N. 259 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 gennaio 2002
Ordinanza emessa l'8 gennaio 2002 dal tribunale - Sezione per il riesame, di Napoli nel procedimento penale a carico di Ciampi Luigi Misure cautelari - Arresti domiciliari - Autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione per lo svolgimento di una attivita' lavorativa - Possibilita' per il giudice di effettuare il giudizio sull'opportunita' di concedere tale autorizzazione soltanto qualora il detenuto non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita ovvero versi in situazione di assoluta indigenza - Irragionevolezza a fronte del diverso regime previsto per il rilascio dell'autorizzazione del lavoro all'esterno per il detenuto ristretto in carcere o per il condannato in stato di detenzione domiciliare - Violazione del principio della finalita' rieducativa della pena - Lesione del diritto al lavoro - Contrasto con il principio di obbligatorieta' della motivazione dei provvedimenti giurisdizionali. - Codice di procedura penale, art. 284, comma 3. - Costituzione, artt. 1, 2, 3, 4, 13, comma secondo, 27, comma terzo, e 35.(GU n.22 del 5-6-2002 )
IL TRIBUNALE Riunito in camera di consiglio ha pronunziato la seguente ordinanza sull'appello proposto da Ciampi Luigi, detenuto in stato di custodia cautelare agli arresti domiciliari, avverso l'ordinanza emessa in data 11 ottobre 2001 dal Tribunale di Benevento, con la quale veniva rigettata l'istanza di assentarsi per l'espletamento di attivita' lavorativa; a scioglimento della riserva formulata all'udienza camerale del 19 novembre 2001. F a t t o I. - Con istanza in data 8 ottobre 2001 Ciampi Luigi, detenuto in stato di custodia cautelare agli arresti domiciliari, a mezzo del proprio difensore di fiducia, richiedeva al Tribunale di Benevento la concessione del permesso per recarsi in Telese Terme, presso l'esercizio commerciale di Ciampi Giovanna, per prestare attivita' lavorativa dalle ore 8,30 alle ore 13, dal martedi' al sabato. II. - Con ordinanza in data 11 ottobre 2001, acquisito il contrario parere del pubblico ministero, il Tribunale di Benevento rigettava l'istanza. III. - Osservava il Tribunale che "non risulta documentato che il Ciampi non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita, ovvero che versi in situazione di assoluta indigenza" e che "l'attivita' lavorativa dovrebbe essere prestata presso una stretta congiunta (peraltro indicata anche come testimone a discarico), la quale verosimilmente e' di sostegno al richiedente, anche a prescindere dalla prestazione di collaborazione", precisando "che l'eventuale accoglimento dell'istanza consentirebbe al Ciampi di spostarsi quotidianamente in un comune diverso da quello di residenza e di interesse turistico, rendendo possibili contatti con il pubblico non compatibili con le esigenze cautelari alla base della misura applicata". IV. - Avverso la predetta ordinanza il difensore di Ciampi Luigi ha proposto tempestivo e rituale appello, ex art. 310 c.p.p., deducendo che: il Ciampi, ristretto agli arresti domiciliari da circa un anno, non ha mai violato alcuno degli obblighi ne' delle prescrizioni cui e' stato sottoposto; e' incongruo ritenere che la cittadina di Telese Terme (comprendente non piu' di 6.000 abitanti) possa essere considerata un "centro turistico" al punto da sconsigliare la concessione dell'invocato permesso di lavoro; Ciampi Giovanna, sorella dell'appellante, avendo necessita' di assumere un commesso presso il proprio esercizio commerciale, aveva ritenuto di offrire il posto di lavoro al fratello piuttosto che ad un estraneo, non potendo verosimilmente piu' assumere l'onere di essere di sostegno al congiunto detenuto agli arresti domiciliari. V. - All'odierna udienza camerale, alla quale il pubblico ministero non e' comparso, il difensore dell'appellante ha illustrato i motivi di appello, deducendo che il Ciampi - agli arresti domiciliari da circa un anno - ha voglia e desiderio di svolgere dignitosamente un lavoro, onde provvedere in proprio alle sue esigenze di vita e non "essere di peso" ai propri congiunti. Concludeva per l'accoglimento dell'appello. VI. - Il Tribunale si e' riservato la decisione. D i r i t t o I. - La questione di legittimita' costituzionale. La questione sottoposta all'esame del collegio concerne l'applicazione del terzo comma dell'art. 284 c.p.p., il quale stabilisce che se "l'imputato [agli arresti domiciliari] non puo' altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita, ovvero versa in situazione di assoluta indigenza, il giudice puo' autorizzarlo ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto per il tempo strettamente necessario per provvedere alle suddette esigenze, ovvero per esercitare una attivita' lavorativa". Ritiene il Tribunale di dover sollevare d'ufficio questione di legittimita' costituzionale, in parte qua, della norma predetta, per contrasto con gli articoli 1 primo comma, 2, 3, 4, 13 secondo comma, 27, terzo comma e 35 della Costituzione, laddove prevede che il giudice possa effettuare il giudizio sull'opportunita' di concedere al detenuto agli arresti domiciliari l'autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione per lo svolgimento di un'attivita' lavorativa soltanto qualora "non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita", ovvero "versi in situazione di assoluta indigenza". II. - La rilevanza della questione. Il Tribunale ritiene rilevante la dedotta questione, atteso che, nel caso di specie, l'appellante risulta carente sia del requisito della "assoluta indigenza", sia di quello dell'"impossibilita' di poter provvedere alle indispensabili esigenze di vita", cioe' di entrambi i requisiti soggettivi imposti dalla norma sospettata, in parte qua, di illegittimita' costituzionale, onde al collegio risulta precluso l'invocato giudizio di compatibilita' tra l'autorizzazione al lavoro e le esigenze di tutela sociale. III. - La non manifesta infondatezza della questione. Il terzo comma dell'art. 284 c.p.p. si presenta come puntuale esplicazione del principio generale sancito dall'art. 277 c.p.p., secondo cui "le modalita' di esecuzione delle misure devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta, il cui esercizio non sia incompatibile con le esigenze cautelari del caso concreto", onde la norma qui parzialmente denunciata di incostituzionalita' rivela inequivocabilmente sia la basilare linea di tendenza del sistema cautelare, volto a perseguire un equilibrato bilanciamento dei contrapposti interessi coinvolti dal provvedimento coercitivo, sia lo specifico e delicato compito, affidato al giudice, di realizzare - in ciascuna fattispecie - il contemperamento di detti interessi mediante la scelta di modalita' attuative del regime cautelare che evitino o contengano al minimo quei sacrifici dei diritti fondamentali della persona - e, in primo luogo, della liberta' personale, che rappresenta la premessa di tutti gli altri diritti - che non siano imposti dall'assoluta necessita' di proteggere le esigenze cautelari giustificative della misura stessa. Come noto, secondo l'attuale ordinamento penitenziario (art. 20 legge 26 luglio 1975 n. 354) il lavoro nel caso di detenzione carceraria e' "obbligatorio" e con finalita' non produttive ne' afflittive, bensi' di natura rieducativa. Il detenuto in carcere, espiata parte della pena, puo' chiedere all'autorita' penitenziaria di essere ammesso a lavorare all'esterno, come dipendente o lavoratore autonomo, nonche' di frequentare dei corsi di formazione professionali, attraverso le misure alternative previste (art. 21 legge n. 354/1975; semiliberta', affidamento in prova al servizio sociale). La direzione penitenziaria ammette il detenuto al lavoro all'esterno emanando un provvedimento amministrativo che deve essere approvato da apposito decreto del magistrato di sorveglianza. Detti provvedimenti non sono assoggettati ne' al parametro dell'"assoluta indigenza", ne' a quello dell'"impossibilita' di provvedere altrimenti alle proprie indispensabili esigenze di vita", bensi' esclusivamente a quelli rieducativi (art. 27, terzo comma Cost.), nel rispetto delle esigenze di tutela sociale. Ancora deve rilevarsi che gli articoli 47-ter, 47-quater e 47-quinquies della legge 26 luglio 1975 n. 354, che disciplinano la detenzione domiciliare del condannato, diversamente dal terzo comma dell'art. 284 cod. proc. pen., non prevedono che, per poter richiedere l'autorizzazione a svolgere un'attivita' di lavoro esterna, il condannato in detenzione domiciliare debba trovarsi in stato di "assoluta indigenza", ovvero nell'"impossibilita' di provvedere altrimenti alle proprie indispensabili esigenze di vita". Svela, dunque, tutta la sua irragionevolezza un impianto normativo che, mentre per il rilascio dell'autorizzazione del lavoro all'esterno dell'istituto penitenziario da parte del detenuto ristretto in carcere, ovvero del condannato in stato di detenzione domiciliare, non richiede ne' lo stato di "assoluta indigenza", ne' quello dell'"impossibilita' di provvedere altrimenti alle proprie indispensabili esigenze di vita", pretende poi la preliminare sussistenza dei predetti parametri soggettivi allorquando la medesima autorizzazione debba essere rilasciata in favore del detenuto, in stato di custodia cautelare, ristretto agli arresti domiciliari: il quale e' istituzionalmente ritenuto socialmente meno pericoloso, cosi' trattando - con manifesta irragionevolezza - con maggiore rigore afflittivo una situazione di minore pericolosita' sociale e, viceversa, con minore rigore afflittivo una situazione di maggiore pericolosita' sociale. Ad ulteriore riprova della denunziata irragionevolezza, e' sufficiente considerare che, mentre da un lato l'ordinamento conferisce alla restrizione della liberta' personale una vera e propria funzione rieducativa, nel cui ambito lo svolgimento dell'attivita' di lavoro assume un ruolo centrale per l'effetto risocializzante della pena, dall'altro opera un'ingiustificata compressione del diritto al lavoro proprio in pregiudizio di quei detenuti che, avendo manifestato minore pericolosita' sociale, sono stati collocati agli arresti domiciliari, consentendo a questi ultimi di poter ottenere un giudizio di compatibilita' tra le esigenze di tutela sociale e l'invocata autorizzazione a recarsi al lavoro (quindi, per "rieducarsi"), soltanto qualora essi si trovino nella "impossibilita' di poter provvedere alle indispensabili esigenze di vita", ovvero versino in condizioni di "assoluta indigenza", cioe' in ipotesi del tutto eccezionali, marginali e residuali, svincolate dai parametri costituzionali sulla funzione risocializzante della detenzione, cosi' rendendo del tutto eventuale e casuale la possibilita' che il giudice rilasci - in tali casi - l'autorizzazione al lavoro. IV. - Contrasto con gli articoli 1, 2, 3, 13 e 27, terzo comma della Costituzione. Come gia' ribadito dalla Corte costituzionale, "la finalita' rieducativa e' assegnata dalla Costituzione ad ogni pena e, dunque, anche alle misure cautelari" (Corte cost., sent. n. 173 del 5 giugno 1997), di guisa che anche la custodia cautelare deve uniformarsi al principio, sancito dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione, che "le pene devono tendere alla rieducazione" e che "la restrizione della liberta' personale" deve trovare il suo fondamento in un "atto motivato dell'autorita' giudiziaria, nei soli casi e modi previsti dalla legge" (art. 13, primo comma, Cost.). In tale prospettiva, e' di tutta evidenza che, secondo la stessa ratio della norma in esame, nel concedere o negare l'autorizzazione ex art. 284, terzo comma c.p.p., il giudice e' chiamato a compiere una valutazione nel senso delineato dall'art. 277 cod. proc. pen., provvedendo, quindi, alla ponderazione della compatibilita' del maggior ambito di liberta' indispensabile allo svolgimento di attivita' lavorativa con le concrete esigenze cautelari, alla luce della regola generale di adeguatezza e proporzionalita' sancita dall'art. 275 cod. proc. pen. Infatti, ad avviso di questo giudice remittente, la situazione prefigurata dal terzo comma dell'art. 284 cod. proc. pen. e' perfettamente riconducibile nel quadro normativo delineato dal secondo comma dell'art. 299 cod. proc. pen., per l'inconfutabile ragione che l'autorizzazione a lasciare il luogo di detenzione domiciliare per lo svolgimento di attivita' lavorativa non e' altro che un provvedimento che rende meno gravose le modalita' di applicazione della misura degli arresti domiciliari, sulla base di una valutazione di compatibilita' dell'esercizio di un diritto fondamentale della persona con la tutela delle esigenze cautelari, allo stesso modo in cui la revoca di detta autorizzazione ha la medesima impronta funzionale dei provvedimenti adottabili, ai sensi del quarto comma dell'art. 299 c.p.p., nell'ipotesi di aggravamento delle menzionate esigenze, e non certo di un aggravamento, o miglioramento, delle condizioni patrimoniali dell'indagato che si trovi nello stato di arresti domiciliari. Il coordinamento instaurabile fra il terzo comma dell'art. 284 e l'art. 299 c.p.p. apporta un decisivo contributo per un'esauriente ricostruzione della normativa contenuta nella prima disposizione, dato che non solo consente un appropriato inquadramento sistematico della natura del potere di cui e' investito il giudice, ma permette, nel contempo, di individuare le forme applicabili al procedimento incidentale, avente ad oggetto la richiesta di autorizzazione, sul piano dei poteri di iniziativa delle parti, dei modi nei quali si articola il contraddittorio ed, infine, della stessa impugnabilita' del provvedimento, non essendosi mai dubitato, a quest'ultimo riguardo, che le pronunce emesse a norma dell'art. 299 c.p.p. costituiscono "ordinanze in materia di misure cautelari personali" ai sensi e per gli effetti dell'art. 310, comma 1, c.p.p. e che il pubblico ministero e' legittimato a proporre appello contro le decisioni che modificano il contenuto della misura, determinandone modalita' attuative meno gravose, alla stessa maniera in cui l'imputato o l'indagato e' legittimato ad appellare le ordinanze con le quali sia stata delegata l'applicazione di condizioni che comportano una compressione meno intensa della liberta' personale. Sul punto specifico, le sezioni unite penali della Corte suprema, nel risolvere il contrasto di giurisprudenza sull'ammissibilita' dell'impugnazione delle ordinanze relative all'autorizzazione ad allontanarsi dal luogo di detenzione domiciliare per l'espletamento di attivita' lavorativa, hanno affermato che "i provvedimenti emessi ai sensi dell'art. 284, terzo comma, cod. proc. pen., che regolano le modalita' di attuazione degli arresti domiciliari relativamente alla facolta' dell'indagato di allontanarsi dal luogo di custodia, contribuiscono ad inasprire o ad attenuare il grado di afflittivita' della misura cautelare e devono pertanto essere ricompresi nella categoria dei provvedimenti sulla liberta' personale; ne consegue che ad essi si applicano le regole sull'impugnazione dettate dall'art. 310 cod. proc. pen., che prevede, in proposito, un sindacato di secondo grado esteso anche nel merito" (Cass. Pen., SS. UU. n. 24, CC. 3 dicembre 1996, dep. 21 gennaio 1997, ric. P.M. in proc. Lombardi; Ced. 206465, edita in Cassazione Penale, 1997, fasc. 5, pag. 1324). Conseguentemente, posto che anche in stato di custodia cautelare l'ordinamento si prefigge il compito, attraverso la detenzione, non soltanto di salvaguardare le esigenze di tutela sociale, ma anche di contribuire alla rieducazione dell'indagato, appare irragionevole (allorquando le esigenze cautelari si siano affievolite) dapprima porre un indagato od un imputato agli arresti domiciliari e poi costringerlo a dover "vegetare" per anni, consentendogli di poter svolgere un'attivita' lavorativa, anch'essa tendente - per definizione - alla risocializzazione del detenuto, esclusivamente allorquando lo stesso "non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita", ovvero qualora "versi in situazione di assoluta indigenza". Tale irragionevole preclusione impedisce, infatti, non solo alla norma di produrre gli effetti per i quali e' stata concepita, ma soprattutto al Tribunale di poter valutare, sotto il profilo del merito, l'adeguatezza dell'invocata autorizzazione al lavoro, al fine della salvaguardia delle esigenze di tutela sociale, nonche' della sua finalita' rieducativa, dovendo preliminarmente arrestarsi l'esame dei motivi di gravame, secondo quanto statuito dalla norma parzialmente denunciata di incostituzionalita', all'assenza - sussistente nel caso di specie - delle predette condizioni soggettive, con consequenziale declaratoria di inammissibilita' dell'istanza. Pertanto, con la preclusione qui sospettata di incostituzionalita', scoordinata rispetto ai principi ispiratori della norma stessa, il giudice del riesame risulta spogliato della sua funzione "cautelare", dovendosi limitare a ratificare l'insussistenza dei presupposti soggettivi di "assoluta indigenza", ovvero di incapacita' di "provvedere alle indispensabili esigenze di vita", richiesti dal terzo comma dell'art. 284 c.p.p. Tale limitazione appare ancora piu' irragionevole ove si consideri il suo mancato coordinamento con la disposizione del secondo comma dell'art. 299 c.p.p., che, in caso di attenuazione delle esigenze cautelari o del venir meno della relazione di proporzionalita', impone al giudice di provvedere alla modifica - in melius - della misura, oppure di disporne l'applicazione "con modalita' meno gravose", prescindendo da situazioni patrimoniali (assoluta indigenza, ovvero incapacita' di provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita), di certo non imputabili al detenuto, che nulla hanno a che vedere sia con la graduazione e/o le modalita' di applicazione delle misure cautelari, sia con le esigenze di tutela sociale. Il predetto principio, trasfuso anche nei commi 4 e 4-bis dello stesso art. 299 c.p.p., costituisce diretta espressione dei canoni di proporzionalita' e di adeguatezza, ai quali e' conformata la disciplina delle misure cautelari personali, rappresentando un corollario della natura strumentale e provvisoria delle stesse, implicando la necessita' della permanente verifica della effettiva inevitabilita' - sia nell'an che nel quantum - delle limitazioni della liberta' personale, in modo da garantire che esse trovino reale e costante base giustificativa, per tutta la loro durata, esclusivamente nelle concrete esigenze, non diversamente fronteggiabili, che integrano il periculum libertatis. In buona sostanza, l'irragionevolezza della norma denunciata, in parte qua di incostituzionalita', sta nel considerare come eccezionale ed eventuale quel giudizio di compatibilita' tra l'esercizio del diritto al lavoro (sul quale e' fondata la Repubblica italiana - art. 1 Cost.) e le esigenze di tutela sociale, impedendo al giudice cautelare di poter valutare nel merito i presupposti dell'invocata autorizzazione, ivi compresa la personalita' del detenuto, del suo datore di lavoro in relazione anche al tipo, orari e modalita' dell'attivita' da svolgersi, nel caso in cui il "detenuto domiciliare" non versi in condizioni di "assoluta indigenza", ovvero non sia nell'incapacita' di "provvedere alle indispensabili esigenze di vita". Ne discende altro profilo di irragionevolezza, posto che nello stato di detenzione in carcere la privazione del diritto al lavoro e' vista come eccezionale conseguenza di una situazione di peculiare pericolosita' sociale, tale da imporre l'isolamento diurno, ovvero l'allontanamento dalle attivita' sociali, mentre una volta che l'ordinamento ha riconosciuto la minore pericolosita' sociale del detenuto, collocandolo agli arresti domiciliari, gli impone di "vegetare", senza piu' occuparsi della sua risocializzazione, che - come abbiamo appena rilevato - costituisce - viceversa - la funzione tipica anche della custodia cautelare, voluta dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione. Inoltre, con manifesta irragionevolezza (art. 3 Cost.), in violazione dei predetti principi costituzionali, il maggiore o minore inasprimento della misura cautelare degli arresti domiciliari risulta affidato, in via preliminare, ad una (aleatoria) condizione soggettiva patrimoniale del detenuto, cosi' determinandosi una maggiore o minore severita' della custodia cautelare, con l'ingiustificato sacrificio di un diritto costituzionale (art. 1 Cost.), svincolato sia dalla funzione rieducativa della pena (sancita dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione), sia dall'adozione di un motivato provvedimento dell'autorita' giudiziaria (sancita dal secondo comma dell'art. 13 Cost.), essendo imposto al giudice di dichiarare inammissibile, in via preliminare, la richiesta di autorizzazione a recarsi al lavoro del detenuto agli arresti domiciliari per l'assenza di una condizione soggettiva patrimoniale, senza poter proprio valutare il merito della richiesta stessa che, viceversa, meriterebbe di essere esaminata esclusivamente sotto il profilo della sua compatibilita' con le esigenze di tutela sociale, alla stregua della pericolosita' del detenuto. Non richiede, in buona sostanza, questo giudice remittente un'indiscriminata possibilita' per tutti i detenuti agli arresti domiciliari di poter svolgere un'attivita' di lavoro, bensi' che l'ordinamento consenta al giudice cautelare di valutare, caso per caso, se concedere o meno al "detenuto domiciliare" l'autorizzazione a recarsi al lavoro esclusivamente sulla base di parametri quali la personalita' del detenuto, del suo datore di lavoro in relazione anche al tipo, orari e modalita' dell'attivita' da svolgersi, e non certo della "assoluta indigenza", ovvero dell'"incapacita' di provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita". V. - Contrasto con gli artt. 1, 2, 3, 4, 13 e 35 Cost. Nella ricordata sentenza (Cass. Pen., SS.UU., n. 24, CC. 3 dicembre 1996, dep. 21 gennaio 1997, ric. P.M. in proc. Lombardi, Ced. 206465, edita in Cassazione Penale, 1997, fasc. 5. pag. 1324) le sezioni unite penali hanno anche esplicitamente affermato che il terzo comma dell'art. 284 cod. proc. pen. "deve contemperare opposti valori, permettendo il sacrificio di un diritto fondamentale, quale' indubbiamente il diritto al lavoro (articoli 1, 2, 4 e 35 Cost.) negli stretti e rigorosi limiti nei quali la degradazione giuridica di tale posizione soggettiva risulti inevitabile ai fini della tutela delle inderogabili esigenze prefigurate dall'art. 274 c.p.p.". Cio' posto, la situazione di carattere soggettivo patrimoniale da cui la norma denunziata fa preliminarmente discendere la preclusione, per il giudice, di valutare se concedere o meno l'autorizzazione al detenuto in stato di detenzione domiciliare a svolgere un'attivita' lavorativa, impedisce di poter contemperare gli opposti valori, determinando un irragionevole sacrificio della dignita' umana e professionale, nonche' del diritto al lavoro (tutelati dagli artt. 1 primo comma, 2, 3, 4 e 35 Cost.), introducendo una disparita' di trattamento fondata sulle sole condizioni economiche del detenuto; disparita' gia' dichiarata costituzionalmente illegittima (sia pure in relazione al diverso profilo dell'automatica conversione della sanzione pecuniaria in pena detentiva), con la sentenza della Corte costituzionale n. 131 del 16 novembre 1979. La citata disparita' vulnera - ad avviso di questo giudice remittente - non solo i principi di ragionevolezza e di uguaglianza tutelati dall'art. 3 Cost., ma anche gli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost., per l'irragionevole sacrificio del diritto al lavoro determinato non da esigenze di tutela sociale, bensi' da una (aleatoria) soggettiva situazione patrimoniale del cittadino in stato di detenzione domiciliare. Gia' la Corte costituzionale ha ritenuto costituzionalmente illegittima l'introduzione di preclusioni "all'azione giudiziaria qualora non giustificate da esigenze di ordine generale o da superiori finalita' di giustizia, fermo restando che, pur nel concorso di tali circostanze, il legislatore deve contenere l'onere nella misura meno gravosa possibile, non solo con riferimento all'esclusione della tutela giurisdizionale, soggettiva e oggettiva, ma anche a qualsiasi limitazione che ne renda impossibile o anche difficile l'esercizio" (Corte costituzionale sent. n. 233 del 26 giugno 1996). Inoltre, in riferimento alla natura ed alle peculiari connotazioni di una simile valutazione, risulta vulnerato (anche) il principio dell'obbligo della motivazione, corrispondente ad uno specifico profilo della riserva di giurisdizione ex art. 13 Cost., dovendo il Tribunale rendere obbligatoriamente piu' gravose le modalita' di espiazione della detenzione domiciliare limitandosi a certificare, in via preliminare, con una funzione "notarile", quella che costituisce una situazione quasi fisiologica per il detenuto agli arresti domiciliari: l'assenza del requisito soggettivo dell'assoluta indigenza, ovvero dell'impossibilita' di provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita. Viceversa, il secondo comma dell'art. 13 Cost. sancisce (anche) che la (maggiore o minore) limitazione della liberta' personale del detenuto deve essere subordinata esclusivamente ad un provvedimento motivato dell'autorita' giudiziaria, e non gia' ad una diversa (soggettiva ed aleatoria) situazione patrimoniale del detenuto stesso. In altri termini - nell'attuale denunziato impianto normativo - in assenza dei requisiti soggettivi indicati nel terzo comma dell'art. 284 cod. proc. pen., al detenuto agli arresti domiciliari e' irragionevolmente negato il diritto di potersi rivolgere al giudice per ottenere una pronuncia di merito in ordine alla legittimita' o meno della maggiore severita' della misura cautelare domiciliare scaturente dalla concessione ovvero dal diniego dell'autorizzazione ad allontanarsi per svolgere attivita' lavorativa, potendo il giudice, soltanto dopo la positiva preliminare verifica della sussistenza di una delle piu' volte richiamate situazioni soggettive, dichiarare ammissibile il giudizio, destinato a sfociare in un provvedimento (impugnabile) che deve dare conto delle precise ragioni che lo hanno indotto ad ampliare o, viceversa, a mantenere inalterata la residua sfera di liberta' personale del detenuto in stato di detenzione domiciliare.
P. Q. M. Visti gli artt. 134 della Costituzione, 1 della legge costituzionale 9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale del terzo comma dell'art. 284 cod. proc. pen. per contrasto con gli articoli 1, 2, 3, 4, 13, secondo comma, 27, terzo comma e 35 della Costituzione, nella parte in cui prevede che il giudice possa effettuare il giudizio sull'opportunita' di concedere al detenuto agli arresti domiciliari l'autorizzazione ad assentarsi dal luogo di detenzione per lo svolgimento di un'attivita' lavorativa soltanto qualora il detenuto "non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili esigenze di vita", ovvero "versi in situazione di assoluta indigenza". Sospende il presente giudizio; Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata all'imputato Ciampi Luigi, al difensore avv. Vittorio Fucci, al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Cosi' deciso in Napoli, il 19 novembre 2001 Il Presidente: Galli Il giudice estensore: Di Salvo 02C0483