fatto (anche quando questo sia altamente qualificato e complesso sul piano tecnico) - sindachera' le valutazioni propriamente discrezionali dell'amministrazioni non gia' per se stesse, ma per l'erroneita' nella valutazione dei presupposti o per l'incongruita' o illogicita' della soluzione prescelta rispetto ai risultati dell'indagine di fatto. Ritiene la sezione che il giudice amministrativo debba avere in ogni caso (anche in quelli, verosimilmente contenuti sul piano numerico, in cui sia in effetti impossibile far eseguire un'attendibile verificazione da una pubblica amministrazione) gli strumenti istruttori adeguati per sottoporre a verifica diretta le c.d. operazioni tecniche svolte dall'amministrazione, al fine di vagliarne la correttezza e, quindi, di poter annullare l'atto impugnato se il giudizio tecnico dell'amministrazione risulti - come e' avvenuto nella vicenda in esame - inattendibile, o anche solo scarsamente verosimile. Ne' cio' implica sostituzione, nei casi dubbi od opinabili, del giudizio del giudice (eventualmente forgiato dall'attivita' del suo consulente tecnico) a quello dell'amministrazione. Posto, infatti, che e' affermazione sin troppo ovvia che nessun dubbio di carattere scientifico puo' essere risolto con lo strumento del pubblico potere, rimane da chiarire che quando il risultato della verifica giudiziale si sia positivamente concluso, nel senso che il giudizio tecnico dell'amministrazione risulti corretto pur se opinabile, anche il sindacato giudiziale di legittimita' deve ritenersi positivamente esaurito, nel senso della legittimita' del provvedimento finale. Analoga conclusione dovra' raggiungersi in tutte le ipotesi in cui la tecnica fornisca criteri alternativi di indagine o di soluzione di un problema, i quali, in difetto di una scelta da parte del legislatore, devono considerarsi, legittimamente, alternativi tra loro. Il corretto uso - quando necessario - degli strumenti di indagine tecnica di cui si sta trattando da parte del giudice amministrativo sembra indispensabile, sia per evitare che, nei casi cui si e' piu' volte fatto cenno, il sindacato sull'eccesso di potere si esaurisca in un controllo prevalentemente formale, cioe' esterno rispetto alle operazioni e valutazioni tecniche compiute dall'amministrazione, sia per giungere fino alla verifica diretta della congruita' e ragionevolezza anche scientifica di tali operazioni e valutazioni, nelle quali il provvedimento finale abbia trovato causa. Tuttavia, una volta affermata in tali termini la necessita' di una piena conoscenza giudiziale dei fatti - senza la quale, come si e' detto, il sindacato sull'eccesso di potere perde gran parte del suo significato - deve pur sempre riconoscersi che al diretto controllo del giudice sfugge, comunque, il momento centrale del processo decisionale, vale a dire quello in cui vengono svolte la valutazione comparativa e la determinazione del valore dell'interesse pubblico primario affidato alla cura dell'amministrazione attiva, in rapporto con tutti gli altri intere ssi secondari, pubblici e privati, coinvolti nella vicenda deliberativa di cui trattasi. Non vi e', dunque, alcun timore che possa ingenerarsi confusione concettuale tra verifica tecnica e insindacabilita' delle scelte di merito compiute dall'amministrazione. 6. - Non sembra che la questione di legittimita' costituzionale sollevata con la presente ordinanza possa risultare, alla stregua di quanto fin qui osservato, manifestamente infondata in relazione ai principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza 18 maggio 1989, n. 251. Al riguardo e' soltanto da rilevare con riferimento detta pronunzia: a) la differenza di contenuto dell'ordinanza di rimessione del 29 gennaio 1988 con la quale il Tribunale amministrativo regionale della Valle d'Aosta aveva denunciato i limiti probatori derivanti dagli artt. 26 regio decreto n. 642/1907, 44 regio decreto n. 1054/1924 e 8 legge n. 1034/1971, unicamente quanto alla cognizione incidentale delle questioni pregiudiziali relative a diritti, devoluta al giudice amministrativo; b) l'individuazione dei parametri costituzionali esclusivamente negli artt. 3 e 24 della Costituzione, e non anche nell'art. 113, seconda comma, della Costituzione. Del resto, e' nella stessa citata sentenza n. 251/1989 che viene affermato il principio "che il giudice amministrativo, nell'esercizio dei suoi poteri" istruttori, deve essere in grado di "pervenire nel modo piu' esauriente all'accertamento dei fatti su cui si fondano le rispettive pretese delle parti". Deve convenirsi, infatti, che "la maggiore ampiezza possibile del sindacato sull'esercizio dei pubblici poteri non postula percio' necessariamente l'estensione al processo amministrativo di legittimita' di tutti i mezzi di prova ammessi per altri tipi di processi", tant'e' che la presente ordinanza non solleva affatto la questione della prova testimoniale, di cui invece lamentava la mancanza la suindicata ordinanza del Tribunale amministrativo regionale della Valle d'Aosta. Anzi, proprio in considerazione della "prova testimoniale ..., e delle limitazioni che ... [ne] conseguono" la Corte costituzionale aveva affermato "l'impossibilita' di un automatico trapianto nel processo amministrativo di legittimita' del sistema probatorio proprio del processo civile, in quanto la sussistenza di quelle limitazioni, peculiari del processo civile, richiederebbe, comunque, un'operazione di adattamento che non potrebbe certo conseguire alla pronuncia addittiva di questa corte auspicata dal giudice a quo, bensi' ad una articolata disciplina legislativa". E stata, peraltro, la stessa Corte costituzionale ad affermare, sempre nella motivazione della sentenza de qua, che "la possibilita' del permanere di una tipologia differenziata di processi ... non contrasta con il parametro costituzionale invocato (art. 24, primo e secondo comma, della Costituzione) sempre che ciascuna disciplina soddisfi al tipo di garanzia che si intende assicurare", e "potendosi censurare la scelta del legislatore soltanto se risulti inidonea a garantire la tutela giurisdizionale". Sulla base delle esposte considerazioni, si riscontra, appunto, l'inidoneita' dell'originaria scelta legislativa - preclusiva di adeguati mezzi di indagine tecnica - a garantire in ogni caso la piena tutela giurisdizionale, imposta oggi (a differenza di quando la giustizia amministrativa venne forgiata) dalla Costituzione. Ne' rileva che cio' avvenga in ipotesi non particolarmente numerose, essendo sufficiente, per la declaratoria di illegittimita', che l'incostituzionalita' si verifichi in specifico riferimento all'applicazione di cui la norma denunciata sarebbe passibile nel singolo caso che ha dato origine alla rimessione alla Corte costituzionale, cioe' in quello deciso dalla sentenza qui appellata. 7. - Da ultimo, non puo' farsi a meno di sottolineare il parallelismo - cui si e' gia' accennato - esistente tra l'art. 31 del regio decreto 17 agosto 1907, n. 642, e l'art. 22, primo comma, delle disp. di att. al cod. proc. civ., nel senso che entrambe tali norme indicano, per i due diversi sistemi processuali di rispettivo riferimento, quale debba essere il normale criterio di individuazione del perito o consulente tecnico, e che entrambe sono derogabili, con conseguente liberta' di scelta dell'ausiliario del giudice allorche' ricorrano peculiari motivi, da indicare nel provvedimento di nomina. Siffatto parallelismo sembra elidere, in radice, ogni possibilita' di ipotizzare l'inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale sollevata con la presente ordinanza in conseguenza della mancata istituzione, presso i giudici ammmistrativi, di un albo dei consulenti tecnici, analogo a quello previsto presso i tribunali ordinari dagli artt. 13 e ss. delle disp. di att. al cod. proc. civ.. In forza dell'art. 31 del R.D. n. 642/1907, infatti, di norma il giudice amministrativo - ove non reputi idoneo per una sufficiente conoscenza dei fatti di causa il consueto strumento istruttorio della verificazione - "per l'esecuzione di perizie", accertamenti tecnici o consulenze tecniche d'ufficio incarichera' "uno o piu' funzionari tecnici dello Stato" (o di altro Ente pubblico). Nei congrui casi, lo stesso giudice, indicando nel provvedimento i motivi della scelta, potra' conferire l'incarico a persone iscritte in altri albi (per esempio, quelli tenuti presso i tribunali ordinari) ovvero a persone non iscritte in alcun albo (cfr. art. 22, secondo e terzo comma, delle citate disposizioni di attuazione), allorche' queste siano le uniche idonee a svolgere adeguatamente i conferendi compiti di indagine tecnica. Evidentemente, dunque, non sembra potersi porre, per i mezzi istruttori di cui si sta trattando, quel problema di "impossibilita' di automatico trapianto nel processo amministrativo di legittimita'", che la motivazione della sentenza di Corte costituzionale 18 maggio 1989, n. 251, citata, aveva ravvisato, invece, per la prova testimoniale. 8. - In conclusione, la sezione ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di costituzionalita' di cui in dispositivo, che pertanto, con la presente ordinanza, viene rimessa al vaglio della Corte costituzionale. Il giudizio rimane sospeso fino alla pronuncia di quest'ultima.
P. Q. M. Visti gli artt. 1, legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1, e 23, legge 11 marzo 1953, n. 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 19 della legge 6 dicembre 1971, n. 1034, dell'art. 44 r.d. 26 giugno 1924, n. 1054, e dell'art. 26 r.d. 17 agosto 1907, n. 642, nelle parti in cui il complessivo sistema probatorio risultante da tali norme non consente al giudice amministrativo, nella giurisdizione generale di legittimita' e negli altri ambiti di cui in motivazione, di avvalersi, ai fini dell'accesso al fatto, di perizie, accertamenti tecnici o consulenze tecniche d'ufficio, per contrasto con gli artt. 3, 24, primo e secondo comma, e 113, primo e secondo comma, della Costituzione, sotto i profili di cui in motivazione. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale e sospende il giudizio. Ordina che, a cura della segreteria della sezione, il presente provvedimento sia notificato alle parti in causa, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Cosi' deciso in Roma, addi' 7 dicembre 1999. Il Presidente: Catallozzi Il consigliere estensore: De Francisco 01c0607