N. 18 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 2 maggio 2002
Ricorso per conflitto di attribuzione depositato in cancelleria il 2 maggio 2002 (della Camera dei deputati) Parlamento - Mandato parlamentare - Adempimento da parte di deputato sottoposto a procedimento penale - Diritto-dovere di partecipare alle votazioni in Assemblea - Valore di impedimento assoluto a comparire nella udienza penale fissata in concomitanza con esse - Diniego da parte del Tribunale di Taranto, sez. I penale, della Corte d'Appello di Lecce, sez. distaccata penale di Taranto e della Corte suprema di Cassazione, sez. V penale - Conseguente rigetto della richiesta, presentata dalla difesa dell'on. Giancarlo Cito, di considerare giustificata l'assenza dello stesso deputato all'udienza in ragione dell'impedimento parlamentare - Conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dalla Camera dei deputati - Denunciata lesione dell'autonomia, indipendenza e funzionalita' delle Camere - Incidenza sulle attribuzioni del potere legislativo e sull'esercizio del mandato parlamentare - Mancato bilanciamento tra i valori costituzionali dell'efficienza processuale e dell'autonomia ed indipendenza del Parlamento - Violazione del principio di leale collaborazione tra poteri dello Stato Richiesta alla Corte di dichiarare la non spettanza del potere esercitato dall'autorita' giudiziaria e di annullare conseguentemente gli atti della sopra menzionata autorita' giudiziaria ritenuti invasivi. - Ordinanza del Tribunale di Taranto, sez. I penale, del 18 febbraio 1998; sentenza del Tribunale di Taranto, sez. I penale, del 18 febbraio-13 marzo 1998, n. 202; sentenza della Corte d'Appello di Lecce - sez. distaccata penale di Taranto del 21 ottobre 1999-10 marzo 2000, n. 85; sentenza della Corte suprema di Cassazione, sezione V penale, del 15 febbraio-19 marzo 2001, n. 390. - Costituzione, artt. 64, 67, 68, 72, 73, comma secondo, 79, primo comma, 83, comma terzo, 90, comma secondo, 138, primo e terzo comma; l. cost. 11 marzo 1953, n. 1, art. 12; l. cost. 22 novembre 1967, n. 2, art. 3; l. cost. 16 gennaio 1989, n. 1, artt. 9, comma 3, e 10, comma 3.(GU n.25 del 26-6-2002 )
Ricorso della Camera dei deputati, in persona del suo Presidente on. prof. Luciano Violante, giusta deliberazione dell'Ufficio di Presidenza n. 293 del 5 aprile 2001 e deliberazione dell'Assemblea della Camera del 18 aprile 2001, rappresentato e difeso - in virtu' di atto notar Paolo Silvestro, in Roma, del 20 aprile 2001 (rep. n. 65603) - dall'avv. prof. Sergio Panunzio e presso il suo studio elettivamente domiciliato in Roma, Corso Vittorio Emanuele II, n. 284, Contro: il Tribunale di Taranto - sezione I penale; la Corte di appello di Lecce - sezione distaccata penale di Taranto; e la Corte Suprema di Cassazione - quinta sezione penale; In relazione: all'ordinanza emessa in data 18 febbraio 1998 dal Tribunale di Taranto - sezione I penale, nell'ambito del procedimento penale n. 947/1995 Reg. Gen., pendente nei confronti del deputato Giancarlo Cito, con la quale e' stata rigettata l'istanza di rinvio dell'udienza dibattimentale fissata per lo stesso giorno, gia' precedentemente proposta dal difensore dell'imputato medesimo e nonostante questi avesse addotto, come causa di legittimo impedimento, la necessita' di partecipare ai lavori con votazione dell'Assemblea della Camera, concomitanti con l'udienza; alla sentenza del medesimo Tribunale di Taranto - sezione I, emessa nel medesimo procedimento penale, n. 202/1998, del 18 febbraio/13 marzo 1998; alla sentenza della Corte di appello di Lecce - sezione penale distaccata di Taranto, n. 85/00, del 21 ottobre 1999/10 marzo 2000, che ha confermato, sul punto, la succitata sentenza del Tribunale di Taranto; ed alla sentenza della Corte Suprema di Cassazione - V sezione penale, n. 390/2001 del 15 febbraio/ 19 marzo 2001, che sul punto ha parimenti rigettato il ricorso proposto dall'onorevole Giancarlo Cito. F a t t o All'udienza del 18 febbraio 1998 il Tribunale di Taranto-sezione I, nell'ambito del procedimento penale n. 947/1995 Reg. Gen., pendente nei confronti del deputato on. Giancarlo Cito, respingeva, con ordinanza, l'istanza presentata dal difensore del parlamentare il giorno precedente l'udienza dibattimentale, con la quale si chiedeva di considerare l'assenza dall'imputato giustificata perche' dovuta a impedimento assoluto a comparire derivante dal suo diritto-dovere di partecipare ad attivita' parlamentari, comprendenti votazioni in Assemblea, e svolgentisi nei giorni 17, 18, 19 e 20 febbraio, come comprovato dal calendario dei lavori della Camera dei deputati presentato al tribunale. Secondo il tribunale, l'istanza era tardiva e, d'altronde, essendo la seduta del giorno 18 fissata a partire dalle ore 16, l'imputato (sempre secondo il tribunale) avrebbe potuto ugualmente comparire nella mattinata chiedendo che il suo processo fosse trattato con precedenza. L'ordinanza in questione - alla cui stesura venne dedicata una camera di consiglio della durata di quindici minuti, dalle ore 13.35 alle ore 13.50 - non prendeva in alcuna considerazione la circostanza, risultante dal calendario dei lavori della Camera, che il deputato si trovasse impegnato in votazioni sin dalla giornata precedente l'udienza (cioe' il 17 febbraio), giornata in cui le votazioni si erano prolungate sino alle ore 23. Come pure risulta dal verbale dell'udienza del 18 febbraio, alla ripresa dell'udienza (successivamente alla lettura della suddetta ordinanza) il collegio prese cognizione anche di un fax inviato quello stesso giorno dall'imputato onorevole Cito, il quale - oltre a trasmettere l'ordine del giorno della seduta (con votazioni) dell'Assemblea del 18 febbraio - faceva anche presente al tribunale come egli si trovasse impegnato in votazioni sin dalla sera del precedente giorno 17; ma il tribunale non ritenne di dover ritornare sulla propria decisione. Infatti, con sentenza del medesimo 18 febbraio 1998 (pubblicata il successivo 13 marzo 1998), il Tribunale di Taranto ha condannato l'imputato on. Cito per il reato ascrittogli, espressamente rinviando nella motivazione alla suddetta ordinanza del 18 febbraio con la quale era stata respinta l'istanza di rinvio dell'udienza. Nel successivo grado del giudizio la Corte di appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto, respinse, con sentenza 21 ottobre 1999, la eccezione di nullita' della ordinanza del 18 febbraio 1998 del Tribunale di Taranto, presentata dalla difesa dell'appellante on. Cito, ritenendo da un lato, a propria volta, l'eccezione tardiva - ma riferendosi, testualmente, anziche' all'istanza presentata dalla difesa dell'imputato il 17 febbraio, che formava oggetto dell'ordinanza del tribunale, al fax dell'onorevole Cito del successivo 18 febbraio - e, dall'altro, escludendo il ricorrere dell'impedimento assoluto perche' l'imputato sarebbe stato chiamato a votare in giorni diversi da quello in cui era fissata l'udienza davanti al tribunale, e cioe' (secondo la corte) nei giorni 17 e 20 febbraio. La Corte d'appello, peraltro, non dava conto nella sua sentenza di quali fossero gli elementi che la portavano a tale conclusione. Una conclusione invero difficilmente comprensibile, ove si consideri che non solo il calendario settimanale delle sedute dei giorni dal 17 al 20 febbraio - ivi compreso il giorno 18 - era, tranne che per l'orario, identico nei contenuti, eccezion fatta per la precisazione, riferita al solo giorno 20, che quel giorno le votazioni si sarebbero concluse alle ore 14; ma, soprattutto, che era in atti l'ordine del giorno della seduta del 18 febbraio con l'indicazione che le votazioni avrebbero avuto inizio quel giorno alle ore 16 e 20 minuti. Con sentenza 15 febbraio 2001 la Corte Suprema di Cassazione confermava il giudizio emesso dalla impugnata sentenza della Corte d'appello di Taranto, compreso il rilievo concernente la tardivita' dell'impedimento dedotto, ed affermando, con riguardo all'opponibilita' dell'impedimento parlamentare, non solo che la pronuncia della Corte d'appello si sottraeva al suo sindacato "... argomentando circa la tardivita' dell'impedimento dedotto con proposizioni logicamente e giuridicamente ineccepibili ...", ma aggiungendo anche che "l'indiscriminata valenza dell'impedimento di natura parlamentare paralizzerebbe la definizione del procedimento" e che "il delicato equilibrio tra la funzione giurisdizionale e quella parlamentare trova contemperamento nel bilanciamento degli interessi confliggenti, operato di volta in volta dal giudice, sulla scorta della concreta situazione processuale", e precisando infine che "la definizione del procedimento in tempi ragionevoli non soddisfa solo l'interesse (punitivo, ma non solo) dello Stato e le legittime aspettative della persona offesa, ma anche l'interesse dello stesso imputato, ove questo non si proponga fini dilatori". Preso atto di quanto sopra esposto, con deliberazione n. 293/2001 del 5 aprile 2001 l'Ufficio di Presidenza della Camera dei deputati, in considerazione della natura lesiva delle attribuzioni parlamentari che e' propria dell'ordinanza e delle sentenze citate, ha deliberato di proporre alla Camera dei deputati di sollevare, in riferimento alle stesse, conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato. Con deliberazione in data 18 aprile 2001 la Camera di deputati ha approvato la proposta dell'Ufficio di Presidenza, e ha deliberato in conformita'. Invero, l'ordinanza e le sentenze indicate in epigrafe risultano lesive delle attribuzioni della ricorrente Camera dei deputati per i seguenti motivi di D i r i t t o 1. - Preliminarmente, quanto all'ammissibilita' del ricorso. 1.1. - In punto di ammissibilita' del presente conflitto occorre intanto rilevare che la legittimazione processuale passiva del Tribunale di Taranto-sezione I, della Corte di appello di Lecce-sezione distaccata di Taranto, e della Corte Suprema di Cassazione-quinta sezione penale discende pacificamente dal principio, riconosciuto sin dalle ord. n. 228 e 229/1975 secondo cui "i singoli organi giurisdizionali, nell'esercizio delle funzioni giurisdizionali, possono in genere essere parte di conflitti di attribuzione", dato il carattere "diffuso" del potere giudiziario. La legittimazione attiva della ricorrente Camera dei deputati risale anch'essa a un orientamento consolidato nella giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte (sentt. nn. 265/1997; 379/1996; 1150/1988; 129/1981; ord. n. 150/1980), orientamento che e' stato recentemente ribadito, in fattispecie analoga alla presente, dall'ordinanza n. 102 del 14 aprile 2000, secondo cui "la Camera dei deputati e' legittimata a sollevare conflitti di attribuzione tra i poteri dello Stato, quale organo competente a dichiarare definitivamente la volonta' del potere cui appartiene". 1.2. - Quanto alla sussistenza dei requisiti oggettivi del conflitto, e' noto che questi ultimi, ai sensi degli artt. 134 Cost. e 37, legge 11 marzo 1953, n. 87, consistono nella determinazione della sfera delle attribuzioni costituzionali di due poteri dello Stato. Ed e' appunto della delimitazione di una tale sfera che si controverte nel presente conflitto, alla cui scaturigine e' la pretesa dell'autorita' giudiziaria di non considerare impedimento assoluto a presentarsi all'udienza il dovere del deputato di partecipare alle votazioni della Camera di appartenenza. Il conflitto e' pertanto originato dal problema della retta delimitazione delle attribuzioni costituzionali del potere giudiziario (di svolgere e decidere i processi penali pendenti davanti ad esso) a cospetto delle esigenze di funzionalita', e delle prerogative di autonomia e indipendenza, della Camera dei deputati, incise dalla pretesa del potere giurisdizionale di non riconoscere al deputato l'impedimento a partecipare a una udienza in ragione della necessita' di adempiere alle sue funzioni di parlamentare. 1.3. - Sussiste altresi l'interesse a ricorrere. Quest'ultimo, nel conflitto di attribuzione, si preordina essenzialmente, e in primo luogo, all'ottenimento di una pronuncia che dichiari la spettanza delle attribuzioni in contestazione, e si identifica, secondo la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte, con l'interesse "a ristabilire gli equilibri costituzionali messi in gioco, al di la' del singolo caso, dal conflitto" (sent. n. 126/1996). Il necessario "equilibrio costituzionale" tra lo svolgimento della funzione giurisdizionale e quello della funzione parlamentare e' rotto allorche', come avviene (secondo quanto sara' dettagliatamente dimostrato piu' avanti) nell'ordinanza e nelle sentenze che sono all'origine del presente conflitto, il giudice non riconosca come impedimento assoluto alla comparizione dell'imputato all'udienza il dovere di partecipare ad attivita' parlamentari comprendenti votazioni dell'Assemblea. In tal modo, infatti, viene completamente squilibrato tatto a favore della attivita' giurisdizionale un rapporto che invece, data la dignita' costituzionale perlomeno pari delle due funzioni, deve avere un punto di equilibrio che, come tale, non puo' significare il sacrificio intero dell'una nei confronti dell'altra. Punto di equilibrio il quale, in questa come in numerose altre occasioni, e' posto "sotto la tutela" di codesto ecc.mo collegio, che ha individuato esplicitamente in se' stesso il custode del confine tra i due distinti valori della autonomia delle Camere e della legalita' della giurisdizione, nella consapevolezza che "le aspettative virtualmente antagoniste" alimentate da un disegno costituzionale che li accoglie entrambi, siano armonizzabili mediante l'interpretazione dei principi costituzionali che ne definiscono la posizione reciproca (cfr. sent. n. 379/1996). 1.4. - Codesta ecc.ma Corte ritiene che la sussistenza dell'interesse a ricorrere sia "necessaria e sufficiente a conferire al conflitto i necessari caratteri della concretezza e della attualita'" (sent. n. 420/1995), sicche' nemmeno l'esaurimento degli effetti dell'atto impugnato, o la stessa ritenuta inattitudine della decisione della Corte, emessa a seguito del conflitto, a segnare effetti giuridici nel rapporto ad esso soggiacente, fa venir meno quei caratteri. Pertanto, una volta dimostrata, come nel punto precedente, la sussistenza dell'interesse a ricorrere, non varrebbe, a negare l'assenza dell'attualita' e della concretezza del conflitto, l'osservazione che il mancato riconoscimento del carattere di impedimento assoluto al dovere del deputato di partecipare alle votazioni in Assemblea non ha, nel caso di specie, impedito lo svolgimento di quelle attivita', avendovi il deputato preso parte. Analogamente a quanto osservato dalla ricorrente nel conflitto recentemente ammesso dalla ord. n. 102/2000, anche in questo caso la concreta vicenda delle scelte del singolo parlamentare e' "estrinseca" rispetto agli atti impugnati e al loro contenuto, dai quali si origina la lesione delle attribuzioni della Camera. Cio' appare tanto piu' vero se si tiene presente la recente modulazione che i principi appena sopra ricordati in tema di interesse a ricorrere, attualita' e concretezza del conflitto, hanno ricevuto allorche' codesto ecc.mo collegio ha affermato che "le usurpazioni e le menomazioni di una attribuzione spettante ad altro potere dello Stato non dipendono solo dalle conseguenze concretamente prodotte dagli atti o dai comportamenti contestati, ma si misurano alla luce della "intrinseca entita' delle pretese che abbiano determinato la situazione di conflitto" (sent. n. 121/1999, che si richiama alla sent. n. 150/1981). Ebbene, "l'intrinseca entita' delle pretese" e', in questo caso, l'oggetto del conflitto e la misura dell'interesse a ricorrere e della sua attualita', trattandosi di stabilire la portata reciproca delle esigenze connesse allo svolgimento della giurisdizione e della funzione parlamentare, portata che gli organi giudiziari contro cui si ricorre hanno preteso di determinare nel senso della preminenza della funzione giurisdizionale. 1.5. - La "divergenza di vedute" necessaria a far emergere il contrasto tra la Camera e l'Autorita' giudiziaria (ord. n. 446/1999; 131/1999) risulta, da un lato, dalla convocazione e diramazione dell'ordine del giorno delle sedute dei giorni 17, 18, 19 e 20 febbraio 1998 (da cui e' insorto il dovere del deputato di partecipare alle votazioni in Assemblea), e, dall' altro, dalle decisioni indicate in epigrafe, tutte, sia pure con toni e percorsi argomentativi non identici, convergenti nel negare la qualita' di impedimento assoluto al dovere del deputato di partecipare a votazioni in Assemblea. 1.6. - Deve altresi' escludersi che ricorra nella specie una ulteriore, ipotetica ragione di inammissibilita': quella, che puo' specificamente presentarsi nei conflitti aventi ad oggetto decisioni giudiziarie, derivante dalla impossibilita' di contestare, in questa sede, errores in judicando, e cosi' di trasformare il giudizio costituzionale per conflitto di attribuzione tra poteri in un improprio ulteriore grado di giurisdizione (cfr. di recente la sent. n. 359/1999). La ricorrente Camera dei deputati non era ne' poteva essere parte del giudizio che ha originato il presente conflitto, sicche' non ha, cosi' come non aveva (al contrario di quanto accade per il singolo deputato, cfr. ord. n. 101/2000) strumenti processuali "ordinari" per tutelare le proprie attribuzioni (analogamente, N. Zanon, Il "Caso Previti", conflitto tra poteri dello Stato o questione "privata"? in aa.vv., Il "Caso Previti", Torino, 2000, 21; F. Rigano, Tre domande ivi. 184). Qui, dunque, non e' neppur pensabile che si pretenda di trasformare il giudizio dinanzi alla Corte "inammissibilmente in un nuovo grado di giurisdizione" (sent. n. 27/1999), per la chiara circostanza che un "grado di giurisdizione" precedente o diverso, al quale la Camera potesse o possa accedere, semplicemente non esiste. 2. - Violazione degli artt. 64, 68 e 72 della Costituzione. 2.1. - Venendo, ora, al merito, giova osservare preliminarmente che gia' con due precedenti ricorsi la Camera dei deputati ha sollevato conflitto di attribuzioni in relazione a pronunce di giudici che non avevano ritenuto di giustificare l'assenza di un parlamentare ad una udienza penale in ragione dell'impedimento costituito dalla concomitante necessita', per il deputato, di partecipare a votazioni in Assemblea e di assolvere in tal modo al suo mandato parlamentare. Anche in questo terzo conflitto, che si sottopone al giudizio di codesta ecc.ma Corte, la controversia sorge perche', nello stesso giorno fissato per l'udienza dibattimentale presso il Tribunale di Taranto, l'on. Cito era stato convocato dalla Camera per partecipare a sedute e, in particolare, a votazioni in Assemblea. Pertanto, anche con questo terzo ricorso, la lesione delle attribuzioni costituzionali della Camera viene dedotta ed argomentata con particolare riferimento alla circostanza che, appunto, il deputato era stato chiamato ad esercitare presso l'Assemblea della Camera il suo diritto dovere di votare. Invero, in un caso siffatto, la lesione delle attribuzioni costituzionali della Camera risulta - come si vedra' - tanto piu' grave ed evidente. Il che, tuttavia, non esclude che un'analoga lesione possa aversi anche quando non si tratti di votazione in Assemblea, ma per esempio in commissione legislativa (magari in sede deliberante); od anche quando non si tratti di votare, ma di un altro modo di esercizio delle funzioni parlamentari. 2.2. - Le pronunce del Tribunale di Taranto e della Corte di appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto non prendono posizione in ordine alla questione, per dir cosi', di principio, relativa al rilievo processuale della posizione dell'imputato impegnato in attivita' parlamentare. Ma indubbiamente l'effetto, il portato, di quelle decisioni e' di negare la natura di impedimento assoluto alla partecipazione del deputato a votazioni in assemblea, o di subordinarne volta a volta il riconoscimento a valutazioni del giudice, in specie inerenti la concreta situazione processuale (quali i rilievi in ordine alla asserita tardivita' dell'opposizione dell'impedimento). Invece la sentenza n. 390/2001 della Suprema Corte di Cassazione - quinta sezione penale enuclea espressamente il principio per cui spetta al giudice operare "di volta in volta", "sulla scorta della concreta situazione processuale" il contemperamento tra le esigenze della funzione giurisdizionale e di quella parlamentare. Il significato di questa affermazione, con la quale la Suprema Corte conferma la legittimita' della sentenza della Corte d'appello impugnata (e di quella di primo grado), e' duplice: essa comporta che, a seconda della concreta situazione processuale, il giudice puo' riconoscere la natura di impedimento assoluto, o, al contrario, negarla, ad ogni sorta di impegno del deputato riconducibile all'esercizio di funzioni parlamentari. A seconda della concreta situazione processuale, dunque, il giudice potrebbe, ad avviso della Corte di Cassazione, considerare impedimento assoluto una attivita' parlamentare diversa dal voto, e negare la qualita' di impedimento assoluto alla partecipazione a votazioni in Assemblea. La Suprema Corte di Cassazione considera percio' tutte equiordinate tra loro, e tutte ugualmente subordinate alla valutazione del giudice in ordine alla concreta situazione processuale, e, percio', tutte potenzialmente soccombenti davanti a quella valutazione, le diverse attivita' dei parlamentari; e, in questo modo, riconosce a se' stessa il potere di negare, sia pure non sempre e in linea di principio, ma nel concreto contesto, anche alla attivita' di voto in Assemblea la capacita' di determinare un impedimento assoluto. In precedenti ricorsi, attualmente pendenti, la Camera dei deputati ha gia' domandato a codesta ecc.ma Corte di dichiarare che non spetta al giudice negare la qualita' di impedimento assoluto alla condizione dell'imputato chiamato, in concomitanza con una udienza, a partecipare a sedute dell'Assemblea implicanti votazioni. In questo come in quei casi, la domanda e' basata su un duplice, concomitante ordine di argomenti. In primo luogo, la pretesa dell'autorita' giudiziaria di considerare tra loro fungibili le attivita' dei parlamentari, e di rimettere al solo giudice, alla stregua della valutazione delle sole circostanze processuali, il giudizio sul se e quale tra esse possa valere come impedimento assoluto, in quanto perviene a consentire all'autorita' giudiziaria di non considerare impedimento assoluto la partecipazione al voto in Assemblea, lede l'autonomia costituzionale e l'indipendenza della Camera, ne compromette la capacita' di operare e menoma l'esercizio libero del mandato parlamentare, rispetto ai quali il libero adempimento del dovete del deputato di votare in Assemblea e' strettamente funzionale. In secondo luogo, quella pretesa, comportando il totale sacrificio delle esigenze della funzione parlamentare a quelle della funzione giurisdizionale, non realizza un contemperamento equilibrato tra le esigenze della giurisdizione e quelle della funzione parlamentare, ma, tutto al contrario, determina tra esse una relazione arbitraria e irragionevole, con la quale altresi' l'autorita' giudiziaria viene meno al proprio dovere di lealta' e correttezza, manifestazione del principio di leale cooperazione, che le impone di esercitare le proprie funzioni nell'effettivo rispetto delle attribuzioni costituzionali degli altri poteri. 2.3. - Le censure della ricorrente muovono dalla necessita' di vedere riconosciuta la peculiarita' delle votazioni in Assemblea rispetto a ogni altra attivita' parlamentare. E' invero indubbio che tutte le attivita' che i deputati svolgono nell'esercizio del loro mandato godono di pari dignita', e di un rilievo ugualmente intenso: la partecipazione ai lavori parlamentari e', comunque si manifesti, un dovere, oltre che un diritto (art. 48-bis Reg. Cam.). E' errato tuttavia inferire da cio' la conclusione che, allora, il rilievo delle diverse attivita' del parlamentare come cause di impedimento assoluto nel processo sia identico, e tale da essere identicamente rimesso al sindacato del giudice alla stregua della valutazione delle concrete situazioni processuali. Tra le diverse attivita' che costituiscono partecipazione ai lavori parlamentari c'e' perlomeno una, e essenziale, differenza qualitativa, dal momento che, diversamente dalle altre attivita' parlamentari, quali la partecipazione a discussioni, lo svolgimento di interventi programmati, o di atti del sindacato ispettivo - pure, lo si ripete, a loro volta assolutamente fondamentali nella esplicazione del ruolo costituzionale delle Camere - il voto e' attivita' personalissima, non delegabile ad altri (cfr. il tema della sent. n. 379/1996), e che, inoltre, il deputato, a differenza di quanto avviene con riguardo a quelle attivita', non ha alcun potere di influenza in ordine al momento del loro svolgimento: egli non puo' mai chiedere, e tantomeno ottenere, lo spostamento di una votazione. Il deputato che sia convocato dal giudice penale per un procedimento nei propri confronti, nella stessa data in cui intenda partecipare a una discussione, o debba svolgere un intervento programmato su un determinato provvedimento, puo' chiedere lo spostamento ad altra data dell'esame del provvedimento, spostamento che per prassi viene, ove possibile, concesso; in alternativa, la Camera, in persona del proprio Presidente, puo' - e la prassi e' in tal senso - rinviare la discussione sulle linee generali o concedere facolta' al deputato in questione di svolgere un intervento piu' ampio sull'art. 1 del provvedimento in discussione, quando si tratti di progetti di legge, in deroga alle norme sui tempi. La possibilita' del rinvio di atti del sindacato ispettivo e' in re ipsa, e il momento dello svolgimento di interrogazioni e interpellanze viene fissato - una volta che la Presidenza della Camera abbia preso gli opportuni contatti con il Ministro destinatario e il deputato richiedente - in modo da conciliare le rispettive esigenze e assicurare il dibattito (cfr. R.Moretti, Attivita' informative, di ispezione e di controllo, in T. Martines, C. De Caro, V. Lippolis, R. Moretti, Diritto parlamentare, Rimini, 1992, 417, 421). Il peculiare statuto del voto, per cui sono invece indisponibili, da parte del singolo deputato, i modi (personali e non delegabili) e i momenti (non rinviabili a richiesta) della partecipazione alle sedute in cui ne avviene l'espressione, da' la misura di come la votazione rappresenti una attivita' che e' si' esercitata dal singolo deputato, ma, com'e' proprio della sua natura di atto "squisitamente funzionale" (sent. n. 379/1996) pertiene in modo pieno e immediato alla funzione costituzionalmente rimessa a ciascuna delle due Camere, che, dunque, e' il bene inciso allorche' la partecipazione a quella attivita' non venga considerata "impedimento assoluto" alla comparizione in udienza. Tanto piu' (ma non esclusivamente) cio' vale per il voto in Assemblea, sui quale - anche in questo ricorso - si concentrano le censure della ricorrente, essendo innegabilmente l'Assemblea il soggetto "sovrano" dell'ordinamento parlamentare. Il funzionamento interno dell'Assemblea e' garantito nei confronti delle interferenze di qualunque potere, dalle disposizioni degli artt. 64, 68 e 72 Cost., e cioe', da un lato, mediante il potere delle Camere di disciplinare con autonomo regolamento la propria organizzazione e il proprio funzionamento; dall'altro lato, dalla indipendenza e autonomia dei singoli membri, garanzie queste ultime, a loro volta, della indipendenza della istituzione di appartenenza. Come codesta ecc.ma Corte ha statuito: "I diritti la cui titolarita' e il cui esercizio abbiano come presupposto lo status di parlamentare e ne connotino la funzione possiedono ... uno statuto fondato sulla Costituzione e plasmato dal principio di autonomia delle Camere. E' in relazione a tali diritti che la non interferenza dell'autorita' giudiziaria civile o penale si afferma con la massima cogenza, in quanto essa e' finalizzata al soddisfacimento del bene protetto dagli artt. 64, 72 e 68 della Costituzione: la garanzia del libero agire del Parlamento nell'ambito suo proprio" (sent. n. 379/1996). Il vulnus arrecato all'autonomia e indipendenza della Camera e', dunque, violazione delle disposizioni degli artt. 64, 68 e 72. Dal diniego del carattere di impedimento assoluto al dovere di prendere parte alle votazioni in Assemblea deriva grave ostacolo all'adempimento del principale diritto-dovere del deputato; e cio' ridonda in una lesione delle prerogative di autonomia e indipendenza interna della Camera. 3. - Violazione dell'art. 64, comma 3, della Costituzione, anche in riferimento agli artt. 64, comma 1; 73, comma 2; 79, comma 1; 83, comma 3; 90, comma 2; 138, commi 1 e 3 della Costituzione; 12, 1egge cotituzionale 11 marzo 1953, n. 1; 3 legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2; 9, comma 3, e 10, comma 3, legge costituzionale 16 gennaio 1989, n. 1. Un'altra, e rilevantissima, differenza intercorre tra l'esercizio del diritto di voto in Assemblea, e le altre attivita' riconnesse alla funzione parlamentare. Solo il voto - ed appunto il voto in Assemblea, cui ha riguardo l'oggetto del presente conflitto - incide sulla funzionalita' della Camera, esprimendo un immediato e diretto condizionamento nei confronti della capacita' di operare di quella Assemblea che e', lo si ripete, l'organo "sovrano" nell'ordinamento costituzionale. Sicche', subordinare anche questa attivita', sotto il profilo se essa possa costituire o meno impedimento assoluto, alla valutazione del giudice, svolta di volta in volta alla stregua delle risultanze processuali, significa subordinare alle valutazioni del potere giudiziario, nonche' alle sole esigenze del processo, il funzionamento della suprema assemblea rappresentativa. Il nesso immediato e diretto che intercorre tra voto e funzionalita' dell'Assemblea parlamentare appare evidente e incontestabile se solo si tiene presente che le deliberazioni delle Camere sono sottoposte, ai sensi dell'art. 63, comma 3, della Costituzione - a tenore del quale "Le deliberazioni di ciascuna Camera e del Parlamento non sono valide se non sono adottate a maggioranza dei presenti, salvo che la Costituzione prescriva una maggioranza speciale" - a un duplice quorum di validita', quello strutturale e quello funzionale, il cui mancato raggiungimento, che puo' essere determinato anche da un singolo voto, determina la invalidita' della deliberazione, e che riguarda tutte le deliberazioni delle Camere e tutte quelle del Parlamento in seduta comune. Sicche' la partecipazione dei singoli deputati alle sedute nelle quali e' indetta una votazione, e alle votazioni stesse, e' condizione indispensabile per la validita' delle sedute e delle deliberazioni. Numerose altre disposizioni costituzionali specificano e rafforzano la previsione generale dell'art. 64, comma 3. L'art. 64, comma 1, richiede, per l'approvazione dei regolamenti, la maggioranza assoluta dei componenti; 1'art. 73, comma 2, subordina la dichiarazione di urgenza della legge a una deliberazione presa a maggioranza assoluta; l'art. 79, comma 1, pone, come condizione per l'approvazione delle leggi di amnistia e indulto, la maggioranza dei due terzi dei componenti; l'art. 83, comma 3, richiede la maggioranza dei due terzi, o assoluta, del Parlamento in seduta comune, in composizione integrata, per l'elezione del Presidente della Repubblica; l'art. 90, comma 2, richiede la maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento in seduta comune per la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica (v. anche l'art. 12 della legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 1); l'art. 138, commi 1 e 2, richiede, per l'approvazione di una legge costituzionale o di revisione costituzionale, l'approvazione a maggioranza assoluta ovvero dei due terzi. Vanno altresi' ricordate disposizioni contenute in leggi costituzionali, quali, almeno, l'art. 3 della legge costituzionale 22 novembre 1967, n. 2 (maggioranza dei due terzi o dei tre quinti dei componenti del Parlamento in seduta comune per l'elezione dei giudici costituzionali), e l'art. 9, comma 3, della legge costituzionale 1 gennaio 1989, n. 1 (maggioranza assoluta dei componenti della Camera competente per negare l'autorizzazione a procedere nei confronti dei Ministri o del Presidente del Consiglio). L'art. 10, comma 3, della stessa legge, prevede, nell'ipotesi della richiesta di misure restrittive delle liberta' fondamentali a carico dei Ministri o del Presidente del Consiglio, tanto la convocazione di diritto delle Camere che il dovere, per esse, di deliberare, entro quindici giorni dalla richiesta. E' un caso, questo, in cui le Camere non hanno solo il dovere di riunirsi, ma anche quello di deliberare, ovverosia di votare, entro un tempo determinato; elemento che rende la partecipazione dei singoli parlamentari alla votazione ancor piu' indefettibile. Poiche' dunque la possibilita' per la Camera di esercitare validamente le proprie funzioni e' condizionata dalla presenza del necessario numero di deputati, ogni impedimento frapposto a tale partecipazione si traduce in un impedimento alla funzionalita' della Camera, e nella pur potenziale compromissione dell'esercizio delle attribuzioni dell'organo rappresentativo, le quali dipendono dalla riunione dei suoi membri. Il rifiuto dell'autorita' giudiziaria di giustificare l'assenza del parlamentare impegnato in votazioni in assemblea realizza appunto un siffatto impedimento e una siffatta compromissione delle attribuzioni costituzionali dell'assemblea della Camera dei deputati. Infatti, quel diniego pone il deputato nella condizione di dover scegliere tra presentarsi all'udienza o partecipare alla votazione; e questa scelta, poiche' implica il soddisfacimento o il sacrificio, comunque integrali, del proprio diritto alla difesa ovvero del proprio dovere di voto, non e' affatto libera, ne' priva di condizionamenti. Il deputato sottoposto a procedimento penale esercita il proprio diritto costituzionale di difesa, diritto fondamentalissimo e caratterizzante la stessa identita' della Costituzione italiana (sent. n. 18/1982; 2/1956). L'adempimento del dovere di partecipazione alle votazioni in Assemblea, dovere funzionale al valido esercizio delle attribuzioni della Camera, viene a confliggere con un primario diritto costituzionale. Dunque, negando alla partecipazione a votazioni in Assemblea la natura di impedimento assoluto, l'autorita' giudiziaria certo non obbliga il parlamentare a declinare quella partecipazione, ma sottopone la partecipazione del deputato alla votazione a una condizione, quella di sacrificare il diritto alla difesa; una condizione che, implicando una scelta importante e financo drammatica, potrebbe spingere il deputato a non partecipare alla votazione, pur di partecipare all'udienza. Il diniego di rinvio dell'udienza in nome dell'impedimento assoluto dell'imputato, ha come conseguenza di condizionare e subordinare la partecipazione alla seduta e alle relative votazioni a valutazioni (quella sulla opportunita' e la convenienza, per la propria posizione processuale, di partecipare all'udienza, anziche' alla votazione), imposte da un potete esterno, laddove l'adempimento del primario dovere del deputato, deve, come tale, essere subordinato solo all'esigenza di soddisfare gli "interessi generali" della istituzione che lo impone (G.M. Lombardi, Contributo allo studio dei doveri costituzionali, Milano, 1967, 29). Cosi' l'autorita' giudiziaria interferisce con le prerogative del potere legislativo, e gravemente: ponendone a rischio la stessa funzionalita'. 4. - Violazione degli art. 67 e 68 della Costituzione. Il diniego di considerare impedimento assoluto a comparire in udienza la partecipazione del deputato a votazioni in Assemblea puo', come detto, spingere il deputato a non partecipare alla votazione. In tal modo viene lesa la liberta' del mandato, garantita dall'art. 67 della Costituzione. Il divieto di mandato "risponde alla finalita' di garantire l'indipendenza del parlamentare da ogni influenza, da qualunque fonte provenga" (C. Mortati, Art. 67, in Commentario della Costituzione, Le Camere, II (Art. 64-69), Bologna-Roma, 1986, 184), e costituisce percio', al pari delle prerogative assicurate al parlamentare dall'articolo 68 Cost., uno strumento funzionale alla integrita' della posizione costituzionale delle istituzioni cui il parlamentare appartiene, che lo proteggono da interferenze di poteri esterni e che assolvono alla funzione di "garanzia oggettiva e funzionale del procedimento di decisione parlamentare", rispondendo all'"esigenza che la decisione parlamentare sia liberamente adottata dalle Camere in condizioni di autonomia personali e reali" (A. Manzella, Il Parlamento, Bologna, 1991, 186 e 184). Ogni volta che viene leso il libero esercizio del mandato parlamentare, tutelato dall'art. 67 in una con l'art. 68, sono lese percio' l'autonomia e l'indipendenza della Camera, che sussistono in tanto in quanto sussistano la liberta', l'autonomia e l'indipendenza dei singoli membri nell'adempimento del loro mandato. Non vi ha dubbio che dalla giurisdizione possa provenire pregiudizio all'esercizio del libero mandato parlamentare (N. Zanon, Il libero mandato parlamentare. Milano, 1991, 305). La situazione che forma oggetto del presente conflitto offre, anzi, una ipotesi esemplare di incisione con atti giurisdizionali della liberta' di esercizio del mandato parlamentare del singolo deputato, posto che - per effetto del diniego della situazione di impedimento assoluto - questi viene pesantemente condizionato, come si e' venuti dicendo, nella sua scelta di adempiere o meno i doveri, ed esercitare i diritti, inerenti il suo ufficio, in presenza della contrapposta, e a sua volta costituzionalmente protetta, esigenza di esercitare il diritto di difesa. Si deve aggiungere che il condizionamento del libero mandato determina una alterazione profonda del libero gioco delle maggioranze e delle opposizioni, che si fonda sull'altrettanto libero rapporto delle forze e la cui alterazione (si pensi alla prima crisi parlamentare della Repubblica, con la votazione alla Camera del 9 ottobre 1998) e' altrettanto rilevante. 5. - Arbitrario sacrificio, negli atti impugnati, delle esigenze della funzionalita', autonomia e indipendenza delle istituzioni parlamentari alle esigenze della efficienza del processo: irragionevolezza del bilanciamento operato dall'autorita' giudiziaria. Nelle decisioni impugnate, la pretesa dell'autorita' giudiziaria di negare il carattere di impedimento assoluto alla partecipazione del deputato a votazioni in assemblea e' espressa sia in modo diretto (come avviene nelle decisioni del Tribunale di Taranto e della Corte di Appello di Lecce - sezione distaccata di Taranto, allorche' hanno negato quel carattere all'impedimento che pure l'imputato comprovava con l'esibizione dell'ordine del giorno della Camera), sia in modo indiretto, mediante l'affermazione (nella sentenza della Suprema Corte di Cassazione) secondo cui spetta al giudice di valutare caso per caso, nel concreto della vicenda processuale, il ricorrere di un impedimento assoluto, e di operare cosi', sulla scorta della concreta situazione processuale, il bilanciamento degli interessi confliggenti che risalgono alla funzione giurisdizionale e a quella parlamentare. Il diniego di riconoscere la natura di impedimento assoluto alla condizione del parlamentare impegnato in votazioni in Assemblea lede l'autonomia e indipendenza della Camera, la sua funzionalita', e il principio di liberta' del mandato, in quanto, come sin qui sostenuto, esso sottopone la partecipazione del deputato alle votazioni in Assemblea a una scelta non libera. Ma altrettanto lesiva dei principi costituzionali che governano le attribuzioni reciproche del potere giudiziario e del potere legislativo e', di per se', l'affermazione secondo cui il bilanciamento tra le opposte esigenze della due funzioni e' rimesso al giudice, che lo compira' alla stregua delle concrete risultanze processuali, ed in particolare, come propone l'argomentare della Suprema Corte di Cassazione, alla stregua dell'esigenza di una conclusione celere del processo. Quel diniego, infatti, proprio perche' subordina, determinandone il completo sacrificio, le esigenze della funzione legislativa a quelle della funzione giurisdizionale, realizza un metodo di bilanciamento che e' il meno razionale e il meno satisfattivo sul piano dei principi (i quali, lungi dall'imporlo, ne suggeriscono invece uno diverso). Come si e' gia' detto, il "bilanciamento" che la autorita' giudiziaria propugna e ritiene di realizzare presuppone una scelta, rimessa al deputato, tra la partecipazione alla seduta della Camera (con conseguente dichiarazione di contumacia) o la comparizione in udienza. Questa scelta - lo si e' gia' osservato - non puo' avvenire senza il sacrificio integrale di una delle due posizioni giuridiche (il diritto alla difesa, il diritto/dovere di voto) che al deputato si imputano. Imponendo una tale scelta al deputato, la partecipazione alle votazioni in Assemblea e' condizionata dal rischio personale dell'imputato di danneggiare la propria posizione processuale; cio' determina la potenziale compressione delle prerogative della Camera. Ma a tutto cio' si deve aggiungere, a questo punto, che proprio il carattere che finisce inevitabilmente per assumere la scelta rimessa al deputato e' altresi' l'indice evidente di come la soluzione propugnata dai giudici non sia affatto idonea a bilanciare realmente le esigenze della giurisdizione con quelle della funzione legislativa. E' infatti evidente come, proprio a causa del diniego dei giudici di riconoscere come impedimento assoluto la partecipazione a votazioni in Assemblea, la scelta alternativa che di conseguenza viene, per cosi' dire, "scaricata" sul singolo deputato, sia del tutto impari, asimmetrica e squilibrata. Cio' a causa della natura dei valori in gioco, e delle differenze che intercorrono tra essi, l'equilibrio tra i quali assai impropriamente puo' essere relegato a livello di una scelta dell'imputato in tutto eguale ad altre, eminentemente personale, libera anche nel senso di essere del tutto "privata". I due valori che sono rilasciati alla scelta del deputato non sono affatto fungibili: l'uno e' un diritto soggettivo, il diritto alla difesa; l'altro un diritto-dovere, collegato, come si e' visto, nel modo piu' diretto e condizionante alla funzionalita' della Camera. La scelta del singolo deputato non puo' che tradursi nel sacrificio dell'uno o dell'altro: una "porta stretta" che, per quanto attiene alla sfera del deputato, condanna alla stessa sorte due situazioni - un diritto e un dovere - l'una totalmente individuale, l'altra pertinente alle attribuzioni della istituzione sovrana, e che per questo motivo (lo dimostrano il carattere personalissimo e non delegabile del voto, nonche' l'impossibilita' che le sedute destinate a votazioni vengano spostate a richiesta di un singolo) esorbita e non puo' non esorbitare dalla dimensione e dalla sfera di disposizione del singolo. L'inopportunita' di costringere il deputato - e, con lui, l'equilibrio tra esigenze della giurisdizione ed esigenze della funzione parlamentare - a passare attraverso quella porta cosi' stretta, appare tanto piu' evidente se si pensa che mentre lo svolgimento dell'attivita' processuale non e' e non potrebbe neppur potenzialmente essere compromesso dal rinvio derivante dal riconoscimento dell'impedimento assoluto, la validita' della seduta e della deliberazione delle Camere cui il deputato e' convocato e' messa a rischio (potenzialmente, in ogni caso; ma anche in concreto, in talune circostanze che non si possono escludere) dal diniego dell'impedimento. Nessun principio costituzionale, come si diceva, puo' essere chiamato a sostegno di una cosi' squilibrata soluzione. Non certamente l'esigenza della celerita' del processo, cui, in modo piu' o meno esplicito, le decisioni impugnate si richiamano per fondare la soluzione che esse propugnano. Certamente quella esigenza - o, piu' in generale, il principio della efficienza e della snellezza del processo - e' stata ritenuta, dalla giurisprudenza di codesto ecc.mo collegio, implicitamente riconosciuta dalla Costituzione (cfr. ad es. sent. n. 460/1995). Ma cio' non significa che essa sia tale da giustificare il sacrificio dell'autonomia e dell'indipendenza della Camera dei deputati, o della stessa funzionalita' di quella Assemblea. Nei casi in cui la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha fatto valere quel principio (cfr. sent. n. 10/1997; 353/1996) essa lo ha utilizzato per impedire pratiche dilatorie pretestuosamente preordinate a compromettere la funzionalita' del processo. Il principio di snellezza ed efficienza del processo vale dunque a rendere ingiustificati atti di esercizio del diritto di difesa che siano in sostanza abusivi perche' rivolti al solo scopo di rinviare nel tempo il completamento dell'iter processuale. Questo schema di ragionamento non puo' essere applicato a casi come quello in esame, dal momento che il parlamentare non e' certo dominus delle cause di impedimento, che derivano dalla esistenza di un calendario dei lavori parlamentari che egli e' tenuto a rispettare e che non ha certamente deciso da solo: l'ostacolo allo svolgimento del processo ha una oggettivita' che lo pone del tutto al di fuori della disponibilita' del deputato. Non si puo' mancare di dare il giusto peso alla circostanza che l'ordine del giorno, che fa parte integrante della convocazione delle Camere, cui e' incorporato, e' primaria, indefettibile manifestazione della autonomia procedimentale della Camera, proprio perche' esso, individuando gli argomenti da trattare, rappresenta "il contemperamento delle esigenze di cui sono portatori i soggetti costituzionali interessati alla organizzazione dei lavori delle Camere" (D. Marra, Art. 62, in Commentario cit., 267), cio' che gli merita la definizione di atto "garantista" per eccellenza, perche' posto a garanzia dei diversi soggetti dell'ordinamento governo, maggioranza, opposizione, oltre che della oggettiva ottemperanza ai risultati della organizzazione dei lavori (A. Manzella op. cit., 119-120). E' dunque da considerarsi del tutto impropria l'equiparazione, che l'autorita' giudiziaria pretende di operare, tra un qualunque istituto processuale di difesa utilizzato o utilizzabile a fini dilatori, e l'appello del parlamentare ai doveri che scaturiscono per lui dalla programmazione dei lavori delle Camere, che di volta in volta si obiettiva e si manifesta nella convocazione e nella diramazione dell'ordine del giorno. Del resto, a ribadire il carattere del tutto arbitrario dell'assunto, fatto proprio dall'autorita' giudiziaria nelle decisioni impugnate, della subordinazione della attivita' parlamentare a quella giurisdizionale - vale a dire l'assenza di principi costituzionali su cui fondarlo - valga ricordare che, proprio dalla giurispudenza di codesto ecc.mo collegio, emerge semmai un rapporto, fra le due funzioni, esattamente rovesciato. Cosi', nella sent. n. 129 del 1996 e' statuito che "a tutela del principio (corrispondente a un interesse generale della comunita' politica) di indipendenza e autonomia del potere legislativo nei confronti di altri organi e poteri dello Stato, l'art. 68 sacrifica il diritto alla tutela giurisdizionale del cittadino che si ritenga leso nell'onore o in altri beni della vita da opinioni espresse da un senatore o deputato nell'esercizio delle sue funzioni". Se, dunque sono ammesse "deroghe alla giurisdizione" quando e' in gioco l'autonomia delle istituzioni rappresentative che si collocano "a livello di sovranita'" (quali senza dubbio le Camere, mentre non, certamente e ad esempio, i consigli regionali; cfr. sentt. nn. 129/1981; 110/1970), non si rinviene nell'ordinamento alcun principio che fondi la premessa espressa nelle pronuncie dei giudici che hanno originato il presente conflitto, della subordinazione dell'attivita' parlamentare a quella giurisdizionale, della subordinazione dell'autonomia, indipendenza e funzionalita' delle Camere alle esigenze della efficienza e snellezza del processo. Ne' argomenti in tal senso potrebbero essere tratti dalla modifica dell'art. 68 Cost., che ha eliminato l'autorizzazione a procedere nei confronti dei membri del Parlamento. Questo provvedimento, lungi, a sua volta, dal significare una subordinazione della attivita' parlamentare a quella giurisdizionale, ha semplicemente eliminato una eccezionale guarentigia che poneva al riparo di un regime speciale, nei confronti della funzione giurisdizionale, i membri del Parlamento. L'abolizione di questo regime speciale ha inaugurato, nei rapporti tra autorita' giudiziaria e Camere, una stagione forse nuova per essi, ma gia' del tutto nota nella sfera dei rapporti tra poteri costituzionali: quella della convivenza tra valori diversi, confliggenti, talvolta opposti, ed equiordinati tra loro: una tensione problematica, della cui latitudine e della cui complessita' codesto ecc.mo collegio si e' fatto compiutamente carico (sent. n. 379/1996). Come la giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte ha piu' volte insegnato (sul punto, in dottrina, da ultimo, G. Scaccia, Gli "strumenti" della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000), il contrasto tra valori costituzionali deve essere composto mediante un prudente bilanciamento che deve tendere il piu' possibile al loro ragionevole contemperamento. Ed e' proprio ragionando nel modo opposto a quello seguito dai giudici le cui decisioni sono oggetto del presente conflitto, che si schiude la possibilita' di un equo contemperamento, perche' il riconoscimento della natura di impedimento assoluto alla partecipazione del deputato a votazioni in Assemblea permette alle due funzioni di convivere in modo satisfattivo e di ovviare al problema delle pratiche dilatorie. Infatti, rovesciando la soluzione sostenuta dai giudici, ed ipotizzando che, come qui si chiede, la (sola) partecipazione a votazioni in Assemblea sia considerata (sempre) impedimento assoluto a comparire in udienza, si ottiene un bilanciamento tra le due funzioni che non importa il sacrificio integrale di una delle due. In primo luogo, la presenza dell'impedimento comporta il rinvio dell'udienza: ma l'udienza di rinvio ricostruira' la medesima situazione processuale di quella rinviata: la funzione giurisdizionale non e' menomata. Invece nell'altro caso - a parte il danno all'equilibrato svolgimento della vita istituzionale (e che deriva, come detto in precedenza, dall'interferenza di un potere esterno alla Camera) - la seduta parlamentare che non possa svolgersi a causa dell'assenza del deputato il quale, non godendo dell'impedimento assoluto, si e' dovuto presentare all'udienza penale, e' di per se' "irriproducibile": infatti, data la sua natura di evento squisitamente politico, rilevano a definirla il concreto momento storico e lo specifico contesto in cui essa si svolge, e gli equilibri ed i rapporti che in quel momento si danno. Ne' il riconoscere l'impedimento assoluto alla partecipazione del deputato all'udienza espone a rischio la celere conclusione del processo, dal momento che a parte i periodi di sospensione, l'Assemblea non si riunisce tutti i giorni della settimana, ne' tutte le sedute d'Assemblea sono dedicate a votazioni, perche' molte sono destinate ad altre attivita' (come dibattiti di vario contenuto, svolgimento di interrogazioni e interpellanze, ecc.). Nell'arco di un anno assai meno di un giorno su tre e' dedicato a votazioni e cio', invero, consente di soddisfare pienamente le esigenze di celerita' del processo. Pertanto, la previsione del carattere assoluto dell'impedimento parlamentare in riferimento a sedute dell'Assemblea destinate a votazioni non compromette affatto la funzionalita' del processo e non lede le prerogative dell'autorita' giudiziaria. Per contro, la strategia di bilanciamento proposta dalla Cassazione, e contro cui si rivolge questo ricorso, non appare satisfattiva neppure alla luce di un ulteriore principio, quello, a sua volta di primaria importanza costituzionale (cfr. sent. n. 416/1999), della certezza del diritto: l'attribuzione al giudice del potere di valutare di volta in volta, a seconda delle concrete risultanze processuali, l'assolutezza dell'impedimento, offre, con evidenza, minori garanzie per la certezza non solo della situazione soggettiva del singolo deputato, ma della funzionalita' e autonomia della Camera. Per quanto, infatti, la discrezionalita' del giudice sia in questi casi delimitata dalla ragionevolezza, e - nel tempo - dal consolidarsi degli indirizzi giurisprudenziali (cfr. sent. n. 178/1991), nondimeno un criterio automatico e oggettivo, come quello che conseguirebbe dall'accoglimento di questo ricorso, offrirebbe garanzia di certezza largamente superiori. 6. - Violazione del principio di leale collaborazione e del dovere di lealta' e correttezza. Con riguardo al potere giudiziario, il principio generale di leale collaborazione, e' stato talvolta specificato da codesta ecc.ma Corte (in occasioni che vedevano opposta la magistratura al Presidente del Consiglio dei ministri in riferimento al potere di segretazione: cfr. le sentt. nn. 410/1998;110/1998), in dovere di lealta' e correttezza, che obbliga il potere giudiziario al "rispetto effettivo" delle prerogative degli altri organi costituzionali. A tale dovere sono venute meno le decisioni impugnate. Come si e' fatto notare esponendo il fatto, i giudici - nelle pronunce indicate in epigrafe - invocano piu' volte la tardivita' della eccezione della difesa. Ma quella tardivita' e' riferita ora (nella ordinanza del Tribunale di Taranto) ad una istanza presentata dal difensore dell'imputato il 17 febbraio 1998, cioe' il giorno prima dell'udienza, e dunque non tardiva; ora invece (nella sentenza della Corte d'appello, e per confermare sul punto la precedente decisione) al fax dell'imputato, che e' invece del successivo 18 febbraio, ed ignorando completamente l'istanza del difensore del giorno prima. Ancora. I giudici leggono sia il calendario settimanale dei lavori (dal 17 al 20 febbraio 1998), sia l'ordine del giorno della seduta della Camera (del 18 febbraio 1998): ma il Tribunale di Taranto non ne deduce che l'imputato fosse chiamato a votare anche nel giorno precedente all'udienza, e fino alle ore 23 (cosa che invece risultava dai documenti trasmessi). Un fattore, questo, che aveva invece un peso rilevante, rendendo esso praticamente non praticabile, se non altro data la distanza tra Roma e Taranto, la soluzione prospettata dall'ordinanza del tribunale, secondo cui, poiche' nella seduta pomeridiana dell'Assemblea della Camera del 18 febbraio le votazioni erano previste solo a partire dalle ore 16, l'onorevole Cito avrebbe potuto presentarsi nella mattinata del giorno dell'udienza (lo stesso 18) e chiedere "eventualmente" (sic!) che la sua causa fosse trattata con precedenza. Proprio per fare rilevare che il suo impegno a partecipare alle votazioni in Assemblea copriva sia la serata del 17 che il primo pomeriggio del 18, l'imputato aveva spedito (dalla Camera) un fax: ma il tribunale non ha ritenuto che "il contenuto del fax possa rimettere in discussione" l'ordinanza (cui era stata dedicata una camera di consiglio di soli quindici minuti). Invece la Corte di appello di Lecce-sezione di Taranto mostra nella sentenza di essersi accorta che il deputato doveva votare anche la sera del giorno 17, ma, nonostante che il calendario settimanale dei lavori dei giorni 17-20 febbraio avesse un contenuto comune, e soprattutto malgrado che l'ordine del giorno del 18 febbraio prevedesse espressamente votazioni in Assemblea, essa incomprensibilmente sembra ritenere che le votazioni fossero solo il giorno 20 e non anche il 18. Infine, i rischi di pratiche dilatorie sono evocati dalla Corte di Cassazione in relazione ad una complessiva vicenda processuale in cui l'impedimento - come risultava e risulta dagli atti di causa - venne fatto valere dall'onorevole Cito soltanto in un'unica occasione: cioe' solo per l'udienza del 18 febbraio 1998! Le motivazioni ed argomentazioni di entrambi i giudici di merito sono sintomatiche di un approccio non corretto e non ispirato al principio di leale collaborazione, perche' non orientato dall'impegno e dallo sforzo di riconoscere effettivamente le attribuzioni dell'altro potere, bensi' di aggirarle. Ma un analogo approccio e' presente anche nella motivazione della sentenza della Suprema Corte di Cassazione, in particolare allorche' essa definisce "giuridicamente ineccepibili" le argomentazioni della sentenza della Corte d'appello sulla tardivita' dell'istanza con cui era stato dedotto l'impedimento; o parla di una "indiscriminata valenza" di un impedimento che viceversa era stato fatto valere dall'imputato in modo estremamente circostanziato: cioe' con specifico riguardo alla partecipazione a votazioni in Assemblea, e per una sola volta nel corso dell'intero processo. Il mancato rispetto del principio di leale collaborazione risulta particolarmente vistoso nelle decisioni dei giudici di merito, proprio perche' essi paiono asserire in astratto di potere e dovere riconoscere l'impedimento nascente dal dovere del deputato di partecipare alla votazione, ma in concreto negano che per l'onorevole Cito vi fosse un siffatto impedimento, perche' non hanno voluto scorgere, nonostante le risultanze del calendario settimanale e dell'ordine del giorno della seduta della Camera, che egli era impegnato in votazioni in Assemblea anche lo stesso giorno dell'udienza e percio' impossibilitato a parteciparvi, cosi' violando le attribuzioni costituzionali della Camera. Il dovere di lealta' e correttezza e' specificazione del principio di leale collaborazione, che si impone pur esso al potere giudiziario: (cfr. la sent. n. 403/1994, che ha stabilito espressamente che anche l'autorita' giudiziaria - nella specie si trattava del collegio inquirente per i reati ministeriali, che e' titolare del potere di svolgere le indagini preliminari - e' assoggettata al principio della leale collaborazione, in particolare per quanto riguarda la determinazione dei tempi di esercizio delle attivita' processuali; ma v. anche la sent. n. 420/1995). La violazione del dovere di lealta' e correttezza comporta la lesione di questo secondo e piu' ampio principio; lesione che, del resto, e' gia' resa evidente dal piu' volte sottolineato carattere arbitrario - alla luce dei principi costituzionali - del sacrificio che si pretende di imporre alle esigenze della funzione parlamentare, senza alcuna ragionevole necessita', ne' reale fondamento costituzionale, con la pretesa del potere giudiziario di non riconoscere carattere di impedimento assoluto al diritto-dovere del parlamentare di partecipare alle votazioni in Assemblea.
P. Q. M. Voglia l'ecc.ma Corte costituzionale statuire: che non spetta al Tribunale di Taranto-sezione I penale, ne' alla Corte d'appello di Lecce-sezione distaccata penale di Taranto, ne' alla Suprema Corte di Cassazione - V sezione penale, negare che costituisca impedimento assoluto alla partecipazione del deputato on. Giancarlo Cito alla udienza dibattimentale presso il Tribunale di Taranto il diritto-dovere del medesimo di assolvere il mandato parlamentare partecipando alle votazioni dell'Assemblea della Camera indette nello stesso giorno; in particolare che non spetta alla Corte di cassazione - V sezione penale il dichiarare riservato al bilanciamento del giudice penale, alla stregua delle risultanze processuali, il giudizio sulla spettanza del carattere di impedimento assoluto a partecipare all'udienza alla situazione dell'imputato parlamentare che sia impegnato in votazioni in Assemblea concomitanti con l'udienza penale; e per l'effetto annullare l'ordinanza 18 febbraio 1998 del Tribunale di Taranto-sezione prima penale; la sentenza 18 febbraio/13 marzo 1998, n. 202, del medesimo tribunale; la sentenza 21 ottobre 1999/10 marzo 2000, n. 85, della Corte d'appello di Lecce-sezione distaccata penale di Taranto; e la sentenza 15 febbraio/19 marzo 2001, n. 390, della Corte Suprema di Cassazione - sezione V penale. Roma, addi' 24 maggio 2001 On. prof. Luciano Violante - Avv. prof. Sergio Panunzio 02C0369