N. 209 ORDINANZA (Atto di promovimento) 12 dicembre 1997

Ordinanza  del  12 dicembre 2001 (pervenuta alla Corte costituzionale
il  15  aprile  2002)  emessa  dalla  Corte  di appello di Napoli nel
procedimento  civile  vertente tra Mazzella Angela e Fallimento della
S.n.c. Duomar ed altra

Fallimento  -  Chiusura  del  fallimento  -  Provvedimento di rigetto
  dell'istanza   -   Reclamabilita'  -  Esclusione  -  Ingiustificata
  discriminazione rispetto al regime di impugnabilita' del decreto di
  chiusura  -  Irrazionale  disparita'  di  trattamento  in danno dei
  soggetti  (segnatamente debitori falliti) interessati alla chiusura
  della  procedura  -  Violazione  del principio di uguaglianza delle
  parti  nel  processo civile - Contrasto con la garanzia del diritto
  di difesa in ogni stato e grado del giudizio.
- Regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, art. 119, comma secondo.
- Costituzione, artt. 3, primo comma, e 24, comma secondo.
(GU n.19 del 15-5-2002 )
                         LA CORTE D'APPELLO

    Sciogliendo   la   riserva  formulata  all'udienza  camerale  del
19 novembre   1997,   ha   pronunziato   la  seguente  ordinanza  nel
procedimento  civile  iscritto  al  n. 291/1997  V.G.,  a seguito del
reclamo  proposto,  con ricorso depositato in data 2 luglio 1997, da:
Mazzella  Angela, rappresentata e difesa dall'avv. Silvestro Landolfi
e presso il medesimo elettivamente domiciliata in Napoli, alla via S.
Pasquale a Chiaia n. 48;
    Nei  confronti  del  Fallimento della S.n.c. Duomar e di Mazzella
Angela,  in persona del curatore avv. Bruno Joudioux, rappresentata e
difesa   dall'avv.   Salvatore   Sellitti   e   presso   il  medesimo
elettivamente  domiciliato  in  Napoli,  al  Centro  Dir.le  is, E/3,
avverso  il  decreto del Tribunale di Napoli - sez. VII civ., in data
18-23 giugno 1997, con il quale e' stata rigettata l'istanza proposta
dalla  Mazzella al fine di sentir pronunziare la chiusura del proprio
fallimento.

                           P r e m e s s o

    La  reclamante, ex socia della S.n.c. Duomar (la cui quota ebbe a
cedere  agli  altri soci il 16 settembre 1995), con sentenza del 5-12
luglio  1995  fu  dichiarata  fallita  dal  Tribunale  di  Napoli, in
estensione  del  fallimento  della  societa' suddetta, dichiarato con
precedente sentenza del 27 giugno 1994.
    Con  decreto  del 1 febbraio 1996 il giudice delegato approvo' lo
stato  passivo relativo alla posizione della Mazzella, caratterizzato
dall'assenza   di   alcuna   domanda   di   ammissione  allo  stesso;
conseguentemente  la Mazzella, invocando l'art. 118 n. 1 l.f., chiese
al  tribunale  di  dichiarare  chiuso  il  proprio  fallimento, ma la
domanda,  benche'  reiterata,  non  trovava accoglimento, sul rilievo
che,  pur  non  essendovi  state  ulteriori  domande di ammissione al
passivo   da   parte   di  creditori  personali  o  sociali  (per  il
riconoscimento  di  maggiori  o  diverse  pretese nei confronti della
socia),  avrebbero  dovuto  ritenersi  implicitamente gia' ammessi al
passivo   del   fallimento   della  suddetta  socia,  illimitatamente
responsabile,  i  creditori  precedentemente  ammessi  al passivo del
fallimento  della  societa', in relazione a crediti sociali anteriori
alla  data  del  recesso,  a  norma e nei limiti di cui all'art. 2290
c.c., considerandosi quindi "gia' compiuta e perfezionata la verifica
del   passivo",   salva   una   opportuna"successiva   operazione  di
interpretazione  e  puntualizzazione del dictum ammissivo, involgente
... semplici operazioni aritmetiche per il computo dell'ammontare del
passivo personale della Mazzella ..." ai sensi del combinato disposto
di cui agli artt. 148 l.f. e della citata norma civilistica.
    Reclama  la  Mazzella, deducendo preliminarmente l'ammissibilita'
del gravame, in virtu' di una proposta interpretazione sistematica o,
"comunque  orientata"  dell'art. 119  l.f., di cui, subordinatamente,
eccepisce   l'illegittimita'   costituzionale,   per  violazione  dei
principi  di  cui  agli  artt. 3  e  24  Cost.;  nel  merito contesta
l'impostazione logico-giuridica dell'impugnato decreto, ribadendo che
al  proprio stato passivo, peraltro mai concretamente determinato dal
giudice  delegato (nonostante espresse richieste, da ultimo disattese
con  un  provvedimento  interpretativa  del  30 giugno  1997), non vi
sarebbero  state  ammissioni  di  sorta, con conseguente diritto alla
chiusura del fallimento, ex art. 118 n. 1 l.f.
    Resiste  la  curatela, eccependo l'inammissibilita' del reclamo e
la     manifesta    infondatezza    della    subordinata    eccezione
d'incostituzionalita',  e  sostenendo,  nel  merito la fondatezza del
provvedimento di reiezione.
    Tanto premesso, la corte

                            O s s e r v a

    Il  primo  problema  che  si pone e' di carattere ermeneutico: se
l'art. 119  l.f.,  cosi'  come  formulato, consenta o meno il reclamo
avverso  il  provvedimento  di  rigetto  dell'istanza di chiusura del
fallimento.
    A  tale  quesito la risposta non puo' che essere negativa, tenuto
conto   della   chiarezza   ed   inequivocita'  del  dato  normativo,
caratterizzato   dalla   stretta  relazione  tra  il  secondo  comma,
prevedente  il  reclamo,  ed  il primo che menziona esclusivamente il
"decreto  motivato"  con  il  quale  il  Tribunale,  "su  istanza del
curatore  o  del  debitore  ovvero  di  ufficio"  abbia dichiarato la
chiusura   del  fallimento.  Nessuna  menzione  vi  e'  nelle  citate
disposizioni del provvedimento con il quale dette istanze siano state
rigettate e, significativamente, l'intestazione dello stesso articolo
e'  riferita  solo al "Decreto di chiusura". Cio' posto, non puo' che
convenirsi   con   la   giurisprudenza   di  legittimita'  (v.  Cass.
27 novembre  1973  n. 3218  e  21 maggio  1975  n. 2011),  univoca al
riguardo,  sulla  esclusiva  riferibilita'  del reclamo, previsto dal
secondo  comma,  al  decreto di chiusura, non potendo condividersi le
interpretazioni  "estensive"  suggerite  da parte della dottrina, che
trovano  ostacolo nel chiaro disposto normativo, ne' possono giovarsi
di  criteri ermeneutici sistematici o "costituzionalmente orientati".
E'  agevole,  sotto  il  primo profilo, osservare in contrario che il
richiamo   alle   disposizioni   del  codice  di  rito  (segnatamente
all'art. 739,   prevedente   la   reclamabilita'   dei  provvedimenti
camerali,  ed  al  742-bis,  prevedente l'estensione delle precedenti
disposizioni  anche  ai  procedimenti  in  camera  di  consiglio  non
regolati  dal  codice  di  procedura civile) non puo' giovare a detta
tesi,  prevalendo la disposizione della legge fallimentare, in virtu'
del  suo  carattere di specialita', su quelle del codice di procedura
civile,  la  cui  applicazione,  in  via  sussidiaria,  presuppone la
mancanza  di diverse norme specifiche. Sotto il secondo profilo, deve
poi  precisarsi  che il preferenziale criterio intepretativo "secondo
Costituzione" presupporrebbe l'obiettiva incertezza o ambivalenza del
dato  normativo,  che  nella specie, invece, non si riscontra, tenuto
conto della estrema chiarezza della norma in esame.
    Deve,  allora,  passarsi  all'esame  delibativo dell'eccezione di
illegittimita'   costituzionale,   subordinatamente   proposta  dalla
reclamante, ai sensi dell'art. 23/II, legge 11 marzo 1953, n. 87.
    Sulla  rilevanza della proposta questione, non possono sussistere
dubbi di sorta, tenuto conto della suesposta interpretazione del dato
normativo  positivo,  ai  sensi  del  quale il reclamo della Mazzella
sarebbe  chiaramente  precluso, per inammissibilita', mentre, rimossa
la discriminazione tra provvedimento positivo e negativo sull'istanza
di   chiusura   del   fallimento,  questa  Corte  potrebbe  esaminare
l'impugnazione.
    Per  quanto  attiene  alla  seconda  condizione richiesta ai fini
dell'ammissibilita'   dell'incidente  di  costituzionalita',  la  non
manifesta  infondatezza  della  questione, devesi nondimeno esprimere
opinione positiva.
    La  diversita'  del  regime  di  impugnazione  del provvedimento,
conseguente all'istanza di cui all'art. 119, in rel. al 118, del r.d.
16  marzo  1942  n. 267,  a  seconda  del  suo  contenuto  positivo o
negativo,  suscita non pochi dubbi di legittimita' costituzionale, in
relazione  al principio dell'eguaglianza (art. 3 Cost.) delle parti e
della  garanzia  del  diritto  di  difesa  in  ogni stato e grado del
giudizio  art. 24  c.  II), tenuto conto della vistosa sperequazione,
secundum  eventum  litis,  operata  dal  citato disposto normativo in
danno  dei  soggetti  aventi  interesse  alla chiusura del fallimento
(segnatamente  i  debitori),  i  quali  si  siano  visti rigettare la
relativa  istanza  e gli altri (normalmente creditori e curatore) che
si dolgano del provvedimento di chiusura.
    La discriminazione non sembra, ad avviso di questa Corte, trovare
un  appagante  e razionale giustificazione ed incide negativamente su
posizioni  di diritto soggettivo proprio di quei soggetti, i debitori
falliti,   le  cui  situazioni,  per  le  note  incapacita'  e  gravi
conseguenze  che  lo  stato  di apertura del fallimento a loro carico
comporta,  sarebbero  meritevoli,  se non di maggiore considerazione,
quantomeno  di una tutela equivalente a quella riservata alle opposte
esigenze, meramente patrimoniali, dei creditori.
    E'  insegnamento  costante  del  giudice  delle leggi che in ogni
processo,   segnatamente   in  quello  civile,  caratterizzato  dalla
contrapposizione paritaria delle parti (e tali devono ritenersi anche
i  procedimenti  endofallimentari,  nei  quali  il  fallito  conserva
capacita'   e  legittimazione  processuale),  "il  principio  di  cui
all'art.  3,  primo comma, della Costituzione implica necessariamente
la  piena uguaglianza delle parti stesse dinanzi al giudice ed impone
al  legislatore di disciplinare la distribuzione di poteri, doveri ed
oneri   processuali  secondo  criteri  di  pieno  equilibrio"  e  che
"l'equivalenza  nell'attribuzione  dei  mezzi  processuali esperibili
dalle  parti  ...  e'  in  rapporto  di stretta strumentalita' con le
garanzie   di   azione   e   di  difesa  sancite  dall'art. 24  della
Costituzione,  si'  che  una  distribuzione  squilibrata dei mezzi di
tutela, riducendo la possibilita' di una delle parti di far valere le
proprie  ragioni,  condiziona impropriamente in suo danno ed a favore
della controparte l'andamento e l'esito del processo "v. sent. n. 253
del 20/23 giugno 1994).
    Alla  stregua di tali enunciati, non sembrano prive di fondamento
le doglianze espresse dalla reclamante, la quale si e' vista, per due
volte, respingere dal tribunale la propria istanza - quale che ne sia
la  fondatezza  -  di  chiusura  del fallimento e si vede preclusa la
possibilita'   di   investire,   come   invece  avrebbero  potuto  le
controparti  in  caso  di  esito favorevole, il giudice sovraordinato
delle  censure  rivolte  al provvedimento, ritenuto lesivo dei propri
diritti.
    In  siffatto  contesto appare in tutta la sua fragile consistenza
la  ratio  legis  sottesa  al differenziato regime di impugnabilita',
indicata  dalla  giurisprudenza,  e (sia pure in senso critico) dalla
dottrina,  nella possibilita' di riproposizione allo stesso tribunale
dell'istanza  di  chiusura, anche sulla base dei medesimi motivi gia'
disattesi  (laddove,  una volta chiuso il fallimento e spogliatosi il
tribunale  del  procedimento,  per  i  creditori  non vi sarebbe piu'
rimedio).
    Anche   a  tal  proposito  soccorre  l'insegnamento  della  Corte
costituzionale, che ha evidenziato, in fattispecie normativa in parte
analoga   (reclamabilita'  del  provvedimento  ex  art. 669-terdecies
c.p.c.)  oggetto  della  sopra  menzionata  pronuncia, come tra i due
rimedi  (il  nuovo ricorso al medesimo giudice e quello, impugnativo,
ad  uno  diverso,  anche se non sovraordinato) non esista rapporto di
equivalenza,   per  l'evidente  maggiore  garanzia  assicurata  dalla
"alterita'"   del   giudice   del  gravame  rispetto  alla  revisione
dell'istanza  affidata  allo stesso giudice precedentemente adito. E'
d'intuitiva  evidenza,  infatti, come in quest'ultimo caso, specie se
l'istanza  sia  riproposta  in  base agli stessi motivi in precedenza
dedotti,  le possibilita' di successo siano ben piu' ridotte rispetto
all'ipotesi  di riesame affidato ad un giudice diverso, che non si e'
gia' pronunziato in proposito.
    Per  le  suesposte considerazioni, sulla base delle quali serie e
rilevanti  vanno  ritenute  le  censure d'incostituzionalita', che la
ricorrente  muove  all'art. 119,  comma  secondo, del citato r.d., in
quanto  attributivo  di  un  palese  e non adeguatamente giustificato
privilegio  processuale  ai soggetti interessati alla protrazione del
procedimento  fallimentare,  a  discapito dei portatori (segnatamente
debitori   falliti)   dell'opposto   interesse   alla   chiusura  del
fallimento,  il  giudizio  va  sospeso  e  gli  atti  rimessi,  previ
incombenti  di legge, alla Corte costituzionale, perche' si pronunzi,
ai sensi dell'art. 134 Cost., in ordine alla conformita' o meno della
suddetta disposizione agli artt. 3, primo comma, e 24, secondo comma,
della Costituzione.
                              P. Q. M.
    Dichiara   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
costituzionalita',  in  relazione  agli  artt. 3,  primo comma, e 24,
secondo  comma,  della Costituzione, dell'art. 119 del r.d. 16 aprile
1942  n. 267,  nella  parte  in  cui  esclude dalla reclamabilita' il
provvedimento  di  rigetto  dell'istanza  di chiusura del fallimento;
sospende,  conseguentemente,  il presente giudizio, ordinando che gli
atti   siano   rimessi,   per   quanto   di  competenza,  alla  Corte
costituzionale.
    Dispone,  inoltre,  che la presente ordinanza sia notificata alle
parti,  in  epigrafe  indicate,  ed  al  Presidente del Consiglio dei
ministri,  nonche' comunicata ai Presidenti del Senato e della Camera
dei deputati.
    Cosi' deciso in Napoli, il 26 novembre 1997
                    Il Presidente: D'Alessandro
                        Il consigliere relatore estensore: Piccialli
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