N. 487 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 giugno 2002

Ordinanza  emessa il 18 giugno 2002 dalla Corte di appello di Potenza
nel procedimento penale a carico di Sacco Vito

Processo  penale  -  Incompatibilita'  del  giudice - Giudice che, in
  relazione  a pregressa udienza preliminare, ha pronunciato sentenza
  di non luogo a procedere, poi annullata, nei confronti del medesimo
  imputato  e  per  lo  stesso fatto - Incompatibilita' ad esercitare
  nuovamente  la  funzione  di  giudice  dell'udienza  preliminare  -
  Mancata  previsione  - Compromissione del principio di eguaglianza,
  del diritto di difesa e della garanzia del giusto processo.
- Cod. proc. pen., art. 34, comma 1.
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111.
(GU n.44 del 6-11-2002 )
                         LA CORTE DI APPELLO

    Nella  procedura iscritta al n. 16/02 C.C. ricusazioni, avente ad
oggetto   "Ricusazione   della   dott.ssa  Romaniello,  quale  g.u.p.
Tribunale di Potenza" ha emesso la seguente ordinanza.
    Con  atto depositato in cancelleria dell'adita Corte territoriale
il  21 marzo 2002, Sacco Vito, nato ad Avigliano (Potenza) il 4 marzo
1933, imputato nel proced. n. 1121/96 RRG p.m. e n. 909/96 RG g.i.p.,
fissato  per l'udienza preliminare innanzi al g.u.p. c/o il tribunale
di   Potenza,   dott.ssa   Romaniello,   evidenziava   che  l'udienza
preliminare a celebrarsi era la seconda avente ad oggetto la medesima
richiesta  di  rinvio  a  giudizio,  gia'  avanzata  dal p.m. in data
3 luglio 1997. Ed infatti la precedente udienza preliminare, definita
l'11 maggio  2000  con  decreto di citazione a giudizio, emesso dalla
medesima   dott.ssa  Romaniello,  era  stata  annullata  dal  giudice
dell'udienza  preliminare. In particolare, contestualmente al decreto
di citazione a giudizio dell'11 maggio 2000, il predetto g.u.p. aveva
reso  anche  sentenza  (n. 70/2000) con la quale aveva dichiarato non
luogo  a  procedere  per  una parte degli addebiti originariamente in
contestazione,  e segnatamente per quello di cui all'art. 341 c.p.p.,
frattanto  abrogato.  L'annullamento  dell'udienza  preliminare aveva
travolto  anche  la  suindicata sentenza. Aggiungeva l'istante che la
dott.ssa Romaniello era risultata anche altrimenti essersi addentrata
ed  aver  pronunziato  nel  merito  degli  stessi fatti oggetto della
pendente  richiesta  di  rinvio a giudizio: infatti era stata giudice
del  decreto  di archiviazione datato 31 agosto 2000 con il quale era
stato  definito  il procedimento avente ad oggetto lo stesso identico
episodio per cui e' udienza preliminare, sia pure a parti processuali
invertite, vale a dire con il Sacco quale p.o./denunziante/querelante
e  quali  indagati gli stessi soggetti che nell'udienza preliminare a
celebrarsi  figurano  quali  pp.oo.  Premesso  di essere edotto della
pronuncia  della  Corte  costituzionale  del  6 marzo  2002, rilevava
l'istante   che,  tuttavia,  la  medesima  Corte  costituzionale  con
pronuncia  del  6 luglio 2001 aveva affermato - mediante declaratoria
di  illegittimita'  costituzionale  in  parte qua dell'art. 34, primo
comma,   c.p.p.   -   l'incompatibilita'   del  giudice  dell'udienza
preliminare  che  avesse  pronunziato  sentenza  (nel caso di specie:
quella dell'11 maggio 2000) poi annullata (come pure era accaduto nel
caso  in esame) nei confronti del medesimo imputato e per il medesimo
fatto.
    Evidenziava  il  Sacco  come la ratio delle varie declaratorie di
incostituzionalita'  dell'art. 34  c.p.p.  per  mancata previsione di
incompatibilita'  della  funzione di g.u.p. fosse stata sempre quella
di  discernere  tra  la  (consentita) mera attivita' di "delibazione"
circa  la  sussistenza  delle  condizioni giustificative del rinvio a
giudizio  e  quella  (incompatibile)  di  "cognizione" vera e propria
realizzata  attraverso  qualsivoglia  pronuncia  relativa  al  merito
sostanziale della vicenda processuale.
    Tale  ratio  additava  nella  fattispecie un ulteriore profilo di
incompatibilita' del magistrato procedente: questi, infatti, oltre ad
emettere la surrichiamata sentenza, si era gia' pronunziato nel mento
del  medesimo  fatto  concernente  i  medesimi  soggetti  attivi (non
rilevando  a  tal  fine  ne'  il  diverso  numero di R.G. ne' i ruoli
invertiti  imputato/p.o.) col summenzionato decreto di archiviazione.
Sosteneva, all'uopo, l'istante che nella sentenza 6 luglio 2001 della
Corte costituzionale la pronuncia di incompatibilita' del giudice non
era stata fatta discendere dal richiamo al dato formale del nomen del
provvedimento   decisorio   (sentenza  o  decreto  di  archiviazione)
costituente  il  precedente incompatibile bensi' dal dato processuale
sostanziale che il g.u.p. si fosse o meno esposto in un provvedimento
di natura di piena cognizione e non di mera delibazione e tale doveva
essere  ritenuto, nel caso di specie, il decreto di archiviazione del
31 agosto   2000,   decreto   allo   stato   "superato"   da  formale
autorizzazione alla riapertura delle indagini.
    Concludeva  sostenendo  che,  ferma  restando  la  condizione  di
incompatibilita' del g.u.p. che aveva emesso sentenza poi annullata a
carico del medesimo soggetto e per i medesimi fatti, veicolata merce'
dichiarazione  di  ricusazione  ex artt. 34 e segg. c.p.p., l'istanza
era   da  valere  quale  espressa  proposizione  della  questione  di
illegittimita'  costituzionale  dell'art. 34  c.p.p.  per  violazione
degli  artt. 3, 14 e 111 della Carta delle leggi, ove si fosse voluto
denegare   l'estensione,   per   ovvia   analogia,   al   decreto  di
archiviazione   dell'incompatibilita'   gia'   ritenuta  dalla  Corte
costituzionale con riferimento alla sentenza.
    Acquisita copia del verbale di udienza del 21 marzo 2002 relativa
al  proced.  n. 909/96  R.G.  g.i.p.  nei confronti del Sacco, tenuta
dalla  dott.ssa  Romaniello,  nonche'  attestazione della cancelleria
dell'ufficio  g.i.p.,  tribunale  di  Potenza, afferente all'avvenuto
deposito  alle  ore  10,10 del 21 marzo 2002 di copia dell'istanza di
ricusazione,  con  nota  del 27 marzo 2002 il p.g. esprimeva motivato
parere  contrario  all'accoglimento  della  proposta dichiarazione di
ricusazione.
    All'udienza  camerale  del  5 giugno  2002,  assente il Sacco, il
difensore   di   questi  ed  il  p.g.  concludevano  riportandosi  ai
rispettivi atti. Cio' detto va osservato in

                            D i r i t t o

    Va     premesso    che    nel    vigente    impianto    normativo
processual-penalistico (v. segnatamente art. 38 c.p.p.) cosi' come in
quello   anteriore   alla   riforma  del  1988  (art. 65  c.p.p.)  la
dichiarazione di ricusazione, proprio a cagione della rilevanza degli
interessi  coinvolti  e  degli  effetti  che  ne scaturiscono risulta
improntata    ad   assoluto   rigore   formale   traducentesi   nella
perentorieta'  dei  termini  e  nella  insostituibilita'  delle forme
previste  per  la  sua presentazione (v. sul tema, ex coeteris, Cass.
Sez.  II  29 marzo  1991;  Cass.  22 febbraio 1991 n. 1380 Lagostena;
Cass. 30 maggio 1980 Milan). Legittimata alla "proposizione" e' senza
dubbio  la  parte personalmente (come occorso nel caso di specie) non
tenuta,  invece,  anche  alla  personale "presentazione" dell'istanza
autograficamente  sottoscritta, cosi' come gia' ritenuto in relazione
al previgente codice di rito (v. Cass. pen. 5 maggio 1981 Gissi).
    Quanto  ai  "motivi"  della  dichiarazione (la cui indicazione e'
disciplinata dal terzo comma dell'art. 38 c.p.p.) e' da dire che essi
si  sostanziano  nella  prospettata  incompatibilita'  del g.u.p. per
pregresse  pronunce  e  segnatamente  per  avere emesso, all'esito di
precedente  udienza  preliminare  tenuta  nei  confronti dello stesso
imputato  ed  in relazione allo stesso fatto addebitato, sentenza (ex
art. 425  c.p.p.),  poi annullata, ponendo in essere - in tal guisa -
attivita'  cognitiva  e  non  meramente  delibativa, nonche' per aver
emesso  in  procedimento  connesso,  "avente  ad  oggetto  lo  stesso
episodio,  ancorche'  a  parti  processuali invertite", provvedimento
anch'esso postulante piena cognizione dei fatti di causa
    Nell'esprimere    parere    contrario    all'accoglimento   della
dichiarazione  di  ricusazione  il  p.g.  fa rilevare quanto al primo
profilo  rappresentato  dal  Sacco  la  diversita'  della fattispecie
esaminata  dalla  Corte costituzionale nella sentenza n. 224/01 nella
quale   il   giudice,   investito   dell'udienza  preliminare,  aveva
pronunciato  sentenza  sul merito dell'accusa e sulla responsabilita'
dell'imputato  soggetto  a nuova richiesta di rinvio a giudizio e non
gia'   emesso  "sentenza  meramente  processuale"  (quale  quella  ex
art. 425  c.p.p.)  e  -  quanto all'archiviazione - la diversita' del
procedimento  ad  essa  relativo e la non invocabilita' neppure della
sentenza   n. 283/00   della   Corte  costituzionale  riflettente  la
ricusabilita'   del   giudice   che,   chiamato   a   decidere  sulla
responsabilita'   di   un   imputato,  abbia  espresso  in  un  altro
procedimento,  anche  non  penale,  una  valutazione  di merito sullo
stesso  fatto  nei  confronti  del medesimo soggetto, "non essendo il
g.u.p.  chiamato a decidere sulla responsabilita' del Sacco bensi' ad
emettere una decisione di ben diversa natura".
    Orbene,  dubbio  non  v'e'  che  il regime dell'incompatibilita',
deputato  a  garantire  la  sostanziale  terzieta' del giudice, resti
connotato  -  in  applicazione del principio del "giudice naturale" -
dalla   tassativita'   delle   relative   cause,   si'  da  escludere
l'interpretazione estensiva dell'ordito normativo (v. Cass. pen. sez.
III  18 maggio  1993 Ferlito) ed, a fortori, l'applicazione analogica
(Corte cost. 224/01 in motiv.).
    Ne  consegue  che  qualora  venga  ravvisata  identita'  di ratio
rispetto  ad  ipotesi  espressamente  disciplinate  dalla  norma, non
potendosi  addurre  a  fondamento della ricusazione "gravi ragioni di
convenienza",  per  difetto  di  previsione legale, stante il mancato
richiamo  dell'art.  36, lettera h), c.p.p. e comunque sostanziandosi
le medesime in profili di natura esclusivamente extraprocessuale, ne'
potendosi   invocare  un'ermeneutica  del  testo  normativo  di  tipo
estensivo  o  sollecitare  il  ricorso all'integrazione analogica, la
postulata      verifica      della      rispondenza     dell'impianto
processual-penalistico   a  principi  costituzionali  riflettenti  le
guarentigie  difensive,  la  parita'  di  trattamento  ed  il  giusto
processo,  finisce  con  l'appalesarsi  soluzione,  per  cosi'  dire,
obbligata.
    Giova, altresi', rammentare che la prospettazione della questione
di  legittimita'  costituzionale  dell'art. 34  c.p.p. deve - secondo
l'insegnamento  del  Giudice  delle  leggi - pur sempre involgere una
relazione di incompatibilita' i cui termini restano entrambi iscritti
all'interno   del   medesimo  procedimento  penale  (v.  Corte  cost.
306/1997,   307/1997,   308/1997,  351/1997,  fatta  salva  l'ipotesi
affrontata  nella  sent. 371/1996 riguardante pronuncia resa in altro
giudizio  ma  in tema di reato a concorso necessario), mentre qualora
la  valutazione  "pregiudicante"  sia  stata espressa al di fuori del
procedimento,  la  verifica  della  sussistenza  o  meno di un vulnus
all'imparzialita'  del  giudice  potra' essere sollecitata unicamente
con  riguardo  alle previsioni degli artt. 36 e 37 del codice di rito
penale.
    In  definitiva  le  cause  di  incompatibilita'  endoprocessuale,
tassativamente  previste dall'art. 34 c.p.p. sono volte ad evitare in
radice  il  sospetto di condizionamento della definitiva decisione di
merito  derivante  da  precedenti  valutazioni,  anch'esse sul merito
dell'accusa,  cui  il  giudice sia stato chiamato in seno al medesimo
procedimento.  La  giurisprudenza  costituzionale ha puntualizzato 1)
che  presupposto dell'incompatibilita' processuale e' la preesistenza
di  valutazioni  sulla  stessa  res  judicanda,  2)  che non basta la
semplice  "conoscenza" di atti anteriormente compiuti, ma occorre che
di essi sia stata operata una valutazione a fini decisori, 3) che non
tutte  le  valutazioni  sono rilevanti ma solo quelle non formali "di
contenuto", che intervengono quando il giudice si sia pronunciato non
sullo svolgimento del processo (seppure alla stregua delle risultanze
processuali),  ma  sul  merito  dell'accusa,  4)  che  le valutazioni
rilevanti  per  l'incompatibilita'  devono appartenere a fasi diverse
del processo (v. Corte cost. 131/1996).
    Ora,  sulla  scorta dei su enunciati principi va subito detto che
la  prima  delle  denunciate  (dal  ricusante)  incompatibilita'  del
giudice  dell'udienza  preliminare  (e  cioe'  per  avere quegli gia'
emesso  nei  confronti  dello  stesso  imputato  ed in relazione allo
stesso  fatto  sentenza  ex art. 425 c.p.p.) implica rimessione degli
atti  alla  Corte  costituzionale, per le ragioni che si indicheranno
appresso.
    Ovviamente la predetta rimessione resterebbe esclusa, per difetto
di rilevanza della relativa questione, ove l'adita Corte territoriale
potesse  accogliere  la  dichiarazione di ricusazione in relazione al
secondo dei dedotti motivi, riflettente l'incompatibilita' del g.u.p.
per  pregressa  pronuncia di decreto di archiviazione in procedimento
connesso.
    Il che non e'.
    Ed  infatti,  anche  a seguito dell'entrata in vigore della legge
n. 479/1999  (che  si e' limitata ad introdurre nell'ultima parte del
primo  comma  dell'art. 411  c.p.p. la notifica del provvedimento che
dispone  l'archiviazione alla persona sottoposta alle indagini se nel
corso  del  procedimento sia stata applicata la misura della custodia
cautelare),   il  decreto  di  archiviazione  resta  atto  di  natura
procedimentale   sostanziantesi   in   un   mero  accertamento  della
superfluita' del processo (v. Corte cost. n. 319/1993 e n. 252/1991).
La Corte costituzionale ha, inoltre, posto in luce le differenze, per
natura ed effetti, tra decreto di archiviazione da un lato e sentenza
di  non  luogo  a procedere o proscioglimento dall'altra (Corte cost.
n. 134/1993;   Corte  cost.  n. 150/1998  ord).  E  val  la  pena  di
soggiungere   (atteso  lo  spunto  contenuto  nella  declaratoria  di
ricusazione)  che  anche  il  decreto  di  riapertura  delle indagini
integra   decisione   meramente   processuale   avente  l'effetto  di
legittimare  il  p.m.  ad  una  nuova fase investigativa (Corte cost.
455/1994).
    Ne  discende  che  l'incompatibilita'  per pregressa pronuncia in
procedimento connesso non puo' mai correlarsi ad un provvedimento che
non  impinge  nel  "merito  sostanziale" della vicenda processuale e,
quindi,     la     manifesta     infondatezza    dell'eccezione    di
incostituzionalita'  dell'art. 34  c.p.p. (o, semmai, art. 37 c.p.p.)
formulata dal ricusante.
    L'ulteriore  questione,  prospettata  dal  ricusante, riflettente
invece  l'incompatibilita'  alla  funzione  di  giudice  dell'udienza
preliminare,  del  giudice che abbia gia' emesso sentenza ex art. 425
c.p.p.,  poi  annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo
stesso  fatto,  rende  necessario  raccordare  la  valutazione  della
funzione  di  detta  fase processuale e del portato dei provvedimenti
che ne costituiscono l'epilogo ai sopravvenuti mutamenti normativi.
    Orbene,   anteriormente   alle  modifiche  introdotte  con  legge
n. 479/1999  l'indirizzo  giurisprudenziale, sostanzialmente unanime,
era  nel  senso  che  nell'udienza  preliminare  il giudice non fosse
chiamato  affatto  ad  esprimere  valutazioni  sul merito dell'accusa
bensi'  avesse il compito istituzionale di verificare, attraverso una
delibazione meramente processuale, la legittimita' della richiesta di
rinvio   a  giudizio  formulata  dal  p.m.,  in  tal  modo  svolgendo
un'attivita'  meramente  strumentale  che non risultava preordinata a
quella attinente alla decisione del merito della causa. Di tal che la
partecipazione all'udienza preliminare non poteva giammai sostanziare
il    "secondo"    termine    del    rapporto   di   incompatibilita'
endoprocedimentale  inscrivibile nell'art. 34 c.p.p., proprio perche'
detta   norma  mirava  ad  evitare  che  potesse  essere  o  apparire
"pregiudicata"  unicamente l'attivita' di "giudizio", non ravvisabile
nella  predetta  ipotesi  (v.  Cass.  sez. II 21 gennaio 1997, n. 113
Tornese; Cass. pen. sez. VI 16 aprile 1998 Monachella).
    La  Corte  costituzionale,  a riprova della validita' di siffatto
indirizzo,  aveva  osservato  che  diversamente da quanto avviene per
l'udienza  preliminare  svolta  nel  processo ordinario, nell'udienza
preliminare  intervenuta  nel  processo  penale  a carico di imputati
minorenni   il   giudice   e'   chiamato   a  compiere  una  funzione
sostanzialmente  giudicante,  potendo egli adottare un'ampia gamma di
pronunce conclusive del giudizio, altrimenti riservate all'organo del
dibattimento,  alcune  delle quali presuppongono l'affermazione della
responsabilita' dell'imputato (Corte cost. 311/1997, 290/1998).
    Sempre la Corte costituzionale aveva puntualizzato che anche dopo
la  modifica apportata all'art. 425 c.p.p. dalla legge 8 aprile 1993,
n. 105  (che  aveva  soppresso la parola "evidente" a proposito della
risultata   insussistenza  del  fatto,  ampliando  in  tal  guisa  la
possibilita' di pronunciare sentenze di proscioglimento) nell'udienza
preliminare  il giudice non era chiamato ad esprimere valutazioni sul
merito  dell'accusa,  ma  solo  a  verificare,  in una delibazione di
carattere  processuale,  la  legittimita'  della  domanda di giudizio
formulata dal p.m. (Corte cost. 311/1997, 367/1997 ord.).
    La  questione  si  pone,  ad  avviso  del giudice distrettuale in
termini  ancora irrisolti, alla luce delle modifiche introdotte dalla
legge 16 dicembre 1999, n. 479.
    Va  subito  detto  che  con  ordinanza  n. 39  del  6 marzo  2002
(richiamata   anche   dal   ricusante)  la  Corte  costituzionale  ha
dichiarato  la manifesta infondatezza della questione di legittimita'
costituzionale  dell'art. 34  c.p.p.  sollevata  in  riferimento agli
artt. 3 e 24 della Costituzione dal g.u.p. del Tribunale di Benevento
chiamato  a  svolgere  l'udienza preliminare per lo stesso fatto ed a
seguito   delle   stesse  querele  sulla  cui  base  era  gia'  stata
esercitata,   dal   medesimo  giudice,  la  funzione  di  trattazione
dell'udienza preliminare in altro e distinto procedimento penale, con
rinvio  a  giudizio  dinanzi al tribunale cui aveva fatto seguito una
pronuncia di condanna.
    Ora,  a  parte  il  rilievo che la lamentata incompatibilita' non
risulta   "endoprocedimentale"   (come   evidenziato   dalla  P.C.M..
intervenuta  in quel giudizio di leg. costituz.), sta di fatto che il
Giudice   delle   leggi  ha  ritenuto  "sufficiente"  al  fine  della
declaratoria  di  manifesta infondatezza della questione in esame, il
rilievo  che  "il  giudice rimettente non sia chiamato a svolgere una
(nuova)   valutazione  contenutistica  dei  fatti  in  vista  di  una
decisione  di  merito, cio' che secondo la giurisprudenza della Corte
costituzionale   (ad   es.  sent.  131/1996)  costituisce  necessaria
condizione  per  far  valere l'incompatibilita' prevista dall'art. 34
c.p.p.  Dal  che  dovrebbe inferirsi - per quanto interessa in questa
sede  -  che  anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 479/1999,
l'udienza   preliminare   non   esprima   un  momento  di  "giudizio"
pregiudicabile   da   pregressa  valutazione  di  merito.  Sennonche'
l'assoluta mancanza di riferimenti alla legge n. 479/1999 ed alle sue
concrete  implicazioni,  nonche'  il richiamo di un precedente (sent.
131/1996)  sicuramente  rapportabile ad un ordito normativo anteriore
alla  novellazione  operata con la legge Carotti, non offre soluzioni
esaustive sul punto.
    Affronta,   invece,  la  questione  riflettente  le  connotazioni
assunte dall'udienza preliminare dopo l'entrata in vigore della legge
n. 479/1999,   l'ordinanza  della  Corte  costituzionale  n. 185  del
4 giugno  2001,  con  la  quale  e'  stata  dichiarata  la  manifesta
infondatezza   della   questione   di   legittimita'   costituzionale
dell'art. 423  c.p.p.  sollevata,  in  riferimento agli artt. 3 e 111
Cost.   dal   g.i.p.  presso  il  tribunale  militare  di  Padova,  e
riguardante  la  mancata  previsione, in caso di modifica del capo di
imputazione   operata   nel  corso  dell'udienza  preliminare,  della
richiesta  da  parte  del  p.m.  che  la modificata contestazione sia
inserita  nel  verbale  di  udienza  e della notifica del verbale per
estratto all'imputato contumace.
    Osserva,  infatti,  la  Corte  costituzionale  - per la parte che
interessa  in  questa  sede  -  come le pur significative e rilevanti
modifiche  che  la legge n. 479 del 1999 ha apportato alla disciplina
dell'udienza  preliminare,  pur  avendo  contribuito a ridefinire, in
termini  di  maggiore  pregnanza,  la  struttura,  la  dinamica  ed i
contenuti  decisori di quella fase, non ne abbiano tuttavia mutato le
connotazioni  eminentemente  processuali  che  ne  contraddistinguono
l'essenza.  Ed  infatti  -  prosegue  la  Corte  costituzionale  - la
funzione  dell'udienza preliminare era e resta quella di verificare -
sia   pure   alla  luce  di  una  valutazione  "contenutistica"  piu'
penetrante  rispetto  al  passato  -  l'esistenza dei presupposti per
l'accoglimento  della  domanda  di  giudizio  formulata  dal pubblico
ministero,   cosicche'  ad  una  richiesti  in  rito,  non  puo'  non
corrispondere,  in  capo  al giudice, una decisione di eguale natura,
proprio   perche'   anch'essa   calibrata   sulla   prognosi  di  non
superfluita' del sollecitato passaggio alla fase dibattimentale.
    Sennonche'  la  perdurante  problematicita' della questione resta
denotata  -  ad  avviso del giudice distrettuale - tra l'altro, dalle
significative  proposizioni del percorso motivazionale della sentenza
della  Corte costituzionale n. 224 del 4 luglio 2001, con la quale e'
stata  dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 34, comma
1,  c.p.p.  nella  parte  in  cui non prevede l'incompatibilita' alla
funzione  di  giudice  dell'udienza preliminare del giudice che abbia
pronunciato  o  concorso  a  pronunciare sentenza, poi annullata, nei
confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto.
    Nella  succitata  pronuncia  la  Corte  costituzionale riafferma,
innanzitutto,  il  principio  secondo  cui il momento "pregiudicato",
quale   secondo   termine   della   relazione   di   incompatibilita'
endoprocedimentale,   debba  implicare  una  valutazione  sul  merito
dell'accusa  e  non determinazioni incidenti sul semplice svolgimento
del processo, ancorche' adottate sulla base di un apprezzamento delle
risultanze  processuali.  Ma la stessa Corte segnala come per effetto
delle  importanti  innovazioni  introdotte  dalla  legge  n. 479/1999
l'udienza  preliminare  abbia  subito una profonda trasformazione sia
sul  piano degli elementi valutativi che vi possono trovare ingresso,
sia  dei  poteri correlativamente attribuiti al giudice, sia, infine,
quanto alla piu' estesa gamma di decisioni adottabili all'esito della
stessa.
    La  constatata  incompletezza  delle  indagini  da',  invero,  al
giudice  la  possibilita'  di ordinare de plano al pubblico ministero
quali  ulteriori  indagini debba compiere e fissare il termine per il
loro  compimento  o di disporre, anche di ufficio, l'assunzione delle
prove  delle  quali  appaia  evidente  la  decisivita'  ai fini della
sentenza di non luogo a procedere.
    L'ampliamento   del   tema   decisorio   -  sottolinea  la  Corte
costituzionale  -  risulta  coniugato  anche alle nuove cadenze delle
indagini  difensive,  ex  lege  n. 397/2000.  Col  risultato  che  la
determinazione  conclusiva  finisce per involgere un apprezzamento di
merito ormai privo di quei caratteri di "sommarieta'" che prima della
riforma  erano tipici di una delibazione tendenzialmente circoscritta
allo stato degli atti.
    Significativi  risultano,  inoltre,  i profili contenutistici che
puo'  assumere  la  decisione adottata a conclusione dell'udienza. Ed
infatti  il  nuovo  comma  III  dell'art. 425  c.p.p. (introdotto con
l'art. 23,  comma  1, legge n. 479/1999) stabilisce che il giudice e'
tenuto  a  pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche quando
gli  elementi  acquisiti  risultino  insufficienti,  contraddittori o
comunque  non  idonei  a  sostenere  l'accusa in giudizio, laddove il
previgente   impianto   normativo  imponeva  il  rinvio  a  giudizio,
lasciando  cosi'  al  giudice del dibattimento il compito di statuire
sulla sufficienza della prova raccolta.
    La sentenza di non luogo a procedere puo', inoltre, scaturire dal
riconoscimento  delle  circostanze attenuanti e dall'applicazione del
giudizio   comparativo   di   cui  all'art. 69  c.p.  Soluzione  gia'
anticipata   dall'art. 226  del  d.lgs.  19 febbraio  1998  n. 51  ed
impraticabile   alla   stregua   del   previgente   ordito  normativo
processual-penalistico   (Corte  cost.  n. 431/1990;  Cass.  sez.  VI
3 dicembre 1997 Gattari).
    Ugualmente  sul  merito  - prosegue la Corte costituzionale nella
sentenza  n. 244/2001  -  finisce  per proiettarsi la sentenza di non
luogo a procedere per difetto di imputabilita', consentita quando non
ne consegua l'applicazione di una misura di sicurezza, trattandosi di
sentenza che postula il necessario accertamento di responsabilita' in
ordine al fatto reale.
    Va  rimarcato  come  secondo il Giudice delle leggi l'alternativa
decisoria   che  si  offre  al  giudice  quale  epilogo  dell'udienza
preliminare riposi, dunque, su una valutazione del merito dell'accusa
ormai non piu' distinguibile - quanto ad intensita' e completezza del
panorama delibativo - da quella propria di altri momenti processuali,
gia'  ritenuti  non solo "pregiudicanti" ma anche "pregiudicabili" ai
fini della sussistenza dell'incompatibilita'.
    Conclusione  che la Corte costituzionale reputa essere avvalorata
dal  disposto  del  nuovo  comma  2-bis  dell'art. 34 c.p.p. aggiunto
dall'art. 171  del  d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (divenuto efficace
dal  2 gennaio  2000  anche  nei  procedimenti  nei  quali  l'udienza
preliminare  fosse  in  corso  al  24 luglio 1999, data di entrata in
vigore  della  legge n. 234/1999 di conversione del d.l. n. 145/1999)
confermativo  della  particolare  cautela che attualmente circonda il
momento decisionale dell'udienza preliminare dal pericolo della forza
pregiudicante di atti compiuti in precedenza.
    Orbene,  se  una  valutazione  "sostanzialmente"  di merito quale
quella  espressa  all'esito  dell'udienza  preliminare puo' essere (o
apparire)  "pregiudicata" da una precedente sentenza (dibattimentale)
emessa  dallo  stesso  giudice  - persona fisica, non si vede perche'
l'udienza  preliminare  atta  a sostanziare il "momento pregiudicato"
non  possa anche concretare il "momento pregiudicante" nell'ambito di
una relazione di incompatibilita' endoprocedimentale.
    La  compromissione dell'imparzialita' del g.u.p. risulterebbe, in
detta ipotesi, ascrivibile alla forza di prevenzione esercitata nella
reiterata  fase processuale dalle valutazioni gia' espresse in quella
precedente conclusasi con provvedimento (sentenza ex art. 425 c.p.p.)
annullato.
    Ne  discende l'innegabile cittadinanza del dubbio di legittimita'
costituzionale  dell'art. 341, primo comma, c.p.p., in relazione agli
artt.   3,   24   e  111  Cost.,  nella  parte  in  cui  non  prevede
l'incompatibilita'  alla funzione di giudice dell'udienza preliminare
del  giudice  che  in relazione a pregressa udienza preliminare abbia
pronunciato  sentenza  di  non  luogo a procedere, poi annullata, nei
confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto.
    La  non  manifesta infondatezza della questione, la cui soluzione
si  appalesa rilevante per l'esito del procedimento camerale in atto,
involgente  prospettata  compromissione del principio di uguaglianza,
nonche'  del  diritto di difesa e della garanzia del giusto processo,
siccome correlata al vulnus ai principi di terzieta' ed imparzialita'
del  giudice,  resta  vieppiu'  denotata  -  ad  avviso  della  Colte
territoriale   -   dall'analisi   della   surriferita  giurisprudenza
costituzionale,  si' da imporsi la trasmissione degli atti al giudice
delle leggi per i relativi provvedimenti.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Ritenuta   non   manifestamente   infondata   la   questione   di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 34,  comma  1, del c.p.p., in
relazione  agli  artt.  3,  24  e  111  Cost., nella parte in cui non
prevede  l'incompatibilita'  alla  funzione  di  giudice dell'udienza
preliminare   del  giudice  che  in  relazione  a  pregressa  udienza
preliminare  abbia pronunciato sentenza di non luogo a procedere, poi
annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto;
    Ordina  sospendersi  il presente procedimento camerale e disporsi
l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale;
    Ordina, a cura della cancelleria, la notificazione della presente
ordinanza  al  Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  nonche' la
comunicazione  della stessa ai Presidenti del Senato della Repubblica
e della Camera dei deputati.
    Cosi' deciso in Potenza l'11 giugno 2002.
                       Il Presidente: Scermino
                                Il consigliere estensore: Capasso
02C0985