N. 446 ORDINANZA (Atto di promovimento) 17 luglio 2002

Ordinanza  emessa  il  17  luglio  2002  dal  tribunale di Genova nel
procedimento  civile  vertente  tra  Bracuto  Maria  Rita e Comune di
Genova

Impiego  pubblico  -  Controversie relative al rapporto di lavoro dei
  dipendenti    di    pubbliche    amministrazioni   -   Accertamento
  pregiudiziale  sull'efficacia,  validita'  ed  interpretazione  dei
  contratti  o  accordi collettivi nazionali sottoscritti dall'ARAN -
  Obbligo  del  giudice  di  sospensione  del  giudizio con ordinanza
  motivata,  contenente  i  termini della questione da risolvere e la
  fissazione  di  una  nuova udienza non prima di centoventi giorni -
  Obbligo  dell'ARAN  di  convocazione delle organizzazioni sindacali
  firmatarie    del    contratto    collettivo    per    un   accordo
  sull'interpretazione autentica ovvero sulla modifica della clausola
  controversa  -  Disciplina  della  conseguente  procedura  e  dello
  svolgimento  delle  controversie  di lavoro - Ingiustificata deroga
  alla   disciplina   processuale  delle  controversie  di  lavoro  -
  Incidenza  sul  diritto  di azione - Eccesso di delega - Violazione
  del  principio  della  subordinazione dell'efficacia erga omnes dei
  contratti  collettivi  di  lavoro  al  rispetto  del  principio  di
  maggioranza e rappresentativita' - Indebita interferenza del potere
  legislativo   sulla   funzione  giurisdizionale  -  Violazione  dei
  principi sul giusto processo.
- Decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, art. 64, commi 1, 2 e 3.
- Costituzione, artt. 3, 24, 39, 76, 101, 102 e 111.
(GU n.40 del 9-10-2002 )
                            IL TRIBUNALE

    Con  ricorso  depositato  presso  la cancelleria del Tribunale di
Genova  sezione  lavoro  Bracuto Maria premesso che e' dipendente del
Comune  di  Genova,  a  decorrere dal 25 maggio 1998, con mansioni di
ufficiale  di  polizia  municipale,  inquadrata  nella  categoria "D"
secondo   l'inquadramento   professionale   delineato  dal  contratto
collettivo  del  settore;  che  una clausola del contratto collettivo
decentrato  esclude dalla valutazione per la progressione economica i
dipendenti  con  anzianita'  di  servizio  inferiore  a due anni, che
siffatta  clausola,  in  forza  della  quale  le  e'  stata negata la
progressione orizzontale, e' affetta da nullita' perche' in contrasto
col  contratto  collettivo di comparto; tutto cio' premesso chiede il
riconoscimento della progressione di cui sopra.
    Il Comune di Genova si costituisce e contesta la fondatezza della
domanda   attrice   assumendo  che  la  summenzionata  clausola,  del
contratto  decentrato  e'  valida  in  quanto  non  contrastante  col
contratto  collettivo di comparto, ma coerente con i principi da esso
enunciati.
    E'  opportuno  richiamare brevemente le argomentazioni svolte sia
negli  atti  scritti,  sia  nell'ampia  discussione orale, con cui le
parti sostengono le rispettive e contrastanti tesi.
    La  difesa  della  ricorrente  richiama l'art. 5 del contratto di
comparto  del 31 marzo 1999 (sono prodotti due contratti del comparto
enti  locali  stipulati il 31 marzo 1999 ed il 1 aprile 1999) che fra
l'altro  dispone: "... la progressione economica di cui al comma 1 si
realizza ... nel rispetto dei seguenti criteri:
        a)   per  i  passaggi  nell'ambito  della categoria "A", sono
utilizzati  gli  elementi  di valutazione di cui alle lettere b) e c)
adeguatamente   semplificati  in  relazione  al  diverso  livello  di
professionalita' dei profili interessati;
        b) per  i  passaggi alla prima posizione economica successiva
ai  trattamenti  tabellari  iniziali  delle  categorie "B" e "C", gli
elementi  di  cui  alla  lettera  c)  sono  integrati valutando anche
l'esperienza acquisita;
        c) per   i   passaggi   alla   seconda  posizione  economica,
successiva  ai  trattamenti  tabellari iniziali delle categorie "B" e
"C"  previa selezione in base ai risultati ottenuti, alle prestazioni
rese  con piu' elevato arricchimento professionale, anche conseguenti
ad  interventi  formativi e di aggiornamento collegati alle attivita'
lavorative  ed  ai  processi  di riorganizzazione, all'impegno e alla
qualita' della prestazione individuale;
        d) per   i  passaggi  all'ultima  posizione  economica  della
categorie  "B"  e  "C"  nonche' per la progressione all'interno della
categoria  "D",  secondo  la  disciplina  dell'articolo  12, comma 3,
previa selezione basata sugli elementi di cui al precedente punto c),
utilizzati anche disgiuntamente ....".
    Ora,  sostiene  sempre  la  difesa  dell'attrice,  la valutazione
dell'esperienza   acquisita,  che  potrebbe  in  teoria  giustificare
l'esclusione  di  chi  non  abbia maturato un minimo di anzianita' di
servizio,  costituisce  un  criterio, previsto dalla lettera b) della
sopra   trascritta   norma,  integrativo  di  quelli  previsti  dalla
successiva  lettera  c);  ma  per  le  progressioni all'interno della
categoria  "D"  (e'  la categoria in cui e' inquadrata la ricorrente)
questo  criterio  integrativo  deve  ritenersi  escluso  perche' sono
richiamati  solo  quelli  delineati dalla lettera c); ed in contrasto
con  tale  esclusione  il  contratto  decentrato  avrebbe previsto il
requisito dell'anzianita' di servizio quale presupposto per valutare,
ai  fini  della  progressione  economica, la Bracuto inquadrata nella
categoria "D".
    Aggiunge  la  difesa della ricorrente che l'art. 17 del contratto
di  comparto  del 1 aprile 1999 prevede l'istituzione di un fondo per
gli  incrementi  retributivi  e dispone tra l'altro che le risorse di
tale  fondo  sono  destinate  "...  alle  posizioni di sviluppo della
progressione economica orizzontale attribuite a tutto il personale in
servizio.",  e  l'espressione  "attribuite  a  tutto  il personale in
servizio"  andrebbe  intesa  nel  senso  che  tutto  il  personale in
servizio   avrebbe   diritto   ad   essere  valutato  ai  fini  della
progressione  economica,  senza  aprioristiche esclusioni come quella
lamentata dall'attrice. Anche sotto questo profilo andrebbe ravvisato
il denunciato contrasto tra la clausola della quale l'attrice lamenta
l'applicazione nei suoi confronti ed il contratto di comparto.
    Osserva  ancora  la  difesa  della Bracuto: il dipendente che non
abbia  maturato  il  biennio  di  anzianita'  per cio' solo non viene
ammesso   al   concorso,  sicche'  in  definitiva  si  vede  valutato
negativamente  sulla  base di un unico criterio (appunto l'anzianita'
di servizio) introdotto dal contratto decentrato, mentre il contratto
di comparto prevede comunque una pluralita' di criteri di valutazione
in concorso tra loro.
    Ecco  quindi, sempre secondo la difesa dell'attrice, un ulteriore
profilo  di  contrasto  fra  il contratto di comparto ed il contratto
integrativo.
    La  difesa  del  convenuto  assume  invece che tale contrasto non
sussisterebbe  e che la clausola in questione si porrebbe nell'ambito
dei  principi  e  delle  direttive  che  il  contratto di comparto ha
impartito  alla  contrattazione  integrativa,  e  che sono dettati in
particolare  dall'articolo  l6  (contratto  di  comparto del 31 marzo
1999)  che  dispone  tra  l'altro:  "... le materie di contrattazione
decentrata  ...  sono  integrate  dalle seguenti ... completamento ed
integrazione  dei  criteri  della  progressione economica all'interno
della  categoria  di  cui  all'art. 5,  comma  2  ...".  Argomenta il
resistente  che  il  presupposto  di  almeno  due  anni di anzianita'
sarebbe stato legittimamente introdotto quale criterio integrativo la
cui  formulazione  e'  demandata  dal  contratto di comparto a quello
decentrato.
    Aggiunge la difesa del convenuto che ai sensi del gia' richiamato
e  trascritto  art. 5  del  contratto di comparto (del 31 marzo 1999)
sono  oggetto  di  valutazione, ai fini della progressione economica,
fra  l'altro,  i  risultati  ottenuti,  le  prestazioni rese con piu'
elevato  arricchimento  professionale,  gli interventi formativi e di
aggiornamento, l'impegno e la qualita' della prestazione individuale;
tutti  elementi la cui adeguata valutazione presuppone lo svolgimento
dell'attivita'  lavorativa  del  dipendente  per  un  congruo arco di
tempo.  Sicche'  anche sotto questo profilo, sempre secondo la difesa
del  convenuto, si muoverebbe nello spirito del contratto di comparto
la clausola del contratto decentrato che ammette alla valutazione per
la  progressione economica i dipendenti che abbiano almeno un biennio
di anzianita'.
    Le   contrastanti  tesi  rispettivamente  sostenute  dalle  parti
pongono  il  seguente  problema; la clausola del contratto decentrato
che  esclude  dalla  valutazione  per  la  progressione  economica  i
dipendenti  che non abbiano maturato almeno un biennio di anzianita',
e  che  e'  stata  applicata dal Comune di Genova nei confronti della
Bracuto,  e' legittima perche' rispettosa dei limiti stabiliti per la
contrattazione  integrativa dal contratto di comparto, oppure si pone
in  contrasto con esso, ed e' conseguentemente affetta da nullita' ai
sensi  del  terzo  comma  dell'art. 40  del  d.lgs.  n. 165/2001?  La
soluzione  del  quesito,  dalla  quale  dipende  l'accoglimento  o la
reiezione  della  domanda  attrice,  comporta un delicato problema di
interpretazione  dei  passi  del contratto di comparto che sono stati
presi  in esame dalle parti. La delicatezza del problema emerge dalle
opposte  argomentazioni  rispettivamente  svolte dalle parti e che si
sono illustrate. Argomentazioni che appaiono ragionevoli e sviluppate
con  attenta  considerazione della lettera del documento. Il problema
interpretativo  da  risolvere, concernendo la portata di un contratto
sottoscritto dall'ARAN, fa scattare il complesso meccanismo delineato
dai  commi  1, 2 e 3 dell'art. 64 del d.lgs. n. 165/2001. Vale a dire
il  giudice  deve con ordinanza non impugnabile indicare la questione
interpretativa  da risolvere, darne comunicazione all'ARAN, e fissare
l'ulteriore trattazione della causa non prima di centoventi giorni. A
sua  volta  l'ARAN convoca le organizzazioni sindacali stipulanti per
una  eventuale  interpretazione  autentica  della  clausola,  o delle
clausole di cui trattasi, o per una loro eventuale modifica.
    Questo  giudice  dubita  che  il suddetto meccanismo sia conforme
alla Costituzione, e gia' in altra controversia ha investito la Corte
costituzionale  della  relativa questione. La questione e' stata, con
ordinanza  n. 233/2002,  dichiarata  manifestamente inammissibile con
questa  motivazione: "il rimettente, pur assumendo che si pone, nella
specie,   un  delicato  problema  di  interpretazione  del  contratto
collettivo,  non  motiva  ne' argomenta in alcun modo, in ordine alle
ragioni  che  avvalorano  siffatto  dubbio  ...  in tal modo egli non
fornisce  adeguata motivazione circa la necessita' in cui si trova di
dover  fare  applicazione,  al  caso  sottoposto alla sua cognizione,
della norma censurata ...".
    Da  questa  censura,  ad  avviso  del  giudicante,  va  esente il
presente provvedimento nel quale si e' ampiamente detto del contrasto
interpretativo  fra  le  parti,  e  si  sono ampiamente illustrate le
rispettive serie argomentazioni.
    Circa  la  non  manifesta infondatezza della cennata questione di
legittimita' costituzionale e circa e la sua rilevanza questo giudice
osserva quanto segue richiamando il suo precedente provvedimento.
    E' opportuno, per un adeguato inquadramento della problematica da
affrontare, chiarire che il contratto collettivo si configura, almeno
nel  settore  dell'impiego  presso  le  p.a.,  quale fonte di diritto
oggettivo.
    Contiene  infatti  norme generali ed astratte che si applicano al
caso  concreto  con  lo  stesso  meccanismo  previsto per le norme di
legge.
    E'  inoltre,  al pari di una norma di legge, efficace erga omnes.
Ne'  varrebbe  obiettare,  per  contestare siffatta efficacia, che il
c.c.,   anche  nell'ipotesi  di  mancata  iscrizione  del  dipendente
a1l'organizzazione   sindacale  stipulante,  si  applica  al  singolo
rapporto  di  pubblico  impiego  non  per forza propria, ma in quanto
richiamato  dal contratto individuale. L'obiezione non appare fondata
perche',   anche   in  difetto  di  siffatto  richiamo,  il  c.c.  e'
direttamente applicabile al rapporto individuale di pubblico impiego,
e  si sostituisce automaticamente alle clausole individuali difformi,
in  forza dell'art. 45, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 che sancisce:
"Le  amministrazioni  pubbliche  garantiscono ai propri dipendenti di
cui  all'art. 2,  comma  2,  parita'  di  trattamento  contrattuale e
comunque  trattamenti  non inferiori a quelli previsti dai rispettivi
contratti  collettivi".  E non si vede come possa attuarsi la parita'
di trattamento contrattuale se non applicando a tutti i dipendenti il
contratto collettivo del settore. L'obiezione di cui sopra, oltre che
in  contrasto col citato articolo, non convince anche perche' finisce
col  negare la funzione storica del contratto collettivo, la quale si
concreta,  come e' noto, nella tutela del prestatore considerato, per
la  sua  debolezza  economica, incapace di contrapporsi adeguatamente
alla  controparte  in  sede  di trattative individuali. E' chiaro che
tale funzione verrebbe clamorosamente a mancare se l'applicazione del
contratto collettivo fosse rimessa alla volonta' espressa dalle parti
in sede di pattuizione individuale.
    II contratto collettivo, almeno nel settore del pubblico impiego,
si  assimila  ad una fonte di diritto oggettivo anche con riguardo al
principio  iura  novit  curia,  atteso  che  i contratti sottoscritti
dall'ARAN vengono, ai sensi dell'ottavo comma dell'art. 47 del d.lgs.
n. 165/2001,  pubblicati  nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica
italiana.
    Va   inoltre  rilevato  che  sussiste  una  correlazione  fra  la
disciplina dell'impiego pubblico dettata dal contratto collettivo del
settore  e  l'interesse, tutelato dall'art. 97 della Costituzione, al
corretto  operare  degli  uffici  della  pubblica amministrazione. E'
opportuno  ricordare  che  una  connotazione  essenziale  del  lavoro
dipendente  si  ravvisa,  secondo  un  autorevole insegnamento, nello
stabile  inserimento del prestatore nell'organizzazione dell'impresa,
sicche'   la   disciplina   del   lavoro   subordinato  incide  sulla
organizzazione  dell'impresa,  organizzazione  che  a  sua  volta  e'
strettamente   collegata  ai  fini  che  l'imprenditore  si  propone.
Sussiste  quindi un legame a filo doppio fra la disciplina del lavoro
subordinato e le finalita' perseguite dall'apparato produttivo in cui
il  prestatore opera, finalita' che nel settore pubblico attengono al
corretto svolgimento della funzione demandata all'ufficio della p.a.,
ed   all'interesse  pubblico  che  vi  e'  sotteso.  Ne  consegue  la
funzionalizzazione   della   regolamentazione  del  pubblico  impiego
all'interesse  pubblico  di cui al citato art. 97 della Costituzione.
Il punto e' assai delicato ed il suo approfondimento comporterebbe un
lungo  discorso  che non puo' essere svolto in questa sede. Qui preme
sottolineare che la suddetta funzionalizzazione e' stata affermata da
numerose  sentenze  della  Corte  costituzionale  (v. in proposito C.
cost.  9 dicembre 1968, n. 124 in Giur. cost. 1968, 2161 ss; C. cost.
7 aprile  1981,  n. 52  ivi  1981,  321 ss; C. cost. 13 ottobre 1988,
n. 964  ivi, 1989, 4543 ss; C. cost. 18 gennaio 1989, n 1, ivi, 1989,
3 ss; C. cost. 24 gennaio 1989, n. 19, ivi 1989, 111 ss.; Corte cost.
3 giugno  1999,  n. 206  in  Gazzetta Ufficiale - 1a serie speciale -
n. 23;  Corte  costituzionale sent. 4 gennaio 1999 n. 1 - in Gazzetta
Ufficiale   13 gennaio   1999   -   1a   serie   speciale   -  n. 2).
Particolarmente  significativo  un  passo  della sentenza della Corte
costituzionale  del  5 maggio 1980, n. 68 e del seguente tenore: "...
Il    principio    enunciato   dall'art. 97   Cost.,   non   riguarda
esclusivamente  l'organizzazione  interna  dei pubblici uffici, ma si
estende alla disciplina del pubblico impiego in quanto possa influire
sull'andamento dell'amministrazione ... In altre parole e' innegabile
che  la disciplina del lavoro e' pur sempre strumentale, mediamente o
immediatamente,  rispetto alle finalita' istituzionali assegnate agli
uffici in cui si articola la pubblica amministrazione.".
    Si  deve anche rilevare che ai sensi del sopra richiamato comma 2
dell'art. 45  del  d.lgs.  n. 165/2001  il  contratto  collettivo nel
pubblico impiego non e' derogabile ne' in peggio ne' in meglio per il
lavoratore,  e  si  applica  direttamente  al  posto  delle  clausole
difformi  del  contratto  individuale. E mentre la inderogabilita' in
peggio  (sempre  per il lavoratore), comune anche al settore privato,
si  spiega agevolmente con l'esigenza di tutelare il dipendente quale
parte piu' debole del rapporto, la inderogabilita' in meglio non puo'
trovare  altra  spiegazione  che  nella  pubblica funzione svolta dal
contratto collettivo.
    La    funzionalizzazione   all'interesse   pubblico   contemplato
dall'art. 97  della  Costituzione costituisce quindi connotazione del
c.c.  (nel  settore  pubblico)  che  lo  allontana  dalla  figura del
contratto  di diritto comune, e nel contempo lo avvicina ad una fonte
di produzione di diritto oggettivo.
    Inoltre  il  terzo  comma  dell'art. 40  del  d.lgs.  n. 165/2001
espressamente   disciplina   il  contrasto  fra  i  vari  livelli  di
contrattazione  collettiva secondo il principio gerarchico e, come e'
ben  noto,  detto principio presiede alla risoluzione delle antinomie
fra norme nell'ambito delle fonti di diritto oggettivo.
    Infine  l'art. 63,  comma  5 del d.lgs. n. 165/2001, configurando
quale  motivo  del  ricorso  in  cassazione  la  violazione  o  falsa
applicazione  dei  contratti e degli accordi collettivi nazionali, ne
completa l'assimilazione alla legge.
    Attese  le  considerazioni  di cui sopra si deve concludere che i
sindacati  svolgono,  almeno  nel  settore  del pubblico impiego, una
funzione di produzione di diritto oggettivo.
    Cio'  posto  e'  opportuno  puntualizzare  che,  se  pur  rientra
nell'autonomia  delle parti definire in ogni momento in via negoziale
una  controversia  in  corso,  ben  diversa e' l'attivita' cui, nella
previsione  del citato art. 64 del d.lgs. n. 165/2001, sono stimolate
le   organizzazioni  sindacali;  attivita'  volta  non  alla  diretta
definizione  della  controversia,  bensi' a dettare l'interpretazione
autentica di una norma generale ed astratta da applicare in causa, od
a modificarla con un'altra norma generale ed astratta.
    In  questo  quadro  appare  evidente  che  l'art. 64  del  d.lgs.
n. 165/2001,  nella  parte  in  cui prevede un temporaneo arresto del
processo   per  consentire  una  interpretazione  autentica,  od  una
modifica   in  sede  sindacale  della  clausola  (o  delle  clausole)
controversa  (e),  ed  impone al giudice un'attivita' processuale per
stimolare  siffatta  attivita', viola innanzitutto gli articoli 101 e
102  e  111  della Costituzione (d'ora in poi si fara' riferimento al
citato    art. 111   cosi'   come   modificato   dall'art. 1,   legge
costituzionale    23 novembre    1999,    n. 2)   perche'   configura
l'interferenza di un potere normativo in un processo in corso. E' pur
vero che rientra nel potere delle organizzazioni sindacali stipulanti
provvedere  in  ogni  momento  ad  interpretare  autenticamente  od a
modificare  una  clausola contrattuale, cosi' come rientra nel potere
legislativo  interpretare  autenticamente  o  modificare una norma di
legge;  ma  trattasi di attivita' che, prescindendo da un processo in
corso,  si  svolgono  su  di  un  piano  diverso  rispetto  a  quello
giurisdizionale.  Nel  caso  in  esame  la realta' e' ben diversa, si
impone  al giudice di stimolare, mediante determinati adempimenti, le
organizzazioni  sindacali stipulanti ad interpretare autenticamente o
a  modificare una norma contrattuale da applicare in una controversia
in  corso;  controversia il cui svolgimento viene arrestato, sia pure
temporaneamente,  in  attesa  appunto  dei  risultati  dell'attivita'
richiesta.  Tale  situazione e' caratterizzata da una commistione fra
il  piano  normativo  e  quello  giudiziario, in quanto la decisione,
almeno  su  di  un profilo della controversia, viene trasferita dalla
sede  del  processo  in  corso,  che  proprio  per  questo subisce un
temporaneo  arresto, ad altra sede. Si concreta quindi l'interferenza
di  un  potere  normativo in un processo in corso la quale appare ben
poco  compatibile  con  i  citati  articoli   101,  102  e  111 della
Costituzione.
    L'art. 64   del  d.lgs.  n. 165/2001,  nella  parte  che  si  sta
esaminando,   presenta   un   ulteriore   profilo  di  illegittimita'
costituzionale  per contrasto con l'art. 3 della Costituzione perche'
riserva  alle  controversie  promosse  dai  dipendenti delle p.a. una
disciplina  processuale  differente  da  quella  dettata per le altre
controversie  di  lavoro;  disparita' ingiustificata, ed in contrasto
con  il  criterio  di  fondo  ispiratore  della  riforma del pubblico
impiego,   che   e'  quello  dell'omogeneizzazione  della  disciplina
sostanziale  e  processuale  del  lavoro  dipendente  sia nel settore
pubblico che in quello privato.
    Si  ravvisa  un  ulteriore contrasto, e sotto un duplice profilo,
della normativa in esame con l'art. 24 della Costituzione.
      Secondo  un  primo  profilo  il meccanismo delineato dal citato
art. 64  non  consente  la  tutela  in  sede cautelare perche' appare
incompatibile per la sua macchinosita', basti pensare all'arresto del
processo  per  almeno centoventi giorni, con le esigenze di celerita'
inscindibilmente connesse con i procedimenti delineati dagli articoli
669-bis  e seguenti del c.p.c. Nella normalita' dei casi rimandare ad
un  futuro  non  prossimo  la  concessione  della tutela cautelare si
risolve  in sostanza nella negazione della stessa. Ne' vale obiettare
che  a  siffatto  inconveniente  si  puo'  ovviare  accedendo  ad una
ragionevole   interpretazione   che   escluda   in   sede   cautelare
l'applicabilita' del macchinoso procedimento in questione.
      Tale  ragionevole  interpretazione non darebbe comunque accesso
alla tutela cautelare per i motivi che seguono.
    Giova  ricordare  che  la  concessione di una misura cautelare e'
subordinata alla sussistenza di due elementi: il pericolo nel ritardo
ed  il  c.d.  fumus  che  attiene  alla valutazione positiva, sia pur
sommaria,  della  pretesa  fatta  valere in sede interinale. In altri
termini  il giudice concede la misura cautelare richiesta se (oltre a
ravvisare  il pericolo nel ritardo) ritiene allo stato verosimile che
la pretesa attrice verra' accolta in sede di merito. Si tratta di una
valutazione  che  in  sede  sommaria  viene  effettuata sulla base di
criteri  giuridici  del  tutto  analoghi  a quelli cui si atterra' il
giudice  di  merito.  E' proprio questa analogia di criteri che rende
possibile  e  ragionevole,  nel  corso del procedimento cautelare, un
pronostico  circa  l'accoglimento  della  domanda  attorea in sede di
merito.
    Ed  e'  proprio  questa  analogia  di criteri che viene a mancare
nelle  controversie  promosse  da  un  dipendente  pubblico  in  sede
cautelare, e che coinvolgono l'interpretazione di una o piu' clausole
di  un contratto collettivo stipulato dall'ARAN. In sede di merito e'
previsto, sulle predette clausole, un intervento che condizionera' la
pronuncia   giudiziale,  e  che,  in  quanto  frutto  di  un  accordo
sopravvenuto  fra  l'ARAN  e le sue controparti, non sara' fondato su
criteri  giuridici,  anche  se  qualificato  interpretativo, ma sara'
espressione  di  discrezionalita'  normativa, o, se si preferisce, di
autonomia negoziale. E sarebbe una irragionevole anomalia del sistema
imporre   al  giudice,  ai  fini  della  valutazione  del  fumus,  la
previsione di un esito negoziale.
    Si   deve   pertanto   concludere  che  il  meccanismo  delineato
dall'art. 64  in  esame  preclude  la  tutela cautelare perche' rende
inammissibile la valutazione del fumus.
     Gia' sotto questo profilo deve ritenersi violato l'art. 24 della
Costituzione perche' l'attore viene privato della tutela cautelare.
    Sotto   un  ulteriore  profilo  si  configura  un  contrasto  fra
l'art. 64  in esame e l'art. 24 della Costituzione da coordinarsi con
l'art. 111  gia'  menzionato. Detto contrasto emerge ove si consideri
che  il  lavoratore  parte  in causa, nell'ipotesi in cui i sindacati
abbiano  portato  a  compimento l'attivita' loro richiesta, non avra'
avuto,  quale singolo, alcuno spazio per svolgere le proprie difese e
far  valere  le  proprie ragioni al tavolo delle trattative sindacali
che sostituiscono il procedimento giurisdizionale in corso.
    Il punto e' assai delicato e merita un'ulteriore approfondimento.
    Il  citato art. 111 della Costituzione nei commi 1 e 2 riecheggia
l'art. 6  della  Convenzione  europea  di  salvaguardia  dei  diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali (firmata il 4 novembre 1950 e
resa  esecutiva  in  Italia  il 26 ottobre 1955 con il deposito degli
strumenti  di ratifica intervenuta in forza della legge 4 agosto 1955
n. 848)  la  cui  prima  parte  tradotta in lingua italiana dal testo
francese suona cosi': "Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia
esaminata equamente, pubblicamente ed entro un termine ragionevole da
un  tribunale  indipendente  ed  imparziale, costituito per legge, il
quale  decidera'  sia sulle controversie sui suoi diritti e doveri di
carattere  civile,  sia  della  fondatezza  dell'accusa penale che le
venga rivolta ...".
    La  norma  della  Costituzione  italiana  sul  giusto processo va
quindi  letta  alla  stregua  dei  principi  elaborati  sul  tema del
processo  equo dalla Corte europea dei diritti dell'uomo. Una lettura
che  si impone, oltre che per una stretta somiglianza delle due norme
sopra  citate sotto il profilo letterale, anche per evitare eventuali
sanzioni a carico dello Stato italiano da parte della Corte medesima.
Ora  nella  giurisprudenza  della  Corte  europea  viene  piu'  volte
affermato  il  principio  secondo  cui  assicurare  un  processo equo
significa  anche  assicurare  la c.d. "uguaglianza delle armi". Cosi'
nella  decisione  Dombo Beheer contro Paesi Bassi del 27 ottobre 1993
(serie  A  n. 274) si legge il seguente passo: "La Corte concorda con
la  Commissione  nel  ritenere  che,  nelle  controversie concernenti
opposti  interessi  privati,  "uguaglianza  delle  armi  comporta che
ciascuna  parte  debba  disporre  di  una ragionevole opportunita' di
esporre il proprio caso - comprese le prove - a condizioni che non la
pongano  in  posizione  di sostanziale svantaggio nei confronti della
controparte".  (Ed  in  senso  analogo  la sentenza Raffinerie Greche
Stran  e Stratis Andreadis contro Grecia - serie A n. 301-b). E nella
fattispecie  delineata  dai  commi  uno e due dell'art. 64 del d.lgs.
n. 165/2001  e'  proprio la c.d. "uguaglianza delle armi" che viene a
mancare  in  pregiudizio  del dipendente attore nella controversia in
corso.  Invero  costui,  come si e' gia' osservato, non dispone piu',
almeno in ordine ad un profilo della controversia, di una sede in cui
far   valere  il  proprio  punto  di  vista,  mentre  la  controparte
attraverso  l'ARAN,  che  e'  un  rappresentante della p.a., puo' far
valere le proprie ragioni nella sede delle trattative sindacali, sede
che, come si e' visto, viene, sia pure in via eventuale, a sostituire
quella processuale.
    Ne'   varrebbe   obiettare   che  anche  l'attore  nella  singola
controversia  di  pubblico  impiego  potrebbe,  in sede di trattative
sindacali,  far valere le proprie ragioni tramite il sindacato cui e'
iscritto.
    L'obiezione non sarebbe convincente.
    Va in proposito sottolineata la profonda differenza fra i vincoli
che rispettivamente legano l'ARAN alla pubblica amministrazione ed il
pubblico impiegato al sindacato cui e' iscritto.
    Le pubbliche amministrazioni sono rappresentate dall'ARAN nei cui
confronti  esercitano  un  potere  di  indirizzo  (art. 41 del d.lgs.
n. 165/2001),  mentre, secondo una dottrina ormai dominante, non puo'
qualificarsi  rappresentanza il rapporto fra il singolo lavoratore ed
il sindacato cui e' iscritto.
    L'interesse  individuale  del lavoratore puo' essere in contrasto
con  l'interesse collettivo di cui il sindacato e' portatore; inoltre
alle  trattative sindacali con l'ARAN partecipano anche sindacati cui
non  e'  iscritto  il  singolo  impiegato, il quale per di piu' puo',
legittimamente, non essere iscritto ad alcun sindacato.
    Le  considerazioni  appena  svolte  inducono  a  ravvisare  oltre
l'illustrato  contrasto con gli articoli 24 e 111 della Costituzione,
un  ulteriore  contrasto  fra  l'art. 64,  nella  parte  che  si  sta
esaminando,  e l'art. 39 della Costituzione che solennemente sancisce
il  principio  di liberta' sindacale; principio che comporta anche la
facolta'  per  il singolo di prospettare, in ordine ai prodotti della
contrattazione  collettiva,  le proprie esigenze, il proprio punto di
vista,  e di manifestare il proprio dissenso. Ebbene di tale facolta'
il singolo viene spogliato persino in sede giurisdizionale.
    In  questa  prospettiva l'interesse collettivo rischia di perdere
la  sua  configurazione  di  sintesi degli interessi individuali, per
divenire  frutto  di  una  valutazione  di  vertice caratterizzata da
assoluta  eteronomia  nei  confronti  dei  singoli.  In altri termini
l'ermeneutica  giudiziale appare sede adeguata per sciogliere in modo
equilibrato  la tensione fra la dimensione collettiva degli interessi
e le esigenze individuali. Trasferire tale tensione esclusivamente in
sede  collettiva  comporta il rischio di sacrificare uno dei due poli
della dialettica, vale a dire le esigenze individuali.
    Sara'  la Corte costituzionale a stabilire se questa compressione
delle   facolta'   del   singolo  sia  compatibile  col  primo  comma
dell'art. 39 della Costituzione.
    E  la  citata  norma  della  Costituzione  viene violata sotto un
ulteriore profilo.
    Come  messo  in luce dalla piu' autorevole dottrina l'esigenza di
fondo  che  ispira  i  commi  due,  tre  e quattro dell'art. 39 della
Costituzione  e'  quella  di  subordinare  l'efficacia erga omnes dei
contratti  collettivi  al  rispetto  del  principio di maggioranza. E
proprio per riguardo a siffatto principio l'art. 43 del d.lgs. n. 165
del  9 maggio  2001  dispone  che  L'ARAN  sottoscriva  contratti  di
comparto, come si e' visto efficaci erga omnes, solo se vi aderiscano
organizzazioni  sindacali  che  rappresentino  nel  loro complesso la
maggioranza  dei  lavoratori del comparto interessato (e precisamente
almeno  il  51  per  cento  come  media  tra  dato associativo e dato
elettorale  nel comparto o nell'area contrattuale, o almeno il 60 per
cento  del  dato  elettorale  nel  medesimo ambito). Ebbene l'accordo
previsto  dall'art. 64  del  d.lgs. n. 165/2001, anch'esso ovviamente
efficace  erga  omnes,  viene  stipulato  da organizzazioni sindacali
individuate,  quali  controparti dell'ARAN, solo in quanto firmatarie
del   precedente   contratto  da  interpretare  o  da  modificare,  a
prescindere dalla loro attua1e rappresentativita'.
    Viene  quindi violato l'art. 39 della Costituzione anche sotto il
profilo del rispetto del principio di maggioranza.
    L'art. 64  che si sta esaminando e che, e' bene ricordare, e' una
norma  di  legge delegata, appare altresi' in contrasto con l'art. 76
della Costituzione per eccesso di delega.
    Si  rileva in proposito che nell'ambito degli "oggetti definiti",
secondo  l'espressione  usata  dall'art. 76  della  Costituzione,  il
legislatore  delegato, anche a volerne ammettere il potere di dettare
norme   delegate   che   vadano   oltre  il  mero  svolgimento  delle
enunciazioni   di   principio  espressamente  formulate  dalla  legge
delegante,  non  ha tuttavia la facolta' di innovare, senza specifica
autorizzazione,  la legislazione preesistente. In altri termini nella
delega,  in quanto non diversamente disposto, si ritiene implicito il
richiamo  al  rispetto  della  legislazione  preesistente.  Il citato
art. 64  appare  quindi sospetto di illegittimita' costituzionale per
eccesso  di  delega perche', senza alcuna specifica autorizzazione da
parte  del  delegante,  innova  la  disciplina  del  processo civile,
introducendo,  come  si  e'  visto,  una ipotesi di arresto, sia pure
temporaneo, del processo stesso.
    E'  pur  vero  che la legge delega (legge n. 59 del 15 marzo 1997
all'articolo  11  lettera  G)  prevede:  "...  misure organizzative e
processuali  anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni
dovute  al  sovraccarico  del  contenzioso  ...";  ma  possono  farsi
rientrare  in  una  previsione cosi' generica anche specifici casi di
temporaneo  arresto  del  processo?  Una  risposta affermativa a tale
domanda  non  appare  ammissibile  perche' in contrasto con l'art. 76
della   Costituzione  nella  parte  in  cui  dispone  che  la  delega
legislativa al Governo deve essere effettuata con "... determinazione
dei  principi  e  dei criteri direttivi ...". Detta norma verrebbe in
definitiva   vanificata   se   l'espressione  teste'  trascritta  non
alludesse  solo  a principi e criteri dotati di adeguata concretezza,
ma  comprendesse  anche  una  formulazione  di  essi del tutto vaga e
generica.
    E  per  completezza  di  indagine  e' opportuno aggiungere che la
determinazione  (e'  bene ribadire dotata di adeguata concretezza) di
principi  e  criteri  direttivi non si rinviene nemmeno nell'articolo
uno  della  legge 24 novembre 2000, n. 240 con la quale il Governo e'
stato delegato ad emanare un testo unico in materia di disciplina del
rapporto  di  lavoro dei dipendenti delle p.a. omogeneizzato a quello
del  settore  privato,  testo unico che ha poi preso corpo nel d.lgs.
n. 165 del 30 marzo 2001 il cui articolo 64 e' oggetto della disamina
svolta  nella presente ordinanza. Tale conclusione emerge dalla piana
lettura  del  citato  articolo uno il quale si limita a disporre che:
"Entro  il  31  marzo 2001, il Governo e' delegato, sentito il parere
delle   competenti   Commissioni   parlamentari  e  della  Conferenza
unificata  di  cui all'art. 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997,
n. 281,  ad  emanare  un  testo  unico  per  il riordino delle norme,
diverse  da  quelle  del  codice civile e delle leggi sul rapporto di
lavoro  subordinato  nell'impresa,  che regolano i rapporti di lavoro
dei   dipendenti   di  cui  all'articolo  2,  comma  2,  del  decreto
legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, secondo quanto disposto dall'art.
7 della legge 8 marzo 1999, n. 50, apportando le modifiche necessarie
per il migliore coordinamento delle diverse disposizioni e indicando,
in particolare:
        a) le  disposizioni  legislative  abrogate  a  seguito  della
sottoscrizione dei contratti collettivi del quadriennio 1994-1997, ai
sensi  dell'art. 72  del citato decreto legislativo n. 29 del 1993, e
successive modificazioni;
        b) le  norme  generali  e  speciali  del pubblico impiego che
hanno  cessato  di produrre effetti, ai sensi dell'art. 72 del citato
decreto  legislativo  n. 29 del 1993, e successive modificazioni, dal
momento  della sottoscrizione, per ciascun ambito di riferimento, del
secondo contratto collettivo previsto dal medesimo decreto.".
    La  norma  si  limita  a  demandare  un  mero  coordinamento,  in
particolare  mediante  l'indicazione delle leggi abrogate, fra i vari
prodotti legislativi che si sono susseguiti in tema di disciplina del
rapporto di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni.
    Anche l'art. 76 della Costituzione appare quindi violato.
    La  questione  di illegittimita' costituzionale teste' esaminata,
oltre  che  non  manifestamente  infondata  per le considerazioni che
precedono,  appare  anche  rilevante nel presente giudizio perche' il
suo   eventuale   accoglimento   eliminerebbe   norme   che  incidono
pesantemente  sulla  definizione  del  processo in corso. Vi incidono
perche',  come  si  e'  gia'  visto, privano il giudice del potere di
decidere su di un profilo della controversia sottoposta al suo esame,
e trasferiscono la relativa decisione in altra sede.
    L'eventuale  accoglimento  della prospettata questione renderebbe
subito applicabile il terzo comma del menzionato art. 64 che dispone:
"Se  non interviene l'accordo sulla interpretazione autentica o sulla
modifica  della  clausola controversa, il giudice decide con sentenza
sulla  sola  questione  di  cui  al  comma  1,  impartendo i distinti
provvedimenti   per   l'istruzione,   o   comunque   per  l'ulteriore
prosecuzione  della  causa.  La  sentenza e' impugnabile soltanto con
ricorso  immediato  per  Cassazione, proposto nel termine di sessanta
giorni dalla comunicazione dell'avviso di deposito della sentenza. Il
deposito  nella  cancelleria del giudice davanti a cui pende la causa
di  una copia del ricorso per Cassazione, dopo la notifica alle altre
parti, determina la sospensione del processo.".
    Anche   la   norma   teste'  trascritta  impone  al  giudice  una
determinata  conduzione  del  processo;  vale  a  dire  gli impone di
decidere  con sentenza non definitiva la questione di interpretazione
della  clausola  contrattuale  (o  delle  clausole)  dedotta  (e)  in
giudizio,   e   di   disporre   con  separata  ordinanza  l'ulteriore
trattazione  della  causa,  salva la sospensione del processo in caso
del ricorso in Cassazione avverso la sentenza non definitiva. Sarebbe
quindi  rilevante la questione di illegittimita' Costituzionale della
predetta   norma,   la   cui   soppressione   da  parte  della  Corte
costituzionale    restituirebbe    al    giudice   ogni   valutazione
discrezionale  in  merito all'opportunita' di emettere allo stato una
sentenza  non  definitiva,  o  di  rinviare  ogni decisione a seguito
dell'ulteriore trattazione del processo.
    La  questione  appare  poi  non  manifestamente  infondata per le
considerazioni che seguono.
    Come  si e' sopra osservato il legislatore delegato non ha, senza
una espressa autorizzazione del delegante, la facolta' di innovare la
legislazione  preesistente.  Ora  la  norma  in  esame,  che, e' bene
ribadire,  e'  contenuta  in una legge delegata, introduce, senza una
relativa delega, una rilevante modifica della preesistente disciplina
processuale  perche',  come  si  e'  visto,  impone  al  giudice  una
determinata  conduzione  del  processo,  imponendogli di emettere una
sentenza   non   definitiva   su  di  un  determinato  profilo  della
controversia,    privandolo   di   ogni   valutazione   discrezionale
sull'opportunita'  di  rinviare ogni decisione al definitivo. Ne' una
delega  in  proposito  puo'  ravvisarsi  nel  richiamato articolo 11,
lettera  g)  della  legge delega n. 59 del 15 marzo 1997 che prevede;
"...  misure  organizzative e processuali anche di carattere generale
atte   a   prevenire   disfunzioni   dovute   al   sovraccarico   del
contenzioso ...".  La  norma delegante e' formulata in termini troppo
generici  per  soddisfare  la prescrizione dettata dall'art. 76 della
Costituzione.  In  proposito  non  resta  che richiamare quanto si e'
sopra   osservato  anche  in  ordine  alla  successiva  legge  delega
n. 240/2000.
    Il comma tre del piu' volte citato art. 64 appare quindi sospetto
di  illegittimita'  costituzionale  per contrasto con l'art. 76 della
Costituzione.
    La  medesima  norma  di  legge  delegata  appare altresi', per le
considerazioni  gia'  svolte  a  proposito del temporaneo arresto del
processo  e  del  contestuale  invio  di  taluni  atti  all'ARAN,  in
contrasto   con   l'art. 3  della  Costituzione  per  violazione  del
principio di eguaglianza.
    Ed  il  contrasto  con  l'art. 3  della Costituzione si prospetta
anche sotto il profilo della manifesta irragionevolezza.
    Invero  l'art. 64  nella  parte  che  si sta esaminando impone al
giudice di stabilire in via preliminare, con sentenza non definitiva,
la  interpretazione di una o piu' clausole di un contratto collettivo
da  applicare  nella controversia in corso. Poiche' la clausola di un
contratto collettivo e' caratterizzata da generalita' ed astrattezza,
e  la  funzione  del  giudice  e'  quella  di fornire con sentenza la
interpretazione  di una norma generale ed astratta in relazione ad un
caso  concreto,  si deve concludere che nella specie il caso concreto
di riferimento sia quello che risulta dalle allegazioni contenute nel
ricorso introduttivo. Con il conseguente possibile irrazionale spreco
di  attivita'  giurisdizionale  se  il fatto poi accertato risultera'
diverso  da quello dedotto a fondamento della domanda attorea. Se poi
si  volesse  ritenere  che  il  meccanismo  delineato dall'art. 64 in
questione  dovesse  operare  sulla base del fatto accertato a seguito
della   conclusa   istruttoria,   la   norma   in  esame  apparirebbe
manifestamente irrazionale sotto un altro profilo, perche' imporrebbe
al giudice di emettere una sentenza non definitiva, e di disporre con
separata ordinanza la prosecuzione del processo, sebbene la causa sia
gia'  matura  per  la  decisione  definitiva.  Lo spreco di attivita'
giurisdizionale  (che  si  verifica  in  entrambe  le  ipotesi appena
prospettate)  appare  altresi'  in  contrasto  con  l'art. 111  della
Costituzione,  vale  a  dire  col principio del processo equo che per
essere  tale  va  definito  in  tempo  ragionevole (vedi sul punto il
citato art. 111 da leggere sempre, per le considerazioni gia' svolte,
alla  luce  dell'art. 6  della  Convenzione  ed  alla  stregua  delle
sentenze  della  Corte  che hanno condannato lo Stato italiano per la
eccessiva  durata dei processi, sentenze talmente numerose e note che
ogni citazione appare superflua).
    Pertanto  il  terzo  comma  del  piu' volte citato art. 64 appare
sospetto di illegittimita' costituzionale anche per contrasto con gli
articoli 3 e 111 della Costituzione.
    Attese   le   considerazioni   svolte   appare  rilevante  e  non
manifestamente    infondata    la    questione    di   illegittimita'
costituzionale  dei  commi uno e due dell'art. 64 del d.lgs. 30 marzo
2001, n. 165 per contrasto con gli articoli 3, 24, 39, 76, 101, 102 e
111 della Costituzione; e nell'ipotesi di accoglimento della suddetta
questione  assume  immediata  rilevanza la non manifesta infondatezza
della   questione   di  illegittimita'  costituzionale  del  comma  3
dell'art. 64  del  d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165 per contrasto con gli
articoli 3, 76 e 111 della Costituzione.
                              P. Q. M.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
illegittimita' costituzionale dei commi uno e due dell'art. 64 d.lgs.
30 marzo  2001,  n. 165 per contrasto con gli articoli 3, 24, 39, 76,
101, 102 e 111 della Costituzione;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
illegittimita'  costituzionale  del  comma  3 dell'art. 64 del d.lgs.
30 marzo  2001,  n. 165  per  contrasto  con gli articoli 3, 76 e 111
della Costituzione;
    Dispone  la  trasmissione  degli atti alla Corte costituzionale e
sospende il presente giudizio;
    Ordina che la presente ordinanza, di cui e' stata data lettura in
udienza,  sia, a cura della cancelleria, notificata al Presidente del
Consiglio  dei  Ministri, e sia comunicata ai Presidenti della Camera
dei deputati e del Senato della Repubblica.
        Genova, addi' 17 luglio 2002
                        Il giudice: Gelonesi
02C0925