N. 25 SENTENZA 11 - 15 febbraio 2002

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale.

Questione  di  legittimita'  costituzionale - Intervenuta abrogazione
  della  norma denunciata - Riproduzione del suo contenuto precettivo
  in   altra   disposizione   -   Trasferimento  della  questione  su
  quest'ultima.
Elezioni  -  Elezioni comunali - Elettorato passivo - Decadenza dalla
  carica   elettiva,   in   caso  di  condanna  irrevocabile,  ovvero
  sospensione obbligatoria dalla carica elettiva, in caso di condanna
  non   definitiva   per   determinati   delitti -   Esclusione   del
  riconoscimento  della  circostanza  attenuante  dell'aver agito per
  motivi di particolare valore morale e sociale o della lieve entita'
  del  fatto addebitato - Lamentata irragionevolezza - Non fondatezza
  della questione.
-Legge  19  marzo  1990,  n. 55,  art.  15, commi 1 lettera a), 4-bis
  lettera  a) e 4-ter, sostituiti dall'art. 58, comma 1 lettera a), e
  dall'art.  59,  comma  1 lettera a) e comma 4, del d.lgs. 18 agosto
  2000, n. 267.
- Costituzione, artt. 3 e 51.
(GU n.8 del 20-2-2002 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Cesare RUPERTO;
  Giudici:  Massimo  VARI,  Riccardo  CHIEPPA,  Gustavo  ZAGREBELSKY,
Valerio  ONIDA,  Carlo  MEZZANOTTE, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto
CAPOTOSTI,  Annibale  MARINI,  Franco  BILE,  Giovanni  Maria  FLICK,
Francesco AMIRANTE;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 15, commi 1
lettera a) 4-bis lettera a) e 4-ter, della legge 19 marzo 1990, n. 55
(Nuove  disposizioni  per  la  prevenzione  della delinquenza di tipo
mafioso  e  di  altre  gravi forme di manifestazione di pericolosita'
sociale),  come  modificata  dalla  legge  13 dicembre  1999,  n. 475
(Modifiche  all'art. 15 della legge 9 marzo 1990, n. 55, e successive
modificazioni) promosso con ordinanza del 4 maggio 2000 dal Tribunale
di  Roma  nel procedimento civile vertente tra G. P. e il Prefetto di
Roma  ed  altro,  iscritta  al  n. 634  del registro ordinanze 2000 e
pubblicata  nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 45, 1a serie
speciale, dell'anno 2000.
    Visti  gli  atti  di  costituzione  di G. P. e del comune di Roma
nonche'  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  18 dicembre  2001  il giudice
relatore Piero Alberto Capotosti;
    Uditi  gli  avvocati  Giandomenico  Caiazza per G. P., Sebastiano
Capotorto  per  il  comune  di Roma e l'avvocato dello Stato Giuseppe
Fiengo per il Presidente del Consiglio dei ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1.  - Il Tribunale di Roma, seconda sezione civile, con ordinanza
del  4 maggio  2000,  ha  sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 51
della  Costituzione,  questione  di  legittimita' costituzionale "del
combinato  disposto"  dell'art. 15, commi 1 lettera a), 4-bis lettera
a), e 4-ter, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove disposizioni per
la  prevenzione  della  delinquenza  di tipo mafioso e di altre gravi
forme   di   manifestazione  di  pericolosita'  sociale),  nel  testo
modificato   dalla   legge   13 dicembre   1999,   n. 475  (Modifiche
all'art. 15   della   legge   19 marzo   1990,  n. 55,  e  successive
modificazioni)  "nella parte in cui tali norme prevedono la decadenza
di  diritto dalle cariche elettive (in caso di condanna irrevocabile)
e,  conseguentemente,  la sospensione dalle medesime cariche (in caso
di  condanna non definitiva) per uno dei reati di cui all'art. 73 del
d.P.R.  9 ottobre  1990,  n. 309,  attenuato  sia  dalla  circostanza
dell'aver  agito  per  motivi di particolare valore morale e sociale,
sia dalla circostanza di cui al comma quinto del medesimo articolo".
    1.1.  -  Il  giudizio principale ha ad oggetto l'impugnazione del
provvedimento  con  cui  il  prefetto  ha disposto la sospensione del
ricorrente  dalla  carica di membro del consiglio comunale di Roma, a
seguito  della  sentenza penale di primo grado con cui il predetto e'
stato  condannato  alla pena di due mesi e venti giorni di reclusione
(sostituita  con  la  pena  della  multa di lire 6.000.000) e di lire
1.000.000  di multa per il reato di cui all'art. 73 del d.P.R. n. 309
del  1990,  con il riconoscimento dell'attenuante della lieve entita'
del   fatto  (art. 73,  comma  5,  cit.)  nonche'  delle  circostanze
attenuanti generiche e della circostanza di avere agito per motivi di
particolare valore morale e sociale.
    1.2.  -  Secondo  il  giudice  rimettente, sarebbe irragionevole,
anche  alla luce delle finalita' perseguite dalla legge numero 55 del
1990,  che  una "condotta" ritenuta dal giudice penale caratterizzata
da   sentimenti   "di  spiccata  nobilta'  ed  elevatezza",  tali  da
giustificare  l'applicazione  dell'attenuante dell'art. 62, numero 1,
cod.  pen.,  sia tuttavia considerata indice di "indegnita' morale ai
fini della decadenza dalle cariche elettive".
    L'irragionevolezza risulterebbe anche dal fatto che, diversamente
da  quanto  accade  per  altri reati di pari allarme sociale indicati
dalla  medesima disposizione (il porto, la detenzione ed il trasporto
di  armi,  munizioni  e  materie  esplodenti),  per  quelli  previsti
dall'art. 73  del d.P.R. n. 309 del 1990 la norma impugnata non fissa
un  limite  minimo  di  pena ai fini della declaratoria di decadenza.
Pertanto,  la  sospensione  di  diritto  deve  essere applicata anche
qualora sia inflitta "una pena estremamente contenuta".
    2.   -  Nel  giudizio  dinanzi  alla  Corte,  e'  intervenuto  il
Presidente   del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e  difeso
dall'Avvocatura  generale  dello Stato, chiedendo che la questione di
legittimita' costituzionale sia dichiarata inammissibile o infondata.
    Nella  memoria  depositata in prossimita' dell'udienza, la difesa
erariale  ha dedotto che l'automatismo previsto dalla norma impugnata
garantisce  il  rispetto  del  principio  di  eguaglianza e la tutela
dell'ordine  pubblico.  La  limitazione  del  diritto  di  elettorato
passivo  che  ne  deriva  sarebbe giustificata, secondo l'Avvocatura,
dalla  lesione  del  rapporto  fiduciario  con  il  corpo elettorale,
conseguente  alla  condanna  per i gravi delitti elencati nella norma
impugnata.
    3.  -  Si  e'  inoltre  costituita  la  parte  privata  chiedendo
preliminarmente  il trasferimento della questione sugli artt. 58 e 59
del  decreto  legislativo  18 agosto  2000,  n. 267,  in  quanto tale
decreto  ha  formalmente abrogato la norma impugnata e ne ha recepito
integralmente il contenuto.
    Nel merito, ha insistito per l'accoglimento della questione.
    4. - Si e' infine costituito il comune di Roma, che si e' rimesso
alla giustizia, ritenendo la questione di legittimita' costituzionale
meritevole di positiva considerazione.

                       Considerato in diritto

    1.  -  La questione di legittimita' costituzionale, sollevata con
l'ordinanza indicata in epigrafe, concerne l'art. 15, commi 1 lettera
a), 4-bis lettera a) e 4-ter, della legge 19 marzo 1990, n. 55 (Nuove
disposizioni  per  la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e
di  altre  gravi  forme di manifestazione di pericolosita' sociale) e
successive  integrazioni  e modificazioni, nella parte in cui dispone
la  sospensione  obbligatoria  da  determinate  cariche  elettive,  a
seguito  di  condanna  non  definitiva  per  uno  dei  reati indicati
nell'art. 73  del  d.P.R.  9 ottobre  1990, n. 309 (Testo unico delle
leggi   in  materia  di  disciplina  degli  stupefacenti  e  sostanze
psicotrope,  prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di
tossicodipendenza),    senza   prevedere   l'ipotesi   dell'eventuale
riconoscimento  della  circostanza  attenuante  dell'aver  agito  per
motivi  di  particolare valore morale e sociale, o anche quella della
lieve  entita'  del  fatto addebitato, di cui al comma 5 del medesimo
articolo.
    Le  norme  impugnate  sarebbero  infatti in contrasto, secondo il
giudice  rimettente,  con  gli  artt. 3  e  51 della Costituzione, in
quanto sarebbe contraddittoria ed irragionevole la scelta legislativa
di  considerare,  ai  fini  dell'applicazione della decadenza e della
sospensione  automatiche da certe cariche elettive, anche le condanne
ad una pena diminuita per effetto della concessione della circostanza
attenuante  dell'azione  commessa  per  motivi  di particolare valore
morale  e  sociale,  oltre che del riconoscimento della lieve entita'
del fatto addebitato.
    2.  -  In  via  preliminare  occorre rilevare che l'art. 15 della
legge  n. 55  del  1990  risulta formalmente abrogato, tra gli altri,
dall'art. 274,  comma 1 lettera p), del sopravvenuto d.lgs. 18 agosto
2000,  n. 267  (Testo  unico  delle leggi sull'ordinamento degli enti
locali),  ma  il  suo  contenuto  precettivo  e'  stato integralmente
riprodotto dal combinato disposto degli artt. 58, comma 1 lettera a),
e  59,  comma  1  lettera  a)  e  comma  4, cosicche' la questione di
legittimita'  costituzionale  sollevata  deve  intendersi  trasferita
sulle  predette  disposizioni  del  testo unico, mediante le quali le
norme   denunciate   continuano  tuttora  a  vivere  nell'ordinamento
(sentenze n. 376 del 2000 e n. 454 del 1998).
    3.  -  La prospettata questione di legittimita' costituzionale si
incentra  essenzialmente  sul  profilo  della  irragionevolezza delle
norme censurate, che, secondo l'ordinanza di rimessione, non prendono
in  considerazione  la  circostanza  della  lieve  entita'  del fatto
addebitato  e  soprattutto  non  "escludono  la decadenza per cariche
elettive  anche  nel  caso  di  condanna  per  reati  attenuati dalla
circostanza  dell'avere,  il  reo,  agito  per  motivi di particolare
valore  morale  e  sociale", nonostante che l'attenuante in questione
possa  essere  espressione,  secondo la giurisprudenza della Corte di
cassazione  riferita  dal  giudice  a  quo di sentimenti "di spiccata
nobilta'  ed elevatezza". In altri termini, la Corte non e' chiamata,
in  questo  giudizio,  a  valutare  le specifiche ipotesi delittuose,
previste dalla citata lettera a), sotto il profilo dell'adeguatezza o
della proporzione tra ciascuna di esse e la misura cautelare disposta
dal  comma 4-bis, ma soltanto a giudicare se sia irragionevole che la
predetta  "condotta",  cosi' come qualificata dal giudice rimettente,
sia  ritenuta "indice di sicura indegnita' morale", considerando che,
secondo  lo  stesso  giudice, "il parametro della ragionevolezza deve
essere,  nel  caso  in  esame,  calibrato sia sulle caratteristiche e
sulla  gravita'  degli  altri  reati", ai quali la legge ricollega lo
stesso  provvedimento  cautelare  della sospensione, "sia sullo scopo
perseguito dal legislatore" con le norme in oggetto.
    3.1. - Impostata in questi termini, la questione non e' fondata.
    La  giurisprudenza  di questa Corte ha ripetutamente ribadito che
le  norme  dell'art. 15  della  legge  n. 55  del  1990  e successive
modificazioni  perseguono  finalita'  di  salvaguardia  dell'ordine e
della sicurezza pubblica, di tutela della libera determinazione degli
organi    elettivi,   di   buon   andamento   e   trasparenza   delle
amministrazioni  pubbliche,  contro  i gravi pericoli di inquinamento
derivanti  dalla  criminalita'  organizzata e dalle sue infiltrazioni
(sentenze  n. 132  del  2001,  n. 141  del  1996, n. 118 e n. 295 del
1994), coinvolgendo cosi' esigenze ed interessi dell'intera comunita'
nazionale  connessi  a  "valori costituzionali di rilevanza primaria"
(sentenza  n. 218  del  1993). I delitti per i quali l'art. 15 citato
prevede  -  dopo  la  condanna definitiva - la decadenza o anche - in
caso  di  condanna  non  definitivala  sospensione obbligatoria dalla
carica  elettiva  sono appunto qualificati, secondo la giurisprudenza
costituzionale,  non  tanto  dalla  loro  gravita'  in  relazione  al
"valore"  del  bene  offeso  o  all'entita'  della pena comminata, ma
piuttosto  dal fatto di essere considerati tutti dal legislatore come
manifestazione  di delinquenza di tipo mafioso o di altre gravi forme
di   pericolosita'  sociale,  non  irragionevolmente  ritenendoli  il
legislatore  stesso,  nell'ambito delle proprie, insindacabili scelte
di  politica  criminale,  parimenti  forniti  di  alta  capacita'  di
inquinamento  degli  apparati  pubblici da parte delle organizzazioni
criminali. Si giustifica in questo modo una disciplina molto rigorosa
ispirata  alla  comune  ratio  di  prevenire  e combattere tali gravi
pericoli  allo scopo appunto di salvaguardare "interessi fondamentali
dello Stato" (sentenze n. 206 del 1999 e n. 184 del 1994).
    Questa  disciplina  e'  stata dunque formulata dal legislatore in
modo  unitario,  pur  prendendo  in  considerazione diverse figure di
reato,  proprio  per  realizzare  un  efficace strumento - secondo la
precisazione  contenuta  nel titolo della legge di "prevenzione della
delinquenza  di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione
di pericolosita' sociale", attraverso l'individuazione, sulla base di
criteri omogenei, di una serie di reati la cui commissione e' appunto
valutata  -  di per se' stessa e senza distinzione alcuna come indice
di  oggettiva pericolosita'. In considerazione delle finalita' che le
norme  in  esame  intendono  perseguire  e  del  ruolo  ricoperto dai
soggetti  interessati, non appare dunque illogico che il legislatore,
ai   fini  dell'applicazione  della  decadenza  e  della  sospensione
obbligatorie dalla carica elettiva, abbia dato esclusivo rilievo alla
identificazione  delle fattispecie di reato in questione, senza avere
riguardo  a valutazioni di stretta competenza del giudice del merito,
che  possano  incidere  sull'entita'  della pena. E non appare quindi
arbitraria,  per queste stesse ragioni, neppure la scelta legislativa
di non tenere conto delle eventuali circostanze del reato.
    D'altra  parte, le disposizioni legislative denunciate sono state
formulate nei termini indicati anche per evitare possibili censure di
ingiustificata  diversita'  di trattamento o situazioni di incertezza
nell'applicazione  della  misura interdittiva o sospensiva, derivanti
anche  da soluzioni giurisprudenziali divergenti, che finirebbero per
incrinare  gravemente, in fatto, la pari capacita' elettorale passiva
dei  cittadini,  proclamata dall'art. 51 della Costituzione (sentenze
n. 364 del 1996 e n. 280 del 1992).
    Nel  caso  in  esame, poi, trattandosi di sospensione, che e' una
misura  sicuramente  cautelare,  non  e'  comunque  prospettabile, ad
avviso della Corte, un'esigenza di proporzionalita' rispetto al reato
commesso, ma piuttosto rispetto alla possibile lesione dell'interesse
pubblico  causata  dalla permanenza dell'eletto nell'organo elettivo:
non si pone quindi un problema di "adeguatezza" della misura rispetto
alla gravita' del fatto, ma piuttosto rispetto all'esigenza cautelare
(sentenza  n. 206  del 1999). Sotto questo ultimo profilo non si puo'
tuttavia   negare   al   legislatore,   nell'esercizio   di  una  non
irragionevole   discrezionalita',   la   facolta'  di  effettuare  il
necessario  bilanciamento  degli  interessi  coinvolti, identificando
ipotesi  circoscritte nelle quali l'esigenza cautelare su cui si basa
la  sospensione  e'  apprezzata in via generale ed astratta, anziche'
essere  rimessa  alla  valutazione  in  concreto dell'amministrazione
interessata,  cosi'  come  e'  apprezzato in via generale ed astratta
l'ambito  di  applicazione  della  misura  cautelare  in relazione ai
soggetti  e  al  nesso  tra  la condanna non definitiva e le funzioni
elettive   svolte.   E   l'apprezzamento  del  legislatore  si  fonda
essenzialmente  sul  sospetto  di  inquinamento  o,  quanto  meno, di
perdita  dell'immagine  degli  apparati  pubblici,  che puo' derivare
dalla   permanenza  in  carica  del  consigliere  eletto,  che  abbia
riportato  una  condanna,  anche  se  non  definitiva,  per i delitti
indicati.
    In  ogni caso, nelle ipotesi legislative di decadenza ed anche di
sospensione  obbligatoria  dalla carica elettiva previste dalle norme
denunciate non si tratta affatto di "irrogare una sanzione graduabile
in  relazione  alla  diversa gravita' dei reati, bensi' di constatare
che e' venuto meno un requisito essenziale per continuare a ricoprire
l'ufficio  pubblico elettivo" (sentenza n. 295 del 1994), nell'ambito
di  quel  potere  di fissazione dei "requisiti" di eleggibilita', che
l'art. 51,   primo  comma,  della  Costituzione  riserva  appunto  al
legislatore.  Oltre  tutto,  la  misura cautelare in oggetto, proprio
perche'  finalizzata  a  proteggere  l'interesse  pubblico nelle more
dell'accertamento  giudiziale  definitivo,  e' contenuta in limiti di
durata  che non appaiono irragionevoli, prevedendo il comma 4-bis del
citato  art. 15  che  la  sospensione  cessa  di  diritto di produrre
effetti,  decorsi  rispettivamente  diciotto o dodici mesi, a seconda
che si tratti di sentenza di condanna di primo grado o d'appello.
    In  definitiva,  i  dubbi  di  costituzionalita'  prospettati dal
giudice  a quo appaiono, anche alla luce dei consolidati orientamenti
giurisprudenziali  di  questa  Corte, infondati. Da un lato, infatti,
non  sussiste  la violazione dell'art. 51 della Costituzione, poiche'
la  condanna  per uno dei reati in questione e' configurabile come il
venir  meno  di un requisito soggettivo - stabilito dal legislatore -
per  la  permanenza  nella  carica  elettiva;  dall'altro  lato,  non
sussiste  neppure  la  violazione del canone di ragionevolezza sia in
riferimento alle finalita' che le norme censurate perseguono, sia nel
raffronto  con  le  altre  figure  di  reato  prese  unitariamente in
considerazione dalle stesse norme.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  non fondata la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 15,  commi  1  lettera  a)  4-bis lettera a) e 4-ter, della
legge  19 marzo  1990,  n. 55  (Nuove disposizioni per la prevenzione
della  delinquenza  di  tipo  mafioso  e  di  altre  gravi  forme  di
manifestazione    di    pericolosita'    sociale),   ora   sostituiti
dall'art. 58, comma 1 lettera a), e dall'art. 59, comma 1 lettera a),
e  comma  4,  del  decreto  legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo
unico  delle leggi sull'ordinamento degli enti locali), sollevata, in
riferimento  agli  artt. 3  e 51 della Costituzione, dal Tribunale di
Roma, seconda sezione civile, con l'ordinanza indicata in epigrafe.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'11 febbraio 2002.
                       Il Presidente: Ruperto
                       Il redattore: Capotosti
                       Il cancelliere:Di Paola
    Depositata in cancelleria il 15 febbraio 2002.
               Il direttore della cancelleria:Di Paola
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