N. 207 SENTENZA 20 - 23 maggio 2002

Giudizio per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.

Atto introduttivo del conflitto - Difetto di notificazione alla parte
  resistente  -  Eccepita  inammissibilita'  - Osservanza del termine
  stabilito  per  gli  adempimenti  prescritti  -  Ammissibilita' del
  ricorso.
- Legge   11   marzo  1953,  n. 87,  art.  37,  quarto  comma;  norme
  integrative  per  i giudizi davanti alla Corte costituzionale, art.
  26, terzo comma.
Parlamento  -  Immunita'  parlamentari  - Dichiarazioni asseritamente
  diffamatorie  rese  da  un  deputato  nel corso di una trasmissione
  televisiva  -  Giudizio  civile  per  il  risarcimento  del danno -
  Deliberazione  di  insindacabilita'  della Camera di appartenenza -
  Ricorso  del  Tribunale  di Roma, per conflitto di attribuzione tra
  poteri  dello  Stato  -  Difetto  di una sostanziale corrispondenza
  delle dichiarazioni rese dal parlamentare extra moenia con opinioni
  espresse  in  ambito  parlamentare - Accoglimento del ricorso - Non
  spettanza  alla  Camera  del  potere  di  dichiarare  nella  specie
  l'insindacabilita'  -  Annullamento conseguente della deliberazione
  impugnata.
- Deliberazione della Camera dei deputati 3 novembre 1998.
- Costituzione, art. 68, primo comma.
(GU n.21 del 29-5-2002 )
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori:
  Presidente: Massimo VARI;
  Giudici:  Riccardo  CHIEPPA,  Gustavo  ZAGREBELSKY,  Valerio ONIDA,
Carlo  MEZZANOTTE,  Guido  NEPPI  MODONA,  Piero  Alberto  CAPOTOSTI,
Annibale   MARINI,  Franco  BILE,  Giovanni  Maria  FLICK,  Francesco
AMIRANTE;
ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  per  conflitto  di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto  a  seguito della delibera del 3 novembre 1998 della Camera dei
deputati  relativa  alla  insindacabilita'  delle  opinioni  espresse
dall'on. Vittorio  Sgarbi  nei  confronti  dell'on. Massimo  D'Alema,
promosso  con  ricorso  del  Tribunale  di Roma - V sezione stralcio,
notificato   il   5 gennaio   2001,  depositato  in  cancelleria  l'8
successivo e iscritto al n. 1 del registro conflitti 2001.
    Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;
    Udito nell'udienza pubblica del 12 marzo 2002 il giudice relatore
Gustavo Zagrebelsky;
    Udito l'avvocato Sergio Panunzio per la Camera dei deputati.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con ricorso del 23 giugno-3 luglio 2000, depositato presso
la   Corte   costituzionale   il   successivo   31 luglio,  formulato
nell'ambito  di  un procedimento civile per risarcimento del danno da
dichiarazioni  diffamatorie promosso dal deputato Massimo D'Alema nei
confronti  del  deputato  Vittorio  Sgarbi,  il  Tribunale  di Roma V
sezione  stralcio  ha  sollevato conflitto di attribuzione tra poteri
dello Stato nei confronti della Camera dei deputati in relazione alla
delibera  dell'Assemblea  del  3 novembre 1998 (Doc. IV-ter n. 49/A),
secondo  la  quale  le  dichiarazioni  per  le  quali  e' pendente il
procedimento  civile  concernono  opinioni  espresse  dal  membro del
Parlamento   nell'esercizio   delle  sue  funzioni,  con  conseguente
insindacabilita',   a   norma   dell'art. 68,   primo   comma,  della
Costituzione.
    Come  riferisce  il  ricorso,  l'attore  nel  procedimento civile
lamenta  che  il  deputato  convenuto,  nel  corso della trasmissione
televisiva "Sgarbi quotidiani", irradiata in data 4 maggio 1993 dalla
rete  televisiva  Canale  5,  avrebbe  pronunciato nei suoi confronti
frasi   lesive   dell'onore   e   della  reputazione,  affermando  in
particolare:  "Un  altro pentito, comunque persona indagata, ha detto
di  aver  versato tangenti al secondo del Partito comunista, del PDS,
Massimo  D'Alema.  Allora  cominciamo  a stare attenti che questi che
urlano  hanno fatto esattamente lo stesso di quelli contro cui stanno
urlando".
    Cio'  premesso,  il  tribunale,  ricostruiti  la  finalita'  e il
contenuto   della   prerogativa  dell'insindacabilita',  richiama  la
giurisprudenza  della Corte (in particolare le sentenze n. 10 e n. 11
del   2000),   per   affermare  che  l'art. 68,  primo  comma,  della
Costituzione non si estende a tutti i comportamenti di chi sia membro
delle  Camere,  ma  solo  a  quelli  funzionali  all'esercizio  delle
attribuzioni proprie del potere legislativo.
    Il   discrimine  tra  i  giudizi  e  le  critiche  che  anche  il
parlamentare manifesta nel piu' esteso ambito dell'attivita' politica
-  per  i  quali non vale l'immunita' - e le opinioni coperte da tale
garanzia  sarebbe  costituito,  prosegue il ricorrente, dall'inerenza
delle   opinioni   all'esercizio  delle  funzioni  parlamentari,  non
potendosi  comunque  ricondurre  alla  funzione parlamentare l'intera
attivita' politica svolta dal membro del Parlamento.
    Nel  normale  svolgimento  della vita democratica e del dibattito
politico, le opinioni che il parlamentare esprime fuori dai compiti e
dalle  attivita'  propri  delle  assemblee - prosegue il ricorrente -
rappresentano  esercizio della liberta' di espressione comune a tutti
i   cittadini:   a  esse,  dunque,  non  potrebbe  estendersi,  senza
snaturarla, una immunita' che la Costituzione ha voluto, in deroga al
generale  principio  di  legalita'  e  giustiziabilita'  dei diritti,
riservare   alle  opinioni  espresse  nell'esercizio  delle  funzioni
parlamentari. Nel caso di specie, le affermazioni del deputato Sgarbi
sarebbero state rese, ad avviso del tribunale ricorrente, "da persona
che,  pur  essendo rivestita di incarichi di rappresentanza popolare,
non aveva nella veste indicata alcuna funzione politico-parlamentare"
e non potrebbero quindi essere ricomprese nell'ambito di applicazione
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.
    Il  ricorrente  chiede  pertanto che la menzionata delibera della
Camera,  in  quanto  non conforme all'ordinamento costituzionale, sia
annullata.
    2.  -  Il conflitto e' stato dichiarato ammissibile con ordinanza
n. 498 del 2000 di questa Corte.
    3. - Nel giudizio cosi' instaurato si e' costituita la Camera dei
deputati.
    Nell'atto    di   costituzione   si   deduce   in   primo   luogo
l'inammissibilita'   del   ricorso  "per  difetto  di  notificazione,
rilevabile  d'ufficio  dalla  Corte",  riservando  ad  una successiva
memoria un piu' approfondito esame di questo profilo.
    Nel  merito  del  conflitto  la  Camera deduce l'infondatezza del
ricorso  (a) alla luce del particolare "contesto parlamentare" in cui
sarebbero maturate le dichiarazioni rese dal deputato Sgarbi e (b) in
considerazione  del  nesso  funzionale  che collegherebbe le medesime
dichiarazioni alle funzioni parlamentari.
    La   difesa   della   Camera   sottolinea  innanzitutto  come  le
affermazioni  del  parlamentare,  rese  nel  corso della trasmissione
televisiva  "Sgarbi  quotidiani"  del 4 maggio 1993, traessero spunto
dalla  circostanza che pochi giorni prima l'on. Craxi era stato fatto
oggetto  di  invettive  e  lanci di monetine all'esterno dell'albergo
presso il quale alloggiava.
    Muovendo  da tale episodio di cronaca, il deputato Sgarbi - al di
la'   degli   "eccessi   verbali   connessi  alla  forma  polemica  e
paradossale"  adottata  nel  corso  della  trasmissione  - si sarebbe
limitato  a  rammentare  che  anche esponenti del PCI, e poi del PDS,
erano stati coinvolti nelle inchieste giudiziarie in corso, riferendo
specificamente  di alcuni episodi di corruzione e affermando inoltre,
a tale proposito, come un pentito avesse accusato il deputato D'Alema
di aver ricevuto tangenti; affermazioni, queste ultime, che ad avviso
della  difesa  della  Camera  si  sarebbero  inserite  nel piu' ampio
contesto di "una complessiva riflessione sulle indagini giudiziarie e
sui  fenomeni  di  corruzione e di malcostume politico che, in quegli
anni, segnavano il dibattito politico e parlamentare".
    Cio' premesso, la difesa della Camera reputa necessario enucleare
con  esattezza l'oggetto delle dichiarazioni rese dal deputato Sgarbi
nel  corso  della gia' citata trasmissione, non al fine di accertarne
l'eventuale   contenuto   offensivo   e   diffamatorio   -  verifica,
quest'ultima, di competenza del giudice ordinario -, ma per coglierne
il  nesso  funzionale  rispetto  a  numerosi  atti di esercizio della
funzione  parlamentare,  specie  di  sindacato  ispettivo,  cui anche
l'on. Sgarbi   aveva   partecipato.   Tale   oggetto   non   dovrebbe
individuarsi,  prosegue  la Camera, negli addebiti di corruzione che,
rivolti  da  un  pentito  alla  persona dell'on. D'Alema, il deputato
Sgarbi  si  era  limitato a riportare nel corso del proprio monologo,
con  una  affermazione  de relato che non postulava alcun giudizio di
valore  circa  la  verita'  sostanziale  di  tali dichiarazioni; esso
andrebbe  invece  individuato,  sempre a giudizio della Camera, nella
piu' ampia e complessiva riflessione sulle indagini giudiziarie e sui
fenomeni  di  corruzione  "che  avevano  coinvolto,  in  quegli anni,
esponenti di numerosi partiti politici, compreso il PCI e poi il PDS;
nonche'  sull'uso  politico  dei pentiti da parte di un settore della
magistratura,  asseritamente  vicino alle posizioni politiche di quel
partito";   il   coinvolgimento   del   PCI-PDS   nelle   vicende  di
"Tangentopoli"   costituirebbe   dunque  il  vero  "epicentro"  delle
considerazioni  dell'on. Sgarbi,  e  il riferimento della sua intensa
attivita' politico-parlamentare.
    Spogliate  della  loro  veste paradossale (caratteristica questa,
secondo  la  difesa  della  Camera,  ravvisabile  in  generale  negli
interventi  politici  del  parlamentare  convenuto),  le affermazioni
fatte  nel corso della gia' citata trasmissione televisiva, al di la'
della   mera  citazione  delle  parole  accusatorie  di  un  pentito,
rivelerebbero  il  loro "senso genuino", consistente in realta' da un
lato  nello  stigmatizzare  l'uso "politico" dei cosiddetti pentiti a
opera  di  una  parte  della magistratura, dall'altro nel ribadire il
coinvolgimento  anche  del  PCI-PDS  nelle vicende di "Tangentopoli";
argomenti    entrambi   posti   al   centro   della   sua   attivita'
politico-parlamentare.
    A  conferma  dell'impostazione  volutamente  eccessiva, sul piano
espressivo,  delle dichiarazioni del deputato Sgarbi, la difesa della
Camera   ricorda   come  nel  corso  di  quella  stessa  trasmissione
televisiva  il  parlamentare  avesse detto di avere chiesto il giorno
precedente  "che  venisse ucciso Craxi", perche' solo in tal modo - a
suo avviso - l'attenzione generale avrebbe potuto rivolgersi anche ad
esponenti di altri partiti coinvolti in episodi di corruzione.
    Cosi'  inquadrato  il  "contenuto  reale" delle dichiarazioni, la
difesa  della  Camera  fa  riferimento  a  diversi atti parlamentari,
prevalentemente di carattere ispettivo, sia precedenti che successivi
alle  dichiarazioni  in parola, i quali attesterebbero l'esistenza di
un  nesso  funzionale  tra  le  dichiarazioni  rese  nel  corso della
trasmissione  televisiva  del  4 maggio  1993  e il tenore degli atti
medesimi, taluni dei quali a firma anche dell'on. Sgarbi, atti da cui
si  evincerebbe l'interesse sia per la problematica dell'uso politico
dei  pentiti  sia  per il coinvolgimento del PCI-PDS nelle vicende di
"Tangentopoli".
    L'impegno  politico-parlamentare dell'on. Sgarbi su tali materie,
prima  delle  dichiarazioni del 4 maggio 1993, sarebbe in particolare
confermato (a) dalla risoluzione n. 6/00024 del 16 marzo 1993 firmata
anche  dal  deputato in questione e avente ad oggetto la richiesta di
un impegno comune di Parlamento e Governo per stabilire, tra l'altro,
una  nuova normativa in materia di finanziamento pubblico dei partiti
e l'obbligo, per i membri di tutte le assemblee elettive, nonche' per
i  componenti  dei loro nuclei familiari, di dimostrare, in ogni atto
commerciale  che  li riguardasse, la provenienza dei mezzi finanziari
utilizzati -, (b) dall'interrogazione n. 3/00937 del 28 aprile 1993 -
con cui si sollecitavano il Presidente del Consiglio dei ministri e i
ministri  dell'interno  e della giustizia a informare le Camere circa
le  iniziative  assunte  "per  far si' che il fenomeno del pentitismo
continui   a   fornire   efficaci   supporti   nella   lotta   contro
organizzazioni  criminali,  ma  non  si  presti  ad  essere gestito e
politicamente  utilizzato  in modo disinvolto per interessi di parte"
-,  e  (c) dalla dichiarazione di voto resa nella seduta della Camera
del  25 febbraio 1993, in riferimento a una risoluzione presentata da
altro   parlamentare,   in   cui   l'on. Sgarbi,   nel   contesto  di
considerazioni di carattere generale sulle vicende di "Tangentopoli",
osservava  che avvisi di garanzia al riguardo erano stati indirizzati
dalla   magistratura  a  rappresentanti  di  quasi  tutti  i  partiti
italiani, ivi compreso il PCI.
    La  difesa  della  Camera  ricorda quindi, alla luce di una ampia
disamina  della giurisprudenza costituzionale in materia di conflitti
tra  potere  giudiziario e Camere: (a) come sia il nesso funzionale a
costituire  il  discrimine tra l'area delle dichiarazioni ed opinioni
protette   dalla   insindacabilita'   e   le   altre   manifestazioni
dell'attivita'  genericamente politica dei parlamentari, non protette
dal  primo comma dell'art. 68 della Costituzione; (b) come tale nesso
consista  nell'identificabilita'  della  dichiarazione  stessa  quale
espressione  di  attivita'  parlamentare;  e  (c)  come  nel  caso di
dichiarazioni  rese  al  di fuori della sede parlamentare - anch'esse
potenzialmente  coperte  dalla  garanzia  fornita  dall'art. 68 della
Costituzione    -   sia   necessario   ravvisare   una   "sostanziale
corrispondenza  di significati" tra le dichiarazioni rese al di fuori
dell'esercizio  delle  attivita'  tipiche  svolte  in Parlamento e le
opinioni  gia' espresse nell'ambito di queste ultime (sentenze n. 321
e  n. 320  del 2000), non essendo da un lato necessaria una "puntuale
coincidenza  testuale" tra le diverse dichiarazioni poste a raffronto
(sentenza  n. 10 del 2000), ne' apparendo dall'altro lato sufficiente
"una  semplice comunanza di argomento" tra le stesse (sentenza n. 420
del 2000).
    Alla  stregua  di tali premesse, la difesa della Camera ribadisce
l'esistenza di una "sostanziale corrispondenza di significati" tra il
come  sopra  precisato  -  "contenuto reale" delle dichiarazioni rese
dall'on. Sgarbi   il   4 maggio   1993   e  le  precedenti  attivita'
parlamentari  tipiche poste in essere dal deputato, affermando a tale
proposito che "l'ambito della "politica parlamentare - cioe' l'ambito
della  comunicazione  politica  racchiuso  nel "campo applicativo del
diritto  parlamentare cui le dichiarazioni di un parlamentare debbono
essere  "immediatamente  collegabili per potere essere identificate e
qualificate  come espressioni di attivita' parlamentare ... come tali
insindacabili  -  non  si  esaurisce  soltanto  nei  puntuali atti di
esercizio  attivo  di  poteri del parlamentare, ma puo' ricomprendere
anche  l'intera  comunicazione  politico-parlamentare  di cui egli e'
stato partecipe: anche ascoltando, leggendo e valutando dichiarazioni
rese da altri parlamentari".
    Ricordato  infine  che dalla stessa giurisprudenza della Corte e'
ricavabile  una  presa  d'atto  della  profonda  trasformazione della
comunicazione politica che si e' avuta nella societa' (sentenza n. 11
del  2000),  con  il  logico corollario che "cio' che conta non e' il
mezzo  dell'espressione  dell'opinione,  ma  e'  l'opinione in se' e,
soprattutto,  il  suo  nesso con l'attivita' parlamentare", la difesa
della  Camera  ritiene  privo  di  pregio  l'argomento, formulato nel
ricorso del tribunale, secondo cui, essendo le dichiarazioni in esame
rese  da  persona  che,  pur rivestita di incarichi di rappresentanza
popolare,  non  aveva  nella  veste  di opinionista televisivo alcuna
funzione  politico-parlamentare,  le  medesime  non potrebbero essere
ricondotte  all'ambito di applicazione della prerogativa prevista dal
primo comma dell'art. 68 della Costituzione.
    4.  -  Con  una memoria depositata in prossimita' dell'udienza la
Camera  dei  deputati  ha  svolto ulteriori argomentazioni a sostegno
dell'inammissibilita' e dell'infondatezza del ricorso.
    In particolare, quanto alla inammissibilita' del ricorso, dedotta
nell'atto  di  costituzione "per difetto di notificazione", la difesa
della  Camera precisa di avere preso cognizione, successivamente alla
propria  costituzione in giudizio (19 dicembre 2000), "di circostanze
ulteriori  che  hanno  in  parte  modificato  i  presupposti  su  cui
l'eccezione  si  fondava". A tale proposito la Camera osserva che con
l'ordinanza  di  ammissibilita'  del  conflitto  (n. 498 del 2000) la
Corte  aveva assegnato al tribunale ricorrente un termine di sessanta
giorni,   a   far  data  dalla  comunicazione  dell'ordinanza  stessa
(comunicazione  avvenuta  il  17 novembre  2000), per la notifica del
ricorso  e dell'ordinanza di ammissibilita' alla Camera dei deputati.
Dopo   che   il  tribunale  ricorrente  aveva  inviato,  a  mezzo  di
raccomandata   con   ricevuta   di   ritorno,  una  comunicazione  di
cancelleria,  pervenuta  alla  Camera  il 30 novembre 2000, cui erano
allegate   sia   la  propria  ordinanza-ricorso  sia  l'ordinanza  di
ammissibilita'  della  Corte  costituzionale, la Camera dei deputati,
"nonostante   il  ricorso  del  Tribunale  ...  fosse  manifestamente
inammissibile",   aveva   provveduto,  "per  scrupolo  difensivo",  a
costituirsi  in  giudizio con proprio atto del 19 dicembre 2000. Solo
in  un  secondo  momento il tribunale ricorrente assolveva agli oneri
imposti  dalla  citata ordinanza della Corte, notificando alla Camera
dapprima  (21 dicembre  2000)  la  sola ordinanza di ammissibilita' e
successivamente  (5 gennaio  2001)  sia l'ordinanza di ammissibilita'
che   la  propria  ordinanza-ricorso,  provvedendo  infine,  in  data
8 gennaio  2001,  al  deposito  previsto dal terzo comma dell'art. 26
delle   norme   integrative   per   i   giudizi  davanti  alla  Corte
costituzionale.
    A  fronte  dell'esposta  sequenza di atti adottati dal ricorrente
per  completare  gli  adempimenti  e dare avvio alla seconda fase del
giudizio sul conflitto, la Camera rimette al "prudente apprezzamento"
della Corte ogni valutazione circa l'ammissibilita' del ricorso.
    Nel  merito,  la  difesa  della  Camera,  richiamandosi alla piu'
recente  giurisprudenza  della  Corte  relativa  a  quelli che devono
essere  i  criteri  di verifica per appurare la sussistenza del nesso
funzionale  fra  le dichiarazioni rese extra moenia e quelle espresse
nell'esercizio  di funzioni propriamente parlamentari, e ribadendo in
particolare  la  sussistenza del citato nesso funzionale anche quando
esso intercorra tra le dichiarazioni di un parlamentare e atti tipici
direttamente  riferibili  ad  altri  parlamentari,  insiste  per  una
pronuncia di infondatezza del ricorso.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Il Tribunale di Roma - V sezione stralcio, investito di un
giudizio   civile   promosso   dal   deputato   Massimo  D'Alema  per
risarcimento   del   danno   determinato  da  dichiarazioni  ritenute
diffamatorie   rilasciate   dal  deputato  Vittorio  Sgarbi,  solleva
conflitto  costituzionale  di attribuzione nei confronti della Camera
dei deputati, in riferimento alla delibera del 3 novembre 1998 con la
quale  la  Camera  stessa  ha  dichiarato l'insindacabilita', a norma
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione, di tali dichiarazioni.
Il conflitto e' stato dichiarato ammissibile con ordinanza n. 498 del
2000 di questa Corte.
    2.  -  Nell'atto  di  costituzione  in  giudizio,  la  Camera dei
deputati  eccepisce  l'inammissibilita'  del  ricorso, per difetto di
notificazione  a  norma  degli  artt. 37,  quarto  comma, della legge
11 marzo  1953, n. 87, e 26, terzo comma, delle norme integrative per
i   giudizi   davanti  alla  Corte  costituzionale.  In  effetti,  la
costituzione   in   giudizio  della  resistente  (19 dicembre  2000),
avvenuta  "per  puro scrupolo difensivo", secondo le parole dell'atto
defensionale,  ha  fatto seguito non alla notificazione del ricorso e
dell'ordinanza della Corte costituzionale che lo dichiara ammissibile
ma a una mera comunicazione di cancelleria.
    Sennonche',  in  momenti successivi, tutti rientranti nel termine
stabilito    nell'ordinanza    di    ammissibilita'    della    Corte
costituzionale,  il  tribunale  ricorrente ha provveduto a notificare
alla  Camera dei deputati, prima, la sola ordinanza di ammissibilita'
del ricorso e, poi, l'ordinanza e il ricorso, secondo quanto previsto
dalle   disposizioni  della  legge  n. 87  del  1953  e  delle  norme
integrative sopra menzionate.
    Preso atto di questa sequela di atti, la Camera resistente, nella
memoria   depositata  in  prossimita'  dell'udienza,  si  rimette  al
prudente  apprezzamento  della Corte costituzionale la quale non puo'
non  constatare  che,  con  l'ultima notificazione (cui e' seguito il
deposito  degli  atti  presso la Corte medesima, nel termine previsto
dal  terzo  comma  dell'art. 26  delle  norme  integrative),  si sono
completati  gli adempimenti richiesti per la valida instaurazione del
giudizio.  La  costituzione  in  giudizio  della resistente, avvenuta
prima  del  completamento  degli adempimenti richiesti al ricorrente,
d'altro  canto,  non  viola  alcuna disposizione procedurale e non ha
compromesso  l'esercizio  del  suo diritto di difesa, esplicabile (ed
esplicato)  senza  limitazioni tramite il deposito di memorie fino al
termine  di  dodici  giorni  liberi prima dell'udienza, come previsto
dall'art. 10 delle norme integrative. Non sussistono pertanto ragioni
per escludere l'ammissibilita' del ricorso.
    3. - Nel merito, il ricorso e' fondato.
    Le  dichiarazioni  che la Camera dei deputati ha ritenuto coperte
dalla  garanzia  del  primo  comma  dell'art. 68  della  Costituzione
consistono   -   secondo   le   espressioni   ricordate  testualmente
nell'esposizione  dei  fatti  - nell'asserzione, ripresa da quanto si
riferisce affermato da un soggetto "pentito" o comunque indagato, che
il  deputato  che  si  reputa  diffamato  e'  stato  destinatario  di
finanziamenti  illeciti  ("tangenti"),  nella sua qualita' di "numero
due" del suo partito politico, con la conclusione che i moralizzatori
non sono diversi da quelli che essi vorrebbero moralizzare.
    Contrariamente  a  quanto  ritenuto dalla Camera dei deputati, le
predette  dichiarazioni,  rese  fuori  dell'esercizio  delle funzioni
parlamentari  tipiche, cioe' nel corso di una trasmissione televisiva
di cui il deputato era conduttore, a tali funzioni non possono essere
ricondotte  e  quindi  la garanzia del primo comma dell'art. 68 della
Costituzione non puo' essere invocata nella specie.
    La  Camera  dei  deputati,  con  la delibera che ha dato luogo al
presente  conflitto,  pare  persistere  nel  ritenere che la garanzia
costituzionale  "copra"  ogni  affermazione collegata tematicamente a
questioni  comunque oggetto di attivita' parlamentare. In conseguenza
di  questa  convinzione,  essa ha ritenuto che le dichiarazioni sopra
richiamate,   "ancorche'   espresse   in   forme   e   toni  ...  non
condivisibili,  possono ... essere considerate una proiezione estrema
delle   ...   funzioni   parlamentari"  (Camera  dei  deputati,  XIII
legislatura, Relazione della Giunta per le autorizzazioni a procedere
in  giudizio, Doc. IV-ter n. 49/A), poiche' il tema del finanziamento
del partito di appartenenza del deputato che si ritiene diffamato era
stato  oggetto  di  numerosi  atti di controllo ispettivo, alcuni dei
quali  promossi  dallo  stesso  deputato  chiamato  a  rispondere per
diffamazione  nel  giudizio  civile.  In  questo  modo,  pero', si e'
trascurato  di  considerare che, per poter identificare dichiarazioni
rese  al  di  fuori  dell'esercizio  di  attivita'  parlamentari  con
espressioni  di  attivita'  rientranti  nella  garanzia dell'art. 68,
primo  comma,  della Costituzione, non basta la semplice comunanza di
argomenti  ne', tantomeno, la semplice riconducibilita' a un medesimo
contesto  politico.  Occorre  invece  che  tali dichiarazioni possano
essere   qualificate   propriamente   come   esercizio  di  attivita'
parlamentare,  il  che normalmente accade se e in quanto sussista una
sostanziale  corrispondenza  di  significato  con  le  opinioni  gia'
espresse   nell'ambito  dell'esercizio  delle  funzioni  parlamentari
tipiche.  Solo  in  tal  caso,  il richiamo all'art. 68, primo comma,
della Costituzione e' giustificato.
    Alla luce di tale giurisprudenza, che questa Corte ha elaborato a
partire  dalle  sentenze  n. 10  e  n. 11  del  2000,  la  Camera dei
deputati,  con  la  deliberazione del 3 novembre del 1998 che ha dato
origine  al  presente  conflitto  di  attribuzione, ha male inteso il
significato della garanzia stabilita dall'art. 68, primo comma, della
Costituzione,   cosi'   violando   le   attribuzioni   costituzionali
dell'autorita' giudiziaria ricorrente.
    Infatti,  pur  essendo  numerosi  gli  atti parlamentari, anche a
firma del deputato chiamato a rispondere per diffamazione, richiamati
dalla  Camera  resistente,  i  quali hanno per oggetto, in genere, il
sistema di finanziamento del partito di appartenenza del deputato che
si  ritiene  diffamato  e,  in  specie, il sospetto del suo carattere
illegale,  in  nessuno  di  essi e' dato individuare un'ascrizione di
responsabilita'  penale  personale,  puntuale  come  quella contenuta
nella  dichiarazione  resa  in  televisione. Questa considerazione e'
decisiva ed esime la Corte dal prendere posizione sull'argomentazione
prospettata   dalla  difesa  della  Camera  dei  deputati,  circa  la
rilevanza  del  "contesto  comunicativo  parlamentare",  nel quale il
deputato   o  il  senatore  sia  inserito  anche  solo  in  posizione
ricettiva,  al  fine di determinare l'ambito delle opinioni della cui
divulgazione  essi, in quanto coinvolti in tale contesto, non possano
essere chiamati a rispondere.
    Nessun  rilievo, infine, puo' essere attribuito in questa sede al
preteso  "carattere paradossale" che, secondo la difesa della Camera,
e'  tipico  del  modo di esprimersi del deputato chiamato in giudizio
per  risarcimento  del danno: un carattere che potrebbe eventualmente
essere valutato in questo altro giudizio.
                          Per questi motivi
                       LA CORTE COSTITUZIONALE
    Dichiara  che  non  spetta  alla  Camera  dei deputati dichiarare
l'insindacabilita',   a   norma   dell'art. 68,  primo  comma,  della
Costituzione,  delle  opinioni espresse dal deputato Vittorio Sgarbi,
per  le  quali  e'  in corso davanti al Tribunale di Roma - V sezione
stralcio, il giudizio indicato in epigrafe;
    annulla  conseguentemente  la  delibera adottata dalla Camera dei
deputati nella seduta del 3 novembre 1998.
    Cosi'  deciso  in  Roma,  nella  sede della Corte costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 20 maggio 2002.
                         Il Presidente: Vari
                      Il redattore: Zagrebelsky
                       Il cancelliere:Di paola
    Depositata in cancelleria il 23 maggio 2002.
               Il direttore della cancelleria:Di paola
02C0487