N. 259 ORDINANZA (Atto di promovimento) 8 gennaio 2002

Ordinanza  emessa  l'8  gennaio  2002  dal tribunale - Sezione per il
riesame, di Napoli nel procedimento penale a carico di Ciampi Luigi

Misure cautelari - Arresti domiciliari - Autorizzazione ad assentarsi
  dal  luogo  di  detenzione  per  lo  svolgimento  di  una attivita'
  lavorativa  - Possibilita' per il giudice di effettuare il giudizio
  sull'opportunita' di concedere tale autorizzazione soltanto qualora
  il detenuto non possa altrimenti provvedere alle sue indispensabili
  esigenze di vita ovvero versi in situazione di assoluta indigenza -
  Irragionevolezza  a  fronte  del  diverso  regime  previsto  per il
  rilascio dell'autorizzazione del lavoro all'esterno per il detenuto
  ristretto  in  carcere  o  per il condannato in stato di detenzione
  domiciliare  - Violazione del principio della finalita' rieducativa
  della  pena  -  Lesione  del  diritto  al lavoro - Contrasto con il
  principio  di  obbligatorieta'  della motivazione dei provvedimenti
  giurisdizionali.
- Codice di procedura penale, art. 284, comma 3.
- Costituzione, artt. 1, 2, 3, 4, 13, comma secondo, 27, comma terzo,
  e 35.
(GU n.22 del 5-6-2002 )
                            IL TRIBUNALE

    Riunito  in  camera  di  consiglio  ha  pronunziato  la  seguente
ordinanza sull'appello proposto da Ciampi Luigi, detenuto in stato di
custodia  cautelare  agli  arresti  domiciliari,  avverso l'ordinanza
emessa  in  data  11 ottobre  2001 dal Tribunale di Benevento, con la
quale  veniva rigettata l'istanza di assentarsi per l'espletamento di
attivita'   lavorativa;   a   scioglimento  della  riserva  formulata
all'udienza camerale del 19 novembre 2001.

                              F a t t o

    I. - Con istanza in data 8 ottobre 2001 Ciampi Luigi, detenuto in
stato  di  custodia  cautelare  agli arresti domiciliari, a mezzo del
proprio difensore di fiducia, richiedeva al Tribunale di Benevento la
concessione   del  permesso  per  recarsi  in  Telese  Terme,  presso
l'esercizio  commerciale  di  Ciampi Giovanna, per prestare attivita'
lavorativa dalle ore 8,30 alle ore 13, dal martedi' al sabato.
    II.  -  Con  ordinanza  in  data  11 ottobre  2001,  acquisito il
contrario  parere  del  pubblico ministero, il Tribunale di Benevento
rigettava l'istanza.
    III. - Osservava il Tribunale che "non risulta documentato che il
Ciampi  non  possa  altrimenti  provvedere  alle  sue  indispensabili
esigenze  di  vita,  ovvero  che  versi  in  situazione  di  assoluta
indigenza"  e  che  "l'attivita'  lavorativa dovrebbe essere prestata
presso  una stretta congiunta (peraltro indicata anche come testimone
a  discarico), la quale verosimilmente e' di sostegno al richiedente,
anche  a prescindere dalla prestazione di collaborazione", precisando
"che l'eventuale accoglimento dell'istanza consentirebbe al Ciampi di
spostarsi quotidianamente in un comune diverso da quello di residenza
e di interesse turistico, rendendo possibili contatti con il pubblico
non  compatibili  con  le  esigenze  cautelari alla base della misura
applicata".
    IV.  - Avverso la predetta ordinanza il difensore di Ciampi Luigi
ha  proposto  tempestivo  e  rituale  appello,  ex  art. 310  c.p.p.,
deducendo che:
        il  Ciampi,  ristretto  agli  arresti domiciliari da circa un
anno, non ha mai violato alcuno degli obblighi ne' delle prescrizioni
cui e' stato sottoposto;
        e'  incongruo  ritenere  che  la  cittadina  di  Telese Terme
(comprendente non piu' di 6.000 abitanti) possa essere considerata un
"centro   turistico"   al   punto   da  sconsigliare  la  concessione
dell'invocato permesso di lavoro;
        Ciampi  Giovanna,  sorella dell'appellante, avendo necessita'
di  assumere  un  commesso  presso  il proprio esercizio commerciale,
aveva  ritenuto  di  offrire il posto di lavoro al fratello piuttosto
che  ad un estraneo, non potendo verosimilmente piu' assumere l'onere
di essere di sostegno al congiunto detenuto agli arresti domiciliari.
    V.  -  All'odierna  udienza  camerale,  alla  quale  il  pubblico
ministero non e' comparso, il difensore dell'appellante ha illustrato
i  motivi  di  appello,  deducendo  che  il  Ciampi  -  agli  arresti
domiciliari  da  circa  un  anno  - ha voglia e desiderio di svolgere
dignitosamente  un  lavoro,  onde  provvedere  in  proprio  alle  sue
esigenze  di  vita  e  non  "essere  di  peso"  ai  propri congiunti.
Concludeva per l'accoglimento dell'appello.
    VI. - Il Tribunale si e' riservato la decisione.

                            D i r i t t o

    I. - La questione di legittimita' costituzionale.
    La   questione   sottoposta   all'esame   del  collegio  concerne
l'applicazione  del  terzo  comma  dell'art.  284  c.p.p.,  il  quale
stabilisce  che  se  "l'imputato  [agli arresti domiciliari] non puo'
altrimenti  provvedere  alle  sue  indispensabili  esigenze  di vita,
ovvero  versa  in  situazione  di assoluta indigenza, il giudice puo'
autorizzarlo  ad  assentarsi  nel  corso  della giornata dal luogo di
arresto  per  il  tempo  strettamente  necessario per provvedere alle
suddette esigenze, ovvero per esercitare una attivita' lavorativa".
    Ritiene  il  Tribunale  di dover sollevare d'ufficio questione di
legittimita'  costituzionale, in parte qua, della norma predetta, per
contrasto  con gli articoli 1 primo comma, 2, 3, 4, 13 secondo comma,
27,  terzo  comma  e  35  della  Costituzione, laddove prevede che il
giudice  possa  effettuare il giudizio sull'opportunita' di concedere
al  detenuto  agli arresti domiciliari l'autorizzazione ad assentarsi
dal luogo di detenzione per lo svolgimento di un'attivita' lavorativa
soltanto   qualora   "non   possa   altrimenti  provvedere  alle  sue
indispensabili  esigenze  di  vita",  ovvero  "versi in situazione di
assoluta indigenza".
    II. - La rilevanza della questione.
    Il  Tribunale ritiene rilevante la dedotta questione, atteso che,
nel  caso  di  specie, l'appellante risulta carente sia del requisito
della  "assoluta  indigenza",  sia  di quello dell'"impossibilita' di
poter  provvedere  alle  indispensabili  esigenze  di vita", cioe' di
entrambi  i  requisiti  soggettivi imposti dalla norma sospettata, in
parte qua, di illegittimita' costituzionale, onde al collegio risulta
precluso  l'invocato  giudizio di compatibilita' tra l'autorizzazione
al lavoro e le esigenze di tutela sociale.
    III. - La non manifesta infondatezza della questione.
    Il  terzo  comma  dell'art.  284 c.p.p. si presenta come puntuale
esplicazione  del  principio  generale  sancito dall'art. 277 c.p.p.,
secondo   cui   "le  modalita'  di  esecuzione  delle  misure  devono
salvaguardare  i  diritti  della  persona  ad esse sottoposta, il cui
esercizio  non  sia  incompatibile con le esigenze cautelari del caso
concreto",   onde   la   norma   qui   parzialmente   denunciata   di
incostituzionalita'  rivela  inequivocabilmente sia la basilare linea
di  tendenza del sistema cautelare, volto a perseguire un equilibrato
bilanciamento  dei contrapposti interessi coinvolti dal provvedimento
coercitivo, sia lo specifico e delicato compito, affidato al giudice,
di realizzare - in ciascuna fattispecie - il contemperamento di detti
interessi  mediante  la  scelta  di  modalita'  attuative  del regime
cautelare  che  evitino  o  contengano  al  minimo quei sacrifici dei
diritti  fondamentali  della  persona  -  e,  in  primo  luogo, della
liberta'  personale,  che  rappresenta la premessa di tutti gli altri
diritti   -   che  non  siano  imposti  dall'assoluta  necessita'  di
proteggere le esigenze cautelari giustificative della misura stessa.
    Come  noto,  secondo l'attuale ordinamento penitenziario (art. 20
legge  26 luglio  1975  n. 354)  il  lavoro  nel  caso  di detenzione
carceraria  e'  "obbligatorio"  e  con  finalita'  non produttive ne'
afflittive, bensi' di natura rieducativa.
    Il  detenuto  in carcere, espiata parte della pena, puo' chiedere
all'autorita' penitenziaria di essere ammesso a lavorare all'esterno,
come  dipendente  o  lavoratore  autonomo, nonche' di frequentare dei
corsi  di  formazione professionali, attraverso le misure alternative
previste  (art. 21  legge  n. 354/1975;  semiliberta', affidamento in
prova al servizio sociale).
    La   direzione   penitenziaria  ammette  il  detenuto  al  lavoro
all'esterno  emanando un provvedimento amministrativo che deve essere
approvato  da  apposito decreto del magistrato di sorveglianza. Detti
provvedimenti  non  sono assoggettati ne' al parametro dell'"assoluta
indigenza",   ne'   a   quello   dell'"impossibilita'  di  provvedere
altrimenti  alle  proprie  indispensabili  esigenze  di vita", bensi'
esclusivamente a quelli rieducativi (art. 27, terzo comma Cost.), nel
rispetto delle esigenze di tutela sociale.
    Ancora  deve  rilevarsi  che  gli  articoli  47-ter,  47-quater e
47-quinquies  della  legge 26 luglio 1975 n. 354, che disciplinano la
detenzione  domiciliare  del condannato, diversamente dal terzo comma
dell'art. 284   cod.   proc.  pen.,  non  prevedono  che,  per  poter
richiedere   l'autorizzazione   a  svolgere  un'attivita'  di  lavoro
esterna,  il  condannato  in detenzione domiciliare debba trovarsi in
stato   di   "assoluta  indigenza",  ovvero  nell'"impossibilita'  di
provvedere altrimenti alle proprie indispensabili esigenze di vita".
    Svela,   dunque,   tutta  la  sua  irragionevolezza  un  impianto
normativo  che, mentre per il rilascio dell'autorizzazione del lavoro
all'esterno   dell'istituto   penitenziario  da  parte  del  detenuto
ristretto  in  carcere,  ovvero del condannato in stato di detenzione
domiciliare,  non  richiede ne' lo stato di "assoluta indigenza", ne'
quello  dell'"impossibilita'  di  provvedere  altrimenti alle proprie
indispensabili   esigenze  di  vita",  pretende  poi  la  preliminare
sussistenza dei predetti parametri soggettivi allorquando la medesima
autorizzazione  debba  essere  rilasciata  in favore del detenuto, in
stato  di  custodia cautelare, ristretto agli arresti domiciliari: il
quale  e'  istituzionalmente  ritenuto  socialmente  meno pericoloso,
cosi'  trattando  -  con  manifesta  irragionevolezza  - con maggiore
rigore  afflittivo  una situazione di minore pericolosita' sociale e,
viceversa,  con  minore  rigore afflittivo una situazione di maggiore
pericolosita' sociale.
    Ad   ulteriore  riprova  della  denunziata  irragionevolezza,  e'
sufficiente   considerare   che,  mentre  da  un  lato  l'ordinamento
conferisce  alla  restrizione  della  liberta'  personale  una vera e
propria   funzione   rieducativa,   nel  cui  ambito  lo  svolgimento
dell'attivita'  di  lavoro  assume  un  ruolo  centrale per l'effetto
risocializzante   della   pena,  dall'altro  opera  un'ingiustificata
compressione  del  diritto  al  lavoro proprio in pregiudizio di quei
detenuti  che,  avendo manifestato minore pericolosita' sociale, sono
stati collocati agli arresti domiciliari, consentendo a questi ultimi
di  poter  ottenere  un giudizio di compatibilita' tra le esigenze di
tutela  sociale  e  l'invocata  autorizzazione  a  recarsi  al lavoro
(quindi,  per  "rieducarsi"),  soltanto qualora essi si trovino nella
"impossibilita'  di  poter provvedere alle indispensabili esigenze di
vita", ovvero versino in condizioni di "assoluta indigenza", cioe' in
ipotesi  del tutto eccezionali, marginali e residuali, svincolate dai
parametri   costituzionali   sulla   funzione  risocializzante  della
detenzione,   cosi'   rendendo  del  tutto  eventuale  e  casuale  la
possibilita' che il giudice rilasci - in tali casi - l'autorizzazione
al lavoro.
    IV.  -  Contrasto  con gli articoli 1, 2, 3, 13 e 27, terzo comma
della Costituzione.
    Come  gia'  ribadito  dalla  Corte  costituzionale, "la finalita'
rieducativa  e'  assegnata dalla Costituzione ad ogni pena e, dunque,
anche  alle misure cautelari" (Corte cost., sent. n. 173 del 5 giugno
1997),  di  guisa che anche la custodia cautelare deve uniformarsi al
principio,  sancito  dal terzo comma dell'art. 27 della Costituzione,
che  "le pene devono tendere alla rieducazione" e che "la restrizione
della  liberta' personale" deve trovare il suo fondamento in un "atto
motivato  dell'autorita'  giudiziaria,  nei soli casi e modi previsti
dalla legge" (art. 13, primo comma, Cost.).
    In  tale prospettiva, e' di tutta evidenza che, secondo la stessa
ratio  della  norma in esame, nel concedere o negare l'autorizzazione
ex  art. 284,  terzo  comma c.p.p., il giudice e' chiamato a compiere
una  valutazione  nel  senso delineato dall'art. 277 cod. proc. pen.,
provvedendo,  quindi,  alla  ponderazione  della  compatibilita'  del
maggior   ambito  di  liberta'  indispensabile  allo  svolgimento  di
attivita'  lavorativa  con  le concrete esigenze cautelari, alla luce
della  regola  generale  di  adeguatezza  e  proporzionalita' sancita
dall'art. 275 cod. proc. pen.
    Infatti,  ad  avviso  di questo giudice remittente, la situazione
prefigurata   dal   terzo  comma  dell'art. 284  cod.  proc.  pen. e'
perfettamente   riconducibile  nel  quadro  normativo  delineato  dal
secondo  comma  dell'art. 299  cod.  proc.  pen., per l'inconfutabile
ragione  che  l'autorizzazione  a  lasciare  il  luogo  di detenzione
domiciliare  per  lo svolgimento di attivita' lavorativa non e' altro
che   un  provvedimento  che  rende  meno  gravose  le  modalita'  di
applicazione  della  misura  degli arresti domiciliari, sulla base di
una  valutazione  di  compatibilita'  dell'esercizio  di  un  diritto
fondamentale  della  persona  con la tutela delle esigenze cautelari,
allo  stesso  modo  in  cui  la  revoca di detta autorizzazione ha la
medesima  impronta  funzionale dei provvedimenti adottabili, ai sensi
del  quarto  comma dell'art. 299 c.p.p., nell'ipotesi di aggravamento
delle  menzionate  esigenze,  e  non  certo  di  un  aggravamento,  o
miglioramento,  delle  condizioni  patrimoniali  dell'indagato che si
trovi nello stato di arresti domiciliari.
    Il  coordinamento instaurabile fra il terzo comma dell'art. 284 e
l'art. 299  c.p.p.  apporta  un decisivo contributo per un'esauriente
ricostruzione  della  normativa  contenuta  nella prima disposizione,
dato  che  non solo consente un appropriato inquadramento sistematico
della  natura del potere di cui e' investito il giudice, ma permette,
nel  contempo,  di  individuare  le forme applicabili al procedimento
incidentale,  avente  ad  oggetto la richiesta di autorizzazione, sul
piano  dei  poteri  di  iniziativa delle parti, dei modi nei quali si
articola  il  contraddittorio ed, infine, della stessa impugnabilita'
del   provvedimento,  non  essendosi  mai  dubitato,  a  quest'ultimo
riguardo,  che  le  pronunce  emesse  a  norma  dell'art. 299  c.p.p.
costituiscono "ordinanze in materia di misure cautelari personali" ai
sensi  e  per  gli  effetti  dell'art. 310,  comma 1, c.p.p. e che il
pubblico  ministero  e'  legittimato  a  proporre  appello  contro le
decisioni  che  modificano  il contenuto della misura, determinandone
modalita'   attuative  meno  gravose,  alla  stessa  maniera  in  cui
l'imputato  o l'indagato e' legittimato ad appellare le ordinanze con
le   quali  sia  stata  delegata  l'applicazione  di  condizioni  che
comportano una compressione meno intensa della liberta' personale.
    Sul punto specifico, le sezioni unite penali della Corte suprema,
nel  risolvere  il  contrasto  di  giurisprudenza sull'ammissibilita'
dell'impugnazione  delle  ordinanze  relative  all'autorizzazione  ad
allontanarsi  dal  luogo di detenzione domiciliare per l'espletamento
di  attivita' lavorativa, hanno affermato che "i provvedimenti emessi
ai sensi dell'art. 284, terzo comma, cod. proc. pen., che regolano le
modalita'  di attuazione degli arresti domiciliari relativamente alla
facolta'   dell'indagato  di  allontanarsi  dal  luogo  di  custodia,
contribuiscono  ad inasprire o ad attenuare il grado di afflittivita'
della  misura  cautelare  e  devono  pertanto essere ricompresi nella
categoria dei provvedimenti sulla liberta' personale; ne consegue che
ad   essi   si   applicano   le   regole   sull'impugnazione  dettate
dall'art. 310   cod.  proc.  pen.,  che  prevede,  in  proposito,  un
sindacato  di secondo grado esteso anche nel merito" (Cass. Pen., SS.
UU.  n. 24,  CC.  3 dicembre 1996, dep. 21 gennaio 1997, ric. P.M. in
proc.  Lombardi; Ced. 206465, edita in Cassazione Penale, 1997, fasc.
5, pag. 1324).
    Conseguentemente,  posto che anche in stato di custodia cautelare
l'ordinamento  si  prefigge il compito, attraverso la detenzione, non
soltanto  di salvaguardare le esigenze di tutela sociale, ma anche di
contribuire  alla  rieducazione  dell'indagato,  appare irragionevole
(allorquando  le  esigenze  cautelari  si siano affievolite) dapprima
porre  un  indagato  od  un  imputato  agli arresti domiciliari e poi
costringerlo  a  dover  "vegetare"  per anni, consentendogli di poter
svolgere   un'attivita'   lavorativa,   anch'essa   tendente   -  per
definizione  -  alla  risocializzazione  del detenuto, esclusivamente
allorquando  lo  stesso  "non  possa  altrimenti  provvedere alle sue
indispensabili esigenze di vita", ovvero qualora "versi in situazione
di assoluta indigenza".
    Tale  irragionevole preclusione impedisce, infatti, non solo alla
norma  di  produrre  gli  effetti  per i quali e' stata concepita, ma
soprattutto  al  Tribunale  di  poter  valutare, sotto il profilo del
merito, l'adeguatezza dell'invocata autorizzazione al lavoro, al fine
della  salvaguardia  delle  esigenze di tutela sociale, nonche' della
sua finalita' rieducativa, dovendo preliminarmente arrestarsi l'esame
dei   motivi   di   gravame,  secondo  quanto  statuito  dalla  norma
parzialmente   denunciata   di   incostituzionalita',  all'assenza  -
sussistente   nel   caso   di  specie  -  delle  predette  condizioni
soggettive,   con  consequenziale  declaratoria  di  inammissibilita'
dell'istanza.
    Pertanto,     con    la    preclusione    qui    sospettata    di
incostituzionalita',  scoordinata  rispetto  ai  principi  ispiratori
della  norma  stessa,  il giudice del riesame risulta spogliato della
sua   funzione   "cautelare",   dovendosi   limitare   a   ratificare
l'insussistenza  dei  presupposti soggettivi di "assoluta indigenza",
ovvero  di incapacita' di "provvedere alle indispensabili esigenze di
vita",   richiesti   dal   terzo   comma  dell'art. 284  c.p.p.  Tale
limitazione  appare ancora piu' irragionevole ove si consideri il suo
mancato   coordinamento   con   la  disposizione  del  secondo  comma
dell'art. 299  c.p.p.,  che,  in  caso di attenuazione delle esigenze
cautelari  o  del  venir  meno  della  relazione di proporzionalita',
impone  al  giudice  di  provvedere alla modifica - in melius - della
misura,   oppure  di  disporne  l'applicazione  "con  modalita'  meno
gravose",   prescindendo   da   situazioni   patrimoniali   (assoluta
indigenza,    ovvero   incapacita'   di   provvedere   alle   proprie
indispensabili   esigenze  di  vita),  di  certo  non  imputabili  al
detenuto,  che nulla hanno a che vedere sia con la graduazione e/o le
modalita' di applicazione delle misure cautelari, sia con le esigenze
di tutela sociale.
    Il  predetto  principio, trasfuso anche nei commi 4 e 4-bis dello
stesso art. 299 c.p.p., costituisce diretta espressione dei canoni di
proporzionalita'   e  di  adeguatezza,  ai  quali  e'  conformata  la
disciplina   delle  misure  cautelari  personali,  rappresentando  un
corollario  della  natura  strumentale  e  provvisoria  delle stesse,
implicando  la  necessita'  della permanente verifica della effettiva
inevitabilita'  -  sia  nell'an  che  nel quantum - delle limitazioni
della liberta' personale, in modo da garantire che esse trovino reale
e   costante   base   giustificativa,   per  tutta  la  loro  durata,
esclusivamente    nelle    concrete    esigenze,   non   diversamente
fronteggiabili, che integrano il periculum libertatis.
    In  buona sostanza, l'irragionevolezza della norma denunciata, in
parte   qua   di   incostituzionalita',   sta  nel  considerare  come
eccezionale   ed   eventuale  quel  giudizio  di  compatibilita'  tra
l'esercizio del diritto al lavoro (sul quale e' fondata la Repubblica
italiana  -  art. 1 Cost.) e le esigenze di tutela sociale, impedendo
al  giudice  cautelare  di  poter  valutare  nel merito i presupposti
dell'invocata   autorizzazione,  ivi  compresa  la  personalita'  del
detenuto,  del suo datore di lavoro in relazione anche al tipo, orari
e modalita' dell'attivita' da svolgersi, nel caso in cui il "detenuto
domiciliare"  non versi in condizioni di "assoluta indigenza", ovvero
non  sia nell'incapacita' di "provvedere alle indispensabili esigenze
di vita".
    Ne  discende  altro  profilo di irragionevolezza, posto che nello
stato di detenzione in carcere la privazione del diritto al lavoro e'
vista  come  eccezionale  conseguenza  di una situazione di peculiare
pericolosita'  sociale,  tale  da imporre l'isolamento diurno, ovvero
l'allontanamento  dalle  attivita'  sociali,  mentre  una  volta  che
l'ordinamento  ha  riconosciuto  la  minore pericolosita' sociale del
detenuto,  collocandolo  agli  arresti  domiciliari,  gli  impone  di
"vegetare",  senza  piu' occuparsi della sua risocializzazione, che -
come  abbiamo appena rilevato - costituisce - viceversa - la funzione
tipica  anche  della  custodia  cautelare,  voluta  dal  terzo  comma
dell'art. 27 della Costituzione.
    Inoltre,   con  manifesta  irragionevolezza  (art. 3  Cost.),  in
violazione dei predetti principi costituzionali, il maggiore o minore
inasprimento della misura cautelare degli arresti domiciliari risulta
affidato,   in   via   preliminare,  ad  una  (aleatoria)  condizione
soggettiva   patrimoniale  del  detenuto,  cosi'  determinandosi  una
maggiore   o   minore   severita'   della   custodia  cautelare,  con
l'ingiustificato  sacrificio  di  un  diritto  costituzionale (art. 1
Cost.), svincolato sia dalla funzione rieducativa della pena (sancita
dal  terzo  comma dell'art. 27 della Costituzione), sia dall'adozione
di  un motivato provvedimento dell'autorita' giudiziaria (sancita dal
secondo  comma  dell'art.  13  Cost.),  essendo imposto al giudice di
dichiarare   inammissibile,  in  via  preliminare,  la  richiesta  di
autorizzazione   a  recarsi  al  lavoro  del  detenuto  agli  arresti
domiciliari  per l'assenza di una condizione soggettiva patrimoniale,
senza  poter  proprio  valutare il merito della richiesta stessa che,
viceversa,  meriterebbe  di  essere esaminata esclusivamente sotto il
profilo  della  sua compatibilita' con le esigenze di tutela sociale,
alla stregua della pericolosita' del detenuto.
    Non  richiede,  in  buona  sostanza,  questo  giudice  remittente
un'indiscriminata  possibilita'  per  tutti  i  detenuti agli arresti
domiciliari  di  poter  svolgere  un'attivita'  di lavoro, bensi' che
l'ordinamento  consenta  al  giudice  cautelare di valutare, caso per
caso,  se concedere o meno al "detenuto domiciliare" l'autorizzazione
a  recarsi  al lavoro esclusivamente sulla base di parametri quali la
personalita'  del  detenuto,  del  suo  datore di lavoro in relazione
anche  al  tipo, orari e modalita' dell'attivita' da svolgersi, e non
certo   della   "assoluta  indigenza",  ovvero  dell'"incapacita'  di
provvedere alle proprie indispensabili esigenze di vita".
    V. - Contrasto con gli artt. 1, 2, 3, 4, 13 e 35 Cost.
    Nella   ricordata   sentenza  (Cass.  Pen.,  SS.UU.,  n. 24,  CC.
3 dicembre  1996,  dep. 21 gennaio 1997, ric. P.M. in proc. Lombardi,
Ced. 206465, edita in Cassazione Penale, 1997, fasc. 5. pag. 1324) le
sezioni  unite  penali  hanno  anche  esplicitamente affermato che il
terzo  comma dell'art. 284 cod. proc. pen. "deve contemperare opposti
valori,  permettendo il sacrificio di un diritto fondamentale, quale'
indubbiamente  il  diritto  al  lavoro  (articoli 1, 2, 4 e 35 Cost.)
negli  stretti  e rigorosi limiti nei quali la degradazione giuridica
di tale posizione soggettiva risulti inevitabile ai fini della tutela
delle inderogabili esigenze prefigurate dall'art. 274 c.p.p.".
    Cio' posto, la situazione di carattere soggettivo patrimoniale da
cui la norma denunziata fa preliminarmente discendere la preclusione,
per  il  giudice, di valutare se concedere o meno l'autorizzazione al
detenuto  in  stato di detenzione domiciliare a svolgere un'attivita'
lavorativa,  impedisce  di  poter  contemperare  gli  opposti valori,
determinando  un  irragionevole  sacrificio  della  dignita'  umana e
professionale,  nonche' del diritto al lavoro (tutelati dagli artt. 1
primo  comma,  2,  3,  4  e 35 Cost.), introducendo una disparita' di
trattamento  fondata  sulle  sole condizioni economiche del detenuto;
disparita'  gia'  dichiarata costituzionalmente illegittima (sia pure
in  relazione  al  diverso  profilo dell'automatica conversione della
sanzione  pecuniaria  in pena detentiva), con la sentenza della Corte
costituzionale n. 131 del 16 novembre 1979.
    La  citata  disparita'  vulnera  -  ad  avviso  di questo giudice
remittente  -  non solo i principi di ragionevolezza e di uguaglianza
tutelati  dall'art. 3  Cost.,  ma anche gli artt. 1, 2, 4 e 35 Cost.,
per  l'irragionevole sacrificio del diritto al lavoro determinato non
da  esigenze  di tutela sociale, bensi' da una (aleatoria) soggettiva
situazione   patrimoniale   del  cittadino  in  stato  di  detenzione
domiciliare.
    Gia'  la  Corte  costituzionale  ha  ritenuto  costituzionalmente
illegittima  l'introduzione  di  preclusioni  "all'azione giudiziaria
qualora  non  giustificate  da  esigenze  di  ordine  generale  o  da
superiori  finalita'  di  giustizia,  fermo  restando  che,  pur  nel
concorso  di  tali circostanze, il legislatore deve contenere l'onere
nella  misura  meno  gravosa  possibile,  non  solo  con  riferimento
all'esclusione  della tutela giurisdizionale, soggettiva e oggettiva,
ma  anche  a  qualsiasi  limitazione che ne renda impossibile o anche
difficile   l'esercizio"   (Corte  costituzionale  sent.  n. 233  del
26 giugno 1996).
    Inoltre,   in   riferimento   alla   natura   ed  alle  peculiari
connotazioni  di una simile valutazione, risulta vulnerato (anche) il
principio  dell'obbligo  della  motivazione,  corrispondente  ad  uno
specifico  profilo  della  riserva di giurisdizione ex art. 13 Cost.,
dovendo  il  Tribunale  rendere  obbligatoriamente  piu'  gravose  le
modalita'  di  espiazione  della detenzione domiciliare limitandosi a
certificare,  in via preliminare, con una funzione "notarile", quella
che costituisce una situazione quasi fisiologica per il detenuto agli
arresti domiciliari: l'assenza del requisito soggettivo dell'assoluta
indigenza,   ovvero   dell'impossibilita'   di  provvedere  alle  sue
indispensabili esigenze di vita.
    Viceversa,  il  secondo comma dell'art. 13 Cost. sancisce (anche)
che  la  (maggiore o minore) limitazione della liberta' personale del
detenuto  deve  essere subordinata esclusivamente ad un provvedimento
motivato  dell'autorita'  giudiziaria,  e  non  gia'  ad  una diversa
(soggettiva   ed  aleatoria)  situazione  patrimoniale  del  detenuto
stesso.
    In  altri  termini - nell'attuale denunziato impianto normativo -
in   assenza  dei  requisiti  soggettivi  indicati  nel  terzo  comma
dell'art.  284  cod. proc. pen., al detenuto agli arresti domiciliari
e'  irragionevolmente  negato  il  diritto  di  potersi  rivolgere al
giudice   per  ottenere  una  pronuncia  di  merito  in  ordine  alla
legittimita'  o  meno della maggiore severita' della misura cautelare
domiciliare   scaturente   dalla   concessione   ovvero  dal  diniego
dell'autorizzazione    ad   allontanarsi   per   svolgere   attivita'
lavorativa, potendo il giudice, soltanto dopo la positiva preliminare
verifica  della  sussistenza  di  una  delle  piu'  volte  richiamate
situazioni  soggettive, dichiarare ammissibile il giudizio, destinato
a  sfociare  in  un  provvedimento  (impugnabile) che deve dare conto
delle  precise ragioni che lo hanno indotto ad ampliare o, viceversa,
a  mantenere  inalterata  la  residua sfera di liberta' personale del
detenuto in stato di detenzione domiciliare.
                              P. Q. M.
    Visti   gli   artt. 134   della   Costituzione,   1  della  legge
costituzionale  9 febbraio 1948, n. 1 e 23 della legge 11 marzo 1953,
n. 87;
    Solleva d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale del
terzo  comma  dell'art.  284  cod.  proc.  pen. per contrasto con gli
articoli 1,  2,  3,  4, 13, secondo comma, 27, terzo comma e 35 della
Costituzione,  nella  parte  in  cui  prevede  che  il  giudice possa
effettuare  il  giudizio  sull'opportunita'  di concedere al detenuto
agli  arresti domiciliari l'autorizzazione ad assentarsi dal luogo di
detenzione  per  lo  svolgimento  di un'attivita' lavorativa soltanto
qualora  il  detenuto  "non  possa  altrimenti  provvedere  alle  sue
indispensabili  esigenze  di  vita",  ovvero  "versi in situazione di
assoluta indigenza".
    Sospende il presente giudizio;
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina  che,  a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  all'imputato  Ciampi  Luigi,  al  difensore avv. Vittorio
Fucci, al procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Napoli,
nonche'  al Presidente del Consiglio dei ministri e sia comunicata ai
Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati.
    Cosi' deciso in Napoli, il 19 novembre 2001
                        Il Presidente: Galli
                   Il giudice estensore: Di Salvo
02C0483