N. 18 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 2 maggio 2002

Ricorso  per conflitto di attribuzione depositato in cancelleria il 2
maggio 2002 (della Camera dei deputati)

Parlamento  - Mandato parlamentare - Adempimento da parte di deputato
  sottoposto  a  procedimento  penale - Diritto-dovere di partecipare
  alle  votazioni  in  Assemblea  -  Valore di impedimento assoluto a
  comparire  nella  udienza penale fissata in concomitanza con esse -
  Diniego  da  parte  del  Tribunale di Taranto, sez. I penale, della
  Corte d'Appello di Lecce, sez. distaccata penale di Taranto e della
  Corte  suprema  di  Cassazione, sez. V penale - Conseguente rigetto
  della  richiesta,  presentata dalla difesa dell'on. Giancarlo Cito,
  di   considerare   giustificata  l'assenza  dello  stesso  deputato
  all'udienza in ragione dell'impedimento parlamentare - Conflitto di
  attribuzione  tra  poteri  dello  Stato  sollevato dalla Camera dei
  deputati   -  Denunciata  lesione  dell'autonomia,  indipendenza  e
  funzionalita'  delle  Camere  -  Incidenza  sulle  attribuzioni del
  potere  legislativo  e  sull'esercizio  del  mandato parlamentare -
  Mancato  bilanciamento  tra i valori costituzionali dell'efficienza
  processuale  e  dell'autonomia  ed  indipendenza  del  Parlamento -
  Violazione  del  principio di leale collaborazione tra poteri dello
  Stato  Richiesta  alla  Corte  di  dichiarare  la non spettanza del
  potere   esercitato   dall'autorita'  giudiziaria  e  di  annullare
  conseguentemente   gli   atti   della  sopra  menzionata  autorita'
  giudiziaria ritenuti invasivi.
- Ordinanza  del Tribunale di Taranto, sez. I penale, del 18 febbraio
  1998;  sentenza  del  Tribunale  di  Taranto, sez. I penale, del 18
  febbraio-13  marzo  1998, n. 202; sentenza della Corte d'Appello di
  Lecce  -  sez.  distaccata penale di Taranto del 21 ottobre 1999-10
  marzo  2000,  n. 85;  sentenza  della  Corte suprema di Cassazione,
  sezione V penale, del 15 febbraio-19 marzo 2001, n. 390.
- Costituzione,  artt.  64,  67, 68, 72, 73, comma secondo, 79, primo
  comma,  83,  comma  terzo,  90,  comma  secondo, 138, primo e terzo
  comma;  l. cost. 11 marzo 1953, n. 1, art. 12; l. cost. 22 novembre
  1967,  n. 2, art. 3; l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, artt. 9, comma
  3, e 10, comma 3.
(GU n.25 del 26-6-2002 )
    Ricorso  della Camera dei deputati, in persona del suo Presidente
on. prof.  Luciano  Violante,  giusta  deliberazione  dell'Ufficio di
Presidenza  n. 293  del  5 aprile 2001 e deliberazione dell'Assemblea
della  Camera  del 18 aprile 2001, rappresentato e difeso - in virtu'
di   atto  notar  Paolo  Silvestro,  in  Roma,  del  20  aprile  2001
(rep. n. 65603)  -  dall'avv.  prof.  Sergio Panunzio e presso il suo
studio elettivamente domiciliato in Roma, Corso Vittorio Emanuele II,
n. 284,
    Contro:
        il Tribunale di Taranto - sezione I penale;
        la  Corte  di appello di Lecce - sezione distaccata penale di
Taranto;
        e la Corte Suprema di Cassazione - quinta sezione penale;
    In relazione:
        all'ordinanza  emessa  in data 18 febbraio 1998 dal Tribunale
di  Taranto  -  sezione I penale, nell'ambito del procedimento penale
n. 947/1995  Reg. Gen., pendente nei confronti del deputato Giancarlo
Cito,   con   la   quale  e'  stata  rigettata  l'istanza  di  rinvio
dell'udienza  dibattimentale  fissata  per  lo  stesso  giorno,  gia'
precedentemente  proposta  dal  difensore  dell'imputato  medesimo  e
nonostante   questi   avesse   addotto,   come   causa  di  legittimo
impedimento,  la  necessita'  di  partecipare ai lavori con votazione
dell'Assemblea della Camera, concomitanti con l'udienza;
        alla  sentenza del medesimo Tribunale di Taranto - sezione I,
emessa   nel   medesimo  procedimento  penale,  n. 202/1998,  del  18
febbraio/13 marzo 1998;
        alla  sentenza  della  Corte  di  appello  di Lecce - sezione
penale  distaccata di Taranto, n. 85/00, del 21 ottobre 1999/10 marzo
2000,  che  ha  confermato,  sul  punto,  la  succitata  sentenza del
Tribunale di Taranto;
        ed  alla  sentenza  della  Corte  Suprema  di  Cassazione - V
sezione  penale,  n. 390/2001 del 15 febbraio/ 19 marzo 2001, che sul
punto  ha  parimenti  rigettato  il  ricorso  proposto dall'onorevole
Giancarlo Cito.

                              F a t t o

    All'udienza  del 18 febbraio 1998 il Tribunale di Taranto-sezione
I,   nell'ambito  del  procedimento  penale  n. 947/1995  Reg.  Gen.,
pendente  nei  confronti del deputato on. Giancarlo Cito, respingeva,
con ordinanza, l'istanza presentata dal difensore del parlamentare il
giorno  precedente l'udienza dibattimentale, con la quale si chiedeva
di  considerare l'assenza dall'imputato giustificata perche' dovuta a
impedimento  assoluto a comparire derivante dal suo diritto-dovere di
partecipare  ad  attivita'  parlamentari,  comprendenti  votazioni in
Assemblea,  e  svolgentisi  nei giorni 17, 18, 19 e 20 febbraio, come
comprovato  dal  calendario  dei  lavori  della  Camera  dei deputati
presentato  al tribunale. Secondo il tribunale, l'istanza era tardiva
e,  d'altronde,  essendo  la  seduta  del giorno 18 fissata a partire
dalle ore 16, l'imputato (sempre secondo il tribunale) avrebbe potuto
ugualmente  comparire  nella  mattinata chiedendo che il suo processo
fosse trattato con precedenza.
    L'ordinanza  in  questione  - alla cui stesura venne dedicata una
camera  di consiglio della durata di quindici minuti, dalle ore 13.35
alle   ore   13.50   -  non  prendeva  in  alcuna  considerazione  la
circostanza,  risultante  dal calendario dei lavori della Camera, che
il  deputato  si  trovasse  impegnato in votazioni sin dalla giornata
precedente  l'udienza  (cioe'  il  17  febbraio),  giornata in cui le
votazioni si erano prolungate sino alle ore 23. Come pure risulta dal
verbale  dell'udienza  del  18  febbraio,  alla  ripresa dell'udienza
(successivamente  alla  lettura della suddetta ordinanza) il collegio
prese  cognizione  anche  di  un  fax  inviato  quello  stesso giorno
dall'imputato onorevole Cito, il quale - oltre a trasmettere l'ordine
del  giorno  della  seduta  (con  votazioni)  dell'Assemblea  del  18
febbraio  -  faceva anche presente al tribunale come egli si trovasse
impegnato in votazioni sin dalla sera del precedente giorno 17; ma il
tribunale non ritenne di dover ritornare sulla propria decisione.
    Infatti,  con  sentenza del medesimo 18 febbraio 1998 (pubblicata
il  successivo  13 marzo 1998), il Tribunale di Taranto ha condannato
l'imputato on. Cito per il reato ascrittogli, espressamente rinviando
nella  motivazione  alla  suddetta  ordinanza  del 18 febbraio con la
quale era stata respinta l'istanza di rinvio dell'udienza.
    Nel  successivo grado del giudizio la Corte di appello di Lecce -
sezione  distaccata  di  Taranto,  respinse,  con sentenza 21 ottobre
1999,  la  eccezione di nullita' della ordinanza del 18 febbraio 1998
del  Tribunale  di  Taranto,  presentata dalla difesa dell'appellante
on. Cito,  ritenendo da un lato, a propria volta, l'eccezione tardiva
- ma riferendosi, testualmente, anziche' all'istanza presentata dalla
difesa   dell'imputato   il   17   febbraio,   che   formava  oggetto
dell'ordinanza   del   tribunale,  al  fax  dell'onorevole  Cito  del
successivo  18  febbraio  -  e,  dall'altro,  escludendo il ricorrere
dell'impedimento assoluto perche' l'imputato sarebbe stato chiamato a
votare  in  giorni  diversi  da  quello  in cui era fissata l'udienza
davanti  al  tribunale, e cioe' (secondo la corte) nei giorni 17 e 20
febbraio.
    La  Corte  d'appello, peraltro, non dava conto nella sua sentenza
di  quali  fossero  gli elementi che la portavano a tale conclusione.
Una  conclusione invero difficilmente comprensibile, ove si consideri
che non solo il calendario settimanale delle sedute dei giorni dal 17
al  20  febbraio  -  ivi  compreso il giorno 18 - era, tranne che per
l'orario, identico nei contenuti, eccezion fatta per la precisazione,
riferita al solo giorno 20, che quel giorno le votazioni si sarebbero
concluse  alle  ore 14; ma, soprattutto, che era in atti l'ordine del
giorno  della  seduta  del  18  febbraio  con  l'indicazione  che  le
votazioni avrebbero avuto inizio quel giorno alle ore 16 e 20 minuti.
    Con  sentenza  15  febbraio  2001  la Corte Suprema di Cassazione
confermava  il  giudizio  emesso dalla impugnata sentenza della Corte
d'appello  di  Taranto, compreso il rilievo concernente la tardivita'
dell'impedimento     dedotto,    ed    affermando,    con    riguardo
all'opponibilita'  dell'impedimento  parlamentare,  non  solo  che la
pronuncia  della  Corte  d'appello si sottraeva al suo sindacato "...
argomentando   circa   la  tardivita'  dell'impedimento  dedotto  con
proposizioni  logicamente  e  giuridicamente  ineccepibili  ...",  ma
aggiungendo  anche  che "l'indiscriminata valenza dell'impedimento di
natura parlamentare paralizzerebbe la definizione del procedimento" e
che  "il delicato equilibrio tra la funzione giurisdizionale e quella
parlamentare  trova contemperamento nel bilanciamento degli interessi
confliggenti,  operato  di  volta  in volta dal giudice, sulla scorta
della  concreta  situazione processuale", e precisando infine che "la
definizione  del  procedimento in tempi ragionevoli non soddisfa solo
l'interesse  (punitivo,  ma  non  solo)  dello  Stato  e le legittime
aspettative  della  persona offesa, ma anche l'interesse dello stesso
imputato, ove questo non si proponga fini dilatori".
    Preso atto di quanto sopra esposto, con deliberazione n. 293/2001
del  5 aprile 2001 l'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati,
in considerazione della natura lesiva delle attribuzioni parlamentari
che  e' propria dell'ordinanza e delle sentenze citate, ha deliberato
di  proporre  alla  Camera  dei deputati di sollevare, in riferimento
alle stesse, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
    Con deliberazione in data 18 aprile 2001 la Camera di deputati ha
approvato  la proposta dell'Ufficio di Presidenza, e ha deliberato in
conformita'.
    Invero,  l'ordinanza e le sentenze indicate in epigrafe risultano
lesive  delle attribuzioni della ricorrente Camera dei deputati per i
seguenti motivi di

                            D i r i t t o

    1. - Preliminarmente, quanto all'ammissibilita' del ricorso.
    1.1.  - In punto di ammissibilita' del presente conflitto occorre
intanto  rilevare  che  la  legittimazione  processuale  passiva  del
Tribunale   di   Taranto-sezione   I,   della  Corte  di  appello  di
Lecce-sezione  distaccata  di  Taranto,  e  della  Corte  Suprema  di
Cassazione-quinta   sezione   penale   discende   pacificamente   dal
principio,  riconosciuto sin dalle ord. n. 228 e 229/1975 secondo cui
"i  singoli  organi  giurisdizionali,  nell'esercizio  delle funzioni
giurisdizionali,  possono  in  genere  essere  parte  di conflitti di
attribuzione", dato il carattere "diffuso" del potere giudiziario.
    La  legittimazione  attiva  della  ricorrente Camera dei deputati
risale  anch'essa  a un orientamento consolidato nella giurisprudenza
di  codesta  ecc.ma  Corte (sentt. nn. 265/1997; 379/1996; 1150/1988;
129/1981;  ord.  n. 150/1980), orientamento che e' stato recentemente
ribadito, in fattispecie analoga alla presente, dall'ordinanza n. 102
del   14  aprile  2000,  secondo  cui  "la  Camera  dei  deputati  e'
legittimata  a sollevare conflitti di attribuzione tra i poteri dello
Stato,  quale  organo  competente  a  dichiarare  definitivamente  la
volonta' del potere cui appartiene".
    1.2.  -  Quanto  alla  sussistenza  dei  requisiti  oggettivi del
conflitto,  e' noto che questi ultimi, ai sensi degli artt. 134 Cost.
e  37,  legge  11  marzo 1953, n. 87, consistono nella determinazione
della  sfera  delle  attribuzioni  costituzionali di due poteri dello
Stato.  Ed  e'  appunto  della delimitazione di una tale sfera che si
controverte  nel  presente  conflitto,  alla  cui  scaturigine  e' la
pretesa  dell'autorita'  giudiziaria  di  non considerare impedimento
assoluto   a  presentarsi  all'udienza  il  dovere  del  deputato  di
partecipare alle votazioni della Camera di appartenenza.
    Il  conflitto  e'  pertanto  originato  dal  problema della retta
delimitazione    delle   attribuzioni   costituzionali   del   potere
giudiziario  (di  svolgere  e  decidere  i  processi  penali pendenti
davanti  ad esso) a cospetto delle esigenze di funzionalita', e delle
prerogative  di  autonomia e indipendenza, della Camera dei deputati,
incise dalla pretesa del potere giurisdizionale di non riconoscere al
deputato  l'impedimento  a partecipare a una udienza in ragione della
necessita' di adempiere alle sue funzioni di parlamentare.
    1.3.  -  Sussiste  altresi l'interesse a ricorrere. Quest'ultimo,
nel  conflitto  di  attribuzione,  si  preordina essenzialmente, e in
primo  luogo,  all'ottenimento  di  una  pronuncia  che  dichiari  la
spettanza  delle  attribuzioni  in  contestazione,  e  si identifica,
secondo la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte, con l'interesse "a
ristabilire  gli  equilibri  costituzionali messi in gioco, al di la'
del singolo caso, dal conflitto" (sent. n. 126/1996).
    Il  necessario  "equilibrio  costituzionale"  tra  lo svolgimento
della  funzione  giurisdizionale e quello della funzione parlamentare
e'    rotto   allorche',   come   avviene   (secondo   quanto   sara'
dettagliatamente  dimostrato  piu'  avanti)  nell'ordinanza  e  nelle
sentenze  che sono all'origine del presente conflitto, il giudice non
riconosca  come  impedimento assoluto alla comparizione dell'imputato
all'udienza  il  dovere  di  partecipare  ad  attivita'  parlamentari
comprendenti  votazioni  dell'Assemblea.  In tal modo, infatti, viene
completamente    squilibrato   tatto   a   favore   della   attivita'
giurisdizionale   un   rapporto   che   invece,   data   la  dignita'
costituzionale perlomeno pari delle due funzioni, deve avere un punto
di  equilibrio  che,  come  tale,  non puo' significare il sacrificio
intero  dell'una  nei  confronti  dell'altra.  Punto di equilibrio il
quale, in questa come in numerose altre occasioni, e' posto "sotto la
tutela" di codesto ecc.mo collegio, che ha individuato esplicitamente
in  se' stesso il custode del confine tra i due distinti valori della
autonomia  delle  Camere e della legalita' della giurisdizione, nella
consapevolezza   che   "le   aspettative   virtualmente  antagoniste"
alimentate  da  un  disegno  costituzionale che li accoglie entrambi,
siano   armonizzabili   mediante   l'interpretazione   dei   principi
costituzionali  che ne definiscono la posizione reciproca (cfr. sent.
n. 379/1996).
    1.4.   -   Codesta   ecc.ma  Corte  ritiene  che  la  sussistenza
dell'interesse  a ricorrere sia "necessaria e sufficiente a conferire
al   conflitto  i  necessari  caratteri  della  concretezza  e  della
attualita'"  (sent. n. 420/1995), sicche' nemmeno l'esaurimento degli
effetti  dell'atto impugnato, o la stessa ritenuta inattitudine della
decisione  della  Corte,  emessa  a  seguito del conflitto, a segnare
effetti  giuridici  nel  rapporto  ad esso soggiacente, fa venir meno
quei  caratteri.  Pertanto,  una  volta  dimostrata,  come  nel punto
precedente,  la sussistenza dell'interesse a ricorrere, non varrebbe,
a negare l'assenza dell'attualita' e della concretezza del conflitto,
l'osservazione   che  il  mancato  riconoscimento  del  carattere  di
impedimento  assoluto  al  dovere  del  deputato  di partecipare alle
votazioni  in  Assemblea  non  ha,  nel  caso  di specie, impedito lo
svolgimento di quelle attivita', avendovi il deputato preso parte.
    Analogamente  a  quanto  osservato dalla ricorrente nel conflitto
recentemente  ammesso dalla ord. n. 102/2000, anche in questo caso la
concreta   vicenda   delle   scelte   del   singolo  parlamentare  e'
"estrinseca"  rispetto  agli  atti impugnati e al loro contenuto, dai
quali  si  origina  la  lesione delle attribuzioni della Camera. Cio'
appare  tanto  piu'  vero se si tiene presente la recente modulazione
che  i  principi  appena  sopra  ricordati  in  tema  di  interesse a
ricorrere,  attualita'  e  concretezza  del conflitto, hanno ricevuto
allorche'  codesto ecc.mo collegio ha affermato che "le usurpazioni e
le  menomazioni  di  una attribuzione spettante ad altro potere dello
Stato  non  dipendono  solo  dalle conseguenze concretamente prodotte
dagli  atti  o dai comportamenti contestati, ma si misurano alla luce
della  "intrinseca  entita'  delle pretese che abbiano determinato la
situazione  di  conflitto"  (sent.  n. 121/1999, che si richiama alla
sent.  n. 150/1981). Ebbene, "l'intrinseca entita' delle pretese" e',
in  questo caso, l'oggetto del conflitto e la misura dell'interesse a
ricorrere e della sua attualita', trattandosi di stabilire la portata
reciproca    delle   esigenze   connesse   allo   svolgimento   della
giurisdizione  e  della funzione parlamentare, portata che gli organi
giudiziari  contro  cui  si  ricorre hanno preteso di determinare nel
senso della preminenza della funzione giurisdizionale.
    1.5.  -  La  "divergenza  di vedute" necessaria a far emergere il
contrasto  tra la Camera e l'Autorita' giudiziaria (ord. n. 446/1999;
131/1999)  risulta,  da  un  lato,  dalla  convocazione e diramazione
dell'ordine  del  giorno  delle  sedute  dei  giorni  17, 18, 19 e 20
febbraio   1998  (da  cui  e'  insorto  il  dovere  del  deputato  di
partecipare  alle  votazioni  in  Assemblea),  e,  dall' altro, dalle
decisioni  indicate  in epigrafe, tutte, sia pure con toni e percorsi
argomentativi  non  identici,  convergenti  nel negare la qualita' di
impedimento   assoluto  al  dovere  del  deputato  di  partecipare  a
votazioni in Assemblea.
    1.6.  -  Deve  altresi'  escludersi  che ricorra nella specie una
ulteriore,  ipotetica  ragione  di inammissibilita': quella, che puo'
specificamente  presentarsi nei conflitti aventi ad oggetto decisioni
giudiziarie,  derivante dalla impossibilita' di contestare, in questa
sede,  errores  in  judicando,  e  cosi'  di  trasformare il giudizio
costituzionale  per  conflitto  di  attribuzione  tra  poteri  in  un
improprio  ulteriore grado di giurisdizione (cfr. di recente la sent.
n. 359/1999).
    La ricorrente Camera dei deputati non era ne' poteva essere parte
del  giudizio che ha originato il presente conflitto, sicche' non ha,
cosi'  come  non  aveva (al contrario di quanto accade per il singolo
deputato, cfr. ord. n. 101/2000) strumenti processuali "ordinari" per
tutelare  le  proprie  attribuzioni (analogamente, N. Zanon, Il "Caso
Previti",  conflitto tra poteri dello Stato o questione "privata"? in
aa.vv.,  Il  "Caso Previti", Torino, 2000, 21; F. Rigano, Tre domande
ivi.  184).  Qui,  dunque, non e' neppur pensabile che si pretenda di
trasformare  il  giudizio dinanzi alla Corte "inammissibilmente in un
nuovo  grado  di  giurisdizione"  (sent.  n. 27/1999),  per la chiara
circostanza  che un "grado di giurisdizione" precedente o diverso, al
quale la Camera potesse o possa accedere, semplicemente non esiste.
    2. - Violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione.
    2.1.  -  Venendo, ora, al merito, giova osservare preliminarmente
che  gia'  con  due  precedenti  ricorsi  la  Camera  dei deputati ha
sollevato  conflitto  di  attribuzioni  in  relazione  a  pronunce di
giudici  che  non  avevano  ritenuto  di giustificare l'assenza di un
parlamentare  ad  una  udienza  penale  in  ragione  dell'impedimento
costituito   dalla  concomitante  necessita',  per  il  deputato,  di
partecipare  a  votazioni  in Assemblea e di assolvere in tal modo al
suo mandato parlamentare.
    Anche  in questo terzo conflitto, che si sottopone al giudizio di
codesta  ecc.ma  Corte,  la  controversia sorge perche', nello stesso
giorno  fissato  per  l'udienza dibattimentale presso il Tribunale di
Taranto,  l'on. Cito era stato convocato dalla Camera per partecipare
a sedute e, in particolare, a votazioni in Assemblea. Pertanto, anche
con   questo   terzo   ricorso,   la   lesione   delle   attribuzioni
costituzionali   della   Camera  viene  dedotta  ed  argomentata  con
particolare  riferimento  alla  circostanza che, appunto, il deputato
era  stato  chiamato ad esercitare presso l'Assemblea della Camera il
suo diritto dovere di votare.
    Invero,  in  un  caso  siffatto,  la  lesione  delle attribuzioni
costituzionali  della  Camera  risulta  - come si vedra' - tanto piu'
grave  ed  evidente.  Il  che,  tuttavia,  non esclude che un'analoga
lesione  possa  aversi  anche  quando  non  si tratti di votazione in
Assemblea,  ma per esempio in commissione legislativa (magari in sede
deliberante); od anche quando non si tratti di votare, ma di un altro
modo di esercizio delle funzioni parlamentari.
    2.2.  -  Le  pronunce  del  Tribunale di Taranto e della Corte di
appello  di  Lecce  -  sezione  distaccata  di  Taranto  non prendono
posizione  in  ordine  alla  questione,  per dir cosi', di principio,
relativa   al   rilievo  processuale  della  posizione  dell'imputato
impegnato  in  attivita' parlamentare. Ma indubbiamente l'effetto, il
portato,  di  quelle  decisioni e' di negare la natura di impedimento
assoluto alla partecipazione del deputato a votazioni in assemblea, o
di  subordinarne  volta  a  volta il riconoscimento a valutazioni del
giudice, in specie inerenti la concreta situazione processuale (quali
i   rilievi  in  ordine  alla  asserita  tardivita'  dell'opposizione
dell'impedimento).
    Invece  la sentenza n. 390/2001 della Suprema Corte di Cassazione
-  quinta  sezione  penale enuclea espressamente il principio per cui
spetta  al  giudice  operare "di volta in volta", "sulla scorta della
concreta  situazione  processuale" il contemperamento tra le esigenze
della   funzione   giurisdizionale   e  di  quella  parlamentare.  Il
significato  di  questa  affermazione,  con la quale la Suprema Corte
conferma   la  legittimita'  della  sentenza  della  Corte  d'appello
impugnata  (e  di  quella  di primo grado), e' duplice: essa comporta
che, a seconda della concreta situazione processuale, il giudice puo'
riconoscere  la  natura  di  impedimento  assoluto,  o, al contrario,
negarla,   ad  ogni  sorta  di  impegno  del  deputato  riconducibile
all'esercizio  di  funzioni  parlamentari.  A  seconda della concreta
situazione  processuale, dunque, il giudice potrebbe, ad avviso della
Corte  di  Cassazione, considerare impedimento assoluto una attivita'
parlamentare  diversa  dal  voto, e negare la qualita' di impedimento
assoluto  alla  partecipazione  a  votazioni in Assemblea. La Suprema
Corte  di Cassazione considera percio' tutte equiordinate tra loro, e
tutte  ugualmente  subordinate alla valutazione del giudice in ordine
alla    concreta    situazione   processuale,   e,   percio',   tutte
potenzialmente  soccombenti  davanti a quella valutazione, le diverse
attivita' dei parlamentari; e, in questo modo, riconosce a se' stessa
il  potere di negare, sia pure non sempre e in linea di principio, ma
nel  concreto  contesto, anche alla attivita' di voto in Assemblea la
capacita' di determinare un impedimento assoluto.
    In  precedenti  ricorsi,  attualmente  pendenti,  la  Camera  dei
deputati  ha  gia' domandato a codesta ecc.ma Corte di dichiarare che
non spetta al giudice negare la qualita' di impedimento assoluto alla
condizione dell'imputato chiamato, in concomitanza con una udienza, a
partecipare  a  sedute dell'Assemblea implicanti votazioni. In questo
come  in  quei casi, la domanda e' basata su un duplice, concomitante
ordine di argomenti.
    In   primo   luogo,  la  pretesa  dell'autorita'  giudiziaria  di
considerare  tra  loro  fungibili le attivita' dei parlamentari, e di
rimettere  al solo giudice, alla stregua della valutazione delle sole
circostanze  processuali,  il  giudizio sul se e quale tra esse possa
valere  come  impedimento  assoluto,  in quanto perviene a consentire
all'autorita'  giudiziaria di non considerare impedimento assoluto la
partecipazione  al voto in Assemblea, lede l'autonomia costituzionale
e l'indipendenza della Camera, ne compromette la capacita' di operare
e  menoma  l'esercizio  libero  del mandato parlamentare, rispetto ai
quali  il  libero  adempimento  del  dovete del deputato di votare in
Assemblea e' strettamente funzionale.
    In   secondo   luogo,   quella  pretesa,  comportando  il  totale
sacrificio  delle esigenze della funzione parlamentare a quelle della
funzione giurisdizionale, non realizza un contemperamento equilibrato
tra   le   esigenze  della  giurisdizione  e  quelle  della  funzione
parlamentare,   ma,  tutto  al  contrario,  determina  tra  esse  una
relazione   arbitraria   e   irragionevole,  con  la  quale  altresi'
l'autorita'  giudiziaria  viene  meno  al proprio dovere di lealta' e
correttezza,  manifestazione del principio di leale cooperazione, che
le  impone  di esercitare le proprie funzioni nell'effettivo rispetto
delle attribuzioni costituzionali degli altri poteri.
    2.3.  -  Le  censure della ricorrente muovono dalla necessita' di
vedere  riconosciuta  la  peculiarita'  delle  votazioni in Assemblea
rispetto a ogni altra attivita' parlamentare.
    E' invero indubbio che tutte le attivita' che i deputati svolgono
nell'esercizio  del  loro  mandato  godono  di pari dignita', e di un
rilievo  ugualmente intenso: la partecipazione ai lavori parlamentari
e',   comunque   si  manifesti,  un  dovere,  oltre  che  un  diritto
(art. 48-bis  Reg.  Cam.).  E'  errato  tuttavia  inferire da cio' la
conclusione  che,  allora,  il  rilievo  delle  diverse attivita' del
parlamentare  come  cause  di  impedimento  assoluto nel processo sia
identico,  e  tale  da  essere identicamente rimesso al sindacato del
giudice  alla  stregua  della  valutazione  delle concrete situazioni
processuali.    Tra    le   diverse   attivita'   che   costituiscono
partecipazione   ai   lavori   parlamentari  c'e'  perlomeno  una,  e
essenziale,  differenza  qualitativa,  dal  momento che, diversamente
dalle   altre  attivita'  parlamentari,  quali  la  partecipazione  a
discussioni,  lo svolgimento di interventi programmati, o di atti del
sindacato  ispettivo - pure, lo si ripete, a loro volta assolutamente
fondamentali nella esplicazione del ruolo costituzionale delle Camere
-  il voto e' attivita' personalissima, non delegabile ad altri (cfr.
il  tema  della  sent.  n. 379/1996),  e che, inoltre, il deputato, a
differenza  di quanto avviene con riguardo a quelle attivita', non ha
alcun  potere di influenza in ordine al momento del loro svolgimento:
egli  non  puo' mai chiedere, e tantomeno ottenere, lo spostamento di
una votazione.
    Il   deputato  che  sia  convocato  dal  giudice  penale  per  un
procedimento  nei  propri confronti, nella stessa data in cui intenda
partecipare  a  una  discussione,  o  debba  svolgere  un  intervento
programmato   su  un  determinato  provvedimento,  puo'  chiedere  lo
spostamento  ad  altra data dell'esame del provvedimento, spostamento
che  per  prassi  viene,  ove possibile, concesso; in alternativa, la
Camera,  in  persona del proprio Presidente, puo' - e la prassi e' in
tal  senso - rinviare la discussione sulle linee generali o concedere
facolta'  al  deputato  in  questione  di svolgere un intervento piu'
ampio  sull'art. 1 del provvedimento in discussione, quando si tratti
di progetti di legge, in deroga alle norme sui tempi. La possibilita'
del  rinvio  di  atti  del  sindacato  ispettivo  e' in re ipsa, e il
momento  dello  svolgimento  di  interrogazioni e interpellanze viene
fissato  -  una  volta che la Presidenza della Camera abbia preso gli
opportuni  contatti  con  il  Ministro  destinatario  e  il  deputato
richiedente  -  in  modo  da  conciliare  le  rispettive  esigenze  e
assicurare  il  dibattito  (cfr. R.Moretti, Attivita' informative, di
ispezione e di controllo, in T. Martines, C. De Caro, V. Lippolis, R.
Moretti, Diritto parlamentare, Rimini, 1992, 417, 421).
    Il peculiare statuto del voto, per cui sono invece indisponibili,
da  parte del singolo deputato, i modi (personali e non delegabili) e
i  momenti  (non  rinviabili  a  richiesta) della partecipazione alle
sedute  in  cui  ne  avviene  l'espressione, da' la misura di come la
votazione rappresenti una attivita' che e' si' esercitata dal singolo
deputato,  ma, com'e' proprio della sua natura di atto "squisitamente
funzionale"  (sent.  n. 379/1996)  pertiene in modo pieno e immediato
alla funzione costituzionalmente rimessa a ciascuna delle due Camere,
che,  dunque,  e' il bene inciso allorche' la partecipazione a quella
attivita'   non   venga   considerata   "impedimento  assoluto"  alla
comparizione in udienza. Tanto piu' (ma non esclusivamente) cio' vale
per  il  voto  in Assemblea, sui quale - anche in questo ricorso - si
concentrano  le  censure  della  ricorrente,  essendo  innegabilmente
l'Assemblea il soggetto "sovrano" dell'ordinamento parlamentare.
    Il   funzionamento   interno   dell'Assemblea  e'  garantito  nei
confronti  delle interferenze di qualunque potere, dalle disposizioni
degli  artt. 64,  68  e  72  Cost.,  e cioe', da un lato, mediante il
potere  delle  Camere  di  disciplinare  con  autonomo regolamento la
propria  organizzazione  e il proprio funzionamento; dall'altro lato,
dalla  indipendenza  e  autonomia dei singoli membri, garanzie queste
ultime,  a  loro  volta,  della  indipendenza  della  istituzione  di
appartenenza.  Come  codesta  ecc.ma Corte ha statuito: "I diritti la
cui titolarita' e il cui esercizio abbiano come presupposto lo status
di parlamentare e ne connotino la funzione possiedono ... uno statuto
fondato  sulla  Costituzione  e  plasmato  dal principio di autonomia
delle  Camere. E' in relazione a tali diritti che la non interferenza
dell'autorita'  giudiziaria civile o penale si afferma con la massima
cogenza,  in  quanto  essa e' finalizzata al soddisfacimento del bene
protetto  dagli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione: la garanzia del
libero   agire   del   Parlamento  nell'ambito  suo  proprio"  (sent.
n. 379/1996).  Il  vulnus arrecato all'autonomia e indipendenza della
Camera e', dunque, violazione delle disposizioni degli artt. 64, 68 e
72.
    Dal  diniego  del  carattere di impedimento assoluto al dovere di
prendere  parte  alle  votazioni  in  Assemblea deriva grave ostacolo
all'adempimento  del  principale  diritto-dovere del deputato; e cio'
ridonda  in una lesione delle prerogative di autonomia e indipendenza
interna della Camera.
    3. - Violazione  dell'art. 64, comma 3, della Costituzione, anche
in  riferimento agli artt. 64, comma 1; 73, comma 2; 79, comma 1; 83,
comma  3; 90, comma 2; 138, commi 1 e 3 della Costituzione; 12, 1egge
cotituzionale 11 marzo 1953, n. 1; 3 legge costituzionale 22 novembre
1967,  n. 2;  9,  comma  3,  e  10,  comma 3, legge costituzionale 16
gennaio 1989, n. 1.
    Un'altra, e rilevantissima, differenza intercorre tra l'esercizio
del  diritto  di  voto  in Assemblea, e le altre attivita' riconnesse
alla  funzione  parlamentare.  Solo  il  voto - ed appunto il voto in
Assemblea,  cui ha riguardo l'oggetto del presente conflitto - incide
sulla  funzionalita'  della Camera, esprimendo un immediato e diretto
condizionamento  nei  confronti  della capacita' di operare di quella
Assemblea  che  e', lo si ripete, l'organo "sovrano" nell'ordinamento
costituzionale. Sicche', subordinare anche questa attivita', sotto il
profilo  se  essa  possa costituire o meno impedimento assoluto, alla
valutazione  del giudice, svolta di volta in volta alla stregua delle
risultanze  processuali,  significa  subordinare alle valutazioni del
potere  giudiziario,  nonche'  alle  sole  esigenze  del processo, il
funzionamento della suprema assemblea rappresentativa.
    Il   nesso   immediato  e  diretto  che  intercorre  tra  voto  e
funzionalita'   dell'Assemblea   parlamentare   appare   evidente   e
incontestabile  se  solo si tiene presente che le deliberazioni delle
Camere  sono  sottoposte,  ai  sensi  dell'art. 63,  comma  3,  della
Costituzione  -  a  tenore  del  quale  "Le deliberazioni di ciascuna
Camera  e  del  Parlamento  non  sono  valide  se non sono adottate a
maggioranza  dei  presenti,  salvo  che la Costituzione prescriva una
maggioranza  speciale"  -  a  un  duplice quorum di validita', quello
strutturale  e  quello funzionale, il cui mancato raggiungimento, che
puo'  essere  determinato  anche  da  un  singolo  voto, determina la
invalidita'   della   deliberazione,   e   che   riguarda   tutte  le
deliberazioni  delle  Camere  e tutte quelle del Parlamento in seduta
comune.  Sicche'  la  partecipazione dei singoli deputati alle sedute
nelle  quali  e'  indetta  una votazione, e alle votazioni stesse, e'
condizione  indispensabile  per  la  validita'  delle  sedute e delle
deliberazioni.
    Numerose   altre   disposizioni   costituzionali   specificano  e
rafforzano  la  previsione generale dell'art. 64, comma 3. L'art. 64,
comma 1, richiede, per l'approvazione dei regolamenti, la maggioranza
assoluta   dei   componenti;   1'art. 73,   comma   2,  subordina  la
dichiarazione  di  urgenza  della  legge  a una deliberazione presa a
maggioranza  assoluta;  l'art. 79, comma 1, pone, come condizione per
l'approvazione  delle leggi di amnistia e indulto, la maggioranza dei
due terzi dei componenti; l'art. 83, comma 3, richiede la maggioranza
dei  due  terzi,  o  assoluta,  del  Parlamento  in seduta comune, in
composizione   integrata,   per   l'elezione   del  Presidente  della
Repubblica;  l'art. 90, comma 2, richiede la maggioranza assoluta dei
componenti  del  Parlamento  in  seduta  comune per la messa in stato
d'accusa  del  Presidente  della Repubblica (v. anche l'art. 12 della
legge  costituzionale  11 marzo 1953, n. 1); l'art. 138, commi 1 e 2,
richiede,  per  l'approvazione  di  una  legge  costituzionale  o  di
revisione   costituzionale,  l'approvazione  a  maggioranza  assoluta
ovvero dei due terzi. Vanno altresi' ricordate disposizioni contenute
in   leggi   costituzionali,  quali,  almeno,  l'art. 3  della  legge
costituzionale  22  novembre  1967, n. 2 (maggioranza dei due terzi o
dei  tre  quinti  dei  componenti del Parlamento in seduta comune per
l'elezione  dei  giudici  costituzionali), e l'art. 9, comma 3, della
legge  costituzionale  1 gennaio 1989, n. 1 (maggioranza assoluta dei
componenti  della  Camera  competente  per  negare l'autorizzazione a
procedere nei confronti dei Ministri o del Presidente del Consiglio).
L'art. 10,  comma  3, della stessa legge, prevede, nell'ipotesi della
richiesta  di misure restrittive delle liberta' fondamentali a carico
dei Ministri o del Presidente del Consiglio, tanto la convocazione di
diritto  delle  Camere  che il dovere, per esse, di deliberare, entro
quindici giorni dalla richiesta. E' un caso, questo, in cui le Camere
non  hanno solo il dovere di riunirsi, ma anche quello di deliberare,
ovverosia  di  votare, entro un tempo determinato; elemento che rende
la  partecipazione dei singoli parlamentari alla votazione ancor piu'
indefettibile.
    Poiche'  dunque  la  possibilita'  per  la  Camera  di esercitare
validamente  le  proprie  funzioni e' condizionata dalla presenza del
necessario  numero  di  deputati,  ogni  impedimento frapposto a tale
partecipazione  si traduce in un impedimento alla funzionalita' della
Camera,  e  nella  pur potenziale compromissione dell'esercizio delle
attribuzioni  dell'organo  rappresentativo,  le quali dipendono dalla
riunione  dei  suoi  membri. Il rifiuto dell'autorita' giudiziaria di
giustificare  l'assenza  del  parlamentare  impegnato in votazioni in
assemblea  realizza  appunto  un  siffatto impedimento e una siffatta
compromissione delle attribuzioni costituzionali dell'assemblea della
Camera dei deputati.
    Infatti,  quel diniego pone il deputato nella condizione di dover
scegliere tra presentarsi all'udienza o partecipare alla votazione; e
questa  scelta,  poiche'  implica il soddisfacimento o il sacrificio,
comunque  integrali,  del  proprio  diritto  alla  difesa  ovvero del
proprio  dovere  di  voto,  non  e'  affatto  libera,  ne'  priva  di
condizionamenti.   Il   deputato  sottoposto  a  procedimento  penale
esercita   il  proprio  diritto  costituzionale  di  difesa,  diritto
fondamentalissimo   e   caratterizzante  la  stessa  identita'  della
Costituzione  italiana  (sent. n. 18/1982; 2/1956). L'adempimento del
dovere   di   partecipazione  alle  votazioni  in  Assemblea,  dovere
funzionale al valido esercizio delle attribuzioni della Camera, viene
a confliggere con un primario diritto costituzionale.
    Dunque,  negando  alla partecipazione a votazioni in Assemblea la
natura  di  impedimento  assoluto,  l'autorita' giudiziaria certo non
obbliga   il  parlamentare  a  declinare  quella  partecipazione,  ma
sottopone  la  partecipazione  del  deputato  alla  votazione  a  una
condizione,  quella  di  sacrificare  il  diritto  alla  difesa;  una
condizione   che,   implicando   una   scelta  importante  e  financo
drammatica,  potrebbe  spingere  il  deputato  a non partecipare alla
votazione,  pur  di  partecipare  all'udienza.  Il  diniego di rinvio
dell'udienza in nome dell'impedimento assoluto dell'imputato, ha come
conseguenza  di  condizionare  e  subordinare  la partecipazione alla
seduta   e  alle  relative  votazioni  a  valutazioni  (quella  sulla
opportunita'  e la convenienza, per la propria posizione processuale,
di  partecipare  all'udienza, anziche' alla votazione), imposte da un
potete   esterno,  laddove  l'adempimento  del  primario  dovere  del
deputato,  deve,  come  tale, essere subordinato solo all'esigenza di
soddisfare  gli  "interessi generali" della istituzione che lo impone
(G.M.  Lombardi,  Contributo  allo  studio dei doveri costituzionali,
Milano,  1967, 29). Cosi' l'autorita' giudiziaria interferisce con le
prerogative del potere legislativo, e gravemente: ponendone a rischio
la stessa funzionalita'.
    4. - Violazione degli art. 67 e 68 della Costituzione.
    Il  diniego  di  considerare  impedimento assoluto a comparire in
udienza la partecipazione del deputato a votazioni in Assemblea puo',
come detto, spingere il deputato a non partecipare alla votazione. In
tal  modo  viene lesa la liberta' del mandato, garantita dall'art. 67
della Costituzione. Il divieto di mandato "risponde alla finalita' di
garantire  l'indipendenza  del  parlamentare  da  ogni  influenza, da
qualunque  fonte provenga" (C. Mortati, Art. 67, in Commentario della
Costituzione, Le Camere, II (Art. 64-69), Bologna-Roma, 1986, 184), e
costituisce   percio',   al  pari  delle  prerogative  assicurate  al
parlamentare  dall'articolo  68  Cost., uno strumento funzionale alla
integrita'  della  posizione  costituzionale delle istituzioni cui il
parlamentare  appartiene, che lo proteggono da interferenze di poteri
esterni  e  che  assolvono  alla  funzione  di  "garanzia oggettiva e
funzionale  del  procedimento di decisione parlamentare", rispondendo
all'"esigenza  che la decisione parlamentare sia liberamente adottata
dalle  Camere  in  condizioni  di  autonomia  personali  e reali" (A.
Manzella, Il Parlamento, Bologna, 1991, 186 e 184).
    Ogni  volta  che  viene  leso  il  libero  esercizio  del mandato
parlamentare,  tutelato  dall'art. 67 in una con l'art. 68, sono lese
percio'  l'autonomia e l'indipendenza della Camera, che sussistono in
tanto  in quanto sussistano la liberta', l'autonomia e l'indipendenza
dei singoli membri nell'adempimento del loro mandato.
    Non   vi  ha  dubbio  che  dalla  giurisdizione  possa  provenire
pregiudizio  all'esercizio del libero mandato parlamentare (N. Zanon,
Il libero mandato parlamentare. Milano, 1991, 305). La situazione che
forma  oggetto  del  presente  conflitto  offre,  anzi,  una  ipotesi
esemplare  di  incisione  con  atti giurisdizionali della liberta' di
esercizio  del mandato parlamentare del singolo deputato, posto che -
per  effetto  del  diniego della situazione di impedimento assoluto -
questi  viene  pesantemente  condizionato, come si e' venuti dicendo,
nella  sua  scelta  di  adempiere  o  meno  i doveri, ed esercitare i
diritti, inerenti il suo ufficio, in presenza della contrapposta, e a
sua  volta  costituzionalmente  protetta,  esigenza  di esercitare il
diritto di difesa.
    Si  deve  aggiungere  che  il  condizionamento del libero mandato
determina una alterazione profonda del libero gioco delle maggioranze
e  delle  opposizioni,  che si fonda sull'altrettanto libero rapporto
delle  forze  e  la  cui  alterazione  (si  pensi  alla  prima  crisi
parlamentare  della  Repubblica,  con  la votazione alla Camera del 9
ottobre 1998) e' altrettanto rilevante.
    5. - Arbitrario  sacrificio, negli atti impugnati, delle esigenze
della  funzionalita',  autonomia  e  indipendenza  delle  istituzioni
parlamentari   alle   esigenze   della   efficienza   del   processo:
irragionevolezza    del    bilanciamento    operato    dall'autorita'
giudiziaria.
    Nelle  decisioni impugnate, la pretesa dell'autorita' giudiziaria
di  negare  il  carattere di impedimento assoluto alla partecipazione
del deputato a votazioni in assemblea e' espressa sia in modo diretto
(come  avviene nelle decisioni del Tribunale di Taranto e della Corte
di  Appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto, allorche' hanno
negato  quel carattere all'impedimento che pure l'imputato comprovava
con  l'esibizione  dell'ordine  del giorno della Camera), sia in modo
indiretto,  mediante  l'affermazione  (nella  sentenza  della Suprema
Corte  di  Cassazione) secondo cui spetta al giudice di valutare caso
per  caso, nel concreto della vicenda processuale, il ricorrere di un
impedimento assoluto, e di operare cosi', sulla scorta della concreta
situazione processuale, il bilanciamento degli interessi confliggenti
che risalgono alla funzione giurisdizionale e a quella parlamentare.
    Il  diniego di riconoscere la natura di impedimento assoluto alla
condizione  del parlamentare impegnato in votazioni in Assemblea lede
l'autonomia  e  indipendenza della Camera, la sua funzionalita', e il
principio di liberta' del mandato, in quanto, come sin qui sostenuto,
esso  sottopone  la  partecipazione  del  deputato  alle votazioni in
Assemblea a una scelta non libera. Ma altrettanto lesiva dei principi
costituzionali  che  governano  le attribuzioni reciproche del potere
giudiziario  e  del potere legislativo e', di per se', l'affermazione
secondo  cui  il  bilanciamento  tra  le  opposte  esigenze della due
funzioni  e'  rimesso  al giudice, che lo compira' alla stregua delle
concrete  risultanze  processuali,  ed  in  particolare, come propone
l'argomentare   della  Suprema  Corte  di  Cassazione,  alla  stregua
dell'esigenza di una conclusione celere del processo.
    Quel  diniego, infatti, proprio perche' subordina, determinandone
il  completo  sacrificio,  le  esigenze  della funzione legislativa a
quelle   della   funzione  giurisdizionale,  realizza  un  metodo  di
bilanciamento  che  e'  il  meno razionale e il meno satisfattivo sul
piano  dei  principi  (i  quali,  lungi dall'imporlo, ne suggeriscono
invece uno diverso).
    Come  si  e'  gia'  detto,  il  "bilanciamento"  che la autorita'
giudiziaria  propugna  e ritiene di realizzare presuppone una scelta,
rimessa  al  deputato, tra la partecipazione alla seduta della Camera
(con  conseguente  dichiarazione  di contumacia) o la comparizione in
udienza.  Questa scelta - lo si e' gia' osservato - non puo' avvenire
senza  il  sacrificio integrale di una delle due posizioni giuridiche
(il  diritto  alla difesa, il diritto/dovere di voto) che al deputato
si imputano. Imponendo una tale scelta al deputato, la partecipazione
alle  votazioni  in  Assemblea  e' condizionata dal rischio personale
dell'imputato  di  danneggiare la propria posizione processuale; cio'
determina  la potenziale compressione delle prerogative della Camera.
Ma  a  tutto  cio' si deve aggiungere, a questo punto, che proprio il
carattere  che finisce inevitabilmente per assumere la scelta rimessa
al  deputato  e'  altresi'  l'indice  evidente  di  come la soluzione
propugnata  dai giudici non sia affatto idonea a bilanciare realmente
le   esigenze   della   giurisdizione   con   quelle  della  funzione
legislativa.
    E' infatti evidente come, proprio a causa del diniego dei giudici
di   riconoscere   come  impedimento  assoluto  la  partecipazione  a
votazioni  in  Assemblea,  la  scelta  alternativa che di conseguenza
viene,  per  cosi'  dire,  "scaricata"  sul singolo deputato, sia del
tutto  impari,  asimmetrica  e squilibrata. Cio' a causa della natura
dei  valori  in  gioco, e delle differenze che intercorrono tra essi,
l'equilibrio  tra i quali assai impropriamente puo' essere relegato a
livello  di  una  scelta  dell'imputato  in  tutto  eguale  ad altre,
eminentemente  personale,  libera anche nel senso di essere del tutto
"privata".  I due valori che sono rilasciati alla scelta del deputato
non  sono  affatto  fungibili:  l'uno  e'  un  diritto soggettivo, il
diritto alla difesa; l'altro un diritto-dovere, collegato, come si e'
visto, nel modo piu' diretto e condizionante alla funzionalita' della
Camera.  La  scelta  del  singolo  deputato non puo' che tradursi nel
sacrificio dell'uno o dell'altro: una "porta stretta" che, per quanto
attiene  alla  sfera  del  deputato,  condanna  alla stessa sorte due
situazioni  -  un diritto e un dovere - l'una totalmente individuale,
l'altra pertinente alle attribuzioni della istituzione sovrana, e che
per  questo  motivo  (lo dimostrano il carattere personalissimo e non
delegabile del voto, nonche' l'impossibilita' che le sedute destinate
a  votazioni  vengano  spostate a richiesta di un singolo) esorbita e
non   puo'   non   esorbitare  dalla  dimensione  e  dalla  sfera  di
disposizione del singolo.
    L'inopportunita'  di  costringere  il  deputato  -  e,  con  lui,
l'equilibrio  tra  esigenze  della  giurisdizione  ed  esigenze della
funzione  parlamentare  -  a  passare  attraverso  quella porta cosi'
stretta,  appare  tanto  piu'  evidente  se  si  pensa  che mentre lo
svolgimento  dell'attivita'  processuale non e' e non potrebbe neppur
potenzialmente   essere   compromesso   dal   rinvio   derivante  dal
riconoscimento dell'impedimento assoluto, la validita' della seduta e
della  deliberazione  delle  Camere  cui  il deputato e' convocato e'
messa  a rischio (potenzialmente, in ogni caso; ma anche in concreto,
in  talune  circostanze  che  non  si  possono escludere) dal diniego
dell'impedimento.
    Nessun  principio  costituzionale,  come  si  diceva, puo' essere
chiamato   a   sostegno  di  una  cosi'  squilibrata  soluzione.  Non
certamente l'esigenza della celerita' del processo, cui, in modo piu'
o meno esplicito, le decisioni impugnate si richiamano per fondare la
soluzione che esse propugnano.
    Certamente  quella  esigenza  - o, piu' in generale, il principio
della  efficienza e della snellezza del processo - e' stata ritenuta,
dalla  giurisprudenza  di  codesto  ecc.mo  collegio,  implicitamente
riconosciuta  dalla  Costituzione (cfr. ad es. sent. n. 460/1995). Ma
cio'  non  significa  che essa sia tale da giustificare il sacrificio
dell'autonomia e dell'indipendenza della Camera dei deputati, o della
stessa  funzionalita'  di  quella  Assemblea.  Nei  casi  in  cui  la
giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha fatto valere quel principio
(cfr.  sent. n. 10/1997; 353/1996) essa lo ha utilizzato per impedire
pratiche  dilatorie  pretestuosamente  preordinate a compromettere la
funzionalita'  del  processo. Il principio di snellezza ed efficienza
del  processo  vale dunque a rendere ingiustificati atti di esercizio
del  diritto  di difesa che siano in sostanza abusivi perche' rivolti
al  solo  scopo  di  rinviare  nel  tempo  il completamento dell'iter
processuale.  Questo schema di ragionamento non puo' essere applicato
a  casi  come quello in esame, dal momento che il parlamentare non e'
certo   dominus  delle  cause  di  impedimento,  che  derivano  dalla
esistenza di un calendario dei lavori parlamentari che egli e' tenuto
a  rispettare e che non ha certamente deciso da solo: l'ostacolo allo
svolgimento del processo ha una oggettivita' che lo pone del tutto al
di  fuori  della  disponibilita' del deputato. Non si puo' mancare di
dare  il giusto peso alla circostanza che l'ordine del giorno, che fa
parte integrante della convocazione delle Camere, cui e' incorporato,
e'    primaria,    indefettibile   manifestazione   della   autonomia
procedimentale  della  Camera, proprio perche' esso, individuando gli
argomenti da trattare, rappresenta "il contemperamento delle esigenze
di  cui  sono  portatori  i  soggetti costituzionali interessati alla
organizzazione  dei  lavori  delle  Camere"  (D.  Marra,  Art. 62, in
Commentario  cit.,  267),  cio' che gli merita la definizione di atto
"garantista"  per  eccellenza,  perche'  posto a garanzia dei diversi
soggetti  dell'ordinamento  governo,  maggioranza, opposizione, oltre
che  della  oggettiva  ottemperanza ai risultati della organizzazione
dei lavori (A. Manzella op. cit., 119-120).
    E'  dunque  da  considerarsi del tutto impropria l'equiparazione,
che  l'autorita'  giudiziaria  pretende  di operare, tra un qualunque
istituto  processuale  di  difesa  utilizzato  o  utilizzabile a fini
dilatori, e l'appello del parlamentare ai doveri che scaturiscono per
lui  dalla  programmazione  dei  lavori delle Camere, che di volta in
volta  si  obiettiva  e  si  manifesta  nella  convocazione  e  nella
diramazione dell'ordine del giorno.
    Del   resto,   a  ribadire  il  carattere  del  tutto  arbitrario
dell'assunto,   fatto   proprio   dall'autorita'   giudiziaria  nelle
decisioni    impugnate,    della   subordinazione   della   attivita'
parlamentare  a  quella  giurisdizionale  -  vale a dire l'assenza di
principi  costituzionali  su  cui  fondarlo  -  valga  ricordare che,
proprio dalla giurispudenza di codesto ecc.mo collegio, emerge semmai
un  rapporto,  fra  le  due  funzioni, esattamente rovesciato. Cosi',
nella  sent.  n. 129 del 1996 e' statuito che "a tutela del principio
(corrispondente  a un interesse generale della comunita' politica) di
indipendenza  e  autonomia  del  potere  legislativo nei confronti di
altri  organi  e  poteri  dello Stato, l'art. 68 sacrifica il diritto
alla  tutela  giurisdizionale  del  cittadino  che  si  ritenga  leso
nell'onore  o  in  altri  beni  della vita da opinioni espresse da un
senatore o deputato nell'esercizio delle sue funzioni".
    Se, dunque sono ammesse "deroghe alla giurisdizione" quando e' in
gioco  l'autonomia delle istituzioni rappresentative che si collocano
"a  livello di sovranita'" (quali senza dubbio le Camere, mentre non,
certamente   e   ad   esempio,  i  consigli  regionali;  cfr.  sentt.
nn. 129/1981;  110/1970),  non  si  rinviene  nell'ordinamento  alcun
principio  che fondi la premessa espressa nelle pronuncie dei giudici
che  hanno  originato  il  presente  conflitto,  della subordinazione
dell'attivita'   parlamentare   a   quella   giurisdizionale,   della
subordinazione  dell'autonomia,  indipendenza  e  funzionalita' delle
Camere alle esigenze della efficienza e snellezza del processo.
    Ne'  argomenti  in  tal  senso  potrebbero  essere  tratti  dalla
modifica  dell'art. 68  Cost.,  che  ha  eliminato l'autorizzazione a
procedere nei confronti dei membri del Parlamento.
    Questo  provvedimento,  lungi,  a  sua volta, dal significare una
subordinazione della attivita' parlamentare a quella giurisdizionale,
ha  semplicemente eliminato una eccezionale guarentigia che poneva al
riparo   di   un   regime  speciale,  nei  confronti  della  funzione
giurisdizionale,  i  membri  del  Parlamento.  L'abolizione di questo
regime speciale ha inaugurato, nei rapporti tra autorita' giudiziaria
e  Camere,  una stagione forse nuova per essi, ma gia' del tutto nota
nella  sfera  dei  rapporti  tra  poteri costituzionali: quella della
convivenza  tra  valori  diversi,  confliggenti, talvolta opposti, ed
equiordinati   tra   loro:   una  tensione  problematica,  della  cui
latitudine  e  della  cui  complessita' codesto ecc.mo collegio si e'
fatto    compiutamente    carico   (sent.   n. 379/1996).   Come   la
giurisprudenza  di  codesta ecc.ma Corte ha piu' volte insegnato (sul
punto,  in  dottrina,  da  ultimo,  G. Scaccia, Gli "strumenti" della
ragionevolezza   nel   giudizio  costituzionale,  Milano,  2000),  il
contrasto  tra valori costituzionali deve essere composto mediante un
prudente  bilanciamento  che  deve  tendere il piu' possibile al loro
ragionevole  contemperamento.  Ed  e'  proprio  ragionando  nel  modo
opposto  a  quello  seguito dai giudici le cui decisioni sono oggetto
del  presente  conflitto,  che  si schiude la possibilita' di un equo
contemperamento,   perche'   il   riconoscimento   della   natura  di
impedimento  assoluto alla partecipazione del deputato a votazioni in
Assemblea   permette   alle   due   funzioni  di  convivere  in  modo
satisfattivo e di ovviare al problema delle pratiche dilatorie.
    Infatti,  rovesciando  la  soluzione  sostenuta  dai  giudici, ed
ipotizzando  che,  come  qui  si  chiede,  la (sola) partecipazione a
votazioni  in Assemblea sia considerata (sempre) impedimento assoluto
a  comparire  in  udienza,  si  ottiene  un  bilanciamento tra le due
funzioni che non importa il sacrificio integrale di una delle due.
    In  primo  luogo, la presenza dell'impedimento comporta il rinvio
dell'udienza:   ma  l'udienza  di  rinvio  ricostruira'  la  medesima
situazione    processuale    di    quella   rinviata:   la   funzione
giurisdizionale non e' menomata.
    Invece  nell'altro  caso  -  a  parte  il  danno  all'equilibrato
svolgimento  della  vita  istituzionale  (e che deriva, come detto in
precedenza,  dall'interferenza di un potere esterno alla Camera) - la
seduta  parlamentare che non possa svolgersi a causa dell'assenza del
deputato  il  quale,  non  godendo  dell'impedimento  assoluto, si e'
dovuto    presentare    all'udienza    penale,    e'   di   per   se'
"irriproducibile":   infatti,   data   la   sua   natura   di  evento
squisitamente  politico,  rilevano  a  definirla  il concreto momento
storico  e  lo  specifico  contesto  in  cui  essa  si  svolge, e gli
equilibri ed i rapporti che in quel momento si danno.
    Ne' il riconoscere l'impedimento assoluto alla partecipazione del
deputato  all'udienza  espone  a  rischio  la  celere conclusione del
processo,   dal  momento  che  a  parte  i  periodi  di  sospensione,
l'Assemblea non si riunisce tutti i giorni della settimana, ne' tutte
le  sedute  d'Assemblea sono dedicate a votazioni, perche' molte sono
destinate  ad  altre  attivita'  (come  dibattiti di vario contenuto,
svolgimento di interrogazioni e interpellanze, ecc.). Nell'arco di un
anno  assai  meno di un giorno su tre e' dedicato a votazioni e cio',
invero,  consente  di  soddisfare pienamente le esigenze di celerita'
del   processo.   Pertanto,  la  previsione  del  carattere  assoluto
dell'impedimento  parlamentare in riferimento a sedute dell'Assemblea
destinate  a  votazioni  non compromette affatto la funzionalita' del
processo e non lede le prerogative dell'autorita' giudiziaria.
    Per   contro,   la  strategia  di  bilanciamento  proposta  dalla
Cassazione,  e  contro  cui  si  rivolge  questo  ricorso, non appare
satisfattiva  neppure  alla luce di un ulteriore principio, quello, a
sua   volta   di   primaria  importanza  costituzionale  (cfr.  sent.
n. 416/1999),  della  certezza del diritto: l'attribuzione al giudice
del  potere  di  valutare di volta in volta, a seconda delle concrete
risultanze  processuali,  l'assolutezza  dell'impedimento, offre, con
evidenza,  minori  garanzie per la certezza non solo della situazione
soggettiva  del  singolo deputato, ma della funzionalita' e autonomia
della  Camera.  Per  quanto, infatti, la discrezionalita' del giudice
sia  in  questi casi delimitata dalla ragionevolezza, e - nel tempo -
dal   consolidarsi  degli  indirizzi  giurisprudenziali  (cfr.  sent.
n. 178/1991),  nondimeno  un  criterio  automatico  e oggettivo, come
quello   che   conseguirebbe  dall'accoglimento  di  questo  ricorso,
offrirebbe garanzia di certezza largamente superiori.
    6. - Violazione  del  principio  di  leale  collaborazione  e del
dovere di lealta' e correttezza.
    Con  riguardo  al  potere  giudiziario,  il principio generale di
leale collaborazione, e' stato talvolta specificato da codesta ecc.ma
Corte   (in   occasioni  che  vedevano  opposta  la  magistratura  al
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri in riferimento al potere di
segretazione:  cfr.  le  sentt.  nn. 410/1998;110/1998), in dovere di
lealta' e correttezza, che obbliga il potere giudiziario al "rispetto
effettivo" delle prerogative degli altri organi costituzionali.
    A tale dovere sono venute meno le decisioni impugnate.
    Come  si  e'  fatto  notare esponendo il fatto, i giudici - nelle
pronunce  indicate  in  epigrafe  - invocano piu' volte la tardivita'
della  eccezione  della  difesa. Ma quella tardivita' e' riferita ora
(nella  ordinanza del Tribunale di Taranto) ad una istanza presentata
dal  difensore  dell'imputato  il  17  febbraio 1998, cioe' il giorno
prima  dell'udienza, e dunque non tardiva; ora invece (nella sentenza
della  Corte  d'appello,  e  per  confermare  sul punto la precedente
decisione)  al  fax  dell'imputato,  che  e' invece del successivo 18
febbraio,  ed  ignorando  completamente  l'istanza  del difensore del
giorno prima.
    Ancora.  I  giudici  leggono  sia  il  calendario settimanale dei
lavori  (dal  17  al 20 febbraio 1998), sia l'ordine del giorno della
seduta  della  Camera  (del  18  febbraio  1998):  ma il Tribunale di
Taranto  non  ne  deduce che l'imputato fosse chiamato a votare anche
nel  giorno  precedente  all'udienza,  e  fino  alle ore 23 (cosa che
invece  risultava  dai  documenti trasmessi). Un fattore, questo, che
aveva  invece  un  peso  rilevante,  rendendo  esso  praticamente non
praticabile,  se  non  altro  data la distanza tra Roma e Taranto, la
soluzione  prospettata  dall'ordinanza  del  tribunale,  secondo cui,
poiche'  nella  seduta pomeridiana dell'Assemblea della Camera del 18
febbraio  le  votazioni  erano  previste solo a partire dalle ore 16,
l'onorevole  Cito  avrebbe  potuto  presentarsi  nella  mattinata del
giorno  dell'udienza (lo stesso 18) e chiedere "eventualmente" (sic!)
che  la  sua  causa  fosse  trattata con precedenza. Proprio per fare
rilevare che il suo impegno a partecipare alle votazioni in Assemblea
copriva  sia  la  serata  del  17  che  il  primo  pomeriggio del 18,
l'imputato  aveva  spedito (dalla Camera) un fax: ma il tribunale non
ha ritenuto che "il contenuto del fax possa rimettere in discussione"
l'ordinanza  (cui  era stata dedicata una camera di consiglio di soli
quindici  minuti).  Invece  la  Corte  di appello di Lecce-sezione di
Taranto  mostra  nella  sentenza  di  essersi accorta che il deputato
doveva  votare  anche  la  sera  del giorno 17, ma, nonostante che il
calendario settimanale dei lavori dei giorni 17-20 febbraio avesse un
contenuto  comune, e soprattutto malgrado che l'ordine del giorno del
18  febbraio  prevedesse  espressamente  votazioni in Assemblea, essa
incomprensibilmente  sembra ritenere che le votazioni fossero solo il
giorno  20  e non anche il 18. Infine, i rischi di pratiche dilatorie
sono   evocati   dalla  Corte  di  Cassazione  in  relazione  ad  una
complessiva vicenda processuale in cui l'impedimento - come risultava
e  risulta  dagli  atti  di causa - venne fatto valere dall'onorevole
Cito  soltanto in un'unica occasione: cioe' solo per l'udienza del 18
febbraio 1998!
    Le  motivazioni ed argomentazioni di entrambi i giudici di merito
sono  sintomatiche  di  un  approccio  non corretto e non ispirato al
principio di leale collaborazione, perche' non orientato dall'impegno
e   dallo   sforzo  di  riconoscere  effettivamente  le  attribuzioni
dell'altro  potere,  bensi'  di aggirarle. Ma un analogo approccio e'
presente  anche  nella motivazione della sentenza della Suprema Corte
di    Cassazione,    in    particolare   allorche'   essa   definisce
"giuridicamente  ineccepibili" le argomentazioni della sentenza della
Corte  d'appello  sulla  tardivita'  dell'istanza  con  cui era stato
dedotto  l'impedimento; o parla di una "indiscriminata valenza" di un
impedimento  che  viceversa  era  stato fatto valere dall'imputato in
modo  estremamente  circostanziato: cioe' con specifico riguardo alla
partecipazione  a  votazioni  in  Assemblea, e per una sola volta nel
corso dell'intero processo.
    Il mancato rispetto del principio di leale collaborazione risulta
particolarmente  vistoso  nelle  decisioni  dei  giudici  di  merito,
proprio  perche'  essi paiono asserire in astratto di potere e dovere
riconoscere   l'impedimento  nascente  dal  dovere  del  deputato  di
partecipare alla votazione, ma in concreto negano che per l'onorevole
Cito  vi  fosse  un  siffatto  impedimento,  perche' non hanno voluto
scorgere,  nonostante  le  risultanze  del  calendario  settimanale e
dell'ordine  del  giorno  della  seduta  della  Camera,  che egli era
impegnato   in   votazioni   in  Assemblea  anche  lo  stesso  giorno
dell'udienza e percio' impossibilitato a parteciparvi, cosi' violando
le attribuzioni costituzionali della Camera.
    Il   dovere  di  lealta'  e  correttezza  e'  specificazione  del
principio  di  leale collaborazione, che si impone pur esso al potere
giudiziario:   (cfr.   la   sent.   n. 403/1994,   che  ha  stabilito
espressamente  che  anche  l'autorita'  giudiziaria - nella specie si
trattava  del  collegio  inquirente  per i reati ministeriali, che e'
titolare  del  potere  di  svolgere  le  indagini  preliminari  -  e'
assoggettata  al principio della leale collaborazione, in particolare
per  quanto  riguarda  la determinazione dei tempi di esercizio delle
attivita' processuali; ma v. anche la sent. n. 420/1995).
    La  violazione  del  dovere  di lealta' e correttezza comporta la
lesione  di  questo  secondo e piu' ampio principio; lesione che, del
resto,  e'  gia'  resa evidente dal piu' volte sottolineato carattere
arbitrario  -  alla luce dei principi costituzionali - del sacrificio
che si pretende di imporre alle esigenze della funzione parlamentare,
senza   alcuna   ragionevole   necessita',   ne'   reale   fondamento
costituzionale,   con  la  pretesa  del  potere  giudiziario  di  non
riconoscere  carattere  di impedimento assoluto al diritto-dovere del
parlamentare di partecipare alle votazioni in Assemblea.
                              P. Q. M.
    Voglia l'ecc.ma Corte costituzionale statuire:
        che  non spetta al Tribunale di Taranto-sezione I penale, ne'
alla  Corte  d'appello di Lecce-sezione distaccata penale di Taranto,
ne'  alla  Suprema Corte di Cassazione - V sezione penale, negare che
costituisca  impedimento  assoluto  alla  partecipazione del deputato
on. Giancarlo Cito alla udienza dibattimentale presso il Tribunale di
Taranto  il  diritto-dovere  del  medesimo  di  assolvere  il mandato
parlamentare  partecipando alle votazioni dell'Assemblea della Camera
indette nello stesso giorno;
        in  particolare  che  non spetta alla Corte di cassazione - V
sezione  penale  il dichiarare riservato al bilanciamento del giudice
penale,  alla stregua delle risultanze processuali, il giudizio sulla
spettanza   del  carattere  di  impedimento  assoluto  a  partecipare
all'udienza   alla  situazione  dell'imputato  parlamentare  che  sia
impegnato  in  votazioni  in  Assemblea  concomitanti  con  l'udienza
penale;
        e  per  l'effetto  annullare l'ordinanza 18 febbraio 1998 del
Tribunale di Taranto-sezione prima penale; la sentenza 18 febbraio/13
marzo  1998,  n. 202,  del medesimo tribunale; la sentenza 21 ottobre
1999/10  marzo  2000,  n. 85,  della Corte d'appello di Lecce-sezione
distaccata  penale  di  Taranto;  e  la sentenza 15 febbraio/19 marzo
2001, n. 390, della Corte Suprema di Cassazione - sezione V penale.
          Roma, addi' 24 maggio 2001
       On. prof. Luciano Violante - Avv. prof. Sergio Panunzio
02C0369