N. 897 ORDINANZA (Atto di promovimento) 13 luglio 2001

Ordinanza  emessa  il  13  luglio  2001  dal  tribunale  di  Rovereto
sull'istanza proposta da Vivaldelli Maurizio

Leggi penali - Successione nel tempo - "Intervento di legge penale in
  senso  favorevole  al  condannato"  (nella  specie: abrogazione del
  reato  di  oltraggio  a  pubblico ufficiale e assoggettabilita' dei
  fatti  al reato di ingiuria, con diverso regime di procedibilita' e
  di pena) - Modifica della sentenza di condanna passata in giudicato
  - Preclusione - Disparita' di trattamento - Incidenza sul principio
  di  liberta'  personale - Lesione del principio di offensivita' del
  reato - Violazione del principio di proporzionalita' della pena.
- Cod.   pen.,   art. 2,  comma  terzo,  in  combinato  disposto  con
  l'art. 673 cod. proc. pen.
- Costituzione,  artt. 3,  primo  comma,  13,  25, comma secondo, 27,
  comma terzo.
Invia  subordinata:  Reati e pene - Oltraggio a pubblico ufficiale -
  Configurabilita'  come autonomo reato anziche' quale aggravante del
  reato di ingiuria - Mancata previsione del regime di procedibilita'
  a  querela  di  parte - Mancata previsione della pena pecuniaria in
  alternativa  alla  pena  detentiva  - Disparita' di trattamento tra
  pubblico  ufficiale  e privato cittadino - Lesione del principio di
  tassativita'  della  fattispecie  penale  - Violazione dei principi
  della  finalita'  rieducativa  della pena e di buon andamento della
  pubblica amministrazione.
- Cod. pen., art. 341.
- Costituzione, artt. 1, secondo comma, 3, primo e secondo comma, 25,
  secondo comma, 27, terzo comma, 28, 54 e 97, primo comma.
(GU n.44 del 14-11-2001 )
                            IL TRIBUNALE

    Letta l'istanza presentata in data 16 maggio 2001 e depositata in
Cancelleria  in  data  17  maggio  2001  dall'avv. Mario Dapor, quale
difensore  di  fiducia  di Maurizio Vivaldelli, attualmente ristretto
presso  la  casa circondariale di Rovereto in esecuzione pena, intesa
ad  ottenere,  in  primo  luogo,  l'applicazione della disciplina del
reato  continuato,  a  norma dell'art. 671 c.p.p., alle pene irrogate
con  le  condanne  irrevocabili  sub 1, 3 e 4 provvedimento di cumulo
Procura della Repubblica di Rovereto n. 36/01 RES.
    Precisamente le condanne in questione sono:
        1.  Corte  di  Appello  di  Trento  di  data  6 novembre 1998
irrevocabile il 7 febbraio 2000 (di parziale riforma a Pret. Rovereto
5  ottobre  1995) a mesi 6 di reclusione e L. 300.000 di multa per il
reato di furto aggravato commesso in Ala nell'aprile 1993;
        2.   Corte   di   Appello  di  Trento  del  13  aprile  2000,
irrevocabile  l'8 febbraio 2001 (a seguito di sentenza della Corte di
Cassazione di pari data che dichiarava estinti i reati sub B., C., I.
ed M. dell'imputazione, per intervenuta prescrizione, ed eliminava la
relativa  pena  di  mesi  5 e giorni 10 di reclusione e L. 500.000 di
multa),  ad  anni 2, mesi 9 e giorni 20 di reclusione e L. 650.000 di
multa  per  i  reati  di  detenzione  e porto di arma comune da sparo
(art. 10,  12  e  14  legge n. 497 del 1974) e di detenzione, porto e
contraffazione  di  arma  clandestina  (art. 23 legge 18 aprile 1975,
n. 110), commesso il primo a Rovereto il 15 maggio 1993 ed il secondo
in  Vallarsa  e  Rovereto il 10 ottobre 1991 ed in epoca successiva e
prossima.
        3.   tribunale   di   Rovereto   di  data  21  gennaio  2001,
irrevocabile  il 16 marzo 2001 alla pena di anni 2 di reclusione e L.
500.000 di multa per i reati di furto e di detenzione e porto di arma
comune da sparo (art. 10, 12 e 14 legge n. 497 del 1974), commessi il
primo  il  18  aprile  1993  ed il secondo nell'aprile 1993, tra loro
uniti nel vincolo della continuazione.
    Con il medesimo ricorso il Vivaldelli chiedeva altresi' la revoca
della  sentenza  penale  di condanna della Corte di Appello di Trento
16 aprile  1998  (di  parziale  riforma, solo con riguardo alla pena,
della  sentenza  del  pretore  di  Rovereto  11 marzo 1993), divenuta
irrevocabile  in data 29 ottobre 1998, per il delitto di oltraggio di
cui  all'art. 341  c.p.,  per  intervenuta  abrogazione del reato (la
sentenza e' quella sub 2 nel provvedimento di cumulo sopra indicato).
    All'udienza  in  camera di consiglio del 13 luglio 2001, svoltasi
alla  presenza  dell'imputato detenuto, le parti concludevano come da
verbale.

                       Motivi della decisione

    La  prima  richiesta,  relativa all'applicazione della disciplina
del reato continuato e' infondata e va pertanto respinta.
    Invero  non  puo' ravvisarsi il vincolo della continuazione tra i
reati  di  cui  alle sentenze sopra indicate, dovendosi escludere che
siano  stati commessi in esecuzione di un medesimo disegno criminoso,
trattandosi  di  fatti  tra  loro  del tutto distinti e slegati ed in
ordine  ai  quali non esiste alcun elemento per poter affermare siano
stati  sorretti  da una volonta' criminosa unitaria. Infatti il reato
di  cui  alla  sentenza  sub  1)  attiene ad un furto di oggetti vari
(confessionale in legno, arazzo, candelabro in ottone, ecc...) da una
chiesetta  privata  in  Ala, nell'aprile del 1993; i due reati di cui
alla  sentenza sub 2) attengono alla detenzione e al porto di un'arma
comune  da  sparo  (revolver)  e  di una arma clandestina (fucile con
numero  di  matricola  abraso), commessi in periodi assai diversi, il
primo  nel  maggio  1993 a Rovereto ed il secondo nell'ottobre 1991 a
Vallarsa  e Rovereto ed in riferimento ai quali gia' il giudice della
cognizione  ha escluso il vincolo della continuazione (il primo reato
era   unito   nel  vincolo  della  continuazione  con  due  reati  di
danneggiamento, poi dichiarati estinti per prescrizione ed il secondo
era  unito nel vincolo della continuazione con un reato di furto e di
alterazione   di   arma,   anch'essi   poi   dichiarati  estinti  per
prescrizione:  ma  tra  i  due  gruppi  di  reati si e' espressamente
escluso  qualsiasi  legame);  i  reati  di  cui  alla sentenza sub 3)
attengono  al  furto e poi alla detenzione e al porto di una serie di
armi  comuni  da  sparo  in Trambileno nell'aprile del 1993, gia' tra
loro uniti in continuazione.
    Tra  fatti  tanto diversi, ancorche' commessi in parte in periodi
di  tempo  vicini, appare difficile ipotizzare in astratto, prima che
accertare  in  concreto,  la commissione in esecuzione di un medesimo
disegno  criminoso. Invero tra il furto nella chiesa di Ala (sentenza
sub  1)  ed il furto delle armi, col successivo porto e detenzione, a
Trambileno  (sentenza  sub 3), benche' commessi tutti nell'aprile del
1993  non  si  comprende  quale  possa  essere  il  medesimo  disegno
criminoso, ossia il programma unitario che abbia indotto l'imputato a
commettere  reati  tanto  diversi  per oggetto e modalita' operative.
Analogamente  deve  dirsi per i reati di cui alla sentenza sub 2). In
via  generale  va osservato che in tutti gli episodi delittuosi sopra
descritti,   come  emerge  dall'attenta  lettura  delle  sentenze  di
condanna  (anche  di  primo  grado)  non  e'  in alcun modo emerso la
finalita'   ultima   perseguita  dall'imputato,  sicche'  sembra  ora
arbitrario  assumere  che  i singoli episodi siano tra loro legati da
una  unita'  di  scopo  o di programma, che non e' neppure emersa nel
corso dei vari procedimenti.
    Ne'  il medesimo disegno criminoso puo' essere riconosciuto, come
richiesto  dalla  difesa, sulla sola base del disturbo antisociale di
personalita'  dell'imputato  accertato  nel  procedimento  che ha poi
originato  la sentenza sub 2), perche' cio' porterebbe a riconoscere,
contro  ogni  logica  e  con  sostanziale superamento dei presupposti
espressamente  richiesti dall'art. 81 cpv. c.p., la continuazione tra
tutti  i  reati  commessi  dall'imputato, senza alcuna distinzione di
tempo, di luogo e di oggetto.
    Stando  cosi'  le  cose  va  radicalmente  escluso che i reati in
parola  possano  considerarsi  commessi  in esecuzione di un medesimo
disegno criminoso, inteso sia quale unita' di scopo, sia in modo meno
pregnante  e  condivisibile  quale  semplice rappresentazione mentale
anticipata.
    Quanto  alla richiesta relativa alla revoca della sentenza penale
di  condanna della Corte di Appello di Trento 16 aprile 1998, a norma
dell'art. 673  c.p.p.  per  l'intervenuta  abrogazione  dell'art. 341
c.p.,  ritiene  questo  tribunale  di  dover  sollevare  questione di
legittimita' costituzionale del combinato disposto di cui all'art. 2,
comma  3  c.p.  e 673 c.p.p. nonche' dell'art. 341 c.p., in base alle
motivazioni che seguono.
    1.  - Premessa: interpretazione della disciplina vigente (artt. 2
cp. e 673 c.p.p.).
    Preliminarmente  occorre  muovere  dalla  premessa interpretativa
dell'impossibilita' di applicare al caso di specie l'art. 673 c.p.p.
    La  norma  citata,  secondo  la  consolidata  interpretazione  di
dottrina e giurisprudenza, fa riferimento non gia' ad ogni ipotesi di
abrogazione  di  una  norma  incriminatrice o all'approvazione di una
legge  penale  piu' mite, bensi' alla piu' limitata fattispecie della
c.d.  abolitio  criminis, disciplinata, sotto il profilo sostanziale,
dall'art.  2,  comma 2  c.p.  Affinche'  si possa parlare di abolitio
criminis  occorre  che  la nuova legge ponga nel nulla il giudizio di
disvalore astratto del fatto reato, sicche' i comportamenti descritti
dalla  norma  incriminatrice  abrogata siano ricondotti nell'area del
(penalmente)  lecito.  Viceversa  nel  caso  in  cui  le  condotte in
questione  rimangano  oggetto di un giudizio di disvalore astratto da
parte  del  legislatore  e,  dunque,  penalmente rilevanti, ancorche'
sottoposte  ad  una  diversa disciplina, non si puo' far questione di
una vera e propria abolitio criminis, bensi' semplicemente di un mero
intervento  legislativo  in  senso  modificativo,  con la conseguente
applicabilita'  dell'art. 2,  comma  3  c.p.  In particolare la norma
citata  dispone  si'  l'applicazione  della  norma piu' favorevole e,
dunque,  se  piu'  favorevole  e'  la  nuova  norma quest'ultima deve
trovare  applicazione in via retroattiva, ma pone immediatamente dopo
un limite invalicabile, rappresentato dalla condanna irrevocabile.
    Ora,  e'  ben noto che un fenomeno di successione di leggi penali
nel  tempo  in  senso  meramente  modificativo,  si  puo' avere anche
attraverso  la  mera  abrogazione di una norma incriminatrice, quando
cio'  comporti  non gia' la riconduzione nella sfera del lecito delle
condotte rientranti nella fattispecie abrogata, bensi' l'applicazione
di  altre  norme penali gia' vigenti. Cio' si verifica in particolare
nel  caso  in  cui  ad  essere  abrogata  e' una norma incriminatrice
speciale  rispetto  ad  altra norma incriminatrice generale la quale,
per   effetto  dell'abrogazione  dell'incriminazione  speciale,  vede
ampliata  e  dilatata  la  propria sfera di applicabilita', in quanto
l'intera  classe  degli  oggetti  gia'  sussumibile nella fattispecie
speciale,  rifluisce  in  essa automaticamente, salvo, beninteso, non
emerga  la volonta' legislativa di espungere tale materia dalla sfera
del penalmente rilevante.
    Nel   caso   di   specie   e'   indiscutibile  che  l'abrogazione
dell'art. 341 c.p. ad opera dell'art. l8 legge 25 giugno 1999, n. 205
non  ha  affatto  comportato  una  vera  e propria abolitio criminis,
bensi'  una  semplice  successione di leggi penali incriminatrici nel
tempo  in  senso  modificativo, dal momento che tutti i comportamenti
previsti   dall'art. 341   c.p.   dovranno  d'ora  in  avanti  essere
ricondotti  alla  piu'  generale  fattispecie  dell'ingiuria  di  cui
all'art. 594   c.p.,  aggravata  ai  sensi  dell'art. 61  n. 10  c.p.
Significato  della riforma infatti non e' certo quello di rendere del
tutto  lecite  le  offese  all'onore  e al prestigio sol perche' rese
contro  i  pubblici  ufficiali  a  causa  o nell'esercizio delle loro
funzioni,  bensi'  di  ricondurle  alla  fattispecie  generale di cui
all'art. 594  c.p.,  posta  a  presidio  dell'onore  e  del decoro di
qualsiasi  persona.  La  considerazione che tra le due fattispecie vi
fosse  un  rapporto  di  genere  a  specie,  integrando l'oltraggio a
pubblico   ufficiale  nient'altro  che  un'ingiuria  qualificata  dal
particolare  status  della  persona  offesa  (oltre che dall'elemento
espresso   dalla   formula   "a  causa  o  nell'esercizio  delle  sue
funzioni"),   nonche'  la  relazione  strutturale  tra  gli  elementi
omogenei  della  fattispecie  tale da rendere evidente un rapporto di
contenenza  tra  le  due  previsioni,  rende  sicura  la  conclusione
raggiunta.
    Sennonche'  l'intervento  sul  punto  di  numerose sentenze della
Cassazione   in  senso  decisamente  contrastante  (nel  senso  sopra
indicato  cfr.  Cass., 29 settembre 2000, n. 3144 in Riv. pen., 2001,
41;  Cass.,  7  giugno 2000, n. 3137; Cass., 25 maggio 2000, n. 2744;
Cass.,  19  maggio  2000,  n. 2743; Cass. 11 aprile 2000, in Foro it,
2000,  II,  593  e  in Giur it., 2000, 1895; Cass., 23 febbraio 2000,
n. 2127;  Cass.,  13  gennaio  2000,  n. 3946; Cass., 14 luglio 1999,
n. 10932;  contra  nel  senso che l'abrogazione dell'art. 341 c.p. ha
comportato  una  vera  e  propria abolitio criminis Cass., 8 novembre
2000, n. 1455, in Riv. pen., 2001, 41; Cass., 7 giugno 2000, n. 3165;
Cass., 25 maggio 2000, n. 2779; Cass. 17 aprile 2000, n. 1805; Cass.,
10 aprile  2000, n. 1803, in Foro it., 2000, II, 594; Cass., 10 marzo
2000,  in  Foro it., 2000,II, 594; Cass., 11 febbraio 2000, n. 518 in
Cass. pen., 2000, 1618 e in Foro it, 2000, II, 595; Cass., 14 gennaio
2000,  n. 356;  Cass.,  27 novembre 1999, n. 13499 in Foro it., 2000,
II, 236 e in Cass. pen., 2000, 1614), tanto da rendere auspicabile un
sollecito   intervento   delle   sezioni  unite,  rende  doverosa  un
approfondimento della motivazione.
    Infatti  il  contrasto  giurisprudenziale  instauratosi  potrebbe
essere  assunto  quale  motivo  di  inammissibilita'  o  comunque  di
infondatezza,  richiamando  l'obbligo  del giudice a quo di scegliere
fra   piu'  interpretazioni  possibili  quella  conforme  al  dettato
costituzionale.  Poiche',  come  si  e'  visto, l'interpretazione che
ravvisa  nel  caso  di  specie  un  fenomeno di abolitio criminis non
comporta  alcun  problema di legittimita' costituzionale, assicurando
l'immediata  revoca  di tutte le condanna a norma dell'art. 341 c.p.,
mentre   l'opposta   interpretazione   comporta   tutti  i  dubbi  di
legittimita'   che   di  seguito  si  andranno  ad  esporre,  sarebbe
giocoforza  preferibile  la prima opzione esegetica a discapito della
seconda.  In  contrario  ritiene  questo  tribunale  che manchi nella
specie il presupposto per l'applicazione del canone ermeneutico della
conformita'  a Costituzione, precisamente quello della "possibilita'"
alla  stregua  della  lettera  e  della ratio della legge, violate le
quali  l'interpretazione adeguatrice si trasforma in un'inammissibile
interpretazione correttiva.
    Al  riguardo  va  in  primo  luogo  osservato  che  i concetti di
abolitio  criminis  (comma  2  dell'art. 2  c.p.) e di successione di
leggi  penali  nel  tempo  (comma  3  dell'art. 2 c.p.) sono concetti
elaborati dalla scienza giuridica, per la verita' non senza contrasti
e  differenze  di  opinioni,  ma  comunque in modo rigoroso e che non
possono  essere  adattati  a  piacimento a seconda del caso concreto,
neppure   col   lodevole  proposito  di  ottenere  esiti  applicativi
maggiormente  conformi  ad  equita'. La tesi che ravvisa una abolitio
criminis dovrebbe coerentemente scegliere per i procedimenti in corso
e  futuri  tra  questa  alternativa,  a  seconda  del rapporto che si
ritiene  debba  affermarsi  col  delitto  di  ingiuria:  ritenere che
l'abrogazione  dell'art. 341  c.p. abbia reso penalmente lecite tutte
le  offese  all'onore  e al prestigio di un pubblico ufficiale in sua
presenza e a causa o nell'esercizio delle sue funzioni, assumendo che
la fattispecie del delitto di ingiuria sia rimasta del tutto immutata
per  l'assoluta  eterogeneita'  tra  le due figure, ed allora si deve
procedere ad assoluzione "perche' il fatto non e' piu' previsto dalla
legge come reato", sia per i fatti pregressi che per quelli futuri, a
nulla  rilevando  il  profilo  della  procedibilita' (in tesi si deve
infatti concludere che nei casi di oltraggio a pubblico ufficiale, da
un  lato,  non  si  realizza  il  fatto  tipico dell'art. 594 c.p. e,
dall'altro,  non  e'  punito  da nessuna altra norma incriminatrice);
oppure  assumere  che  a seguito dell'abrogazione dell'art. 341 c.p.,
l'art. 594  c.p. veda espandersi l'area di propria pertinenza dovendo
includersi   (quasi)   tutti   i   fatti   in  precedenza  ricondotti
all'art. 341  c.p., ma con l'avvertenza che, a causa della (relativa)
eterogeneita'  delle fattispecie, questa conclusione vale solo per il
futuro,  non  per  i fatti pregressi: in sostanza si realizzerebbe il
binomio   abrogazione   -   nuova   incriminazione  che  comporta  la
punibilita'  per  i fatti futuri riconducibili alla nuova fattispecie
(l'ingiuria,  cosi'  come  modificata  dall'abrogazione dell'art. 341
c.p.),  ma  l'assoluzione  per  i  fatti  pregressi  con revoca delle
condanne  irrevocabili.  In  sostanza  i  fatti di oltraggio commessi
prima  dell'entrata  in vigore dell'art. l8 legge n. 205 del 1999 non
potrebbero  essere puniti alla stregua dell'art. 341 c.p. trattandosi
di  norma  abrogata  e neppure alla stregua dell'art. 594 c.p., cosi'
come  modificato per effetto dell'abrogazione dell'art. 341 c.p., per
il  principio  di  irretroattivita'  delle nuove norme incriminatrici
(rappresentato  dal  "nuovo"  art. 594  c.p.,  privo  di  rapporto di
continuita'  con l'art. 341 c.p.). Tutto cio', lo si ribadisce, senza
che  assuma  alcun  rilievo  il diverso regime di procedibilita' e la
possibile applicazione a questi casi dell'art. 19 legge n.  205/1999.
    Vale  solo la pena di sottolineare che nessuno ha avuto l'ardire,
a  quanto  consta,  di sostenere la prima alternativa, trattandosi di
una  soluzione  tanto  assurda  quanto  iniqua,  oltre che foriera di
ulteriori  problemi  di  costituzionalita',  perche'  da un regime di
privilegio  di tutela della dignita' personale dei pubblici ufficiali
si  passerebbe  ad  un regime irrazionalmente discriminatorio ai loro
danni.
    Un  maggior  grado  di  (apparente)  plausibilita'  ha  invece la
seconda  alternativa  che  viene  essenzialmente  giustificata  sulla
scorta  della  diversita'  tra  beni giuridici protetti dall'art. 341
c.p,  e  dall'art. 594  c.p.,  rispettivamente indicati nel prestigio
della  pubblica  amministrazione  e  nell'onore  (o  nel  decoro) del
singolo.  Tale  diversita' comporterebbe, da un lato, l'eterogeneita'
tra  le  due  figure  e, dall'altro, la negazione di quel rapporto di
specialita' che porrebbe in irrimediabile crisi la tesi dell'abolitio
criminis.  Si  assume  infatti, a giustificare la circostanza che mai
prima dell'abrogazione dell'art. 341 c.p. si e' ravvisato un concorso
formale  tra  oltraggio  e ingiuria (come invece sarebbe logico se si
accedesse  alla tesi della eterogeneita' delle relative fattispecie),
che  il  rapporto  tra  le due figure non e' di specialita' ma di (un
meglio  precisato)  "assorbimento", sicche' solo impropriamente, anzi
erroneamente,  l'art. 594  c.p.  viene  nella  prassi  definito quale
"norma  generale". Ad avvalorare queste argomentazioni si osserva che
vi  sono  condotte  che possono integrare il reato di oltraggio e non
quello di ingiuria (cfr. Cass., 10 aprile 2000, n. 1803 e 27 novembre
1999, n. 13349 cit.).
    Sennonche' del tutto discutibile e', come si avra' modo di vedere
diffusamente  in  sede di motivazione della questione di legittimita'
costituzionale   dell'art. 341  c.p.,  la  premessa  della  effettiva
diversita' dei beni giuridici, che comunque, anche fosse vera, appare
inconferente.   Secondo   i  migliori  insegnamenti  della  dottrina,
infatti,  il  rapporto  di  specialita' ha natura logico - formale e,
pertanto,  non  attiene affatto al piano dell'oggettivita' giuridica,
del  tutto  opinabile,  manipolabile  in  via interpretativa e spesso
implicante  precise  scelte  di  valore. Da questo punto di vista non
puo'  sfuggire  che  tanto  l'art. 594  c.p.  quanto  l'art. 341 c.p.
menzionano  il  concetto  di  "onore", che secondo la comune opinione
rimanda  alle qualita' morali di cui e' dotata una persona, mentre il
concetto   di   "prestigio",  cui  si  riferisce  soltanto  la  norma
sull'oltraggio,  non  sarebbe  che una specificazione del concetto di
"decoro"  di cui all'art. 594 c.p., trattandosi in sostanza di quella
particolare  forma di decoro determinata dalla posizione del soggetto
e  attinente alla dignita' propria della pubblica funzione. Da questo
punto  di  vista assai discutibile e' l'affermazione secondo la quale
sussisterebbero  condotte  idonee  ad  integrare  il  solo delitto di
oltraggio  e  non  anche quello di ingiuria, con espresso riferimento
"all'uso  gergale  di  un  linguaggio  volgare o di modi abitualmente
scortesi,  ritenuti  in  giurisprudenza  sufficienti  per  commettere
oltraggio  e non altrettanto per commettere ingiuria nei confronti di
un  privato,  in  considerazione (...) dell'interesse pubblico ad una
correttezza  di  modi  e  in  genere  al  rispetto dei consociati nei
confronti  di  coloro che sono rivestiti di pubbliche funzioni" (cfr.
testualmente Cass. 27 novembre 1999, n. 13349 cit.). A parte l'omessa
individuazione  dei casi in questione, con un minimo di precisazione,
ed  a  parte  la  considerazione  che  taluni  eccessi interpretativi
accolti   in  giurisprudenza  ben  possono  essere  considerati  come
retaggio  di  schemi culturali sorpassati, non si puo' fare a meno di
notare   come   la  valutazione  della  natura  offensiva  di  talune
espressioni  volgari  o  atteggiamenti  scortesi  non  possa avvenire
prescindendo  dal  contesto  nel  quale vengono posti in essere ed al
tipo  di  rapporto  instaurato tra i soggetti in conflitto. Da questo
punto  di  vista  non  si  puo' negare che la relativa valutazione e'
sostanzialmente  la  stessa  sia  alla stregua dell'art. 341 c.p. che
alla  stregua  dell'art. 594 c.p., a maggior ragione ove si consideri
come  la  circostanza  che  l'offesa  sia arrecata contro un pubblico
ufficiale  nell'atto o a causa dell'adempimento delle funzioni assume
un  indubbio  rilievo  tipologico  anche in riferimento al delitto di
ingiuria, sia pure a livello non di elementi costitutivi ma di quelli
puramente accidentali, ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p.
    Si deve pertanto concludere che l'insegnamento tradizionale della
dottrina  pressoche' unanime secondo il quale sussiste un rapporto di
specialita'  unilaterale  tra  le  due  fattispecie,  figurativamente
rappresentato da due cerchi concentrici, colga esattamente nel segno.
La  tesi giurisprudenziale che ravvisa nell'abrogazione dell'art. 341
c.p.  un  caso  di  abolitio  criminis  ha  utilizzato  un  ulteriore
argomento  tratto  dalla lettera dell'art. 2, comma 3 c.p. che "parla
(...)  di  leggi posteriori (e non coeve) che siano diverse da quelle
del  tempo in cui fu commesso il reato (e non le medesime), tanto che
si  dovrebbe concludere che "se una legge posteriore al fatto dispone
l'abrogazione  della  norma incriminatrice specificamente applicabile
alla  condotta,  in  nessun  modo  si ha, per quel caso, l'espansione
delle  leggi  coeve,  che  pure  sarebbero  applicabili  ove la legge
abrogata  non  fosse  esistita"  pena, si aggiunge, la violazione del
principio  di  irretroattivita' in materia penale, perche' una legge,
inapplicabile   al   fatto  dell'epoca  del  suo  venire  in  essere,
risulterebbe applicabile successivamente (cfr. testualmente Cass., 11
febbraio   2000,   n. 518   cit.).  L'argomentazione  si  chiude  con
l'affermazione   che   con   l'abrogazione   dell'art. 341   c.p.  il
legislatore  avrebbe compiuto una nuova valutazione della fattispecie
e  quindi una nuova disciplina del caso, ritenuta piu' opportuna, che
pero'  non  potrebbe  che  valere  che  per il futuro, salvo espresse
previsioni  contrarie  (in modo del tutto analogo al caso del binomio
abrogazione  -  nuova  incriminazione  del  tutto  indipendente).  Ne
dovrebbe conseguire l'esclusione di fenomeni automatici di espansione
di  norme  incriminatrici  ai fatti pregressi, "qualunque rapporto vi
fosse  tra  il disposto abrogato e quello sopravvissuto". Conclusione
che  viene  infine  avvalorata da un ulteriore argomento tratto dalla
procedibilita'.   Precisamente   la   continuita'  dell'illecito  tra
oltraggio  ed ingiuria sarebbe esclusa dalla pretesa inapplicabilita'
dell'art. 19  legge n. 205/1999, in tema di rimessione in termini per
sporgere   querela,   dal   momento   che  la  norma  transitoria  e'
espressamente riferita "solo ai reati perseguibili a querela ai sensi
delle  disposizioni della presente legge o dei decreti legislativi da
essa previsti" (ossia essenzialmente il furto semplice).
    Si tratta tuttavia di argomenti assolutamente non condivisibili.
    Al riguardo autorevole dottrina che si e' dedicata ex professo al
tema delle successioni di legge penali nel tempo, ha chiarito che "il
contenuto di una fattispecie non si apprezza come se questa fosse una
monade   isolata,   ma   nel   contesto   di  tutte  le  disposizioni
incriminatrici  in  concorso apparente, la cui introduzione (o la cui
eliminazione)  condiziona  a  priori  l'applicabilita'  delle altre e
definisce  l'ambito  degli oggetti riconducibili a ciascuna di esse".
Insomma  occorre  realisticamente  prendere atto che l'art. 594 c.p.,
benche'   rimasto   immutato   dal  punto  di  vista  letterale,  sia
sostanzialmente   una   norma   diversa  a  seguito  dell'abrogazione
dell'art. 341  c.p., che in precedenza col primo era in indiscutibile
rapporto  di  concorso  apparente.  Trattandosi  di una norma diversa
(anche se la disposizione di legge e' rimasta immutata) nulla esclude
che  possa  porsi  in rapporto di successione nel tempo con una norma
precedente   speciale   che   sia  stata  abrogata  e  possa  trovare
applicazione, se piu' favorevole, anche ai fatti pregressi, senza che
sia  per  questo  violato il principio di irretroattivita' in materia
penale. La medesima dottrina sopra richiamata esclude in tali casi la
violazione  del  principio  di  irretroattivita', proprio perche' "il
fatto  previsto  dall'ipotesi  speciale e' (...) riconducibile di per
se' anche all'ipotesi generale: la riconoscibilita' obiettiva del suo
carattere   illecito   e'   quindi  assicurata  da  due  disposizioni
incriminatrici  in  concorso  apparente nel qualificame la rilevanza.
Eliminata la disposizione speciale, non perde per cio' significato la
valutazione  espressa da quella generale, che essendo riferita ad una
classe   di  oggetti  necessariamente  comprensiva  anche  di  quella
riportata  alla  norma speciale, ne perpetua ora il carattere tipico.
In  sostanza,  non  e'  mutato  il  confine  sistematico tra lecito e
illecito  penale  tracciato  esclusivamente  dalla norma generale, ma
solo  la  distribuzione di rilevanza penale per una medesima serie di
situazioni".
    Sulla  scorta  di  queste  osservazioni  si  puo'  osservare come
"l'argomento  delle  leggi  coeve"  si  converte  nel  suo contrario.
Infatti   e'   proprio  la  preesistenza  dell'art. 594  c.p.,  quale
"disposizione  di  legge"  e  l'astratta riconducibilita' ad esso dei
fatti  di  oltraggio  in  concreto esclusa dal concorso apparente con
l'art. 341   c.p.,   ad   escludere  alla  radice  che  l'abrogazione
dell'art. 341  c.p.  possa  comportare  "una  nuova  valutazione  del
legislatore  della  fattispecie"  in termini di illiceita' penale, in
quanto tale applicabile solo ai fatti futuri e non pregressi, come se
si  trattasse  di una "nuova incriminazione" (come a volte avviene in
caso  di  abrogazione  di una norma incriminatrice e sua sostituzione
con  altra  norma  "riformulata"  in rapporto di eterogeneita' con la
precedente).  In  casi  del  genere,  infatti, si pone una stringente
alternativa:  o  successione  di  leggi  penali  nel tempo e, dunque,
applicazione  della  legge  piu'  favorevole  (art. 2, comma 3 c.p.),
salvo  il  limite  del  giudicato  o abolitio criminis "secca", per i
fatti  pregressi  ma  anche  per i fatti futuri. Non puo' escludersi,
infatti,  che  l'abrogazione  della norma speciale sia sorretta dalla
volonta'  del legislatore, anziche' di modificare la distribuzione di
rilevanza  penale,  di  trasferire  le situazione gia' comprese nella
norma  speciale  nella  sfera  del  lecito. Ma in tal caso l'abolitio
criminis  dovrebbe necessariamente valere anche, ed anzi soprattutto,
per  il  futuro,  mentre e' senz'altro da escludere, come gia' detto,
che  l'abrogazione  dell'art. 341  c.p.  possa  comportare  la  piena
liceita'  penale  delle  offese all'onore e al prestigio dei pubblici
ufficiali a causa e nell'esercizio delle loro funzioni.
    Da   ultimo   va   disatteso   anche  l'argomento  relativo  alla
procedibilita'.   A   parte   l'osservazione   che  la  piu'  recente
giurisprudenza  tende  ad applicare l'art. 19 legge n. 205/1999 (cfr.
Cass., 19 settembre 2000, in Dir. pen. proc., 2001, 62) anche ai casi
di  oltraggio  oggi  riconducibili  al  delitto di ingiuria, va pero'
radicalmente   negato   che   il  confine  tra  abolitio  criminis  e
successione  di  leggi  penali  nel  tempo  possa essere tracciato in
funzione   del   regime  di  procedibilita'.  Infatti  l'art. 2  c.p.
considera  esclusivamente  il  profilo  sostanziale della persistente
illiceita' penale o meno del fatto, senza alcun riferimento al regime
di  perseguibilita'  del fatto medesimo. Invero, una volta accolta la
tesi della natura della querela quale istituto di natura processuale,
ne  segue  che  in  caso di successione di leggi penali nel tempo che
modifichi  la  procedibilita'  da  ufficio  a querela di parte, debba
trovare  applicazione  il  principio  tempus  regit actum, sicche' il
reato  sara'  procedibile  se  al  momento dell'esercizio dell'azione
penale  era  ancora  procedibile  d'ufficio,  a  nulla  rilevando che
successivamente  sia  stato  reso  procedibile a querela di parte. Ne
deriva  ulteriormente  che,  come efficacemente e' stato osservato in
dottrina,  l'art. 19  legge  n. 205/1999  costituisce una deroga alla
disciplina   sopra  tratteggiata,  mirando  a  favorire  la  rinuncia
dell'offeso   alla   repressione   penale   e   a   potenziare  anche
tardivamente,  ovvero  a  processo  iniziato,  la finzione deflattiva
della  procedibilita'  a  querela,  mediante  l'introduzione  di  una
condizione  di  improcedibilita' sopravvenuta rimessa alla volontaria
inerzia  della  vittima.  In  questa prospettiva non vi e' ragione di
escludere  l'applicabilita'  della  norma anche ai fatti di oltraggio
"trasformati" in ingiuria.
    Si   deve   quindi  in  definitiva  affermare  che  l'abrogazione
dell'art. 341  c.p.  non integri una vera e propria abolitio criminis
ma  costituisca  un caso di successione di leggi penali nel tempo tra
lo  stesso  art. 341  c.p.  e l'art. 594 c.p. e cio' qualunque sia il
criterio  che  si ritenga di dover seguire per distinguere tra le due
ipotesi  (continuita'  dell'illecito,  mediazione del fatto concreto,
rapporto  strutturale  tra  fattispecie in termini di contenenza o di
specialita).
    Infine   non   sembra   neppure   praticabile  un'interpretazione
estensiva  dell'art. 673 c.p., tale da recidere il legame sussistente
con l'art. 2, comma 2 c.p. ed assicurare l'applicabilita' della norma
anche  al di fuori dai casi dell'abolitio criminis. A prima vista una
simile    prospettiva   sembrerebbe   trovare   conferma   nell'ampia
formulazione  della  norma  che  fa  riferimento all'"abrogazione ...
della   norma"  e  non  specificatamente  all'abolizione  del  reato,
espressione  che compare solo nella rubrica che, come e' noto, non ha
alcun valore vincolante per l'interprete.
    Sennonche'  una simile prospettiva va con certezza esclusa per un
triplice ordini di motivi.
    Anzitutto  dall'assenza  di  qualsiasi  riferimento  nella  legge
delega ad ammettere deroghe alla disciplina prevista dall'art. 2 c.p.
(cfr.  art. 2  punti n. 96, 97 e 98) deriva che l'interpretazione qui
criticata  implicherebbe delicati problemi di costituzionalita' della
norma  per  eccesso  di  delega,  in  riferimento  all'art. 77  della
Costituzione. In secondo luogo dottrina e giurisprudenza interpretano
pacificamente  la  norma  come riferita esclusivamente ai casi di cui
all'art.  2,  comma secondo c.p. (cfr. Cass., 7 maggio 1998, n. 1002,
in  Arch. nuova proc. pen., 1998, 604; Cass., 4 luglio 1996, n. 1397,
in Rir pen. 1997, 58; Cass. 20 agosto 1994, n. 2403; Cass. 3 dicembre
1991,  n. 3285).  In  terzo  luogo  ed  infine  e'  lo stesso rimedio
previsto,  ossia  la  "revoca" della sentenza di condanna, a chiarire
che  esso puo' trovare applicazione solo nel caso in cui il fatto per
il  quale  e'  intervenuta  la  condanna  e'  divenuto,  per  effetto
dell'intervento  della  legge  successiva, penalmente lecito, essendo
evidente  che nel caso di mera modificazione della disciplina penale,
sia  pure  in  senso  piu' favorevole per il condannato, e' del tutto
inconcepibile   una   "revoca"  della  condanna,  dovendosi  comunque
applicare,  a norma dell'art, 2, comma terzo c.p., la disciplina piu'
favorevole tra quelle in successione nel tempo.
    Si  deve  pertanto concludere che, in base al diritto vigente, al
caso  di  specie  non  puo'  trovare  applicazione l'art. 673 c.p.p.,
implicitamente  invocato  dalla  difesa, bensi' l'art. 2, comma terzo
c.p. ed essendo pacifico che e' intervenuta una sentenza irrevocabile
di condanna la richiesta andrebbe respinta puramente e semplicemente.
Questa   conclusione   puo'   tuttavia  essere  accolta  solo  previa
esclusione di dubbi di legittimita' costituzionale non manifestamente
infondati   e   rilevanti,   che   invece  questo  tribunale  ritiene
sussistenti.
    2. - (segue):  rapporto di subordinazione logica tra le questioni
proposte.
    Posta questa premessa le questione di legittimita' costituzionale
rilevanti sono essenzialmente due.
    La prima attiene alla disciplina di cui al combinato normativo di
cui all'art. 2, comma terzo c.p. e 673 c.p.p., nella parte in cui non
consente  la  modifica  del  giudicato,  in  sede  di procedimento di
esecuzione,  nel  caso  di  successione di leggi penali nel tempo con
effetto  meramente  modificativo e conseguente all'abrogazione di una
norma   incriminatrice,   perlomeno  nei  casi  in  cui  l'intervento
legislativo  viene  a  porre  in  discussione  addirittura l'an della
sanzione, mediante la modifica del regime di procedibilita' del reato
oppure  non  solo  del  quantum  ma  anche  della  species  di  pena,
prevedendo  la  nuova  disciplina  la  pena  pecuniaria  (sia pure in
alternativa)  in  luogo  di  quella  detentiva.  La  rilevanza  della
questione  appare  in  tutta  evidenza,  essendo il reato di ingiuria
procedibile solo a querela di parte e punibile con la pena pecuniaria
in  alternativa  a quella detentiva, mentre il reato di oltraggio era
procedibile  d'ufficio  e  con  pena  obbligatoriamente detentiva. Ne
deriva   che   in   caso   di  sentenza  d'accoglimento  della  Corte
costituzionale,  il  venir  meno  del  limite  del giudicato previsto
dall'art.  2, comma terzo c.p., consentirebbe in sede di procedimento
di  esecuzione  la  piena  applicabilita' della nuova disciplina piu'
favorevole.
    L'altra questione attiene direttamente all'art. 341 c.p., benche'
norma  formalmente  abrogata e la relativa rilevanza puo' apprezzarsi
in  riferimento  ai procedimenti di esecuzione relativi a sentenze di
condanna  passate in giudicato, perche' un'eventuale dichiarazione di
incostituzionalita'  dell'art. 341  c.p. comporterebbe l'applicazione
dell'art. 30 legge 11 marzo 1953, n. 87, in luogo della disciplina di
cui  all'art. 2  c.p.,  In  base a tale norma "quando in applicazione
della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza
irrevocabile  di condanna ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti
penali"  (comma  quarto). E' evidente che tale disciplina se in nulla
si  discosta  dall'art.  2,  comma  2  c.p.  per  il caso di abolitio
criminis,   comporta  una  sostanziale  differenza  per  il  caso  di
intervento  meramente  modificativo, perche' mentre l'art. 2, comma 3
c.p.  prevede  il  limite  del  giudicato  per l'applicabilita' della
disciplina  piu'  favorevole, l'art. 30 cit. citato, non distinguendo
tra   l'ipotesi   dell'abolitio  criminis  e  quella  dell'intervento
meramente   modificativo   conseguente  all'abrogazione  della  norma
incriminatrice,  impone sempre e comunque efficacia retroattiva della
pronuncia di incostituzionalita', senza alcun limite. Cio' appare del
tutto  congruente  con  la  natura  e  gli  effetti delle sentenze di
accoglimento     della     Corte    costituzionale    che,    secondo
l'interpretazione  largamente  prevalente,  comportano  il venir meno
della  norma dichiarata incostituzionale con effetto ex tunc, sicche'
va  escluso  il  presupposto  stesso di un fenomeno di successione di
leggi  penali  del tempo, ossia il succedersi nel tempo di piu' leggi
tutte ugualmente valide ed efficaci.
    La  contraria  conclusione  raggiunta  da  un'isolata e risalente
giurisprudenza  si  pone pertanto in contrasto sia con la lettera che
con  la  ratio  della legge (cfr. Cass., 19 luglio 1983, n. 1375). In
particolare  non  sembra  seriamente  sostenibile sulla base del solo
rilievo secondo il quale la cessazione dell'esecuzione e di tutti gli
effetti  penali della sentenza di condanna sarebbe possibile solo nel
caso  in  cui  la  dichiarazione  d'incostituzionalita'  della  norma
incriminatrice,  renda  leciti  i  comportamenti  da  questa  puniti,
analogamente  a  quanto  accade  in caso di abolitio criminis, mentre
nell'ipotesi  in cui la dichiarazione di incostituzionalita' comporti
l'applicabilita'   di   una   diversa   norma   incriminatrice,  piu'
favorevole,  si  dovrebbe  procedere ad una "modifica" del giudicato,
non  prevista  dall'art. 30  cit. Infatti il chiaro significato della
norma e' quello di escludere in materia penale qualsiasi applicazione
della  norma  incriminatrice  dichiarata  incostituzionale, senza che
possa  avere  alcun  rilievo l'intervento di un giudicato e lasciando
del  tutto  impregiudicato  il  meccanismo  processuale attraverso il
quale  raggiungere  questo  risultato. A quest'ultimo riguardo va poi
osservato che una "modifica" del giudicato e' tutt'altro che estranea
al  sistema  di  diritto processuale penale vigente, sol che si pensi
alla  fattispecie  di  cui  all'art. 671  c.p.p. e, nell'ambito dello
stesso  art. 673  c.p.p.,  al caso in cui il giudicato attenga a piu'
reati,  magari  uniti  nel  vincolo della continuazione, solo uno dei
quali  oggetto  di  abolitio criminis. E' pacifico che in tal caso il
giudice  dell'esecuzione debba provvedere ad una sostanziale modifica
del  giudicato  o,  se  si  preferisce,  ad una revoca parziale della
sentenza  di condanna, con rideterminazione della pena in riferimento
ai reati non oggetto di abolitio.
    Se  le  premesse  interpretative  che  precedono sono corrette la
questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., appare,
nonostante  la sua intervenuta abrogazione, ancora rilevante, appunto
perche'  il  suo  eventuale  accoglimento comporterebbe la necessaria
applicazione   dell'art. 30   legge   11   marzo   1953,   n. 87   e,
conseguentemente,  dell'art. 673  c.p.p.  perlomeno in via analogica,
con il sostanziale accoglimento della richiesta mentre, al contrario,
dovrebbe   trovare  applicazione  l'art. 2,  comma  3  c.p.,  con  il
conseguente  rigetto  della  richiesta  medesima. Insomma l'eventuale
incostituzionalita'  dell'art. 341  c.p. non potrebbe inevitabilmente
che   riflettersi  sull'illegittimita'  di  qualsiasi  esecuzione  di
sentenze  penali di condanne, per quanto irrevocabili, per il delitto
di oltraggio a pubblico ufficiale.
    Quanto  ai  rapporti  logici tra le due questioni di legittimita'
costituzionale  sopra  evidenziate,  si  deve  attribuire  valore  di
questione   "principale"  a  quella  relativa  al  combinato  di  cui
all'art. 2,  comma  3  c.p.  e  673  c.p.p.,  sia  perche'  viene  in
considerazione  in  via  piu' immediata e diretta nel procedimento di
esecuzione  sia  perche' le relative censure coinvolgono tutti i casi
di  successione  di leggi penali nel tempo in cui la legge successiva
piu'  favorevole  modifica il regime di procedibilita' del reato o la
stessa specie di pena, sicche' il suo accoglimento avrebbe effetti di
piu' ampia e generale portata. Una volta riconosciuta nella specie la
ricorrenza  di  un'ipotesi di successione di leggi penali nel tempo e
non  di  una  vera  e propria abolitio criminis ne deriva l'immediata
impossibilita'  di  applicare  l'art. 2, comma 2 e, correlativamente,
dell'art. 673  c.p.p.,  dovendosi  al  contrario trovare applicazione
l'art. 2,  comma  3 c.p. nella parte in cui fa salvi in tali casi gli
effetti  del  giudicato  anche  se  la disciplina successiva sia piu'
favorevole.  Nel  procedimento di esecuzione sono queste le norme che
vengono immediatamente in considerazione, essendo in prima battuta ed
in  linea  di  principio  irrilevante  la norma incriminatrice che ha
trovato applicazione in sede di cognizione.
    Pertanto   solo  una  volta  data  applicazione  alla  disciplina
indicata  e,  dunque, rigettata la richiesta di revoca della condanna
ai sensi dell'art. 673 c.p.p., mediante anche il superamento di tutti
i dubbi di legittimita' costituzionale che la stessa solleva, si pone
l'ulteriore problema della permanenza di una esecuzione penale di una
sentenza   di   condanna  che  ha  dato  applicazione  di  una  norma
incriminatrice  -  l'art.  341  c.p.  -  che  in  ipotesi  si  assume
incostituzionale.  Appare  in  conclusione  evidente  che  la seconda
questione assume rilievo solo a condizione che l'altra sia dichiarata
infondata  o  inammissibile,  perche'  non ha senso porsi il problema
della  legittimita' costituzionale dell'art. 341 c.p., in riferimento
all'esecuzione  di  una sentenza penale di condanna per il delitto di
oltraggio  a  pubblico ufficiale, se fosse gia' possibile intervenire
in   sede  esecutiva  sul  giudicato  in  senso  modificativo,  dando
applicazione alla lex mitior nel frattempo intervenuta.
    3. - I  dubbi di costituzionalita' del combinato normativo di cui
all'art 2. comma terzo. cp. e 673 c.p.p.
    Riguardo  alla  questione  di  legittimita'  costituzionale della
disciplina  di  cui  all'art. 2,  comma  terzo  c.p.  e dell'art. 673
c.p.p.,  in  caso  di modifica legislativa in senso migliorativo, con
riferimento al limite all'applicazione della lex mitior rappresentato
dal  giudicato, e' bene premettere che l'art. 25, comma secondo della
Costituzione non ha espressamente costituzionalizzato il principio di
retroattivita'  della  disciplina  penale  piu' favorevole, essendosi
limitato  a  sancire  il  principio  di  irretroattivita' delle norme
penali  sfavorevoli. Si deve pertanto ritenere in prima battuta che i
principi  espressi  dall'art. 2  c.p.  hanno  una  diversa portata ed
efficacia,  essendo  il  principio  di  irretroattivita'  delle norme
sfavorevoli  (comma  primo)  costituzionalizzato ed essendo invece il
principio  di  retroattivita' delle norme favorevoli (commi secondo e
terzo)  operante  solo  sul  piano della legge ordinaria e, pertanto,
suscettibile   in   linea   di  principio  sia  di  espresse  deroghe
legislative sia di limiti posti in via generale.
    Tuttavia  la  piena  adesione  ad  un  siffatto  ordine  di  idee
presuppone,  ad  avviso  di questo tribunale, la piena individuazione
della ragione giustificativa dei vari principi sopra illustrati.
    Secondo l'impostazione che sembra preferibile occorre distinguere
la  ratio  che  sorregge il principio di irretroattivita' delle norme
sfavorevoli   da   quella   che  sorregge  il  diverso  principio  di
retroattivita'  delle norme favorevoli, piuttosto che riferirsi ad un
generico  ed  indistinto  favor  libertatis.  Il fondamento del primo
infatti   va   rinvenuto   sul   piano   politico   garantista  ossia
nell'esigenza  di  tutelare  il  cittadino nei confronti di possibili
abusi del potere legislativo, individuando uno dei momenti essenziali
caratterizzanti  il  principio  di legalita', insieme al principio di
tassativita' e di divieto di analogia in malam partem, posto a tutela
contro  possibili abusi del potere giudiziario, nonche' del principio
della  riserva  assoluta  di  legge,  posto a tutela contro possibili
abusi  del  potere esecutivo. Viceversa il fondamento della regola di
retroattivita'   delle   norme   favorevoli  andrebbe  ravvisato  nel
principio  di  uguaglianza  (art. 3  Cost.),  sotto  il profilo della
parita'  sostanziale  di  trattamento. Una simile impostazione sembra
preferibile,  perche',  da  un  lato,  meglio  giustifica  la diversa
portata  dei  due  principi  e,  dall'altro, lascia impregiudicato il
problema  della  costituzionalita'  delle  disparita'  di trattamento
conseguenti  ai  singoli  limiti  e  alle deroghe alla retroattivita'
delle  norme  favorevoli,  in  riferimento  al  generale principio di
ragionevolezza delle leggi, desumibile dall'art. 3 Cost.
    Se  si  pone  tuttavia  mente  al  fatto  che  in  diritto penale
l'esigenza  di parita' sostanziale di trattamento, assume una valenza
ed  un  significato  tutto particolare, venendo ad incidere su beni e
diritti  fondamentali della persona quali la liberta' (art. 13 Cost.)
e  la  dignita' personale (art. 2 Cost.), si deve anche giungere alla
conclusione  che  il  criterio  di "ragionevolezza" delle leggi quale
limite   per  il  legislatore  deve  necessariamente  ritenersi  piu'
rigoroso  rispetto  che  ad altri settori dell'ordinamento. Da questo
punto  di vista il principio di retroattivita' della norma favorevole
puo'  ritenersi  "indirettamente"  costituzionalizzato, nel senso che
deroghe  ad  esso  possono ritenersi ammissibili solo se ragionevoli,
tenendo tuttavia presente il rango primario degli interessi sui quali
vengono ad incidere.
    Una  simile  conclusione e' avvalorata dal rilievo che l'esigenza
di  parita'  sostanziale  di  trattamento  non puo' essere apprezzata
disgiuntamente  al  principio di offensivita' (art. 25, comma secondo
Cost.), da un lato, e di proporzione dall'altro (art. 27, comma terzo
Cost.). E' evidente infatti che accogliere il principio d'uguaglianza
di  trattamento  in rapporto alla mutata considerazione in termini di
inoffensivita'  (abolitio  criminis)  o  minore offensivita' (art. 2,
comma  terzo  c.p.)  del  fatto  oggetto dell'intervento legislativo,
significa  aderire  ad  un  modello  di  diritto  penale  ispirato al
principio   di  materialita',  che  e'  accolto  dalla  Costituzione.
Viceversa   ricollegare  la  sanzione  alla  valutazione  legislativa
vigente  al  momento della commissione del fatto significa attribuire
rilevanza  decisiva  non  gia' all'oggettiva valutazione legislativa,
bensi'  all'elemento della soggettiva disobbedienza o infedelta' alla
legge.
    Va inoltre osservato che la ratio sottesa al limite del giudicato
posto  dall'art.  2,  comma  terzo  c.p.  e'  eminentemente  pratica,
connessa  cioe'  all'esigenza  di  economia  processuale d'evitare un
nuovo  giudizio  ad  ogni  sopravvenire  di  modifiche  normative. Un
fondamento   certamente   meno   "alto"  ed  importante  rispetto  al
fondamento  alla  regola della retroattivita' della norma favorevole,
cosi'  come sopra si e' individuato. Fondamento inoltre che lo stesso
legislatore  non  ha ritenuto sufficiente per limitare l'applicazione
retroattiva  della  norma favorevole in caso di abolitio criminis. Da
questo  punto  di  vista  il  limite in parola rischia di manifestare
un'intrinseca irragionevolezza sia in rapporto alla diversa regola di
cui al secondo comma dell'art. 2, comma secondo c.p., sia all'interno
dei  casi  di  mero  intervento modificativo, in senso favorevole, da
parte  del  legislatore.  Sotto  il  primo  profilo  potrebbe infatti
mettersi  in  discussione la ragionevolezza di una diversa disciplina
tra  abolitio  criminis e mera modifica della disciplina legislativa,
almeno  nei  casi  in  cui quest'ultima pone in discussione, come nel
caso  di  specie, non solo il quantum della sanzione ma lo stesso an,
mediante  la previsione di una condizione di procedibilita' prima non
richiesta.  Sotto  il secondo profilo la disciplina denunciata appare
difficilmente  armonizzabile col principio di parita' di trattamento,
ove si consideri che legittima effetti sanzionatori diversi per fatti
identici  commessi da due soggetti nel medesimo tempo, solo a ragione
del  diverso  momento  in  cui  interviene  il giudicato, momento che
appare  essere  un  mero  accidente,  dovuto  ad  elementi  del tutto
causali,   spesso   condizionati   dal   concreto   uso   del  potere
discrezionale  del  p.m.  nella scelta dei concreti modi di esercizio
dell'azione  penale,  che  e'  obbligatoria  (si  pensi, ad es., alla
scelta del rito direttissimo).
    Da questo punto di vista non sembra che il giudicato comporti una
sufficiente  differenziazione  dei  casi  posti  a  raffronto tale da
giustificare  questa conclusione, appunto perche' cio' che rileva, in
riferimento  alla  parita'  di  trattamento,  e'  il  rapporto tra il
singolo  cittadino  ed  il  potere punitivo dello Stato, in relazione
alla  mutata considerazione legislativa del fatto commesso, mentre le
esigenze pratiche sottese al limite del giudicato non trovano diretto
riscontro.  Pertanto  mentre  un diverso trattamento potrebbe trovare
giustificazione  nel  caso  in  cui  i due soggetti hanno commesso il
fatto  in  tempo  diversi,  rispetto  all'intervento  della  modifica
legislativa,  la  stessa  conclusione  non dovrebbe essere ammessa in
dipendenza  di un fattore del tutto casuale e totalmente indipendente
dalla  condotta  e  dalla  volonta' del reo, qual e' l'intervento del
giudicato. Cio' perlomeno nel caso in cui la modifica legislativa non
incida  solo  su aspetti secondari o solo sui limiti edittali di pene
ma  comporti,  come  nel  caso  di specie, una modifica del regime di
procedibilita'   e   della   stessa   specie   di  pena,  irrogabile,
determinando  il passaggio da una pena obbligatoriamente detentiva ad
una  pena  pecuniaria,  sia  pure  in via alternativa. In simili casi
infatti   vengono   in  considerazione  anche:  l'art. 13  Cost.,  in
riferimento  al  bene  supremo  della liberta' personale che verrebbe
sacrificato  anche  in  presenza  di un fatto che, alla stregua della
nuova  valutazione  legislativa,  potrebbe  essere punito con la mera
multa; l'art. 25, comma secondo Cost., in riferimento al principio di
offensivita'  ed in relazione al principio di proporzione tra fatto e
pena  di  cui  all'art. 27, comma terzo Cost., dal momento che a quel
fatto  verrebbe  collegata  una  pena  non  piu'  corrispondente alla
valutazione di offensivita' compiuta dal legislatore.
    D'altra   parte   assumere  quale  ragione  giustificativa  della
disciplina  denunziata  l'esigenza  di  salvaguardare la certezza dei
rapporti  ormai esauriti, non tiene adeguatamente conto del fatto che
la  vicenda  della  sanzione  penale, specie se detentiva, non sembra
possa  ritenersi  esaurita  col semplice intervento del giudicato. Si
pensi  infatti  agli  interventi  sulla pena praticabili mediante gli
strumenti   della   sorveglianza   o   alla   possibile  applicazione
dell'amnistia   o   dell'indulto  in  corso  di  esecuzione  a  norma
dell'art. 672  c.p.p.  A  rigore  anzi neppure l'effettiva espiazione
della  pena  consente  di  ritenere  del  tutto  esaurita la relativa
vicenda,  dal  momento  che  la  revoca  della  sentenza  di condanna
potrebbe  ancora  determinare  gli effetti di cui all'art. 657, comma
secondo,  c.p.p.  Si  consideri  infine  il dato secondo il quale nel
moderno diritto penale l'intangibilita' del giudicato e' generalmente
assunta  non  tanto  a  tutela  di una astratta certezza dei rapporti
giuridici,   quanto  piuttosto  a  tutela  della  liberta'  personale
dell'interessato,  in  relazione  al  divieto  del  ne  bis  in  idem
(art. 649 c.p.p.).
    L'irragionevolezza  della  disciplina  denunziata potrebbe infine
essere   argomentata   anche   dai   notevoli  poteri  di  intervento
riconosciuti  al  Giudice  dell'esecuzione  dal nuovo codice di rito,
ignoti   al   precedente  sistema  processuale,  coinvolgenti  spesso
valutazioni   anche   di   merito.   Si  pensi  alla  disciplina  del
riconoscimento   della  continuazione  in  sede  esecutiva  ai  sensi
dell'art. 671  c.p.p.  e  188  disp. att. Si pensi ancora alla stessa
disciplina  della  revoca  della sentenza in conseguenza dell'abolito
criminis  ai  sensi dell'art. 673 c.p.p., che, a ben vedere, comporta
spesso  la  necessita'  di penetranti indagini di merito, soprattutto
nei   casi   in  cui  all'abolizione  del  reato  si  accompagni  una
riformulazione  della  fattispecie,  come  i casi della detenzione di
sostanze  stupefacenti  per  uso  personale  e dell'abuso di ufficio,
hanno  esaurientemente  reso  manifesto,  sicche' appare davvero poco
ragionevole,   ed   in   relazione  alla  stessa  ratio  di  economia
processuale  che  lo  sorregge, far permanere il limite del giudicato
proprio  nei  casi  in  cui  la  revoca  o la modifica della condanna
conseguirebbe  in  modo  del  tutto  agevole  ad  un mero giudizio di
determinazione  della  pena,  alla  stregua  della  nuova valutazione
legislativa.
    Un ultimo profilo di possibile illegittimita' costituzionale puo'
essere  indicato.  La  disciplina  in  parola, ricollegando efficacia
dirimente  alla  distinzione  tra  abolitio  criminis  ed  intervento
legislativo  meramente modificativo, potrebbe comportare un possibile
contrasto  col  principio di determinatezza di cui all'art. 25, comma
secondo  Cost.  Infatti non appare azzardato, in relazione alla ratio
di   garanzia   della   liberta',   affermare  che  il  principio  di
determinatezza sia riferibile non solo alle norme incriminatrici ma a
tutte le fattispecie che, in qualunque fase processuale, condizionano
in concreto l'esecuzione di una sanzione penale, specie se detentiva,
come  appunto accade in tema di successione di leggi penali nel tempo
in  riferimento  alla  revoca  della  condanna  a norma dell'art. 673
c.p.p.  Ora  e' ben noto le difficolta' che, nei casi piu' complessi,
si  incontrano  per  distinguere  i  casi  di vera e propria abolitio
criminis dai casi di intervento meramente modificativo e cio' gia' in
via  astratta,  come  e'  reso  palese  dalla proposta da parte della
dottrina di teorie complesse e diversificate (quella della mediazione
del  caso  concreto,  quella  della continuita' del tipo di illecito,
quella  della  contenenza,  ecc...),  comunque  non risolutive e tali
comunque  da rendere spesso necessario un giudizio di valore da parte
dell'interprete.   Viceversa   l'accoglimento   della   questione  di
costituzionalita' in questa sede proposta consentirebbe di svincolare
una  materia  tanto  importante  da  astratte  teorie dogmatiche e da
interpretazioni  opinabili,  ancorandola  ai  concreti  effetti delle
singole  riforme  legislative,  nel senso cioe' che l'art. 673 c.p.p.
dovrebbe  trovare  sempre  applicazione,  con la revoca o la modifica
della condanna, tutte le volte in cui l'applicazione della legge piu'
favorevole   intervenuta   escluda  la  punibilita'  del  fatto,  per
qualsiasi ragione (anche attinenti al regime di procedibilita) ovvero
l'applicazione di una pena detentiva.
    4.a). - I  dubbi  di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 341
c.p.: introduzione.
    Questo  tribunale  e'  ben  consapevole  che l'art. 341 c.p., sin
dagli  anni  `60, e' stato oggetto di cio' che efficacemente e' stato
chiamato  un  "attacco  in massa" da parte dei giudici di merito, che
hanno  sollevato  la questione di legittimita' costituzionale sotto i
piu'  disparati  profili, in gran parte coincidenti con quelli che si
andranno  di  seguito  ad evidenziare; e che la Corte costituzionale,
sin  dal  primo  precedente,  risalente ormai a quasi 30 anni or sono
(sentenza   2  -  19 luglio  1968  n. 109),  ha  sempre  respinto  la
questione,  sino all'importante sentenza 25 luglio 1994 n. 341 che ha
dichiarato  l'incostituzionalita',  con riferimento agli art. 3 e 27,
comma 3  Cost.,  dell'art. 341,  comma 1  c.p.,  nella  parte  in cui
prevede la pena di mesi 6 di reclusione come minimo edittale.
    Tuttavia  si  deve  ritenere  non inutile sollevare nuovamente la
questione, in riferimento agli artt. 1, comma secondo, 3, comma primo
e  secondo,  25,  comma  secondo,  27,  comma terzo, 54 e 97, comma 1
Cost.,   in   ordine   non  solo  ad  alcuni  aspetti  di  disciplina
(procedibilita'  e  pena),  ma anche, e soprattutto, alla sussistenza
stessa   del   reato,   cosi'   come   era  strutturato  dalla  norma
incriminatrice    sospetta    e    costantemente    applicato   dalla
giurisprudenza.
    D'altra  parte  sembra  a questo Collegio non manchino importanti
elementi  di novita', sia sul versante delle norme costituzionali, in
parte  gia'  evidenziati dalla sentenza n. 314/1994, sia sul versante
della norma ordinaria sospetta.
    Dal  primo punto di vista viene in considerazione la correlazione
sistematica tra alcuni principi costituzionali fondamentali, principi
dettati in materia penale e principi relativi ai rapporti tra Stato e
cittadino nonche' alla forma democratica di Stato, oltre al fatto che
nella   giurisprudenza   costituzionale  e'  in  corso  un'importante
rivalutazione  dei  vincoli imposti al legislatore in materia penale.
Ci si riferisce, in particolare, alla funzione rieducativa della pena
di  cui  all'art. 27,  comma 3  Cost.,  riferita  non  piu',  come in
passato,  alla  sola  fase  esecutiva, ma ritenuta una delle qualita'
essenziali  e  generali  che caratterizzano la pena nel suo contenuto
ontologico,   e   l'accompagnano   da   quando  nasce,  nell'astratta
previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue, (cfr. la
stessa  sentenza  341/94  e,  per  un  significativo  precedente,  la
sentenza l8 luglio 1989 n. 409) con il conseguente riconoscimento del
principio  c.d.  di proporzione tra pena e offesa, non solo sul piano
politico-criminale  ma  anche  su  quello costituzionale e, pertanto,
vincolante   per   il   legislatore.  Attiene  inoltre  alla  recente
valorizzazione  della  riserva  di  legge  in  materia  penale di cui
all'art. 25   comma 2   Cost.,   con   riferimento  al  principio  di
determinatezza  (cfr.  sentenze  6 febbraio 1995 n. 34 e 17 ottobre -
2 novembre  1996  n. 370)  e,  piu'  in  generale,  dei  principi  di
offensivita',  di  frammentarieta' e di sussidiarieta' (cfr. sentenze
23 - 25 ottobre 1989 n. 487 e 10 - 11 luglio 1991 n. 333).
    Dal  secondo  punto  di vista si potranno utilizzare non solo gli
spunti provenienti dalla giurisprudenza ma anche le teorie, vecchie e
nuove, della dottrina, nel cui ambito il dibattito sulla legittimita'
della  sussistenza  stessa  della  fattispecie,  prima  ancora  della
relativa   disciplina   sanzionatoria,   e'   piu'   che  mai  aperto
all'indomani della sentenza 341/94.
    4.b). - Segue:  elementi  costitutivi  del  reato  di oltrazzio a
pubblico ufficiale e, rapporti col reato di ingiuria.
    Gli  elementi costitutivi del reato di cui all'art. 341 c.p., sul
piano   oggettivo,  sono:  1) l'offesa,  resa  con  qualsiasi  mezzo,
all'onore  o  al  prestigio  del  soggetto  passivo;  2) lo status di
pubblico  ufficiale del soggetto passivo; 3) la presenza del soggetto
passivo;  4) il  legame  tra  l'offesa e le pubbliche funzioni che si
risolve,  in via alternativa, o in un nesso di causalita' psicologica
(a  causa delle funzioni), nel senso che l'offesa deve essere rivolta
propter officium ossia a motivo delle funzioni esplicate dal pubblico
ufficiale  e, in tal caso, il reato puo' essere integrato anche se il
soggetto  passivo, al momento del fatto, non rivesta piu' la qualita'
di  pubblico  ufficiale  a  norma dell'art. 360 c.p. (Cass. 2 ottobre
1985  n. 8454),  oppure  in  un  nesso  cronologico di contestualita'
(nell'esercizio  delle  funzioni), nel senso che l'offesa deve essere
arrecata, anche per motivi puramente personali, ma nel momento in cui
il pubblico ufficiale sta' esercitando le proprie funzioni.
    Per   onore  s'intende  l'insieme  delle  qualita'  morali  della
persona,  quale bene strettamente personale, componente essenziale di
quella  dignita'  sociale  cui  fa  riferimento  l'art. 3 Cost. e, in
quanto  tale,  annoverabile  nei diritti inviolabili dell'uomo di cui
all'art. 2  Cost.,  mentre  il  prestigio  viene  inteso  come quella
particolare  forma di decoro determinata dalla posizione del soggetto
passivo,  e  attinente alla dignita' e al rispetto da cui la pubblica
funzione  deve  essere circondata (cfr., in particolare, la Relazione
al  codice  penale,  140).  L'offesa  a  tali  beni  va apprezzata in
relazione  a  parametri socio-culturali di valutazione che consentono
di ritenere come oltraggiosa oppure no quella data espressione o quel
dato gesto in rapporto con tutte le circostanze del caso concreto. Il
particolare status che deve rivestire il soggetto passivo e' definito
dall'art. 357   c.p.,   mentre  il  requisito  della  presenza  viene
generalmente inteso nel senso che la condotta incriminata deve essere
compiuta  in  una  situazione  spaziale tale da rendere semplicemente
possibile  la  percezione dell'offesa al destinatario della medesima.
Infine   il   requisito   individuato   dall'espressione  a  causa  o
nell'esercizio  delle  sua  funzioni,  che  nella struttura del reato
dovrebbe   svolgere   la   funzione   di  ricondurre  la  fattispecie
nell'ambito dei reati contro la pubblica amministrazione, si risolve,
nel  primo  caso,  in  una caratterizzazione eminentemente soggettiva
della  condotta,  essendo  in sostanza elevato un semplice movente ad
elemento  di  tipicita',  e,  nel  secondo  caso,  in  una  modalita'
spazio-temporale  dell'azione e dunque in un elemento intrinsecamente
oggettivo.
    Poiche',  come  si  e'  visto, il prestigio viene considerato una
particolare  forma  di  decoro  collegata  allo  status soggettivo di
pubblico  ufficiale,  si  deve ritenere che la condotta tipica sia la
medesima rispetto a quella del reato di ingiuria (art. 594 c.p.). Gli
elementi  differenziali,  in  funzione  specializzante,  tra  le  due
fattispecie,  si  esauriscono  nello  status  del  soggetto passivo e
nell'elemento  espresso con la formula a causa o nell'esercizio delle
sua  funzioni.  Sennonche'  se  a base del confronto si assume non il
reato  di ingiuria nella forma semplice ma il reato di ingiuria nella
forma  aggravata  ai  sensi  dell'art. 61  n. 10  c.p., non si potra'
negare  una  perfetta  identita' di struttura tra le due fattispecie,
una  volta  ammessa,  secondo  l'opinione comune sia in dottrina che,
ormai,  in  giurisprudenza, l'identita' tra la formula nell'esercizio
delle funzioni, utilizzata dall'art. 341 c.c., e la formula nell'atto
...  dell'adempimento  delle  funzioni  di cui all'art. 61 n. 10 c.p.
Infatti  nel momento in cui la giurisprudenza e' venuta giustamente a
respingere   l'opinione   secondo   la  quale  devono  essere  sempre
considerati  nell'esercizio  delle  proprie  funzioni  quei  pubblici
ufficiali  che,  essendo investiti di compiti di pubblica sicurezza o
di  polizia  giudiziaria, sono in servizio permanente, per accogliere
l'opposta  opinione secondo la quale servizio permanente non equivale
ad  effettivo  esercizio  della funzione, sicche' finche' il pubblico
ufficiale  in  concreto  non  svolga  la  propria  funzione  non puo'
ritenersi integrato il reato di cui all'art. 341 c.p. (Cass. 21 marzo
1997  n. 2727  e  Cass.  19 febbraio  1996  n. 5027),  viene  meno la
possibilita'  stessa  di  tracciare  una  differenziazione tra le due
formule.
    Cio'  non  toglie  che tra le due fattispecie vi fossero profonde
differenze   di   disciplina,   non   solo   in   ordine  all'aspetto
sanzionatorio  (l'ingiuria  e' punibile con la pena fino a un anno di
reclusione  o  della multa fino a lire due milioni, aumentata sino ad
un  terzo  per  l'effetto  dell'aggravante, effetto che peraltro puo'
essere  posto  nel nulla in ragione del giudizio di bilanciamento con
le  circostanze  attenuanti;  l'oltraggio era punito con la sola pena
della  reclusione  sino  a  2 anni),  ma  anche  con riferimento alla
procedibilita'  (a  querela  di  parte per l'ingiuria e d'ufficio per
l'oltraggio)  e  dell'estensione  delle  condotte  punibili, sotto il
profilo  delle  cause  di  giustificazione  e/o  di  esclusione della
punibilita',   essendo  per  costante  giurisprudenza,  inapplicabili
all'oltraggio,  neppure  in via analogica, la c.d. exceptio veritatis
(art. 596  c.p.) e gli istituti della provocazione e della ritorsione
(art. 599  c.p.).  Ed  era proprio questa differenza cosi' marcata di
disciplina,  in  mancanza  di  differenze strutturali, a destare seri
dubbi  di legittimita' costituzionale soprattutto in riferimento agli
artt. 3 e 27, comma 3 Cost.
    Per  il momento e' sufficiente sottolineare l'estrema ampiezza ed
estensione  della  fattispecie cosi' come era strutturata dalla norma
incriminatrice,  che  la  rendeva  capace di abbracciare un numero di
condotte  veramente  considerevole.  Cio'  era  dovuto in primo luogo
all'estrema  ampiezza  della  formula linguistica utilizzata, diretta
conseguenza   del   fatto   che   il  legislatore  del  1930  si  era
dichiaratamente  prefissato  di  rendere  in  materia piu' completa e
rigorosa  la  tutela  giuridica  degli  organi  e  dell'attivita' dei
pubblici  poteri  (Relazione,  141), ma non vanno sottovalutati anche
gli  effetti  di  fattori  esterni  alla  norma medesima. Si pensi al
crescere  della  presenza dello Stato nei piu' disparati settori e al
conseguente  riconoscimento  della  qualita'  di pubblico ufficiali a
categorie sempre piu' vaste e variegate di soggetti.
    L'ampiezza  della fattispecie rischia di entrare in conflitto con
l'art. 25,   comma 2  Cost.,  sotto  il  profilo  della  mancanza  di
sufficiente   determinatezza.   Risulta   tuttavia   imprescindibile,
affrontare  con  cura  il  tema  del  bene giuridico protetto e della
finalita'  di  tutela,  perche'  il  deficit  di  determinatezza  per
eccessiva  onnicomprensivita'  della  realta' rappresentata (cosi' la
circolare della Presidenza del Consiglio dei ministri 5 febbraio 1986
in   Gazzetta   Ufficiale  18 marzo  1986  n. 64,  18),  attiene  non
semplicemente al dato, in se' neutro, dell'eccessiva estensione della
fattispecie  in quanto tale, ma piuttosto alla selezione, in un'unica
fattispecie,  di  condotte  tra  loro  diverse ed eterogenee quanto a
disvalore.
    4.c). - Individuazione del bene giuridico protetto.
    Venendo  pertanto all'individuazione del bene giuridico protetto,
si  puo'  in prima battuta affermare con certezza che l'art. 341 c.p.
tutelava anche il bene personale dell'onore e del prestigio del p.u.,
come  persona fisica, che in nulla si distingue dal bene dell'onore e
del  decoro  tutelato dall'art. 594 c.p. Cio' e' confermato e provato
dall'identita'  strutturale  tra il reato di oltraggio ed il reato di
ingiuria aggravato ai sensi dell'art. 61 n. 10 c.p.
    Sennonche'   costituisce  opinione  comune  che  l'art. 341  c.p.
proteggesse  un ulteriore bene giuridico, a piu' marcata connotazione
pubblicistica,  generalmente  individuato nel prestigio (non del p.u.
come  persona  fisica ma) della pubblica amministrazione e, talvolta,
addirittura  nel principio del buon andamento dell'amministrazione di
cui  all'art. 97  Cost.,  cosi' venendo a caratterizzarsi come tipico
reato  plurioffensivo.  La  stessa  Corte  costituzionale ha, fin dal
primo  precedente, aderito a quest'impostazione, riferendosi tuttavia
talvolta  al prestigio della p.a. puramente e semplicemente (sentenza
n. 109/68),  tal'altra  ancora  al prestigio della p.a. ma in ragione
della   finalita'   del   buon   andamento   amministrativo  prevista
dall'art. 97  Cost.,  coinvolgente  non  solo  la  fase organizzativa
iniziale   ma  anche  il  complessivo  funzionamento  (sentenza  2  -
14 aprile 1980 n. 51 e, sostanzialmente, ordinanza 10 - 17 marzo 1988
n. 323).  Persino la sentenza di accoglimento n. 341/94 sottolineava,
in  via generale, questo aspetto osservando come la plurioffensivita'
del  reato  di  oltraggio rende certamente ragionevole un trattamento
sanzionatorio   piu'  grave  di  quello  riservato  all'ingiuria,  in
relazione  alla  protezione  di  un interesse che supera quello della
persona  fisica  e  investe  il  prestigio e quindi il buon andamento
della pubblica amministrazione.
    Affermazioni  in  tutto  analoghe si rinvengono in dottrina ed in
giurisprudenza, ove spesso compaiono locuzioni ancora piu' generiche,
quali il "regolare" o "sereno" esercizio delle pubbliche funzioni. Si
deve  tuttavia  osservare  che  si tratta normalmente di affermazioni
apodittiche,  assunte  quali postulati e come tali non bisognevoli di
argomentazione  o  dimostrazione  e, in particolare, senza che vi sia
mai,  o  quasi,  alcun  approfondimento  ne'  in  relazione alla piu'
specifica  determinazione  del  bene  protetto, atteso che gli stessi
beni del "prestigio" o del "buon andamento" della p.a. possono essere
intesi  in modo assai vario, ne' in relazione al tipo di raccordo tra
il  bene  che si assume protetto e la tecnica di strutturazione della
fattispecie.  Ma,  come  e'  noto,  la  valutazione della rilevanza e
pregnanza  dell'offesa  insita  nel  reato  comporta la necessita' di
considerare  non solo e semplicemente il rango del bene giuridico che
si  assume  offeso  ma  anche il grado di offesa (che decresce quanto
piu'   ci  si  allontani  dallo  stadio  dell'effettiva  lesione  per
avvicinarsi allo stadio di mero pericolo), desumibile dalla tipologia
delle  forme  di  aggressione indicate dalla norma incriminatrice. Al
riguardo si puo' osservare come, in riferimento all'art. 341 c.p., si
sia  verificato un singolare, ma per certi versi assai significativo,
fenomeno  di  commissione  e  o  di confusione, tra il piano del bene
giuridico   protetto  ed  il  piano,  che  dovrebbe  invece  rimanere
rigorosamente  distinto,  della  ratio  o  scopo politico - criminale
della norma. Va allora ribadito che puo' essere individuato come bene
giuridico  protetto  solo  quello  immancabilmente  offeso  dal fatto
tipico     selezionato     o,     comunque,     quello     desumibile
dall'interpretazione   dei   singoli  elementi  del  reato  nei  loro
reciproci  rapporti.  Cio'  del resto e' confermato dall'osservazione
che  il  concetto di bene giuridico puo' svolgere la funzione che gli
e'  propria in riferimento alla struttura dell'illecito penale solo a
condizione che esso sia sufficientemente "afferrabile" e determinato,
anche in relazione al principio di determinatezza di cui all'art. 25,
comma 2 Cost.
    Diverso  e'  invece  il  concetto  di scopo o fine che, sul piano
politico criminale, ci si propone di perseguire con l'incriminazione,
trattandosi  di  un  elemento esterno alla norma, desumibile anche da
considerazioni di ordine generale, spesso condizionate da contingenze
sociali,  economiche,  culturali e storiche. Si tratta di un concetto
certamente  molto  importante, anche sul piano interpretativo, ma che
non implica una cosi' stretta necessita' di rinvenire in ogni singola
condotta punita il fine perseguito sul piano generale.
    4.d). -(segue) Analisi storica della norma: dal codice Zanardelli
al codice Rocco.
    Al fine di verificare criticamente la fondatezza della tesi della
plurioffensivita'  del  reato  di oltraggio a p.u. puo' tornare utile
una  breve  analisi  storica  della norma, giacche' e' innegabile una
connotazione fortemente storicizzata della fattispecie in esame (cfr.
sentenza  28 giugno  -  12 luglio  1995 n. 313). In proposito fin dal
principio  la  Corte  costituzionale,  nelle  molteplici  pronunce di
rigetto  o  di manifesta infondatezza, non ha pur tuttavia mancato di
rimarcare  come  la disciplina legislativa dell'oltraggio, cosi' come
delineata  dal  codice Rocco troppo risente dell'ideologia del regime
dal quale ebbe origine, e di ammettere che rimane sicuramente, specie
in  talune  ipotesi  di fatto, un'effettiva sproporzione tra sanzione
comminata   e   disvalore   del  fatto,  espressamente  invitando  il
legislatore a adeguare il minimo edittale e lo stesso disvalore della
fattispecie,   alla   mutata   coscienza   sociale  ed  allo  spirito
informatore  della  Costituzione  (cfr.,  tra le tante, ordinanze 6 -
16 marzo  1989 n. 127 e 10 - 17 marzo 1988 n. 323). Nella sentenza di
accoglimento  n. 341/94,  poi,  oltre  a  precisare che la concezione
autoritaria   e   sacrale  dei  rapporti  tra  pubblici  ufficiali  e
cittadini,  tipica  del regime totalitario di cui l'art. 341 c.p. era
espressione,  e' estranea alla coscienza democratica instaurata dalla
Costituzione   repubblicana,   per   la   quale   il   rapporto   tra
amministrazione  e  societa'  non  e'  un  rapporto di imperio, ma un
rapporto  strumentale  alla  cura degli interessi di quest'ultima, la
Corte  si  spinge  sino  al  punto  di  ritenere  che  l'inerzia  del
legislatore    avesse    superato    ogni   limite   di   ragionevole
tollerabilita'.
    Non abbisogna pertanto di ulteriori dimostrazioni il fatto che il
reato  di  oltraggio  fosse  inteso dal legislatore del 1930 come una
salvaguardia  dell'autorita'  statale  in  quanto  tale,  finendo per
rappresentare  una  super-tutela accordata da uno Stato autoritario a
se'  stesso  e  riallacciandosi  alle  concezioni proprie degli Stati
teocratici  ed  assolutistici,  alla concezione della sovranita' come
sacra  ed  inviolabile  nella  sua  diretta  emanazione  divina,  dei
funzionari  come  diretta  emanazione  del  sovrano, dei singoli come
sudditi e non come cittadini.
    Del resto cio' e' sufficientemente testimoniato dal raffronto con
la  disciplina della materia contenuta nel codice Zanardelli del 1889
(artt. 194  - 199). Infatti il codice Rocco non si e' limitato ad una
modifica  della  disciplina sanzionatoria, peraltro assai vistosa (il
codice Zanardelli puniva il reato base con la pena della reclusione o
della  multa),  ma ha anche modificato strutturalmente la fattispecie
estendendone il campo di applicazione, mediante: l'eliminazione della
scriminante della reazione legittima agli atti arbitrari del pubblico
ufficiale (subito reintrodotta all'indomani della caduta del regime);
l'unificazione  delle  ipotesi  di  offesa  arrecata  a  causa  delle
funzioni  con  quelle  arrecate nell'esercizio delle funzioni (che il
codice  Zanardelli  puniva  in  modo  attenuato  rispetto all'altra);
l'eliminazione,  per  quest'ultima  modalita'  d'offesa,  del termine
pubblico  (l'art. 196  del  codice  Zanardelli prevedeva che l'offesa
fosse  arrecata  nell'atto  dell'esercizio  pubblico delle funzioni);
l'estensione  della  tutela  anche ai semplici pubblici impiegati che
prestino  un  pubblico servizio (art. 344 c.p.). Oltre a cio' va pure
considerato  che,  a  causa  della minore ingerenza dello Stato nella
societa',   tipica   degli   ordinamenti   di   impronta   "liberale"
dell'ottocento,  la  qualifica  di  pubblico  ufficiale, ai tempi del
codice   Zanardelli,   era  riferibile  ad  una  cerchia  di  persone
infinitamente piu' ristretta.
    Peraltro  una  piu'  attenta ricostruzione della volonta' storica
del  legislatore  fascista  evidenzia  come il bene oggetto di tutela
fosse  puramente  e semplicemente l'onore ed il prestigio del singolo
p.u.,  mentre  il  principio di autorita' fosse piuttosto riferito al
piano  della  ratio  o  scopo  politico-criminale  della  tutela che,
nell'ambito   dell'ideologia   del  regime,  consentiva  di  ritenere
largamente  giustificata  una  differenziata  e  piu' rigorosa tutela
rispetto  a quella accordata ai privati. Cio' emerge con chiarezza da
quei  passi della Relazione ministeriale in cui il prestigio del p.u.
viene  considerato  quale particolare forma di decoro di chi esercita
la  pubblica  funzione  (Relazione, 140);  un  bene  pertanto  che e'
proprio  del  pubblico  ufficiale  sebbene  faccia  riferimento  alla
dignita' della funzione. In definitiva si' riteneva che l'onore ed il
prestigio del singolo p.u. meritassero una speciale e particolarmente
intensa tutela in ragione del rispetto dovuto all'autorita', rispetto
che consentiva di qualificare particolarmente quel bene, superando la
sua originaria vocazione "personalistica". In tal senso e' anche quel
passo  della  Relazione  che,  dopo  aver  precisato che il prestigio
costituisce una particolare forma di decoro, lo definisce come quella
speciale  forza  o  influenza  che  deriva  alla  persona dall'altrui
riconoscimento  dell'autorita'  e  della  dignita'  di cui la persona
stessa  e'  rivestita (Relazione, 140). Ma cio' che piu' conta e' che
questa  impostazione  ha  finito per condizionare in modo evidente la
stessa  formulazione  letterale  della  norma sospetta e la struttura
della  fattispecie,  essendo  l'onore  ed  il prestigio la cui offesa
integrava  il  reato di cui all'art. 341 c.p. riferiti non alla p.a.,
come  avviene  ad  es.  nell'an. 342 c.p., bensi' al singolo p.u. Non
solo, ma la mancata previsione di un autonomo reato di diffamazione a
pubblico   ufficiale,   pur  originariamente  previsto  nel  progetto
preliminare  (all'art. 348  c.p.),  fu  motivata proprio in relazione
alla  mancanza,  in  questo  caso,  di  una  dimensione pubblicistica
dell'offesa  ed  e'  evidente  che  cio'  e'  legato alla ratio della
tutela,  ossia  al  principio d'autorita' e al rapporto d'imperio tra
Stato  e  cittadini,  nel senso cioe' che mentre l'offesa arrecata in
presenza del p.u. si considerava manifestazione di disobbedienza e di
ribellione  all'autorita',  l'offesa arrecata in assenza del p.u. era
considerata   meno   grave  perche'  coinvolgente  esclusivamente  la
dimensione,  per  cosi'  dire, "privatistica" del bene dell'onore del
p.u.   e  pertanto  priva  di  quel  rilievo  pubblicistico  tale  da
giustificare  l'inserimento  nei reati contro la p.a. (esplicitamente
Relazione, 143).
    Sennonche' al di la' delle originarie intenzioni del legislatore,
ben   presto  la  dottrina  allora  dominate,  seguita  subito  dalla
giurisprudenza,  sposto'  l'oggetto della tutela dall'onore del p.u.,
sia  pure  particolarmente  qualificato, all'interesse concernente il
normale  funzionamento  e  il  prestigio  della  p.a.  in senso lato.
Tuttavia  tali  beni  erano  intesi  in  modo assai diverso da quello
imposto  da  una  concezione  "democratica"  dei rapporti tra Stato e
cittadino.  Infatti,  dall'ovvia  osservazione che le Istituzioni non
possono  che  agire per mezzo di organi e questi per mezzo di persone
fisiche  e  dall'impropria  utilizzazione,  in  materia  penale,  del
rapporto  organico,  si faceva discendere la conclusione per la quale
e'  manifesto  che  le  offese  arrecate  a codeste persone (ossia ai
pubblici  ufficiali),  ...  risalgono  all'organo al quale le persone
stesse  appartengono,  e dall'organo all'ente. Finendo per concludere
che  la  protezione  penale,  quindi  e' stabilita nell'interesse del
rispetto  dovuto alla pubblica funzione o al pubblico servizio, e non
di    quello   dovuto   alla   persona   individuale   del   pubblico
ufficiale (...), che riceve protezione soltanto riflessa.
    Al riguardo si e' acutamente osservato come una simile operazione
comporti  un  indebito  processo  di  identificazione dell'oggetto di
tutela,   erroneamente   individuato  nel  prestigio  della  pubblica
amministrazione, con la ratio politica della disposizione colta nella
sua  estensione  massima,  finendo  con  l'autorizzare la conclusione
secondo  la  quale  qualunque  offesa  arrecata  contro  un  pubblico
ufficiale,  in  sua  presenza  e  a  causa o nell'esercizio delle sue
funzioni, costituisca un'offesa diretta all'autorita' in quanto tale.
Questa  critica va condivisa perche' parlare di normale funzionamento
e  prestigio  della  p.a.,  incentrando tali beni sul rispetto dovuto
alle pubbliche funzioni, significa in sostanza assumere ad oggetto di
tutela il dovuto ossequio e, dunque, lo stesso principio di autorita'
nei rapporti tra Stato e privati.
    Comunque  sia,  una  volta accolto il sistema di "valori" proprio
del  regime che ha partorito la norma, la fattispecie non e' priva di
una  sua  intima  coerenza  ed una certa precisione tecnica. Infatti,
alla stregua della scelta di politica criminale secondo la quale alle
pubbliche  istituzione  e'  dovuto  sempre  e  comunque  obbedienza e
rispetto  e  che  anzi  costituisce  un  "valore"  fondamentale, come
tipicamente  accade per tutti i regimi totalitari, la "fedelta'" allo
Stato,  diventa  del tutto comprensibile punire, ed in modo rigoroso,
ogni  offesa  all'onore  del  pubblico ufficiale, in sua presenza e a
causa  o  nell'esercizio  delle sue funzioni, perche' si tratta di un
comportamento  di  aperta ribellione all'autorita' costituita, mentre
il  profilo  della  tutela  del bene personale dell'onore del singolo
pubblico ufficiale passa decisamente in seconda linea.
    4.e). - (segue)     Le     interpretazioni    "costituzionalmente
orientate":  la  tesi  che  ravvisa  il  bene  giuridico protetto nel
prestigio della p.a. - critica.
    Ma  i  problemi  veri,  in termini di coerenza della fattispecie,
nascono  dalla  doverosa  presa  d'atto  che  sia  il  bene giuridico
(prestigio  del  pubblico  ufficiale  particolarmente  qualificato in
ragione  della  titolarita'  di  funzioni  pubbliche) che la ratio di
tutela   (principio   di   autorita),   cosi'   come  originariamente
prospettati erano non solo estranei al sistema di valori, si potrebbe
dire  allo  "spirito",  della Costituzione repubblicana, ma esprimono
scelte  di  fondo  addirittura  opposte.  Da  cio'  trae  origine  la
necessita'   di   rinvenire,   alla   stregua  di  un'interpretazione
"costituzionalmente  orientata"  della  norma  sospetta,  nuovi  beni
giuridici  da  assumere  ad  oggetto  della  tutela che siano, se non
addirittura  costituzionalmente  rilevanti,  almeno non incompatibili
con  la  Costituzione.  E'  in questo contesto che quasi sempre viene
individuato  come oggetto di tutela del reato di oltraggio, ulteriore
rispetto all'onore del singolo p.u., il bene del prestigio della p.a.
A ben vedere, tuttavia, si tratta di un bene che soffre di una scarsa
afferrabilita' e di una persistente genericita'.
    Se  inteso  nel  senso sopra evidenziato, ossia in stretto legame
col  "rispetto"  o l'ossequio dovuto ai pubblici poteri, risolvendosi
in  sostanza  nel  principio  di autorita', deve certamente ritenersi
incompatibile  con  la Costituzione, come si avra' modo di dimostrare
in seguito.
    Diverso  e'  invece  il  discorso  se  viene  inteso come stima o
reputazione nella comunita' degli organi e dell'attivita' della p.a.,
perche' proprio in un ordinamento democratico, che individua come suo
fine  fondamentale  "l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione  politica,  economica e sociale del Paese" (art. 3
comma 2 Cost.), fondato sul principio di parita' tra p.a. e cittadini
e  su  di  un  potere  individuale di "partecipazione" alle attivita'
burocratiche,  la  "fiducia" di cui gode la p.a. nella comunita', sia
pure non direttamente prevista dalla Costituzione, non appare affatto
sfornita   di   quella   pregnanza   ed   importanza  che  giustifica
l'intervento  della  tutela  penalistica. Ed anzi si potrebbe persino
individuare un certo collegamento tra questo bene ed il principio del
buon  andamento  dell'amministrazione, perche' in un simile "modello"
di  p.a.  e'  evidente che la fiducia e la collaborazione del privato
alle Istituzioni agevola lo svolgimento delle funzioni pubbliche.
    Un  simile  collegamento  non e' sfuggito a quella giurisprudenza
che costituiva l'avamposto piu' avanzato del tentativo di armonizzare
la fattispecie con i principi costituzionali. Si e' infatti osservato
che  -  l'interesse  tutelato  dalla norma in esame (...) deve essere
riferito  alla sfera di funzionalita' pubblica, che trova esposizione
a pericolo ove non garantita anche da offese alla sua credibilita' ed
affidabilita'  presso  la  collettivita'.  In  tal  senso l'offesa al
prestigio   ad   esposizione  a  pericolo  di  attributi  che  devono
accompagnare  l'azione  della  pubblica  amministrazione e quindi dei
soggetti preposti o componenti dei suoi uffici, ed il cui pregiudizio
potrebbe  risultare  ostativo al raggiungimento delle finalita' poste
dalla  legge,  od  all'efficacia  dell'azione pubblica, incidendo sul
consenso  che  la pubblica amministrazione deve necessariamente avere
presso  la  collettivita'.  -  (Cass., 29 novembre 1995 n. 11579). La
sentenza  citata e' importante per due motivi. In primo luogo perche'
sembra  richiedere, ai fini dell'integrazione del reato, un requisito
ulteriore  rispetto  alla  semplice offesa dell'onore o prestigio del
singolo  p.u.,  individuato  nella  idoneita'  della condotta volta a
procurare  il  pericolo  di  siffatto  pregiudizio.  In secondo luogo
perche' si tratta di una sentenza che conferma un'assoluzione.
    Ma,  a  ben  vedere,  non si trattava di una linea interpretativa
realmente  capace  di  spostare  i  termini  della questione circa la
legittimita'  costituzionale  dell'art. 341 c.p. Infatti il requisito
dell'idoneita'  della  condotta  ad  esporre  a  pericolo l'efficacia
dell'azione  pubblica,  sotto  il profilo della lesione della fiducia
presso la collettivita', era piu' apparente che reale, perche' inteso
nel senso di escludere condotte che gia' di per se' erano atipiche in
quanto  non  offensive,  alla  stregua  dei parametri socio-culturali
vigenti,  del  bene  dell'onore  e del prestigio del singolo pubblico
ufficiale,  come l'esame del caso di specie dimostra (soggetto che si
limita  a  strappare  il  verbale  di contravvenzione appena elevato,
senza  porre  in  essere  nessun'altra  manifestazione  offensiva  od
irriguardosa;  cfr.  infatti gia' Cass. 18 settembre 1986 n. 9532), e
cosi'  smarriva  quel carattere di requisito autonomo della tipicita'
in  funzione selettiva delle condotte "realmente" offensive, che solo
poteva   consentire   di   superare   ogni   dubbio  di  legittimita'
costituzionale.  E' evidente che diverso sarebbe stato il discorso se
quell'elemento  fosse  stato  in  grado  di  sottrarre  dal  campo di
applicazione   dell'art. 341   c.p.  condotte  che  indiscutibilmente
offendono  il  bene  personale  dell'onore del pubblico ufficiale, in
quanto  inidonee  a  produrre  un  concreto  pericolo  all'"efficacia
dell'azione amministrativa". Ma fino a questo punto la giurisprudenza
non   si   e'   mai   spinta,   e  giustamente,  perche'  una  simile
interpretazione  si  pone  in evidente contrasto con la lettera della
legge e presuppone giudizi di valore sul piano politico criminale che
non  le competono. In definitiva sembra in questo caso realizzarsi il
rischio   di   tutte   quelle   interpretazioni   "costituzionalmente
orientate"  in  realta' incapaci di incidere sul contenuto precettivo
delle  norme,  e  che  pertanto finiscono col porsi come strumento di
legittimazione    dell'esistente,    in    ipotesi   di   una   norma
incostituzionale,   la   quale   continuera'  ad  avere  la  medesima
applicazione   (in   senso   incostituzionale),   sotto  una  diversa
giustificazione.
    In  realta'  si deve escludere che il prestigio della p.a., sotto
il  profilo  del  "consenso"  o la "fiducia" presso la collettivita',
possa  essere  individuato  come oggetto di tutela dell'art. 341 c.p.
Infatti una simile impostazione e' smentita dalla struttura del reato
e  da  decisive  implicazioni  sistematiche.  Sotto  il primo profilo
emerge  in  tutta  evidenza  la mancanza tra gli elementi costitutivi
della  fattispecie dell'elemento della comunicazione con piu' persone
o,  perlomeno,  della  presenza di terzi estranei al compimento della
condotta  punita. Sotto il secondo profilo va evidenziata la mancanza
di un autonomo titolo di reato di diffamazione a pubblico ufficiale.
    Del  resto  che  dei  termini  della  questione i compilatori del
codice  avessero  una precisa visione, sicche' non ci si deve stupire
della  formulazione della norma, emerge con chiarezza in quella parte
della  Relazione  in  cui si spiega che il termine reputazione (usato
dal  codice  Zanardelli, insieme al termine onore e al termine decoro
nell'art. 194) qui non puo' usarsi, sia perche' ad esso e' attribuito
un  significato  specifico  in  materia di diffamazione (offesa fuori
della  presenza),  mentre  per  l'oltraggio  e'  sempre  richiesta la
presenza  dell'offeso,  sia  perche'  il prestigio e' qualche cosa di
diverso  da  quella  stima  nella  capacita'  funzionale del pubblico
ufficiale, alla quale si ferisce la reputazione (140).
    D'altra  parte deve escludersi che si potesse aggirare l'ostacolo
mediante  un'interpretazione  "costituzionalmente  orientata", questa
volta   davvero   in  grado  di  incidere  sul  contenuto  precettivo
dell'art. 341  c.p.,  richiedendo ai fini dell'integrazione del reato
il  requisito della pubblicita' quale elemento costitutivo implicito.
Infatti,  se si deve certamente ammettere che l'interprete sia tenuto
a   ricostruire   i   singoli   tipi   in   conformita'  ai  principi
costituzionali   e,   in   particolare  al  principio  di  necessaria
offensivita',  sicche' dovra' considerare atipici i comportamenti non
offensivi  del  bene protetto, si deve tuttavia ritenere che cio' sia
possibile    solo    rispettando   il   limite   invalicabile   della
compatibilita'  con la lettera della legge. Nel caso di specie non e'
possibile   rinvenire   in   via   interpretativa  all'interno  della
fattispecie  di oltraggio a pubblico ufficiale l'elemento costitutivo
della pubblicita', perche' la presenza di una o piu' persone estranee
al   fatto   e'   prevista   come   circostanza  aggravante  a  norma
dell'art. 341  u.c.  c.p., ossia come elemento accidentale del reato,
in  funzione  aggravante,  e pertanto si deve escludere ch'esso possa
essere attratto tra gli elementi costitutivi.
    4.f). (segue)  la tesi che ravvisa il bene giuridico protetto nel
buon andamento della p.a. - critica.
    Critiche in parte analoghe possono muoversi alla tesi che ravvisa
direttamente   nel   buon   andamento  dell'amministrazione  il  bene
giuridico  tutelato  dall'art. 341  c.p.  Anche  questa  tesi  omette
infatti  di  individuare  il  rapporto  tra  il bene giuridico che si
assume  protetto e la struttura del reato. D'altra parte, come per il
bene  del  prestigio  della  p.a., vi e' la tendenza a considerare il
bene  del  buon  andamento  in termini del tutto generici, svincolato
dall'idea  di efficienza e di massima aderenza all'interesse pubblico
che  gli  e'  proprio  e  ricondotto a formule vaghe quali quella del
"regolare  funzionamento",  dimenticando  che  la  funzione  del bene
giuridico  puo' essere effettivamente svolta solo in presenza di beni
sufficientemente  determinati  ed "afferrabili", rischiando viceversa
di smarrirsi in presenza di beni ad "amplissimo spettro".
    Ora,  e' evidente che il riferimento al bene "buon andamento" non
puo'  essere  concepito  nel  senso  rigoroso  di effettivo intralcio
all'azione  della  p.a.  in concreto svolta, perche' risulterebbe del
tutto incomprensibile la punizione delle offese rivolte a causa delle
funzioni ma non durante l'esercizio di esse. Non a caso la Relazione,
per  giustificare la circostanza per la quale i delitti di violenza e
di  resistenza  si  possono commettere contro qualunque incaricato di
pubblico  servizio,  mentre  per  l'art. 344  puo' essere oltraggiato
soltanto  il  pubblico  impiegato  che  presti  un pubblico servizio,
afferma    espressamente   che   l'oltraggio   non   reca   intralcio
all'andamento del servizio.
    Neppure, per le motivazioni gia' svolte, puo' accogliersi la tesi
che   ravvisa   un'esposizione   a   pericolo   del   buon  andamento
amministrativo  nella  lesione  del  prestigio  della  p.a.  sotto il
profilo della "fiducia" o stima della p.a. presso la societa'.
    La piu' compiuta elaborazione dottrinale della tesi era piuttosto
fondata,  da  un  lato, sull'estensione massima del concetto di "buon
andamento" fino a comprendere il "normale" e/o "sereno" funzionamento
della   p.a.   e,  dall'altro,  su  di  un'argomentazione  di  natura
psicologistica,  ossia  sulla  considerazione  che le condotte punite
dall'art. 341 c.p. potrebbero determinare un "turbamento psicologico"
nel  pubblico  ufficiale  e che cio' potrebbe a sua volta determinare
un'alterazione  del  suo  processo  decisionale e della stessa azione
amministrativa,  resa  incerta  ed  esitante.  L'art. 341  c.p. cioe'
tutelerebbe    la   stabilita'   emotiva   del   pubblico   ufficiale
nell'esercizio  delle  sue  funzioni  e,  quindi, la sua capacita' di
decidere correttamente secondo l'interesse pubblico.
    Sennonche',  a parte il rilievo che la tesi appariva in contrasto
con   l'opinione   comune   che   considerava  irrilevante,  ai  fini
dell'integrazione  del  reato, che il p.u. si sia in concreto sentito
offeso  dalla condotta oltraggiosa posta in essere (Cass. 11 febbraio
1989   n. 2027;   Cass,   28 maggio   1985  n. 5393),  assorbente  e'
l'osservazione   che  in  questo  modo  si  finisce  col  configurare
l'obiettivita'  del  reato  come  il  pericolo  di  un pericolo di un
pericolo.  Infatti va rilevato che l'interpretazione fatta propria da
questa  autorevole  dottrina,  e  seguita  senza  incertezze dal c.d.
diritto vivente (Cass. 31 agosto 1994 n. 9417; Cass. 11 novembre 1989
n. 15559;  Cass.  6 febbraio  1985  n. 1173;  Cass.  30 dicembre 1985
n. 12547),   non  richiede,  ai  fini  dell'integrazione  del  reato,
l'effettiva   percezione  dell'offesa  da  parte  del  p.u.,  perche'
l'elemento  della  presenza  del  soggetto passivo veniva inteso come
quella   contiguita'   spaziale   tale   da  assicurare  la  semplice
possibilita'  di  percezione.  Ora,  e'  evidente  che in mancanza di
effettiva   percezione,  non  puo'  farsi  questione  di  "turbamento
psicologico"   del  p.u.  Non  solo,  ma  anche  ammessa  l'effettiva
percezione,  non  e'  detto  che  da questa derivi necessariamente il
tanto  temuto  "turbamento  psicologico"  del p.u., perche' questo e'
piuttosto  un  effetto  che  dipende  da  tutta  un  serie di fattori
contingenti  di  natura oggettiva e soggettiva, quali il contesto, la
posizione  sociale  del  soggetto  attivo e passivo, la "pubblicita'"
dell'azione,  la  "sensibilita'"  personale  del  p.u.  e  cosi' via,
sicche'  si  tratterebbe,  anche  in  questo  caso,  di  una semplice
possibilita', un pericolo appunto. Infine non e' affatto detto che il
"turbamento"  del p.u. si traduca in un'alterazione dello svolgimento
delle  pubbliche  funzione  alle quali e' preposto. Cosi' nel caso di
offese  arrecate  semplicemente  "a  causa  delle  funzioni",  ma non
nell'esercizio  di  esse,  e'  del  tutto  ragionevole pensare che il
suddetto  turbamento  possa  scemare  fino a svanire del tutto con il
trascorrere  del  tempo,  sino  al  momento in cui il p.u. tornera' a
svolgere le sue funzioni. Nel caso di offese arrecate nell'"esercizio
delle  funzioni",  magari  per  motivi  del  tutto  privati,  e'  ben
possibile che nessun nocumento al regolare svolgimento delle funzioni
pubbliche  in  concreto si realizzi, ad es., per la presenza di altri
p.u.  non  coinvolti ed in grado di sostituirsi al collega "turbato".
D'altra parte vi e' almeno una classe di comportamenti, riconducibile
alla  fattispecie  di cui all'art. 341 c.p., in cui non solo un danno
ma neppure un mero pericolo di danno al buon andamento della p.a., e'
escluso   alla   radice,   per  l'impossibilita'  di  ipotizzare  uno
svolgimento  di  pubbliche  funzioni  successivo  al  reato: l'offesa
arrecata  "a causa delle funzioni" ad un soggetto che, al momento del
fatto,  non  possieda  piu' la qualita' di p.u. a norma dell'art. 360
c.p.
    Ora  un  pericolo di un pericolo deve ritenersi un "non pericolo"
e,  come  tale, inconciliabile col principio di offensivita'. Invero,
ai  fini della legittimita' costituzionale delle norme incriminatrici
sotto  il  profilo  del  principio di necessaria offensivita', non e'
affatto  sufficiente  individuare  un bene giuridico di rango tale da
giustificare, in astratto, la tutela penalistica, dovendosi estendere
l'indagine  in  ordine  all'ampiezza  e  all'intensita'  della tutela
medesima  nonche'  alla gravita' dell'offesa. Oltre tutto la tesi che
ravvisa nell'art. 341 c.p. un reato di pericolo astratto, presunto in
via  assoluta  ed  irrimediabile,  finisce  col  sollevare  dubbi  di
legittimita'  costituzionale  forse  anche  maggiori  di  quelli  che
pretende aver risolto.
    E'  infatti noto che i reati di pericolo presunto pur non essendo
di  per  se' incostituzionali, devono tuttavia rispettare determinati
requisiti,  in  relazione  sia  al  principio di proporzione (art. 27
comma 3  Cost.), sia al principio di necessaria offensivita' (art. 25
comma 2  Cost.),  sia  infine  al principio di ragionevolezza (art. 3
Cost.),  che  la  stessa Corte costituzionale ha precisato con grande
efficacia  (cfr. sentenza 10 - 11 luglio 1991 n. 333). Devono infatti
essere  posti a tutela di beni di rango assolutamente fondamentale ed
afferire  a  settori  in  cui  questa anticipazione di tutela risulti
razionalmente giustificata da particolari esigenze di prevenzione (ad
es.  situazioni di pericolo diffuso incidenti su beni collettivi come
l'ambiente o l'economia pubblica), ed inoltre occorre che le condotte
riconducibili al fatto tipico siano selezionate in modo pregnante, in
modo  cioe' che la presunzione assoluta di pericolo sia supportata da
corrette   verifiche   empiriche,  ossia  giustificata  dall'id  quod
plerumque  accidit,  costituendo  altrimenti  una  scelta  del  tutto
irragionevole   ed   arbitraria   e   pertanto  censurabile  a  norma
dell'art. 3  Cost. Orbene, entrambe le condizioni di legittimita' dei
reati  di  pericolo  presunto  non sembrano soddisfatte dall'art. 341
c.p.,  perche',  da  un  lato,  e'  innegabile  la distanza di questa
fattispecie  dai  settori  in cui legittimamente e' utilizzata questa
tecnica legislativa e, dall'altro, e' proprio l'esperienza concreta a
smentire  quella  presunzione  di pericolosita' della condotta tipica
alla stregua dell'art. 341 c.p.
    Infine  la  tesi,  nonostante le premesse, non riesce a liberarsi
del   tutto  dalla  concezione  autoritaria  che  storicamente  e'  a
fondamento  della  norma,  perche'  il  pericolo  di  alterazione del
processo  decisionale del p.u. conseguente alla mera offesa all'onore
o  al  prestigio  del  p.u.  si giustifica solo in un sistema di p.a.
fondato  sul dovere di obbedienza del privato, la cui violazione puo'
appunto   comportare  un'alterazione  del  regolare  esercizio  della
funzione  pubblica,  ma  risulta  difficilmente  comprensibile  in un
sistema  fondato  sulla  qualificazione  delle attivita' burocratiche
come  modi  di  esercizio del potere di partecipazione individuale e,
pertanto,  su  di una parificazione tra funzionari pubblici e privati
cittadini.
    4.g). - (segue) conclusioni.
    Si  deve  pertanto  concludere che il bene protetto dall'art. 341
c.p.  fosse  unicamente  l'onore  ed  il  prestigio del singolo p.u.,
perche'  solo  questo  e'  sempre  ed immancabilmente raggiunto dalla
condotta criminosa tipica.
    Con  cio' naturalmente non si intende negare che la tipicita' del
reato  fosse  tanto  ampia  da  abbracciare,  eventualmente, concrete
ipotesi  in cui oltre ad essere offeso questo bene fosse offeso anche
il  bene  del  prestigio  (ad  es. offese arrecate "pubblicamente") o
addirittura del buon andamento della p.a. (si pensi al caso di offese
arrecate  mediante  violenza  o  minaccia e non solo a causa ma anche
nell'esercizio  delle  funzioni).  Ma si tratta di casi, dal punto di
vista   statistico,   marginali,  quasi  sempre  aggravati  ai  sensi
dell'art. 341  u.c. c.p, e che spesso comportavano l'integrazione, in
concorso  formale o in continuazione, dei reati di cui agli artt. 336
e  337 c.p., chiaramente e tipicamente rivolti alla tutela del libero
svolgimento  dell'azione  amministrativa,  tali  cioe'  da  assorbire
integralmente  l'offesa  a quel bene. Invece le ipotesi riconducibili
alla  fattispecie  semplice  si risolvevano spesso, se non sempre, in
fatti  obbiettivamente "bagattellari", ed in cui ne' il prestigio ne'
il buon andamento della p.a. potevano ritenersi seriamente colpiti.
    Insomma  si  tratta  di  prendere  realisticamente  atto  che  il
legislatore  non  si e' preoccupato di selezionare solo e soltanto le
ipotesi   concretamente  offensive  di  quei  beni,  configurando  al
contrario   una   fattispecie   onnicomprensiva,  in  cui  ricadevano
indistintamente condotte dal disvalore sociale profondamente diverso,
perche'  incidenti su beni giuridici diversissimi'. Piu' precisamente
ancora  il  legislatore  del  1930 ha tipizzato una fattispecie tanto
ampia   semplicemente  perche'  e'  partito  da  scelte  di  politica
criminale  del  tutto  diverse,  per  non  dire  opposte.  Lo  stesso
legislatore  repubblicano,  rimasto  a  lungo  inerte,  e' giunto col
riconoscere la bonta' di queste conclusioni, disponendo l'abrogazione
pura  e  semplice  della norma riconoscere e non una mera modifica al
regime sanzionatorio. L'abrogazione "secca" dell'art. 341 c.p. sembra
infatti  fondata  sulla  precisa  volonta'  legislativa  di eliminare
quella  posizione  di privilegio ricoperta dai pubblici ufficiali, in
quanto  ritenuta  non  piu'  compatibile  con in principi democratici
fissati  nella  Costituzione,  cosi'  per  altro  verso  ribadendo la
sostanziale  erroneita'  della  tesi  che ravvisava nell'oltraggio un
reato  a  tutela  anche  del  buon  andamento  della  P.A. (o del suo
prestigio).
    Una  ulteriore  conferma di questa conclusione e' rintracciabile,
ad  avviso  di questo Giudice, nella stessa sentenza n. 341/1994 che,
pur  confermando  in termini generali la plurioffensivita' del reato,
in  linea  di  principio rendeva improponibile il raffronto, ai sensi
dell'art. 3  Cost.,  con  il  reato  di  ingiuria, tuttavia ravvisava
l'incostituzionalita'  per  i casi piu' lievi, nei quali il prestigio
ed  il buon andamento della pubblica amministrazione, scalfiti da ben
altri  comportamenti, appaiono colpiti in modo cosi' irrisorio da non
giustificare  che  la pena minima debba necessariamente essere dodici
volte   superiore  a  quella  prevista  per  il  reato  di  ingiuria.
L'illegittimita'  costituzionale  veniva dunque argomentata anche dal
raffronto  con  il  trattamento  sanzionatorio previsto dall'art. 594
c.p.  ed  e' allora evidente che i "casi piu' lievi", proprio perche'
legittimavano   il   paragone  col  reato  di  ingiuria,  normalmente
interdetto  dalla  plurioffensivita'  del  reato  di  oltraggio,  non
attenevano affatto ad una differenza di quantita' dell'offesa, bensi'
ad  una differenza di qualita', nel senso cioe' che si tratta di casi
in  cui,  come  nell'ingiuria,  ad essere offeso e' esclusivamente il
bene  personale  dell'onore  del  singolo p.u. e non anche, se non in
modo  del  tutto irrisorio, i beni del prestigio e del buon andamento
della  p.a.  Insomma  era  la  stessa  Corte costituzionale ad essere
giunta   alla   conclusione   che   l'ampia   tipicita'  tratteggiata
dall'art. 341  c.p.  comprende  ipotesi  tra loro eterogenee quanto a
disvalore,   mentre   la  dichiarazione  di  incostituzionalita'  con
esclusivo  riferimento  al minimo edittale si spiegava col limite che
in  quella  occasione  era  imposto  dalla  questione  sollevata, non
coinvolgente  ne'  la  previsione  del limite massimo di pena, ne' le
rimanenti  disposizioni  dell'art. 341 c.p., come si chiariva con una
precisazione posta ad incipit della sentenza.
    Naturalmente  l'aver  escluso  che  prestigio  e/o buon andamento
della  p.a.  costituissero  il  bene giuridico tutelato dall'art. 341
c.p.  non  esclude,  di  per  se',  che potessero essere assunti, nel
quadro   del   mutato   assetto   costituzionale,   come   la   ratio
politico-criminale   della   norma,   in   sostituzione   alla  ratio
originaria, fondata sul principio d'autorita'. Infatti la ratio della
norma,  al  contrario del bene giuridico, non impone di rinvenire, in
ogni singola e concreta condotta punita, un coinvolgimento diretto ed
immediato  di  quell'interesse  che  ne  costituisce  il  fondamento,
riposando  normalmente  su  intenti  di  prevenzione generale di piu'
ampia portata. Resta tuttavia da stabilire se lo strumento apprestato
fosse davvero congruente rispetto al fine che si assumeva perseguito,
sotto  il  profilo  della ragionevolezza, tenendo ben presente che la
fattispecie   era  stata  originariamente  tipizzata  sulla  base  di
tutt'altra  ratio,  sicche' occorreva in primo luogo verificare se la
formula  legislativa  fosse  sufficientemente  flessibile  per essere
piegata  a  diverse  finalita',  e in secondo luogo se tale finalita'
fosse  davvero capace di giustificare razionalmente la diversa e piu'
rigorosa  tutela  dell'onore  dei p.u. rispetto all'onore dei privati
cittadini,  alla luce di tutte le norme costituzionali che vengono in
considerazione.
    4.h). - Norme  e  principi  costituzionali in possibile contrasto
con l'art. 341 c.p. nel suo complesso: a) il principio di uguaglianza
e della pari dignita' sociale.
    Venendo   finalmente  alle  norme  costituzionali  con  le  quali
l'art. 341 c.p. sembra entrare in rotta di collisione, viene in prima
battuta  in  considerazione  il  principio  per  il  quale  "tutti  i
cittadini   hanno   pari  dignita'  sociale (...)  senza  distinzione
di (...)  condizioni personali e sociali" (art. 3, comma 1 Cost.). Al
riguardo  va  osservato,  da  un lato, come la Costituzione consideri
primo  valore  costituzionale  la  persona in se', prescindendo dalle
qualita'  ad  essa  inerenti  e dalle mansioni da essa esercitate, e,
dall'altro, che il bene tipicamente personale dell'onore, inteso come
valore  morale  intrinseco  alla persona in quanto tale, altro non e'
che  un  particolare  aspetto  di  quella  dignita'  sociale  cui  fa
riferimento l'art. 3 Cost., rientra nei diritti inviolabili dell'uomo
riconosciuti  dall'art. 2 Cost. ed e', infine, per sua natura, eguale
in tutti gli uomini, indipendentemente da giudizi sociali di merito o
di  demerito.  Posta questa premessa e' evidente che l'art. 341 c.p.,
in  quanto  comportava  una  tutela  privilegiata dell'onore del p.u.
rispetto   a   quella  apprestata  all'onore  dei  privati  cittadini
dall'art. 594  c.p.,  si  poneva  in  contrasto, in modo diretto, col
principio  della  pari  dignita'  sociale,  nella  misura  in  cui si
escludeva  che  esso tutelasse altri e diversi beni giuridici. Invero
la  diversa  e  piu'  rigorosa  tutela  prevista  dall'art. 341 c.p.,
rispetto  all'art. 594  c.p.  veniva  collegata  al  mero  status  di
pubblico  ufficiale,  utilizzando  cioe'  un criterio di distinzione,
quello  delle  "condizioni  personali e sociali", espressamente fatto
oggetto di divieto dalla norma costituzionale. D'altra parte non puo'
essere  negato  che  il  principio  di  uguaglianza  e'  un principio
fondamentale  che,  in  quanto  tale,  non ammette limitazione se non
fondate su interessi costituzionalmente rilevanti.
    Da  questo punto di vista occorre appunto verificare se la tutela
diversificata   dell'onore   del  p.u.  potesse  trovare  ragionevole
giustificazione  nella  ratio  del principio del buon andamento della
p.a.,  costituzionalmente  rilevante  a  norma  dell'art. 97, comma 1
Cost. Ma una simile prospettiva non sembrava seriamente praticabile e
cio' almeno per tre ragioni.
    La  prima  e'  che  il  principio  del buon andamento della p.a.,
peraltro  difficilmente  estensibile  sino al punto da comprendere il
semplice  "normale  funzionamento" della p.a., non sembra sia assunto
dalla  Costituzione  come  valore  in  se',  ma piuttosto come valore
funzionale  alla  garanzia  dei  diritti inviolabili dei cittadini e,
pertanto,  non  puo'  assumersi il diritto alla pari dignita' sociale
"in  funzione"  della  piena  realizzazione  dell'interesse  al  buon
funzionamento  della  p.a. In secondo luogo occorre prendere atto che
la  fattispecie  di  cui  all'art. 341  c.p.  era  stata  strutturata
seguendo   direttrici  di  tutela  del  tutto  diverse,  fondate  sul
principio  d'autorita'  e  la  norma  tradiva  questa origine ad ogni
applicazione   concreta,   tanto   da   risultare   in  larga  misura
insensibile,  sotto  il profilo del concreto contenuto precettivo, al
mutamento  di  prospettiva, sul piano dello scopo politico criminale,
imposto  dai nuovi valori costituzionali. Se ne deve pertanto dedurre
che  lo strumento apprestato fosse radicalmente inidoneo ed incongruo
rispetto  al fine prospettato, perche' finiva col punire, in modo del
tutto  sproporzionato,  oltre a condotte in qualche modo coinvolgenti
anche  il  buon  andamento  della p.a., sia pure in senso assai lato,
intere  categorie  di condotte, che nulla avevano a che fare con quel
fine,  con  conseguente violazione ancora dell'art. 3 Cost., sotto il
profilo  del  criterio  di  ragionevolezza.  In  terzo  luogo  e'  la
giustificazione  stessa  alla  diversa tutela accordata all'onore del
p.u.  incentrata  sul "buon andamento" che contrasta col "modello" di
p.a.  accolto  dalla  Costituzione.  Infatti  il  rapporto tra p.a. e
cittadino  nell'attuale  assetto  costituzionale,  e'  essenzialmente
paritario  e  di  "partecipazione",  con  un  netto ed inequivocabile
rifiuto  del  principio  di  autorita'  e  di  "fedelta'" allo Stato,
caratterizzante il precedente regime. Cio' lo si desume anzitutto dal
principio  secondo  il  quale  "la  sovranita'  appartiene al popolo"
(art. 1, comma 2 Cost.). E' ben vero che l'esercizio della sovranita'
e'  consentito solo "nelle forme e nei limiti della Costituzione", ma
cio'   non   toglie,   da   un   lato,   l'importanza   di  principio
dell'affermazione  dell'originaria  appartenenza del potere al popolo
e, dall'altro, grazie al collegamento con il resto della Costituzione
e, in primo luogo col principio personalista di cui all'art. 2 Cost.,
la  possibilita' di rinvenire a carico di chi in concreto esercita il
potere un vincolo di corrispondenza ai fini propri del tipo di ordine
garantito dalla Costituzione medesima, con particolare riferimento al
metodo  democratico  come  il  solo che possa determinare la politica
nazionale  (art. 49  Cost.), con conseguente stretto collegamento tra
la  concezione  dei  rapporti  tra  Stato  e  cittadini  e  la  forma
(democratica)  di Stato accolta. Inoltre il collegamento con l'art. 2
Cost.  consente di riconoscere fra i diritti inerenti della persona e
in  posizione  assolutamente  primaria  quello  di  far discendere la
soggezione  del popolo all'autorita' statale dal riconoscimento della
partecipazione  del  medesimo  alla  sua formazione ed all'esplicarsi
della  sua  successiva attivita'. Cio' emerge anche nell'indicazione,
come   fine  primario,  dell'"effettiva  partecipazione  di  tutti  i
lavoratori  all'organizzazione  politica,  economica  e  sociale  del
Paese",  nell'art. 3,  comma 2  Cost.  Ne  deriva  che  le  attivita'
burocratiche  vengono  a  porsi  come modi di esercizio del potere di
partecipazione   individuale   con  conseguente  parificazione  della
condizione  personale  degli appartenenti alla burocrazia a quella di
tutti  i  cittadini.  Da  questo  punto  di  vista  il  fine del buon
andamento  della  p.a.  non  sembra  in  grado  di  giustificare  una
peculiare  tutela  dei  p.u. rispetto a quella spettante ai cittadini
proprio  perche',  cosi'  facendo, si viene ad inficiare la posizione
paritaria  tra  funzionari  e  cittadini,  reintroducendo,  in  forma
larvata,   quel  principio  d'autorita'  che  si  era  invece  voluto
decisamente respingere.
    Dal  mutamento  di  prospettiva che considera la p.a. al servizio
del  cittadino e non viceversa, discende piuttosto la possibilita' di
ravvisare  maggiori  doveri  in  capo  ai pubblici funzionari, la cui
violazione  comporta  responsabilita' sia all'interno che all'esterno
della   p.a.,   in  funzione  di  garanzia  per  il  buon  andamento,
l'imparzialita'  e  la legittimita' dell'azione degli uffici cui sono
preposti,  come si puo' desumere dagli artt. 28 e 54 comma 2 Cost. Ed
anzi  dall'art. 54, comma 2 Cost. si ha la conferma che l'"onore" del
p.u.  si  configura  non  come rispetto od ossequio dovutogli, bensi'
come  conseguenza del rigoroso adempimento dei propri doveri, sicche'
il p.u. non ha tanto il "diritto" all'onore, perlomeno non un diritto
diverso  da  quello  spettante  ad  ogni  uomo,  quanto  piuttosto il
"dovere"  di meritarsi stima e considerazione presso la collettivita'
mediante  un  comportamento  legale,  efficiente  ed  imparziale.  In
conclusione  il  funzionario  deve  essere  considerato, nell'attuale
assetto  costituzionale,  non  tanto  come  "autorita'",  bensi' come
servitore  dell'interesse  generale  e come soggetto che non fa altro
che esercitare iI potere di partecipazione proprio di ogni cittadino.
    Come si vede un'impostazione assai diversa, per non dire opposta,
di  quella  degli Stati totalitari e teocratici, secondo la quale non
esistono  diritti  dei  sudditi verso lo Stato ma solo doveri, attesa
l'origine  divina  del potere e la derivazione divina del sovrano. Ed
e'  evidente  che, mentre in un sistema di p.a. fondato sul dovere di
obbedienza  anche  una  semplice  offesa al p.u., in sua presenza e a
causa  o  nell'esercizio  delle  sue  funzioni,  puo' ragionevolmente
assumersi   come  possibile  causa  di  un'alterazione  del  "normale
svolgimento"  dell'esercizio della funzione, appunto perche' segno di
ribellione  all'autorita' e, in quanto tale, in contrasto col modello
di  p.a.  accolto,  cio'  deve invece essere decisamente negato in un
sistema  di  p.a. fondato sulla parita' tra cittadino e funzionario e
sul   diritto   dei   privati   alla  "partecipazione"  all'attivita'
burocratica.
    4.i). - (segue) b) i principi d'offensivita', di proporzione e di
determinatezza.
    Ma l'art. 341 c.p., oltre a violare il principio di uguaglianza e
le  regole  che  disciplinano  i  rapporti della p.a. coi privati, si
poneva  in  contrasto  anche  col  "volto costituzionale" del moderno
diritto  penale, che viene a caratterizzarsi soprattutto come sistema
di  limiti sostanziali al legislatore (sentenza 23 - 25 ottobre 1989,
n. 487).
    Al  riguardo  veniva  anzitutto in considerazione il principio di
necessaria  offensivita',  strettamente  legato  alla  concezione del
diritto  penale come extrema ratio (c.d. principio di sussidiarieta),
che  si  deve  ritenere  costituzionalizzato  per via di implicazione
logica  dagli  artt. 25, comma 2 (in particolare dall'uso del termine
"fatto")   e 27,   comma 3,   della  Costituzione,  letti  alla  luce
dell'art. 13  della  Costituzione.  Infatti  posto che con la pena si
viene  ad  incidere su di un bene primario come la liberta' personale
(art. 13 della Costituzione), oltre che su altri valori fondamentali,
quali  la  dignita'  sociale  ed il pieno sviluppo della personalita'
umana  (art. 3  della  Costituzione), intanto si giustifica in quanto
sia  diretta  a tutelare beni socialmente apprezzabili. Cio' comporta
l'adozione  di  un  "modello"  liberale  di  diritto  penale  fondato
sull'esigenza  di  tutelare  un  concreto interesse, offeso dal fatto
tipico.
    Nel caso dell'art. 341 c.p., una volta esclusa la possibilita' di
assumere  ad oggetto di tutela il prestigio o il buon andamento della
p.a., che semmai potevano costituire la mera ratio politico criminale
dell'incriminazione,  e'  evidente che la previsione dell'oltraggio a
pubblico ufficiale come autonomo titolo di reato non si giustificava,
non  potendosi rinvenire tale giustificazione nell'esigenza di tutela
dell'onore del singolo p.u., gia' compiutamente "coperta" dal diverso
reato  di cui all'art. 594 c.p. (aggravato a norma dell'art. 61 n. 10
c.p.).     D'altra     parte    recuperare    l'originaria    ragione
dell'incriminazione,  ossia  la particolare qualificazione dell'onore
del  p.u.  in  ragione del principio di autorita', oltre ad aprire la
strada  alla  prima  censura sopra evidenziata della violazione della
pari  dignita'  sociale  e  del  modello  costituzionale di p.a., non
consentiva  di  risolvere il problema neppure sotto il profilo qui in
esame.  Infatti  se  e'  vero che il modello del reato come offesa ai
beni  giuridici  nulla  garantisce in ordine ai contenuti delle norme
incriminatrici che, pur rispettando formalmente quel modello, possono
essere  i  piu'  illiberali, si deve osservare che nel caso di specie
l'assunzione  ad  oggetto di tutela di un bene giuridico strettamente
connesso   al   principio   di   autorita'   in  se'  considerato,  e
conseguentemente  al  dovere  di obbedienza del privato nei confronti
dello  Stato,  finiva col compromettere non solo i contenuti ma anche
la  forma  stessa  di  un  diritto  penale liberale, scivolando verso
modelli  illiberali,  come  quelli  propri  del  diritto penale della
volonta'  o dell'atteggiamento interiore, a sfondo eticizzante, o del
diritto  penale dell'infedelta' allo Stato; modelli cioe' che tendono
a  concepire  il  reato  in  termini di pura disobbedienza alle norme
statuali.
    Un altro principio fondamentale che viene in considerazione e' il
principio di proporzione, desumibile dalla funzione rieducativa della
pena  di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione., purche' estesa
anche  alla  fase  dell'astratta previsione normativa, oltre che alla
fase  dell'applicazione  giudiziale  e  dell'esecuzione.  Infatti  la
finalita'  rieducativa  postula che il reo avverta che il trattamento
punitivo   inflittogli  sia  proporzionato  al  disvalore  del  fatto
commesso, perche' altrimenti si stimola un atteggiamento di ostilita'
nei confronti dell'ordinamento.
    Si  tratta di un principio, valido per l'intero diritto pubblico,
e  che  costituisce  un'applicazione  del  piu' generale principio di
uguaglianza  di cui all'art. 3 della Costituzione, risolvendosi nella
necessita'  che la scelta dello strumento per raggiungere il fine sia
limitata  da  considerazioni razionali rispetto ai valori, ma che, in
materia  penale,  acquista  una  forza  cogente  tutta particolare in
ragione  del  fatto  che  lo  strumento  penale  viene ad incidere su
diritti    fondamentali    dell'individuo.    Quale    vincolo   alla
discrezionalita'  legislativa in materia penale il principio equivale
a   negare   legittimita'   alle   incriminazioni   che,   anche   se
presumibilmente   idonee   a   raggiungere   finalita'   statuali  di
prevenzione,  producono,  attraverso la pena, danni all'individuo (ai
suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela  dei beni e dei valori delle predette incriminazioni (sentenza
n. 409/1989 cit.).
    Da questo punto di vista il principio di proporzione opera su due
piani, altrettanto importanti:
        a) sul piano della congruenza tra gravita' del fatto tipico e
sanzione,  comportando  la  necessita'  di  un  giudizio  relazionale
interno  alla  norma  (tra  fatto e pena), in considerazione del bene
della  liberta' personale sacrificato dalla pena (con possibilita' di
un  esito  diverso  a seconda del tipo di pena previsto, posto che la
pena  pecuniaria  solo  eventualmente  ed  in  misura minore viene ad
incidere   su  quel  bene,  attraverso  la  conversione  in  liberta'
controllata  o  in  lavoro  sostitutivo  in  caso  di insolvibilita':
art. 102   legge  n. 689/1981),  ed  in  tal  caso  il  giudizio  non
riguardera' direttamente lo scopo o la ratio dell'incriminazione, che
rimarra',  per  cosi' dire sullo sfondo, ma piuttosto gli elementi di
definizione  dell'offesa  (modalita'  di  lesione  e  bene  giuridico
tutelato)  ed il suo eventuale esito negativo comportera' conseguenze
esclusivamente sulla disciplina sanzionatoria;
        b)  sul piano della congruenza tra strumento normativo, ossia
la  fattispecie  criminosa,  e  finalita' che con l'incriminazione si
intende  perseguire,  ed  in  tal caso e' evidente che l'ambito della
valutazione  e'  piu'  ampio perche' coinvolgente la ratio politico -
criminale  della norma, che e' un elemento esterno alla norma stessa.
In  questo  seconda  prospettiva  cio'  che  assume  rilevanza in via
diretta  non  e'  il  profilo  sanzionatorio, bensi' la struttura del
reato,  perche'  e'  il  riferimento alle caratteristiche tipologiche
dell'offesa  a  consentire il giudizio di congruenza con la finalita'
perseguita,  mentre  l'eventuale esito negativo del giudizio dovrebbe
comportare  l'incostituzionalita' dell'intera fattispecie, perche' in
tal  caso  la  sproporzione  attiene  non  al quantum ma all'an della
tutela penalistica.
    Quanto  ai  casi in cui si realizza la sproporzione, nel senso da
ultimo  indicato, ritiene questo giudice che cio' si verifichi quando
le condotte punite siano descritte in modo tanto ampio da abbracciare
non  solo  alcune ipotesi marginali (il che non comporterebbe profili
di  illegittimita'  costituzionale  della  norma ma, semmai, semplici
motivi   di   inopportunita'   politica),  ma  addirittura  l'assolta
maggioranza di condotte, la cui punizione non ha alcuna attinenza col
fine  perseguito.  In  tal  caso infatti non si potrebbe escludere la
macroscopica   irragionevolezza   dell'incriminazione,  non  solo  in
riferimento  all'art. 27,  comma 3  della  Costituzione  ma  anche in
riferimento allo stesso art. 3 della Costituzione.
    Nel  caso  di  specie  si  e' gia' abbondantemente argomentata la
particolare "distanza" tra la struttura del reato di cui all'art. 341
c.p. e gli scopi di tutela legittimamente assumibili alla stregua del
vigente assetto costituzionale, ossia il prestigio, inteso come stima
e  "fiducia"  presso la collettivita', ovvero il buon andamento della
p.a.,  nel senso cioe' che solo in un numero irrisorio dei casi, quei
fini trovavano corrispondenza nella realta', mentre nella maggioranza
dei casi si trattava di condotte che nulla vi avevano a che fare e la
cui  punizione,  sulla base di un titolo di reato autonomo e distinto
rispetto  al  reato  di  cui  all'art. 594 c.p., trovava esclusiva ed
effettiva giustificazione sulla base dell'originaria ratio di tutela,
ossia  il  principio  di  autorita'  ed il rapporto di sudditanza tra
Stato e cittadini.
    Ma  al riguardo appare violato o comunque messo in crisi anche un
altro  principio  fondamentale,  con  funzione  di garanzia, ossia il
principio  di  sufficiente  determinatezza,  direttamente  desumibile
dalla   riserva   di   legge   di   cui  all'art. 25,  comma 2  della
Costituzione, perche' nel caso di specie ed in riferimento alle ratio
di  tutela individuate, appare evidente che le espressioni utilizzate
per   collocare   l'offesa  all'onore  del  p.u.  in  una  dimensione
"pubblicistica"    (in   particolare   l'espressione   "a   causa   o
nell'esercizio delle sue funzioni", ma anche il riferimento a tutti i
p.u.  e,  a  norma  dell'art. 344  c.p.,  ai  pubblici dipendenti che
prestino  un  pubblico servizio), erano caratterizzate da un grado di
estensione   tale   da  designare  realta'  profondamente  diverse  o
addirittura eterogenee quanto a disvalore, venendo cosi' ad integrare
un  vizio classico di deficit di determinatezza, quello per eccessiva
onnicomprensivita'  della  realta'  rappresentata  (  cfr.  circolare
Presidenza  del  Consiglio  dei ministri cit., 18). Insomma il "tipo"
individuato   dall'art. 341  c.p.  non  risultava  espressivo  di  un
omogeneo  contenuto di disvalore. La spiegazione del perche' cio' sia
accaduto  e' ancora una volta storica e riposa sull'osservazione che,
come  e'  noto,  il  legislatore  nell'elaborare  le  norme compie un
procedimento  di  astrazione  dagli  oggetti della realta' sensibile,
tutti  in  quanto  tali  diversi  tra  loro,  in  base  al quale sono
apprezzate le somiglianze e trascurate le differenze sino ad ottenere
una   classe   di   oggetti   ritenuti   sostanzialmente  "uguali"  e
riconducibili   nel   significato   concettuale  espresso  dal  segno
linguistico.  Cio'  che  pero' orienta questo processo sono scelte di
valore,  sicche'  diverse  scelte  di  valore comportano generalmente
esiti  diversi.  Nel  caso  di  specie  l'elaborazione della norma e'
avvenuta, nel 1930, su di una scelta di valore, fondata sul principio
di  autorita', nel cui ambito il reato era effettivamente in grado di
esprimere  un  contenuto  di disvalore del tutto omogeneo. Invece una
volta  che  la  scelta  di  valore  viene  cambiata, perche' cio' era
imposto  dall'avvento  della  Costituzione, l'estensione della norma,
rimasta  invariata,  non  poteva  non destare fondate perplessita' di
legittimita'  costituzionale,  perche'  a  questo  punto si' realizza
quella  insopportabile  sfasatura  tra  la  realta'  significata  e i
contenuti  valutativi  sottesi alla fattispecie, nella quale consiste
la ragione piu' profonda della violazione dell'art. 25, comma 2 della
Costituzione  e,  sotto  il profilo della ragionevolezza, dell'art. 3
della Costituzione.
    Cio',   naturalmente,  comporta  la  necessita'  di  superare  la
tradizionale   diffidenza   verso   il   principio  di  tassativita',
riconoscendo  la  sua  violazione  non solo quando i limiti "esterni"
della  fattispecie  siano  indeterminati,  cosi' da rendere incerti i
confini  tra  lecito  ed  illecito,  ma  anche  quando  e'  la stessa
fattispecie   al  suo  interno  a  risultare  indeterminata,  perche'
espressiva  di  contenuti  eterogenei,  rispetto  al  bene  giuridico
protetto  e/o  alle  finalita'  di  tutela. Del resto si tratta di un
passaggio  che  la Corte costituzionale ha gia' adombrato dichiarando
l'incostituzionalita'  dell'art. 708 c.p., riscontrando un deficit di
tassativita' non in via assoluta ma perche' strumento ottocentesco di
difesa  sociale  del  tutto  inadeguato  rispetto  alle  finalita' di
tutela,  anche  in  relazione  alle  mutate condizioni sociali, e, in
quanto  tale,  irragionevole  a  norma dell'art. 3 della Costituzione
(sentenza  17 ottobre  -  2  novembre  1996,  n. 370).  Ne'  il vizio
appariva  sanabile  in  via interpretativa. Infatti il compito di una
selezione delle condotte meritevoli della maggiore, rispetto al reato
di  ingiuria,  tutela  di  cui all'art. 341 c.p., nella misura in cui
impone  la  scelta  su  diverse opzioni di politica criminale, spetta
necessariamente al legislatore.
    D'altra  parte  va  ricordato che il principio di determinatezza,
analogamente  al  divieto  di  analogia in malam partem, si pone come
garanzia  a  salvaguardia  degli eccessi del potere giudiziario, e la
sua  violazione  comporta  tipicamente  la  necessita'  di operazioni
interpretative  dirette  a  meglio  delimitare il contenuto normativo
della   disposizione   senza  che  pero'  siano  offerte  sufficienti
indicazioni  da parte del segno linguistico (Circolare Presidenza del
Consiglio dei ministri cit., 19), scadendo in un'opera interpretativa
necessariamente  intuitiva,  variabile  da interprete ad interprete a
seconda  della  sensibilita'  e  delle  inclinazioni  ideologiche  di
ciascuno.
    Neppure era possibile richiamarsi alla discrezionalita' riservata
al  giudice  in  sede  di applicazione della pena tra il minimo ed il
massimo  a norma dell'art. 133 c.p., affermando cioe' che spettava al
giudice  individuare  i casi piu' lievi, perche' coinvolgenti il solo
bene  dell'onore  del  singolo p.u., da punire col minimo della pena,
differenziandoli  dai  casi  piu'  gravi, perche' offensivi anche del
bene del prestigio o del buon andamento della p.a., meritevoli di una
pena  piu'  severa,  magari  sottolineando  che  era  proprio l'ampia
forbice  editale conseguente alla sentenza n. 341/1994 che consentiva
di ricondurre in uno stesso modello di genere una pluralita' di sotto
-  fattispecie  diverse per struttura e disvalore. In particolare non
poteva  essere  a  tal  fine citato come precedente la sentenza della
Corte  costituzionale  23 maggio - 18 giugno 1991, n. 285, per almeno
tre  ragioni.  In  primo  luogo  in  quella occasione la questione di
legittimita'   costituzionale   era  stata  sollevata  con  esclusivo
riferimento   all'art. 3   della   Costituzione,   sotto  il  profilo
dell'ingiustificata   parificazione   di   trattamento   di   ipotesi
diversificate,  mentre  in  questi  casi  assume  preminente  rilievo
piuttosto  l'art. 25, comma 2 della Costituzione. In secondo luogo in
quel  caso  la normativa ordinaria denunziata poteva avvalersi di una
attenuante  ad effetto speciale (art. 5 legge 2 ottobre 1967, n. 895)
che  consente  una riduzione della pena sino a due terzi, permettendo
di  differenziare  le  diverse ipotesi e la Corte costituzionale, nel
respingere  la  questione,  ha sottolineato con forza l'importanza di
questo  elemento.  In  terzo  luogo  in  quella occasione mancava una
fattispecie che potesse assumersi come termine di paragone, mentre in
questo  caso  non puo' sfuggire che la medesima strada interpretativa
diviene impraticabile proprio per la naturale vocazione dell'art. 594
c.p.  a porsi come tertium paragonis. Infatti una volta ammesso che i
"casi  lievi"  in  nulla  si distinguono dalle ipotesi punite a norma
dell'art. 594  c.p.  (e  art. 61,  n. 10  c.p.)  non sembra possibile
giustificare   razionalmente   una  diversa  disciplina.  Insomma  la
disomogeneita'  e'  gia'  a livello astratto e ad essa non puo' porsi
rimedio  mediante  le valutazioni che, sul piano concreto, il giudice
deve  compiere  ai  fini della determinazione in concreto della pena,
perche'  e' lo stesso trattamento punitivo minimo di cui all'art. 341
c.p., a risultare sproporzionato e, in confronto con l'art. 594 c.p.,
irragionevole  per  la  mancata  previsione  della pena pecuniaria (e
dell'intera   disciplina  propria  dell'art. 594  c.p.,  compresa  la
procedibilita).
    D'altra  parte non va neppure dimenticato che la riserva di legge
di  cui  all'art. 25,  comma  2 della Costituzione si riferisce anche
alla  pena  e  deve  pertanto  ritenersi  violata dalla previsione di
fattispecie  "ad amplissimo spettro" con forbici edittali tanto ampie
da far scivolare la discrezionalita' del giudice nella determinazione
della  pena  nell'arbitrio  punitivo.  Anche  in  tal caso infatti si
affida - si potrebbe dire sulla base di una sorta di delega in bianco
nelle  scelte  punitive - al giudice l'individuazione, gia' a livello
astratto,  della  gravita' del fatto, smarrendo la "significativita'"
del  tipo  e  la  funzione  di  guida  della  norma  penale,  nonche'
confondendo  il  piano  della quantificazione del disvalore del fatto
sulla base di ragionevoli scelte di valore, riservato al legislatore,
col piano della commisurazione della pena, in relazione alle infinite
variabili  del  caso  concreto,  di pertinenza del giudice. La stessa
Corte  costituzionale, nella sentenza sopra citata, non ha mancato di
ribadire  che  l'individuazione  del  disvalore oggettivo dei fatti -
reato tipici, e quindi del loro diverso grado di offensivita', spetta
al   legislatore;   mentre   al   giudice   compete  di  valutare  la
particolarita'  del  caso  singolo  onde  individualizzare  la  pena,
stabilendo  in  base ad esse, nella cornice posta dai limiti edittali
quella  adeguata  in concreto. Poiche' gli ambiti delle due sfere non
vanno  confuse e' compito del legislatore di rispettare quel rapporto
attraverso  un'adeguata  articolazione  dei trattamenti sanzionatori.
Non  solo  ma  la  stessa  Corte  costituzionale  non  ha esitato dal
dichiarare  incostituzionale  una  norma  incriminatrice,  sulla base
degli  stessi rilievi, in presenza di un divario eccessivo tra minimo
e massimo di pena (da due a 24 anni di reclusione, con un rapporto di
1 a 12), di una questione sollevata in relazione all'art. 25, comma 2
della  Costituzione  e  di  una  diversa  norma  incriminatrice  piu'
generale,  alla  quale  le  condotte  previste dalla norma dichiarata
incostituzionale  potessero essere ricondotte, funzione che, nel caso
di specie, e' svolta agevolmente dall'art. 594 c.p. (sentenza 15 - 24
giungo  1992,  n. 299).  Da questo punto di vista era la stesso ampia
forbice editale prevista dall'art. 341 c.p., a seguito della sentenza
n. 341/1994,  che  va  da  15 giorni  a  2 anni di reclusione (con un
rapporto  da 1  a 48)  a  destare serie perplessita' sotto il profilo
della legittimita' costituzionale della norma.
    4.l). - (segue) c) principio del buon andamento della p.a.
    Ultimo   profilo   di   possibile  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 341  c.p.,  nel  suo  complesso,  che  va evidenziato e' il
principio  del  buon  andamento  della  p.a. di cui all'art. 97 della
Costituzione,  che  potrebbe  apparire paradossale se si pensa che il
medesimo   principio   era  generalmente  individuato  come  il  fine
dell'incriminazione,  se  non  addirittura  come  il  bene  giuridico
protetto.  Tuttavia  a ben vedere cio' non deve sorprendere perche' i
fini   di   politica  criminale  impongono  l'adozione  di  strumenti
congruenti con essi e non di strumenti assolutamente sproporzionati e
sovrabbondanti e, in quanto tali, controproducenti.
    Ora,  la prassi mostra come l'incriminazione indiscriminata delle
condotte  descritte  dall'art. 341  c.p.  non risultava il piu' delle
volte    per    nulla    funzionale   all'efficienza   delle   stesse
amministrazioni  di appartenenza del singolo p.u. offeso, obbligato a
denunziare il fatto a norma dell'art. 361 c.p., ad assentarsi dal suo
ufficio  per  presentarsi a rendere testimonianza anche a distanza di
anni,  magari  affrontando viaggi notevoli a seguito di trasferimenti
successivi   al   fatto,   con  correlativo  dispiegamento  di  tutta
un'attivita'  burocratica,  prima  ancora  che giudiziaria, del tutto
sproporzionata  alla  scarsissima  rilevanza  del  disvalore  sociale
(sotto  il  profilo  dell'interesse pubblicistico del prestigio o del
buon  andamento  della  p.a.)  riscontrabile  in simili fatti, con un
bilancio,   in   termini   di   analisi   costi/benefici,  gravemente
deficitario anche dal punto di vista della p.a. stessa.
    Non  solo, ma si deve peraltro precisare che una simile rigidita'
di   reazione   da   parte  dei  p.u.,  imposta  per  legge,  avverso
comportamenti  certo  disdicevoli ed anche penalmente illeciti, sotto
il  profilo  dell'offesa  all'onore  del  singolo  p.u.,  ma  che  la
coscienza  sociale  stentava del tutto a riconoscere come qualificati
da  una quota aggiuntiva di disvalore, finiva proprio con l'inficiare
quella  "fiducia"  dei consociati nella p.a. che e' essenziale per un
corretto  svolgimento  delle funzioni pubbliche secondo il modello di
p.a.  accolto  dalla  Costituzione, finendo per porsi come fattore di
"estraneita'" e di "distanza" tra p.a. e cittadino.
    4.m). - Profili   di  incostituzionalita'  parziali:  a)  mancata
previsione della pena pecuniaria.
    Venendo  ai dubbi di legittimita' costituzionale "parziali", essi
attengono  alla  mancata  previsione,  almeno  per  i  casi di minore
gravita',  della pena pecuniaria, in alternativa alla pena detentiva,
e della procedibilita' a querela di parte.
    Quanto  alla  mancata  previsione della pena pecuniaria, viene in
considerazione,  oltre  al  principio di uguaglianza sotto il profilo
del  criterio  di  ragionevolezza  ed in generale tutte le norme ed i
principi  costituzionali  sopra evidenziati, soprattutto il principio
di  proporzione di cui all'art. 27, comma 3 della Costituzione, nella
sua versione che si potrebbe definire "classica", ossia come criterio
di  congruenza  tra  tipo  e  quantita'  di pena e gravita' del fatto
tipico.  Nel  caso  di  specie va osservato che la mancata previsione
della  pena  pecuniaria  comportava  l'impossibilita'  di adeguare il
trattamento   sanzionatorio  all'effettivo  disvalore  del  fatto  in
concreto   commesso.   L'illegittimita'   costituzionale   di  questa
soluzione,  almeno  per  i "casi piu' lievi", emerge ancora una volta
dal raffronto col reato di ingiuria, sotto il profilo del criterio di
ragionevolezza di cui all'art. 3 della Costituzione. D'altra parte se
un simile raffronto, giustificato, come si e' visto, dal fatto che in
questi  casi  entrambe  le  fattispecie  finiscono  col  tutelare  il
medesimo  bene  giuridico,  senza  apprezzabili differenze, portava a
considerare  irragionevole  una  pena  detentiva  superiore di dodici
volte  nel  limite  minimo (sentenza n. 314/1994 cit.), a fortiori si
poteva  ritenere  incostituzionale  la  mancata previsione della pena
pecuniaria,  in  alternativa  alla  pena  detentiva,  prevista invece
dall'art. 594  c.p. Non si deve infatti dimenticare che la previsione
della  sola  pena  detentiva  va limitata alle sole ipotesi in cui la
gravita'  dell'illecito sia particolarmente elevata, ed assolutamente
indispensabile  il  ricorso  alla detenzione, mentre le sperequazioni
punitive  tra  ipotesi di reato comparabili, per relativa omogeneita'
di contenuto offensivo, in ordine alla qualita' prima ancora che alla
quantificazione  della  pena,  finiscono con l'incidere negativamente
sulla funzione di prevenzione generale, perche' denunciano casualita'
ed   eccentricita'   dell'incriminazione  (circolare  Presidenza  del
Consiglio dei ministri, cit., 16, 6.2). Si e' peraltro gia' osservato
che  la  previsione di una pena pecuniaria modifica il giudizio sulla
proporzione  della  pena, in termini generali, rispetto alla gravita'
del  fatto  reato,  venendo  ad  incidere sul bene fondamentale della
liberta' personale (art. 13 della Costituzione) solo in via eventuale
ed   in   minor   misura  (attraverso  la  sostituzione  in  liberta'
controllata o lavoro sostitutivo).
    Infine  il problema dell'individuazione dei limiti edittali della
pena   pecuniaria,   conseguenti  ad  un'eventuale  dichiarazione  di
incostituzionalita'  della  norma,  limitata a questo aspetto, poteva
agevolmente  essere  risolto  mediante  il  riferimento  o  ai limiti
generali   di   cui   all'art. 24  c.p.  oppure  ai  limiti  previsti
dall'art. 594 c.p., ossia previsti per il reato assunto quale tertium
paragonis, secondo una tecnica non nuova e seguita dalla stessa Corte
costituzionale in un caso in cui l'omogeneita' strutturale tra le due
fattispecie   poste  a  confronto  era  certamente  minore  (sentenza
409/89 cit.).
    4.n). - (segue) b) Procedibilita'.
    In  ordine  alla  procedibilita',  poteva  essere sottolineato il
profilo  di  una  disparita' di trattamento questa volta ai darmi dei
pubblici  ufficiali,  discriminati,  rispetto  ai  comuni  cittadini,
perche'  privati  del potere di proporre, come anche di non proporre,
nonche'  di rimettere, la querela a tutela della propria onorabilita'
(  cfr. Pret. Prato 15 gennaio 1975 in Giur. della Costituzione 1975,
1732,  la  relativa  questione,  sollevata  con esclusivo riferimento
all'art. 3  della  Costituzione, e' stata respinta dalla sentenza 2 -
14 aprile 1980 n. 51).
    In  questa  sede  la  questione  deve essere riproposta, anche in
riferimento    all'art. 97   della   Costituzione   e.   soprattutto,
all'art. 25  comma  2  della  Costituzione,  sia  sulla base di tutto
quanto  gia'  si  e'  detto  in ordine all'obiettivita' giuridica del
reato,   sia   cercando   di  svelare  i  nessi  tra  funzione  della
procedibilita'  a  querela  e  natura del bene protetto dall'art. 594
c.p., in rapporto al principio di determinatezza.
    Sotto  il  primo  profilo  bastera'  ricordare  come l'originaria
configurazione  del reato concepisse la tutela dell'onore del singolo
p.u.  come  semplice  "mezzo"  per  perseguire  un fine di piu' ampia
portata,  ossia il principio di autorita', sicche' veniva imposta una
correlazione necessaria tra lesione del bene personale dell'onore del
singolo   p.u.   e  dimensione  pubblicistica  dell'offesa,  con  una
soluzione non priva, una volta accolta la scelta di valore che vi era
sottesa,  di  una certa coerenza, perche' innegabile e' la congruenza
con  quel  fine dello strumento apprestato. Ma, come si e' visto, una
simile  congruenza  inevitabilmente  svanisce  una  volta  mutata  la
prospettiva   di  tutela  mediante  l'adozione  delle  finalita'  del
prestigio  o  del  buon  andamento  della  p.a.,  in  luogo di quella
originaria,  perche'  a  questo  punto era la stessa estensione della
fattispecie  a  non trovare piu' valida giustificazione, tanto da far
apparire  lo  strumento  di  cui  all'art. 341  c.p. come palesemente
incongruo rispetto a quei fini.
    Si aggiunga che il significato della procedibilita' della querela
per  i  reati di ingiuria e diffamazione (art. 597 c.p.) va ricercato
nell'individualita',  si potrebbe dire "intimita'" del bene giuridico
protetto dell'onore, quale diritto della personalita' di ciascun uomo
in quanto tale, in se' e per se' considerato, e nell'obiettiva scarsa
gravita'  che spesso queste condotte, sotto il profilo dell'interesse
statuale  al  mantenimento dell'ordine sociale, assumono. Con cio' si
vuoi  dire  che  si  tratta  di condotte che tipicamente si originano
nell'ambito  di conflitti interpersonali, coinvolgenti una dimensione
prima di tutto, per cosi' dire, "privatistica", che spesso trovano un
adeguato  componimento nell'ambito del medesimo rapporto, mediante ad
es.,  presentazione di scuse o risarcimento dei danni, sicche' appare
oltre  modo  opportuno  limitare l'intervento punitivo dello Stato al
caso  di  presentazione di querela anche al fine, mediante l'istituto
della remissione, di favorire componimenti in via bonaria. Inoltre la
funzione  della  querela, in stretta correlazione con il principio di
determinatezza   di  cui  all'art. 25,  comma 2  della  costituzione,
consiste  anche  nel  selezionare le condotte realmente offensive, in
modo  da  arginare  il  rischio  che  l'azione penale sia promossa in
relazione   ad   un'infinita'  di  fatti  bagattellari  con  evidente
pregiudizio di un'efficiente amministrazione della giustizia.
    Ebbene  col  reato di oltraggio a p.u., procedibile d'ufficio, si
veniva    a    realizzare    una   sorta   di   "sacrificio"   o   di
"strumentalizzazione"  di  un  bene specificatamente personale, quale
l'onore  del  singolo  p.u.,  in  funzione  del  perseguimento di una
finalita'   pubblicistica   trascendente  l'interesse  della  persona
fisica,  che  tuttavia  si risolveva alternativamente o in una scelta
credibile  ma  di per se' in contrasto con la Costituzione (principio
di  autorita),  ovvero  in  una  scelta  di  per  se'  conforme  alla
Costituzione  (prestigio  o  buon  andamento  della p.a.), ma che non
trovava  alcun  riscontro  nella  struttura  del  reato,  essendo  il
collegamento  con  la  pubblica  funzione tanto generico da risultare
evanescente.  Vi  e'  allora  da  chiedersi  se  fosse  razionalmente
giustificabile  il  sacrificio imposto ai p.u., privati del potere di
tutelare  autonomamente  un  bene  della  loro  personalita'  ed anzi
gravati   dell'obbligo   di   presentare   denunzia,  da  una  tutela
"pubblicistica",  priva  in realta' di concreti elementi di riscontro
normativo.  O  non  fosse piuttosto preferibile, e costituzionalmente
imposto,  selezionare, dal punto di vista tipologico, quelle condotte
la  cui  punizione fosse effettivamente funzionale alle finalita' del
prestigio  e/o  del  buon andamento della p.a. e lasciare negli altri
casi alla libera decisione del singolo p.u. la tutela dei beni propri
della  sua  personalita', mediante l'esercizio del potere di proporre
querela.
    L'art. 341  c.p.  incideva  anche pesantemente sul buon andamento
della   p.a.   in  generale  e  dell'amministrazione  giudiziaria  in
particolare, imponendo da un lato l'obbligo della denunzia al p.u. e,
dall'altro  l'obbligo  dell'esercizio  dell'azione  penale  (art. 112
Cost.)  in  ordine  a  tutti  i  casi,  anche  quelli  obiettivamente
bagattellari  ed  in  cui  il p.u. non si fosse sentito offeso (e non
avrebbe pertanto presentato querela) o avesse ricevuto tutte le scuse
del caso (e avrebbe pertanto presumibilmente rimesso la querela).
                              P. Q. M.
    Letto l'art. 671 c.p.p.;
    Rigetta  la  richiesta di applicazione della disciplina del reato
continuato tra le sentenza sopra indicate sub 1), 2) e 3);
    Letto l'art. 23 legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara  in  via  principale,  rilevante  e  non  manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' costituzionale del combinato
normativo  di  cui  agli  artt. 2,  comma terzo c.p. e 673 c.p.p., in
relazione agli artt. 3, comma primo, 13, 25, comma secondo, 27, comma
terzo della Costituzione, nella parte in cui non consente la modifica
della sentenza di condanna passata in giudicato in caso di intervento
di una legge penale in senso favorevole al condannato, nei termini di
cui alla motivazione.
    Dichiara,  in  via  subordinata  al  rigetto  della questione che
precede,  rilevante  e  non  manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 341  c.p.  in  relazione agli
artt. 1,  comma  2,  3, commi primo e secondo, 25, comma secondo, 27,
comma  terzo, 28, 54 e 97, comma primo della Costituzione nei termini
di cui alla motivazione.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale in Roma. Sospende il procedimento in corso.
    Ordina  che  la presente ordinanza venga notificata, a cura della
Cancelleria,   all'interessato,   al  suo  difensore  e  al  pubblico
ministero in sede, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e
comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento.
    Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di competenza.
        Rovereto, addi' 13 luglio 2001.
                    Il Presidente relatore: Dies
01C1096