N. 362 ORDINANZA 10 - 18 luglio 2002
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Reati e pene - Misure contro la mafia - Obbligo, per i sottoposti a misure di prevenzione, di comunicare le variazioni patrimoniali che li riguardino - Sanzione penale in caso di inosservanza - Lamentata lesione dei principi di ragionevolezza, di proporzionalita' tra disvalore del fatto e sanzione, e di finalita' rieducativa della pena, nonche' del principio della personalita' della responsabilita' penale - Questione gia' decisa - Manifesta infondatezza. - Legge 13 settembre 1982, n. 646, artt. 30 e 31. - Costituzione, artt. 3, 13, primo comma, 25, e 27, primo e terzo comma.(GU n.29 del 24-7-2002 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Cesare RUPERTO; Giudici: Massimo VARI, Riccardo CHIEPPA, Gustavo ZAGREBELSKY, Valerio ONIDA, Carlo MEZZANOTTE, Fernanda CONTRI, Guido NEPPI MODONA, Piero Alberto CAPOTOSTI, Annibale MARINI, Giovanni Maria FLICK, Francesco AMIRANTE, Ugo DE SIERVO, Romano VACCARELLA;
ha pronunciato la seguente Ordinanza nel giudizio di legittimita' costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), promosso con ordinanza emessa il 17 settembre 2001 dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta nel procedimento penale a carico di G. P., iscritta al n. 915 del registro ordinanze 2001 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 46, 1a serie speciale, dell'anno 2001. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; Udito nella camera di consiglio dell'8 maggio 2002 il giudice relatore Gustavo Zagrebelsky. Ritenuto che con ordinanza del 17 settembre 2001 il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta, chiamato a tenere l'udienza preliminare in un procedimento penale concernente il reato di omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali da parte di persona sottoposta a misura di prevenzione, a norma degli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965,n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), ha sollevato questione di legittimita' costituzionale delle suddette disposizioni, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione; che, secondo quanto si riferisce nell'ordinanza di rimessione, nel giudizio principale la contestazione del reato si fonda sulla circostanza che l'imputato, gia' sottoposto con provvedimenti definitivi alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, non ha comunicato, nei modi e nei termini previsti dall'art. 30 della legge n. 646 del 1982, le variazioni nella composizione del proprio patrimonio di importo non inferiore a venti milioni di lire, segnatamente talune operazioni immobiliari effettuate negli anni 1995, 1998 e 1999; che, cio' premesso in fatto, il giudice a quo osserva che l'obiettivo delle norme in argomento, che e' quello di prevenire il reimpiego di denaro di provenienza illegale a opera di soggetti indiziati di mafia, tramite un "costante monitoraggio" delle relative variazioni nell'entita' del patrimonio, puo' agevolmente essere raggiunto attraverso semplici verifiche presso uffici pubblici, come in effetti e' avvenuto nella specie, essendo le operazioni in contestazione state accertate attraverso un controllo presso la conservatoria dei registri immobiliari ed avendo inoltre l'imputato preventivamente chiesto specifica autorizzazione al Tribunale per potersi recare a effettuare i rogiti notarili relativi alle operazioni immobiliari; che alla luce di tali rilievi le norme denunciate, che finirebbero per sanzionare una semplice omissione, anche indipendentemente dal raggiungimento per altra via dello scopo in vista del quale esse sono state poste, appaiono al rimettente in contrasto con gli artt. 13, primo comma, e 27, terzo comma, della Costituzione, i quali esigono che la risposta dell'ordinamento sia proporzionata alla gravita' del fatto, pena la compromissione della finalita' rieducativa, e altresi' che la sanzione penale sia apprestata solo quando nessuna altra forma di reazione sia possibile, tanto piu' in un sistema basato sull'alternativa tra la scelta penale e quella dell'illecito amministrativo, dovendosi riservare la prima ai comportamenti "maggiormente disfunzionali rispetto alle esigenze di conservazione di un determinato assetto sociale", essendo lo stesso principio di personalita' della pena (art. 27, primo comma, della Costituzione) a richiedere che la minaccia della sanzione penale sia collegata a comportamenti contrassegnati da un particolare ed "evidente" disvalore, secondo un criterio analogo a quello che, ad esempio, ispira le circolari della Presidenza del Consiglio dei ministri, concernenti la distinzione tra l'ambito penale e quello amministrativo (circolare 19 dicembre 1983) e l'individuazione dei parametri differenziali tra delitti e contravvenzioni (circolare 5 febbraio 1986); che, sotto un altro profilo, l'incriminazione in argomento appare al rimettente in contrasto con gli artt. 25 e 27 della Costituzione, in quanto, venendo punita una condotta di "mera disubbidienza", finirebbe per risultarne compromessa la distinzione tra misura di sicurezza e pena, nel senso che la sanzione per l'omessa comunicazione delle variazioni patrimoniali comporterebbe, di fatto, la trasformazione del delitto in questione in una misura "esclusivamente preventiva, volta a colpire la semplice pericolosita' sociale (presunta) dell'agente"; che, per questo aspetto, le norme configurerebbero una incriminazione di "mero sospetto", che punisce un comportamento, in se' non lesivo ne' pericoloso, che fa solo presumere un altro e diverso reato, cioe' il reimpiego di denaro di origine illegale attraverso operazioni oggetto dell'obbligo di segnalazione, con una presunzione oltretutto non superabile in alcun modo da una prova contraria, come la legittima provenienza del denaro utilizzato per l'acquisto; che, infine, il giudice a quo ritiene che le disposizioni violino anche il principio di ragionevolezza della legge (art. 3 della Costituzione), che sarebbe nella specie venuta meno per non avere il legislatore adeguatamente individuato il reale disvalore del fatto e per avere conseguentemente apprestato una risposta sanzionatoria arbitraria, come tale sindacabile dalla Corte; una irragionevolezza, secondo il rimettente, ulteriormente sottolineata (a) dal raffronto con la sanzione prevista dall'art. 12-quinquies comma 1, del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, il quale, nei confronti di chi agisca in modo da attribuire ad altri in maniera fittizia la titolarita' di beni e valori al fine di eludere le disposizioni in materia di misure di prevenzione patrimoniali o di agevolare la commissione di delitti di ricettazione o riciclaggio, stabilisce solo una sanzione detentiva corrispondente a quella dell'impugnato art. 31, nonche' (b) dal raffronto con l'art. 9 della legge 27 dicembre 1956, n. 1423 (Misure di prevenzione nei confronti delle persone pericolose per la sicurezza), che, per il caso di trasgressione degli obblighi inerenti la sorveglianza "semplice" stabilisce (primo comma) solo una contravvenzione, mentre per la violazione della sorveglianza "speciale" prevede (secondo comma) un delitto punito con pena la reclusione da uno a cinque anni - inferiore a quella stabilita dalle disposizioni oggetto della sollevata questione di costituzionalita'; che la rilevanza della questione, conclude il rimettente, e' data dal fatto che egli e' chiamato a fare applicazione della disciplina censurata in sede di decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio; che nel giudizio cosi' promosso e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, che ha richiamato per relationem allegandolo, l'atto di intervento depositato in altro analogo giudizio di costituzionalita' (giudizio di cui al r.o. n. 468 del 2001), atto nel quale l'Avvocatura ha dedotto, in particolare, l'attinenza delle disposizioni censurate all'ambito della discrezionalita' legislativa quanto alle scelte di politica criminale, concludendo per l'infondatezza della questione. Considerato che il giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta dubita della costituzionalita' degli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), i quali rispettivamente prevedono, il primo, che le persone sottoposte con provvedimento definitivo a una misura di prevenzione a norma della legge antimafia n. 575 del 1965 sono tenute a comunicare per dieci anni, ed entro trenta giorni dal fatto, al nucleo di polizia tributaria tutte le variazioni nella composizione del patrimonio concernenti elementi di valore non inferiore a venti milioni di lire, e, il secondo, che in caso di omissione della comunicazione si applica la pena della reclusione da due a sei anni e la multa da lire venti milioni a lire quaranta milioni, oltre alla confisca dei beni a qualunque titolo acquistati nonche' del corrispettivo dei beni a qualunque titolo alienati; che, secondo il rimettente, le suddette norme contrasterebbero con gli artt. 3, 13, primo comma, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, perche', sanzionando una condotta puramente omissiva, anche quando l'obbiettivo in funzione del quale il legislatore ha posto l'obbligo - obbiettivo consistente nel controllo dei movimenti patrimoniali dei soggetti indiziati di mafia - e' agevolmente raggiungibile per altra via, in particolare attraverso accertamenti presso uffici pubblici relativamente ad atti soggetti a forme legali di pubblicita', le disposizioni violerebbero il principio di ragionevolezza della legge e il criterio di necessaria proporzione tra il disvalore del fatto e la sanzione, vanificando la finalita' rieducativa della pena e la personalita' della responsabilita' penale, attraverso una previsione di mero sospetto di carattere preventivo, laddove sarebbe maggiormente idonea una differente reazione dell'ordinamento, non necessariamente incentrata sullo strumento penale; che, chiamata a pronunciarsi su questioni aventi a oggetto le medesime disposizioni e sollevate deducendo, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, la duplice censura, di "inutilita'" pratica della normativa per mancato raggiungimento dell'obbiettivo legislativo, e di sproporzione e di eccessivita' della pena prevista per il reato in argomento, questa Corte - con le ordinanze n. 143 del 2002 e n. 442 del 2001, entrambe successive all'ordinanza di rimessione ora in esame - ne ha dichiarato la manifesta infondatezza, rilevando che dette censure - formulate anche attraverso il raffronto con altre contigue o analoghe previsioni, come nella presente questione - costituiscono critiche sull'opportunita' e sulla pratica efficacia della disposizione incriminatrice, incentrate su un criterio soggettivo di ragionevolezza e inidonee come tali a tradursi in profili apprezzabili sul piano della verifica di costituzionalita' delle norme, alla stregua dei parametri costituzionali invocati; che nelle richiamate decisioni questa Corte ha inoltre osservato che il rilievo dei giudici di merito circa la conoscenza da parte dell'autorita' delle operazioni oggetto dell'obbligo di comunicazione, in particolare attraverso forme di pubblicita' legale degli atti, ha condotto altra giurisprudenza a escludere in radice la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, attraverso un'interpretazione idonea a superare i dubbi di costituzionalita', e che la medesima osservazione deve ripetersi oggi in relazione allo stesso argomento valorizzato dal rimettente a sostegno della questione sollevata; che, anche alla luce delle possibilita' interpretative accennate, deve ribadirsi che la scelta del legislatore di sanzionare penalmente la mancata comunicazione delle operazioni patrimoniali da parte di persona soggetta a misura di prevenzione qualificata, in un sistema di repressione del fenomeno della criminalita' organizzata fortemente caratterizzato dall'utilizzo degli strumenti di contrasto di tipo patrimoniale, costituisce esercizio dell'ampia discrezionalita' che al legislatore medesimo e' da riconoscersi quanto alla configurazione degli illeciti penali e alla determinazione delle relative sanzioni, nel limite della ragionevolezza, limite che nella specie non puo' dirsi superato; che il rilievo suddetto vale tanto piu' in relazione alla questione in esame, con la quale il rimettente sembra chiamare la Corte a una pronuncia tale da comportare una riqualificazione dell'illecito, cioe' un trasferimento di esso dall'ambito della materia penale all'ambito delle violazioni amministrative, cio' che costituirebbe propriamente una scelta riservata al legislatore, cui spetta l'individuazione degli interessi meritevoli di tutela attraverso l'una o l'altra tipologia di illecito; che, alla stregua delle osservazioni che precedono - e altresi' del fatto che le deduzioni del giudice rimettente riferite a parametri costituzionali ulteriori (artt. 13 e 25 della Costituzione) non rivestono autonomo rilievo, essendo invocati anch'essi all'interno della complessiva censura di eccessivita' e sproporzione della sanzione penale a fronte di una condotta asseritamente "indifferente" -, non essendovi motivo di discostarsi dalle conclusioni raggiunte nelle decisioni richiamate, la questione di costituzionalita' sottoposta al giudizio di questa Corte deve essere dichiarata manifestamente infondata. Visti gli artt. 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953, n. 87, e 9, secondo comma, delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale.
Per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE Dichiara la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale degli artt. 30 e 31 della legge 13 settembre 1982, n. 646 (Disposizioni in materia di misure di prevenzione di carattere patrimoniale ed integrazioni alle leggi 27 dicembre 1956, n. 1423, 10 febbraio 1962, n. 57, e 31 maggio 1965, n. 575. Istituzione di una commissione parlamentare sul fenomeno della mafia), sollevata, in riferimento agli artt. 3, 13, primo comma, 25 e 27, primo e terzo comma, della Costituzione, dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Caltanissetta, con l'ordinanza in epigrafe. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 10 luglio 2002. Il Presidente: Ruperto Il redattore: Zagrebelsky Il cancelliere:Di Paola Depositata in cancelleria il 18 luglio 2002. Il direttore della cancelleria:Di Paola 02C0747