N. 157 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 dicembre 2001
Ordinanza emessa il 18 dicembre 2001 dal giudice istruttore presso il tribunale di Grosseto nel procedimento civile vertente tra Curatela del Fallimento Parco dei Faggi S.r.l. e Galassi Monica Procedimento civile - Prova per testimoni - Potere del giudice di disporla d'ufficio, formulandone i capitoli, quando le parti, nell'esposizione dei fatti, si siano riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verita' - Mancata attribuzione al giudice istruttore nelle cause riservate alla decisione collegiale del Tribunale - Ingiustificata disparita' di trattamento rispetto alle cause davanti al Tribunale in composizione monocratica - Lesione del principio di eguaglianza - Irragionevolezza - Violazione del diritto alla prova (da intendersi come diritto della parte di avvalersi di ogni mezzo di prova esperibile nel processo). - Codice di procedura civile, art. 281-ter. - Costituzione, artt. 3 e 24.(GU n.16 del 17-4-2002 )
IL TRIBUNALE Nella causa iscritta al n. 812 dell'anno 1998 del r.g.a.c., introdotta dalla Curatela del Fallimento Parco dei Faggi S.r.l. nei confronti di Galassi Monica, letti gli atti e sciogliendo la riserva del 6 novembre 2001 ha pronunciato la seguente ordinanza. E' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 281-ter c.p.c. in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione. 1. - La Curatela del Fallimento Parco dei Faggi S.r.l. ha avanzato domanda di risarcimento dei danni, ai sensi dell'art. 2394 c.c., per asserita responsabilita' della convenuta, Galassi Monica, nell'espletamento della carica di amministratore unico della medesima societa' relativamente al periodo 26 ottobre 1995-20 marzo 1997, data quest'ultima in cui e' stato dichiarato il fallimento della stessa compagine sociale. La convenuta, regolarmente citata in giudizio, e' rimasta contumace. Parte attrice, esponendo i fatti a fondamento della propria pretesa, ha tra l'altro fatto riferimento ad alcune circostanze riferite al curatore fallimentare dal sig. Fabio Nulli, custode dell'immobile di proprieta' della societa' fallita, che rivestono decisiva importanza ai fini del decidere. In particolare, il sig. Nulli ha riferito al curatore in merito: a) alla consistenza degli arredamenti e delle attrezzature aziendali che sarebbero stati consegnati alla convenuta dal precedente amministratore; b) alla cessazione di ogni attivita' economica e di qualsiasi attivita' di custodia dei beni aziendali da parte della medesima Galassi a partire dal mese di aprile del 1996; c) infine, alla perpetrazione di furti a discapito del patrimonio aziendale ad opera di terzi sconosciuti successivamente a quest'ultima data. Si tratta, a ben vedere, di circostanze di fatto che rientrano nel thema decidendum, sia per quanto concerne la dimostrazione delle condotte di responsabilita', sia per la esatta quantificazione dei danni causati. Essendo gia' maturate le preclusioni istruttorie, alla parte attrice non e' consentito di articolare la suddetta prova testimoniale, per cui sarebbe necessario poter disporre d'ufficio la prova per testi del sig. Fabio Nulli sulle circostanze da questi riferite al curatore del fallimento ed allegate dalla parte attrice. Tuttavia, l'art. 281-ter consente la suddetta prova testimoniale d'ufficio solo nei procedimenti davanti al Tribunale in composizione monocratica (non essendovi spazio per una interpretazione che conduca alla applicazione della norma de qua anche alle cause riservate alla decisione collegiale), mentre nel caso di specie, trattandosi di causa di responsabilita' promossa contro un amministratore di S.r.l., la controversia deve essere decisa dal Tribunale in composizione collegiale (v. art. 48, secondo comma, n. 7, ord. giud. R.D. n. 12/41, norma questa applicabile alla presente causa, che e' stata introdotta prima del 2 giugno 1999, in virtu' della disposizione di cui all'art. 135, lett. b, ultima parte, d.lgs. n. 51/1998). A parere di questo giudice, e' rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 281-ter, in relazione agli artt. 3 e 24 della Costituzione nella parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa disporre d'ufficio la prova testimoniale prevista dalla disposizione impugnata anche nelle cause riservate alla decisione collegiale. 2. - Il nuovo articolo 281-ter, a tenore del quale il giudice puo' disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verita', e' stato introdotto dal d.lgs. n. 51/1998 ed e' entrato in vigore a partire dal 2 giugno 1999. E' bene anzi tutto precisare, ai fini della dimostrazione del requisito della rilevanza della questione in esame, che la norma suddetta e' applicabile anche ai procedimenti pendenti davanti al Tribunale alla data di efficacia del menzionato decreto legislativo (2 giugno 1999) con riferimento ai quali, come nel caso di specie, non siano gia' state precisate le conclusioni (art. 135, d.lgs. n. 51/1998). Cio' chiarito, occorre dire che la disposizione impugnata non costituisce una novita' assoluta all'interno del nostro sistema processuale, in quanto la stessa altro non e' che una riedizione dell'art. 312, come modificato dalla legge n. 374/1991 (che aveva sostituito la parola giudice di pace a quella di conciliatore). Tale norma, contenuta originariamente nell'art. 317, aveva le sue origini nei progetti, preliminare e definitivo, Solmi (artt. 318 e 335). Attualmente, pertanto, e questa e' la vera novita', la disposizione de qua riguarda tutti i procedimenti davanti al Tribunale in composizione monocratica, oltre che quelli davanti al giudice di Pace (in virtu' del richiamo contenuto nell'art. 311), con esclusione dei procedimenti relativi a cause spettanti alla cognizione del collegio. Quest'ultima limitazione e' da ricondurre ai limiti previsti dalla legge delega n. 254/1997, che escludeva la estensione delle norme pretorili alle cause spettanti alla decisione collegiale. 2.1. - Ora, ai fini soprattutto della dimostrazione del requisito della rilevanza della questione in oggetto, va rilevato come poche norme come quella in esame abbiano provocato interpretazioni diverse riguardo la misura dell'esercizio del potere discrezionale da parte del giudice. Non puo' dubitarsi, anzi tutto, della sussistenza del doppio limite derivante, rispettivamente, dal divieto di utilizzazione della scienza privata del giudice e dal principio di allegazione: per cui, da un lato il giudice non puo' disporre la prova testimoniale d'ufficio con riferimento a fatti o a fonti di prova che non siano gia' acquisiti al processo, dall'altro puo' deferire la medesima prova solo se le parti si siano riferite, nella esposizione dei fatti, a persone in grado di conoscere la verita'. Ebbene, nel caso di specie, la parte attrice ha esplicitamente fatto riferimento in sede di atto di citazione alle dichiarazioni rese al curatore dal sig. Fabio Nulli, per cui non e' ravvisabile alcuna possibilita' di violazione dei limiti suddetti. L'ulteriore questione relativa allo spazio operativo dell'art. 281-ter e' direttamente collegata ad un limite per cosi' dire temporale, ci si chiede cioe' se il giudice debba disporre la prova prima del maturare delle preclusioni istruttorie ovvero se lo stesso potere officioso debba ritenersi esercitatile in qualunque momento del processo. A sommesso avviso di questo giudice, e' da preferire quest'ultima tesi, che e' quella oltre tutto che ha riscosso maggiori consensi in ambito dottrinale e giurisprudenziale: depone, infatti, in tal senso sia la considerazione legata al fatto che il potere in esame deve essere inteso quale potere-dovere che va esercitato dal giudice in via residuale rispetto alle iniziative probatorie di parte, al fine di evitare la meccanica applicazione della regola formale dell'art. 2697 c.c. (per cui tale valutazione potra' essere fatta solo quando siano gia' maturate le preclusioni istruttorie), sia in relazione alla previsione di cui all'art. 184, ultimo comma (disposizione da ritenere applicabile nel caso di esercizio del potere officioso ex art. 281-ter), previsione che avrebbe poco senso ove si ritenesse ammissibile la prova d'ufficio solo in un momento anteriore al maturare delle preclusioni istruttorie in capo alle parti. Nel caso di specie, pertanto, pur essendo gia' maturate le preclusioni istruttorie e non essendo stata ancora la causa rimessa al collegio per la decisione, ben potrebbe questo giudice disporre la prova testimoniale ai sensi dell'art. 281-ter. Occorre, poi, esaminare la questione forse piu' controversa e relativa alla portata applicativa della norma appena citata, vale a dire quella collegata all'indagine sul metro per l'esercizio del potere del giudice, secondo un'efficace espressione utilizzata in dottrina. A parere di questo giudice, merita condivisione la ricostruzione che confina l'esercizio di tale potere entro un doppio limite in positivo ed in negativo, nel senso che, tutte le volte che gli elementi istruttori acquisiti al processo consentono la ricostruzione del fatto rilevante, il potere d'ufficio del giudice deve ritenersi non spendibile, mentre tutte le volte che il fatto da provare e' rimasto incerto, il giudice deve spendere i poteri officiosi, al fine di evitare la meccanica applicazione della regola formale di cui all'art. 2697 codice civile. Con l'ulteriore precisazione che l'incertezza del fatto rilevante potra' dipendere dall'acquisizione in giudizio di un quadro indiziario non connotato dei requisiti prescritti dall'art. 2729 c.c. ovvero dalla incertezza sul valore probatorio da attribuire a determinati elementi di prova (si pensi soprattutto alle incertezze circa l'efficacia delle prove atipiche), incertezza, infatti, che potrebbe aver indotto una parte a confidare sulla sufficienza delle prove gia' entrate nel processo, cosi' omettendo di chiedere la prova testimoniale del terzo. Ebbene, nel caso di specie, essendo le dichiarazioni del Nulli contenute nella relazione redatta dal curatore ai sensi dell'art. 33 l.f., e' prospettabile una delle situazioni appena evidenziate, in quanto la questione dell'efficacia probatoria della relazione suddetta ha registrato posizioni diverse sia in ambito dottrinale sia in quello giurisprudenziale (secondo una prima tesi, alcune parti della relazione farebbero prova fino a querela di falso, mentre altre varrebbero solo come prova indiziaria; secondo un altro orientamento, alla relazione non potrebbe mai essere riconosciuta efficacia probatoria sino a querela di falso, ma solo valore di prova indiziaria; infine, secondo un terzo orientamento la relazione prodotta in giudizio non costituirebbe mai prova dei fatti in essa affermati). Proprio tale incertezza di opinioni puo' aver condotto parte attrice, aderendo alla teoria piu' permissiva, a ritenere superflua la prova testimoniale del terzo in quanto ascoltato dal curatore. Deve, tuttavia, ritenersi che le dichiarazioni rese da un terzo al curatore e riportate nella relazione prodotta in giudizio non possano avere l'efficacia di una testimonianza, non foss'altro perche' sarebbe violato il principio del contraddittorio (per l'esclusione del valore di prova testimoniale, v. Corte di Appello Firenze, 6 febbraio 1963). Pertanto, nel caso di specie, ricorrerebbero certamente gli estremi per l'esercizio del potere discrezionale di cui all'art. 281-ter, posto che tale esercizio avverrebbe nel giusto contesto di equilibrio sottinteso dalla norma citata, e non gia' a discapito di una parte ed a vantaggio dell'altra con conseguente violazione del principio di terzieta' del giudice. Diversamente, ove cioe' non si ammettesse l'esperibilita' della prova d'ufficio de qua, le circostanze di fatto riferite dal terzo al curatore non potrebbero ritenersi sufficientemente dimostrate, per cui la questione in esame e' certamente rilevante ai fini della decisione. 2.2. - In punto di legittimazione da parte di questo giudice a sollevare la questione, deve evidenziarsi che la Corte costituzionale ha affermato che il giudice istruttore puo' proporre questioni di legittimita' costituzionale relativamente a norme di cui egli debba fare applicazione per l'emanazione di provvedimenti attribuiti alla sua competenza (v. sentt. n. 84 del 1996; n. 278 del 1994; ord. n. 199 del 1990). Secondo la disciplina vigente, nei procedimenti di primo grado pendenti davanti al Tribunale e riservati alla cognizione collegiale, la decisione sulla ammissibilita' e sulla rilevanza dei mezzi di prova spetta al giudice istruttore, il quale dispone anche d'ufficio i mezzi di prova nei casi espressamente previsti dalla legge (fatta eccezione per l'ipotesi del giuramento che puo' essere deferito solo dal collegio), senza che l'ordinanza istruttoria possa piu' essere oggetto di reclamo davanti al collegio (ne' e' piu' possibile la rimessione istruttoria ex art. 187, quarto comma), anche se rimane ferma la possibilita' per il giudice collegiale di riaprire l'istruzione dopo una rimessione totale ai sensi dell'art. 188 e/o di disporre la rinnovazione delle prove davanti a se', come previsto dall'art. 281. Proprio dalla esplicita riserva di collegialita' in caso di deferimento d'ufficio del giuramento (v. artt. 237, 240 e 241), riserva non prevista per gli altri casi di mezzi di prova esperibili d'ufficio (v. artt. 118, 213, 257), si evince con ragionamento contrario che il potere officioso, nelle cause riservate alla decisione collegiale, puo' essere esercitato dal giudice istruttore purche' prima della rimessione al collegio, cio' perche' la legge n. 353/1990, nel conservare la distinzione tra giudice istruttore e collegio, ha optato per il riconoscimento in capo al primo di ogni potere nel corso delle fasi processuali di trattazione e di istruzione. Infatti, l'esclusione dei poteri istruttori officiosi in capo al giudice istruttore nelle ipotesi di deferimento del giuramento si giustifica in relazione alla natura di prova legale dello stesso e quindi alla predeterminazione in astratto della sua efficacia con conseguente limitazione del libero apprezzamento del giudice (collegiale) in sede di decisione; mentre gli altri mezzi di prova esperibili d'ufficio, tra cui la prova testimoniale ex art. 281-ter, appartenendo alla categoria delle prove libere, non prospettano un'analoga esigenza, per cui non vi e' motivo di sottrarre al giudice istruttore i normali poteri che il sistema gli attribuisce nel corso delle fasi processuali anteriori alla decisione. Alla luce di tale premessa, considerato che in questa sede si rivendica il potere del giudice istruttore di disporre d'ufficio la prova testimoniale ex art. 281-ter, soltanto questi e' legittimato a sollevare la questione de qua, giacche' diversamente non sarebbe ravvisabile la legittimazione di altro giudice a proporre la medesima questione (v., a tal proposito, Corte cost. sent. n. 278 del 1994). Ne', sotto altro profilo, difetta la possibilita' di questo giudice istruttore di fare applicazione della norma relativa al dubbio di costituzionalita' a seguito della fase in cui si trova il processo (v. Corte cost. sent. 451 del 1993), posto che il procuratore di parte attrice non e' stato ancora invitato a precisare le conclusioni e quindi la causa non e' stata ancora rimessa per la decisione al collegio. 3. - Risolte in tal senso le questioni preliminari di rilevanza e di legittimazione, si ritiene che l'attuale disposizione di cui all'art. 281-ter contrasti con l'art. 3 della Costituzione, ed in particolare con il parametro della ragionevolezza desumibile dal principio di uguaglianza. E' condivisibile la posizione della dottrina, secondo cui con l'introduzione dell'art. 281-ter, a differenza di quanto accadeva dopo la riforma del 1990, la diversita' di composizione tra tribunale monocratico e tribunale collegiale ha determinato una diversita' di rito, di particolare significato proprio in punto di iniziativa istruttoria d'ufficio, posto che la prova testimoniale e' deferibile solo dal giudice istruttore in funzione di giudice unico. La questione sta pertanto nello stabilire se tale diversita' di rito possa giustificare a priori l'esclusione del potere ufficioso nei procedimenti davanti al Tribunale in composizione collegiale, ovvero se quest'ultima esclusione debba comunque trovare una razionale giustificazione per non incorrere nella violazione del principio di uguaglianza. La Corte costituzionale ha piu' volte affermato la piena legittimita' di sistemi processuali diversi da quelli ordinari (v. la sent. n. 94/1973, in cui ha ribadito che le norme del procedimento ordinario non sono le sole che assicurino la tutela giurisdizionale), cosi' come ha ammesso la possibilita' di differenze di disciplina tra i vari processi ordinari. Tuttavia, il dato che emerge dalle varie pronunce della Corte e' che le diversita' di disciplina in materia di processi ordinari sono consentite se hanno una razionale giustificazione. E' stato giustamente osservato che la Corte non avverte l'esigenza di fissare il livello minimo che caratterizza il giusto processo, quasi dando per scontato che tale livello sia attinto dal nostro processo ordinario, preoccupandosi invece di trovare se siano ragionevoli le ulteriori limitazioni. Il potere officioso ex art. 281-ter deve essere letto in relazione al principio di disponibilita' desumibile dall'art. 115, in particolare il primo si configura come una delle possibili eccezioni contemplate dall'incipit della norma richiamata da ultimo. In ambito dottrinale, sono state proposte interpretazioni differenti circa l'esigenza presupposta dal principio della disponibilita' della prova, avendo taluni fornito un'interpretazione in senso processuale, sostenendo che lo stesso risponderebbe sia all'esigenza di garantire la posizione di terzieta' del giudice sia a quella piu' pratica consistente nella osservazione che nessuno meglio delle parti conosce i fatti della causa ed i mezzi che ne possono dare la prova, mentre secondo altri il principio de quo costituirebbe il mero riflesso del carattere privato degli interessi coinvolti nel processo civile, finendo cosi' per impostare il problema sul piano sostanziale piu' che su quello processuale. Ma le motivazioni che hanno via via indotto il legislatore a derogare al principio della disponibilita' non sono facilmente riconducibili nell'ambito di una categoria unitaria. Cosi', gli ampi poteri istruttori previsti nel processo del lavoro si giustificano sia in considerazione del fatto che le preclusioni istruttorie, in tale giudizio, maturano sin dai primi atti di parte, sia in relazione al carattere indisponibile o semidisponibile degli interessi coinvolti nello stesso processo; in altri casi, i poteri istruttori d'ufficio non si possono certamente giustificare con il carattere indisponibile dell'interesse protetto (v. artt. 213, 257); diversamente, proprio nell'assoluta indisponibilita' dell'interesse oggetto del giudizio di cui agli artt. 414 e segg. c.c. e 712 e segg. c.p.c. deve individuarsi la giustificazione degli ampi poteri istruttori concessi al giudice (v. artt. 419 c.c. e 714 c.p.c.). Ora, volendo circoscrivere il campo di indagine al potere istruttorio di cui all'art. 281-ter, debbono esaminarsi le ragioni che mossero il legislatore del 1940 ad introdurre nel codice la disposizione in esame (art. 317 gia' citato). Dalla Relazione ministeriale a quel codice si evince che i poteri piu' ampi di iniziativa istruttoria riconosciuti al giudice nei procedimenti dinanzi al pretore ed al conciliatore (art. 317) e, in modo anche piu' deciso, nelle controversie di lavoro (art. 439), trovavano giustificazione sia nella particolare natura dell'interesse non solo privato di quest'ultime cause, sia nel fatto che nelle cause di minor valore, in cui sono in giuoco gli interessi dei cittadini meno abbienti e meno colti, era opportuno che il giudice si avvicinasse ad essi per supplire con piu' larghi poteri alla loro inesperienza e alla minor facilita' che essi avevano di giovarsi dell'opera di validi difensori. Dunque, l'originaria previsione del potere probatorio de quo sembra potersi relegare in una dimensione politico-sociale, come e' stato autorevolmente osservato in dottrina. E' di tutta evidenza che, con l'ampliamento della competenza per valore del pretore sino a cinquanta milioni, la disparita' di trattamento tra giudizio pretorile e giudizio dinanzi al Tribunale aveva finito per risultare sempre piu' discutibile, in conseguenza del fatto che la categoria delle cause pretorili non poteva piu' farsi coincidere con quella di natura per cosi' dire bagatellare. A seguito della riforma adottata con il d.lgs. n. 51/1998, la possibilita' di disporre d'ufficio la prova testimoniale ai sensi dell'art. 281-ter e' prevista per ogni tipo di processo ordinario di primo grado pendente davanti al Tribunale o al giudice di pace, a prescindere dal valore della causa, fatta eccezione soltanto per quei procedimenti che, in via eccezionale, sono riservati alla decisione del collegio. (E la considerazione potrebbe essere estesa anche alla ipotesi del rito del lavoro, il quale - secondo certi autori - essendo inserito nel libro II del codice di rito, dovrebbe ritenersi comunque un rito ordinario da tenere distinto dai procedimenti speciali di cui al libro IV: rito del lavoro in cui la prova testimoniale d'ufficio e' persino prevista in termini piu' ampi ex art. 421; nonche', in virtu' della disposizione di cui all'art. 447-bis, terzo comma, anche al c.d. rito locatizio). A sommesso avviso di questo giudice, mentre prima dell'entrata in vigore del d.lgs. n. 51 del 1998 la differenza di disciplina poteva ancora trovare spiegazione nell'esigenza politico-sociale di trattare diversamente le cause di valore piu' contenuto, in quanto esisteva comunque una competenza per valore, sia pure elevata a cinquanta milioni, che poteva ritenersi come il discrimine voluto dal legislatore per distinguere i due riti, con l'estensione della norma di cui all'art. 281-ter ad ogni causa pendente davanti al Tribunale in composizione monocratica, ivi comprese quelle di valore indeterminabile, una tale giustificazione deve ritenersi esclusa in radice. Infatti, una volta introdotto il potere del giudice di disporre d'ufficio la prova testimoniale all'interno della disciplina del modello ordinario di processo a cognizione piena (e quindi applicabile anche alle cause di valore indeterminabile), la ratio del medesimo potere officioso non puo' certo piu' individuarsi nella giustificazione di natura politico-sociale poc'anzi evidenziata: diversamente, infatti, non si comprenderebbe perche' mai - ad esempio - una causa in materia di concorrenza sleale tra imprese con richieste risarcitorie miliardarie (di competenza monocratica) dovrebbe essere ritenuta piu' meritevole della possibilita' dell'iniziativa istruttoria officiosa rispetto ad una causa risarcitoria proposta nei confronti di un amministratore di una societa' (come e' nella specie) magari di valore modesto. Invero, deve affermarsi che, con la novella del legislatore del 1998, la ratio dei poteri istruttori ex art. 281-ter non ha piu' nulla a che vedere con la motivazione politico-sociale suddetta, per cui occorre cercarla altrove. Gia' in sede di approvazione del progetto definitivo Solmi (art. 335) si sostenne che il potere di disporre d'ufficio la prova testimoniale certamente si manifestava utile nell'interesse della giustizia nell'ipotesi in cui le parti non avessero chiesto tale prova per dimenticanza o per l'erroneo convincimento che gli elementi di prova dedotti o gia' acquisiti fossero risultati sufficienti e che in cio' dovesse quindi rinvenirsi la ragionevole giustificazione della norma (Corte di Appello di Palermo, rel. Cons. Martorana). A sommesso avviso di questo giudice, merita condivisione quanto sostenuto da certa parte della dottrina, vale a dire che le iniziative istruttorie d'ufficio, come quella prevista dall'art. 281-ter, rispondono sempre all'interesse pubblico a che si formi una decisione giusta. Ma la ricostruzione in tal senso del fondamento della norma in esame, non conduce ad una diversa conclusione circa la irragionevolezza della esclusione del medesimo potere istruttorio d'ufficio nelle cause riservate alla decisione collegiale, posto che il medesimo interesse pubblico e' ravvisabile tanto nell'uno quanto nell'altro tipo di causa. Anzi, come del resto osservato da certa parte della dottrina, se si individua la ragione giustificatrice della disposizione de qua nell'interesse della giustizia a che si formi una decisione giusta, si finisce per dare risalto alla notevole incongruenza della vigente disciplina che ha escluso il potere officioso proprio in talune controversie in cui il carattere pubblicistico e' evidenziato dalla necessaria partecipazione al giudizio del PM (v. art. 50-bis, primo comma, n. 1). Deve, infatti, ulteriormente affermarsi che molte delle cause di cui all'attuale art. 50-bis, (che ha ripreso, con qualche modificazione, la disposizione di cui all'art. 48 R.D. n. 12/41) sono quelle in cui il confine tra interesse privato/pubblico o disponibile/indisponibile e' spesso evanescente. Ne' puo' obiettarsi che nei procedimenti in cui e' necessario l'intervento del PM debba essere questa parte a tutelare le ragioni di rilevanza pubblicistica con conseguente esclusione di ogni potere istruttorio da parte del giudice, posto che in taluni procedimenti in cui e' necessario l'intervento del PM il legislatore ha previsto proprio specifici poteri istruttori officiosi (vedi il potere di disporre indagini sui redditi nelle cause divorzili ex art. 5 legge n. 898/1970; vedi ancora gli ampi poteri istruttori in materia di giudizi di interdizione ex artt. 419 c.c. e 714 c.p.c. ed in materia di dichiarazione dello stato di adottabilita' ex art. 10 legge n. 184/1983). Inoltre, non puo' ritenersi che l'esclusione del potere officioso in esame sia la conseguenza di una scissione tra fase istruttoria, di competenza del giudice istruttore, e fase decisoria spettante al collegio: invero, l'iniziativa istruttoria prevista dall'art. 281-ter sarebbe perfettamente compatibile con la struttura del processo davanti al Tribunale in composizione collegiale per tutte le considerazioni gia' sviluppate in precedenza, dovendosi ulteriormente osservare in questa sede che la riserva di collegialita' trova giustificazione nell'esigenza di assicurare maggiore ponderazione in sede di decisione di controversie particolarmente complesse, sotto il profilo delle questioni giuridiche interessate, ovvero di particolare rilevanza sociale; ma la cognizione collegiale e' stata esclusa dallo stesso legislatore per la fase istruttoria: per cui la discriminazione in materia di esperibilita' dei mezzi di prova non puo' ricollegarsi all'esigenza sottintesa dalla riserva di collegialita'. A conferma di quest'ultima affermazione, deve richiamarsi la previsione legislativa in merito ai poteri istruttori d'ufficio nei giudizi di interdizione e di inabilitazione: pur trattandosi, infatti, di cause riservate per la decisione al collegio, gli ampi poteri istruttori officiosi sono dalla legge attribuiti espressamene al giudice istruttore (v. art. 714 c.p.c. e 419 c.c.), da cui si desume che la riserva di collegialita' ha una sua ratio specifica che opera soprattutto in sede decisionale e che di per se' non costituisce alcuna valida giustificazione alla limitazione dei poteri officiosi del giudice istruttore. In definitiva, deve affermarsi che, con l'entrata in vigore del d.lgs. n. 51 del 1998, la mancata previsione del potere del giudice istruttore di disporre d'ufficio la prova per testi ex art. 281-ter nell'ambito del c.d. rito collegiale appare in contrasto con il principio di uguaglianza di cui all'art. 3 della Costituzione, in quanto configura una ingiustificata disparita' di trattamento di situazioni sostanziali identiche, posto che l'esigenza sottintesa dal potere officioso de quo e' ravvisabile anche nelle cause riservate per la decisione al collegio (come quella oggetto di questa controversia) e non soltanto in quelle, eventualmente anche di valore indeterminabile, che debbono essere decise dal giudice istruttore in funzione di giudice unico, ne' e' sostenibile altra razionale giustificazione alla medesima diversita' di disciplina. 4. - La disuguaglianza suddetta, inoltre, consistendo in una disparita' di trattamento in punto di disciplina dei mezzi di prova, finisce per configurare una violazione dello stesso principio di cui all'art. 24 della Costituzione. A tal proposito, e' condivisibile quanto autorevolmente affermato in dottrina, cioe' che il diritto alla prova, nel suo fondamentale significato garantistico, puo' essere considerato come il diritto delle parti di influire sull'accertamento giudiziale dei fatti per mezzo di tutte le prove rilevanti, dirette e contrarie, di cui dispongono. Il diritto alla prova cosi' inteso, pertanto, nel processo civile non puo' non avere un punto di collegamento con il principio previsto dall'art. 2697 codice civile. E' stato giustamente osservato che il principio dell'onere della prova si contempera con la possibilita' che il giudice, nei casi espressamente contemplati dalla legge, disponga mezzi di prova d'ufficio e con il principio di acquisizione delle prove al processo, secondo cui il giudice deve tener conto di tutti gli elementi di prova acquisiti al processo a prescindere dalla parte che li abbia prodotti. Per cui, non puo' escludersi che il fatto rilevante allegato dall'attore risulti dimostrato senza che questi abbia svolto alcuna specifica attivita' in punto di iniziativa istruttoria (v., in tal senso, Cass. 7201/1995; n. 3564/1995; n. 1153/1995). Riconoscendo che il principio di disponibilita' delle prove e' un principio cardine del nostro processo civile (art. 115), non puo' tuttavia negarsi che lo stesso trovi contemperamento nel menzionato principio di acquisizione della prova al processo, che consente di utilizzare anche la prova acquisita su iniziativa di una parte diversa da quella che ne trae giovamento ovvero la prova acquisita d'ufficio. In definitiva, e' possibile affermare che il diritto alla prova non puo' farsi coincidere soltanto con il diritto della parte ad introdurre i fatti rilevanti nel processo e a provarli con i mezzi istruttori da essa proposti, ma piuttosto con il diritto della parte ad avvalersi di ogni mezzo di prova esperibile nel processo. Di conseguenza, la irragionevole limitazione del potere officioso del giudice in punto di prova testimoniale del terzo ex art. 281-ter, oltre a realizzare una disparita' di trattamento censurabile per le ragioni in precedenza gia' indicate, si traduce anche in una violazione del diritto alla prova nella accezione proposta;
P. Q. M. Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n 87; Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 281-ter c.p.c., in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione, nella parte in cui non prevede che il giudice istruttore possa disporre d'ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si sono riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verita', anche nelle cause riservate alla decisione collegiale; Dispone la sospensione del giudizio in corso e la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che la cancelleria provveda a notificare la presente ordinanza alle parti ed al Presidente del Consiglio dei ministri, e che ne dia comunicazione ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Grosseto, addi' 18 dicembre 2001. Il giudice istruttore: Compagnucci 02C0275