N. 487 ORDINANZA (Atto di promovimento) 18 giugno 2002
Ordinanza emessa il 18 giugno 2002 dalla Corte di appello di Potenza nel procedimento penale a carico di Sacco Vito Processo penale - Incompatibilita' del giudice - Giudice che, in relazione a pregressa udienza preliminare, ha pronunciato sentenza di non luogo a procedere, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto - Incompatibilita' ad esercitare nuovamente la funzione di giudice dell'udienza preliminare - Mancata previsione - Compromissione del principio di eguaglianza, del diritto di difesa e della garanzia del giusto processo. - Cod. proc. pen., art. 34, comma 1. - Costituzione, artt. 3, 24 e 111.(GU n.44 del 6-11-2002 )
LA CORTE DI APPELLO Nella procedura iscritta al n. 16/02 C.C. ricusazioni, avente ad oggetto "Ricusazione della dott.ssa Romaniello, quale g.u.p. Tribunale di Potenza" ha emesso la seguente ordinanza. Con atto depositato in cancelleria dell'adita Corte territoriale il 21 marzo 2002, Sacco Vito, nato ad Avigliano (Potenza) il 4 marzo 1933, imputato nel proced. n. 1121/96 RRG p.m. e n. 909/96 RG g.i.p., fissato per l'udienza preliminare innanzi al g.u.p. c/o il tribunale di Potenza, dott.ssa Romaniello, evidenziava che l'udienza preliminare a celebrarsi era la seconda avente ad oggetto la medesima richiesta di rinvio a giudizio, gia' avanzata dal p.m. in data 3 luglio 1997. Ed infatti la precedente udienza preliminare, definita l'11 maggio 2000 con decreto di citazione a giudizio, emesso dalla medesima dott.ssa Romaniello, era stata annullata dal giudice dell'udienza preliminare. In particolare, contestualmente al decreto di citazione a giudizio dell'11 maggio 2000, il predetto g.u.p. aveva reso anche sentenza (n. 70/2000) con la quale aveva dichiarato non luogo a procedere per una parte degli addebiti originariamente in contestazione, e segnatamente per quello di cui all'art. 341 c.p.p., frattanto abrogato. L'annullamento dell'udienza preliminare aveva travolto anche la suindicata sentenza. Aggiungeva l'istante che la dott.ssa Romaniello era risultata anche altrimenti essersi addentrata ed aver pronunziato nel merito degli stessi fatti oggetto della pendente richiesta di rinvio a giudizio: infatti era stata giudice del decreto di archiviazione datato 31 agosto 2000 con il quale era stato definito il procedimento avente ad oggetto lo stesso identico episodio per cui e' udienza preliminare, sia pure a parti processuali invertite, vale a dire con il Sacco quale p.o./denunziante/querelante e quali indagati gli stessi soggetti che nell'udienza preliminare a celebrarsi figurano quali pp.oo. Premesso di essere edotto della pronuncia della Corte costituzionale del 6 marzo 2002, rilevava l'istante che, tuttavia, la medesima Corte costituzionale con pronuncia del 6 luglio 2001 aveva affermato - mediante declaratoria di illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art. 34, primo comma, c.p.p. - l'incompatibilita' del giudice dell'udienza preliminare che avesse pronunziato sentenza (nel caso di specie: quella dell'11 maggio 2000) poi annullata (come pure era accaduto nel caso in esame) nei confronti del medesimo imputato e per il medesimo fatto. Evidenziava il Sacco come la ratio delle varie declaratorie di incostituzionalita' dell'art. 34 c.p.p. per mancata previsione di incompatibilita' della funzione di g.u.p. fosse stata sempre quella di discernere tra la (consentita) mera attivita' di "delibazione" circa la sussistenza delle condizioni giustificative del rinvio a giudizio e quella (incompatibile) di "cognizione" vera e propria realizzata attraverso qualsivoglia pronuncia relativa al merito sostanziale della vicenda processuale. Tale ratio additava nella fattispecie un ulteriore profilo di incompatibilita' del magistrato procedente: questi, infatti, oltre ad emettere la surrichiamata sentenza, si era gia' pronunziato nel mento del medesimo fatto concernente i medesimi soggetti attivi (non rilevando a tal fine ne' il diverso numero di R.G. ne' i ruoli invertiti imputato/p.o.) col summenzionato decreto di archiviazione. Sosteneva, all'uopo, l'istante che nella sentenza 6 luglio 2001 della Corte costituzionale la pronuncia di incompatibilita' del giudice non era stata fatta discendere dal richiamo al dato formale del nomen del provvedimento decisorio (sentenza o decreto di archiviazione) costituente il precedente incompatibile bensi' dal dato processuale sostanziale che il g.u.p. si fosse o meno esposto in un provvedimento di natura di piena cognizione e non di mera delibazione e tale doveva essere ritenuto, nel caso di specie, il decreto di archiviazione del 31 agosto 2000, decreto allo stato "superato" da formale autorizzazione alla riapertura delle indagini. Concludeva sostenendo che, ferma restando la condizione di incompatibilita' del g.u.p. che aveva emesso sentenza poi annullata a carico del medesimo soggetto e per i medesimi fatti, veicolata merce' dichiarazione di ricusazione ex artt. 34 e segg. c.p.p., l'istanza era da valere quale espressa proposizione della questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 34 c.p.p. per violazione degli artt. 3, 14 e 111 della Carta delle leggi, ove si fosse voluto denegare l'estensione, per ovvia analogia, al decreto di archiviazione dell'incompatibilita' gia' ritenuta dalla Corte costituzionale con riferimento alla sentenza. Acquisita copia del verbale di udienza del 21 marzo 2002 relativa al proced. n. 909/96 R.G. g.i.p. nei confronti del Sacco, tenuta dalla dott.ssa Romaniello, nonche' attestazione della cancelleria dell'ufficio g.i.p., tribunale di Potenza, afferente all'avvenuto deposito alle ore 10,10 del 21 marzo 2002 di copia dell'istanza di ricusazione, con nota del 27 marzo 2002 il p.g. esprimeva motivato parere contrario all'accoglimento della proposta dichiarazione di ricusazione. All'udienza camerale del 5 giugno 2002, assente il Sacco, il difensore di questi ed il p.g. concludevano riportandosi ai rispettivi atti. Cio' detto va osservato in D i r i t t o Va premesso che nel vigente impianto normativo processual-penalistico (v. segnatamente art. 38 c.p.p.) cosi' come in quello anteriore alla riforma del 1988 (art. 65 c.p.p.) la dichiarazione di ricusazione, proprio a cagione della rilevanza degli interessi coinvolti e degli effetti che ne scaturiscono risulta improntata ad assoluto rigore formale traducentesi nella perentorieta' dei termini e nella insostituibilita' delle forme previste per la sua presentazione (v. sul tema, ex coeteris, Cass. Sez. II 29 marzo 1991; Cass. 22 febbraio 1991 n. 1380 Lagostena; Cass. 30 maggio 1980 Milan). Legittimata alla "proposizione" e' senza dubbio la parte personalmente (come occorso nel caso di specie) non tenuta, invece, anche alla personale "presentazione" dell'istanza autograficamente sottoscritta, cosi' come gia' ritenuto in relazione al previgente codice di rito (v. Cass. pen. 5 maggio 1981 Gissi). Quanto ai "motivi" della dichiarazione (la cui indicazione e' disciplinata dal terzo comma dell'art. 38 c.p.p.) e' da dire che essi si sostanziano nella prospettata incompatibilita' del g.u.p. per pregresse pronunce e segnatamente per avere emesso, all'esito di precedente udienza preliminare tenuta nei confronti dello stesso imputato ed in relazione allo stesso fatto addebitato, sentenza (ex art. 425 c.p.p.), poi annullata, ponendo in essere - in tal guisa - attivita' cognitiva e non meramente delibativa, nonche' per aver emesso in procedimento connesso, "avente ad oggetto lo stesso episodio, ancorche' a parti processuali invertite", provvedimento anch'esso postulante piena cognizione dei fatti di causa Nell'esprimere parere contrario all'accoglimento della dichiarazione di ricusazione il p.g. fa rilevare quanto al primo profilo rappresentato dal Sacco la diversita' della fattispecie esaminata dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 224/01 nella quale il giudice, investito dell'udienza preliminare, aveva pronunciato sentenza sul merito dell'accusa e sulla responsabilita' dell'imputato soggetto a nuova richiesta di rinvio a giudizio e non gia' emesso "sentenza meramente processuale" (quale quella ex art. 425 c.p.p.) e - quanto all'archiviazione - la diversita' del procedimento ad essa relativo e la non invocabilita' neppure della sentenza n. 283/00 della Corte costituzionale riflettente la ricusabilita' del giudice che, chiamato a decidere sulla responsabilita' di un imputato, abbia espresso in un altro procedimento, anche non penale, una valutazione di merito sullo stesso fatto nei confronti del medesimo soggetto, "non essendo il g.u.p. chiamato a decidere sulla responsabilita' del Sacco bensi' ad emettere una decisione di ben diversa natura". Orbene, dubbio non v'e' che il regime dell'incompatibilita', deputato a garantire la sostanziale terzieta' del giudice, resti connotato - in applicazione del principio del "giudice naturale" - dalla tassativita' delle relative cause, si' da escludere l'interpretazione estensiva dell'ordito normativo (v. Cass. pen. sez. III 18 maggio 1993 Ferlito) ed, a fortori, l'applicazione analogica (Corte cost. 224/01 in motiv.). Ne consegue che qualora venga ravvisata identita' di ratio rispetto ad ipotesi espressamente disciplinate dalla norma, non potendosi addurre a fondamento della ricusazione "gravi ragioni di convenienza", per difetto di previsione legale, stante il mancato richiamo dell'art. 36, lettera h), c.p.p. e comunque sostanziandosi le medesime in profili di natura esclusivamente extraprocessuale, ne' potendosi invocare un'ermeneutica del testo normativo di tipo estensivo o sollecitare il ricorso all'integrazione analogica, la postulata verifica della rispondenza dell'impianto processual-penalistico a principi costituzionali riflettenti le guarentigie difensive, la parita' di trattamento ed il giusto processo, finisce con l'appalesarsi soluzione, per cosi' dire, obbligata. Giova, altresi', rammentare che la prospettazione della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 34 c.p.p. deve - secondo l'insegnamento del Giudice delle leggi - pur sempre involgere una relazione di incompatibilita' i cui termini restano entrambi iscritti all'interno del medesimo procedimento penale (v. Corte cost. 306/1997, 307/1997, 308/1997, 351/1997, fatta salva l'ipotesi affrontata nella sent. 371/1996 riguardante pronuncia resa in altro giudizio ma in tema di reato a concorso necessario), mentre qualora la valutazione "pregiudicante" sia stata espressa al di fuori del procedimento, la verifica della sussistenza o meno di un vulnus all'imparzialita' del giudice potra' essere sollecitata unicamente con riguardo alle previsioni degli artt. 36 e 37 del codice di rito penale. In definitiva le cause di incompatibilita' endoprocessuale, tassativamente previste dall'art. 34 c.p.p. sono volte ad evitare in radice il sospetto di condizionamento della definitiva decisione di merito derivante da precedenti valutazioni, anch'esse sul merito dell'accusa, cui il giudice sia stato chiamato in seno al medesimo procedimento. La giurisprudenza costituzionale ha puntualizzato 1) che presupposto dell'incompatibilita' processuale e' la preesistenza di valutazioni sulla stessa res judicanda, 2) che non basta la semplice "conoscenza" di atti anteriormente compiuti, ma occorre che di essi sia stata operata una valutazione a fini decisori, 3) che non tutte le valutazioni sono rilevanti ma solo quelle non formali "di contenuto", che intervengono quando il giudice si sia pronunciato non sullo svolgimento del processo (seppure alla stregua delle risultanze processuali), ma sul merito dell'accusa, 4) che le valutazioni rilevanti per l'incompatibilita' devono appartenere a fasi diverse del processo (v. Corte cost. 131/1996). Ora, sulla scorta dei su enunciati principi va subito detto che la prima delle denunciate (dal ricusante) incompatibilita' del giudice dell'udienza preliminare (e cioe' per avere quegli gia' emesso nei confronti dello stesso imputato ed in relazione allo stesso fatto sentenza ex art. 425 c.p.p.) implica rimessione degli atti alla Corte costituzionale, per le ragioni che si indicheranno appresso. Ovviamente la predetta rimessione resterebbe esclusa, per difetto di rilevanza della relativa questione, ove l'adita Corte territoriale potesse accogliere la dichiarazione di ricusazione in relazione al secondo dei dedotti motivi, riflettente l'incompatibilita' del g.u.p. per pregressa pronuncia di decreto di archiviazione in procedimento connesso. Il che non e'. Ed infatti, anche a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 479/1999 (che si e' limitata ad introdurre nell'ultima parte del primo comma dell'art. 411 c.p.p. la notifica del provvedimento che dispone l'archiviazione alla persona sottoposta alle indagini se nel corso del procedimento sia stata applicata la misura della custodia cautelare), il decreto di archiviazione resta atto di natura procedimentale sostanziantesi in un mero accertamento della superfluita' del processo (v. Corte cost. n. 319/1993 e n. 252/1991). La Corte costituzionale ha, inoltre, posto in luce le differenze, per natura ed effetti, tra decreto di archiviazione da un lato e sentenza di non luogo a procedere o proscioglimento dall'altra (Corte cost. n. 134/1993; Corte cost. n. 150/1998 ord). E val la pena di soggiungere (atteso lo spunto contenuto nella declaratoria di ricusazione) che anche il decreto di riapertura delle indagini integra decisione meramente processuale avente l'effetto di legittimare il p.m. ad una nuova fase investigativa (Corte cost. 455/1994). Ne discende che l'incompatibilita' per pregressa pronuncia in procedimento connesso non puo' mai correlarsi ad un provvedimento che non impinge nel "merito sostanziale" della vicenda processuale e, quindi, la manifesta infondatezza dell'eccezione di incostituzionalita' dell'art. 34 c.p.p. (o, semmai, art. 37 c.p.p.) formulata dal ricusante. L'ulteriore questione, prospettata dal ricusante, riflettente invece l'incompatibilita' alla funzione di giudice dell'udienza preliminare, del giudice che abbia gia' emesso sentenza ex art. 425 c.p.p., poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto, rende necessario raccordare la valutazione della funzione di detta fase processuale e del portato dei provvedimenti che ne costituiscono l'epilogo ai sopravvenuti mutamenti normativi. Orbene, anteriormente alle modifiche introdotte con legge n. 479/1999 l'indirizzo giurisprudenziale, sostanzialmente unanime, era nel senso che nell'udienza preliminare il giudice non fosse chiamato affatto ad esprimere valutazioni sul merito dell'accusa bensi' avesse il compito istituzionale di verificare, attraverso una delibazione meramente processuale, la legittimita' della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal p.m., in tal modo svolgendo un'attivita' meramente strumentale che non risultava preordinata a quella attinente alla decisione del merito della causa. Di tal che la partecipazione all'udienza preliminare non poteva giammai sostanziare il "secondo" termine del rapporto di incompatibilita' endoprocedimentale inscrivibile nell'art. 34 c.p.p., proprio perche' detta norma mirava ad evitare che potesse essere o apparire "pregiudicata" unicamente l'attivita' di "giudizio", non ravvisabile nella predetta ipotesi (v. Cass. sez. II 21 gennaio 1997, n. 113 Tornese; Cass. pen. sez. VI 16 aprile 1998 Monachella). La Corte costituzionale, a riprova della validita' di siffatto indirizzo, aveva osservato che diversamente da quanto avviene per l'udienza preliminare svolta nel processo ordinario, nell'udienza preliminare intervenuta nel processo penale a carico di imputati minorenni il giudice e' chiamato a compiere una funzione sostanzialmente giudicante, potendo egli adottare un'ampia gamma di pronunce conclusive del giudizio, altrimenti riservate all'organo del dibattimento, alcune delle quali presuppongono l'affermazione della responsabilita' dell'imputato (Corte cost. 311/1997, 290/1998). Sempre la Corte costituzionale aveva puntualizzato che anche dopo la modifica apportata all'art. 425 c.p.p. dalla legge 8 aprile 1993, n. 105 (che aveva soppresso la parola "evidente" a proposito della risultata insussistenza del fatto, ampliando in tal guisa la possibilita' di pronunciare sentenze di proscioglimento) nell'udienza preliminare il giudice non era chiamato ad esprimere valutazioni sul merito dell'accusa, ma solo a verificare, in una delibazione di carattere processuale, la legittimita' della domanda di giudizio formulata dal p.m. (Corte cost. 311/1997, 367/1997 ord.). La questione si pone, ad avviso del giudice distrettuale in termini ancora irrisolti, alla luce delle modifiche introdotte dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479. Va subito detto che con ordinanza n. 39 del 6 marzo 2002 (richiamata anche dal ricusante) la Corte costituzionale ha dichiarato la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 34 c.p.p. sollevata in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione dal g.u.p. del Tribunale di Benevento chiamato a svolgere l'udienza preliminare per lo stesso fatto ed a seguito delle stesse querele sulla cui base era gia' stata esercitata, dal medesimo giudice, la funzione di trattazione dell'udienza preliminare in altro e distinto procedimento penale, con rinvio a giudizio dinanzi al tribunale cui aveva fatto seguito una pronuncia di condanna. Ora, a parte il rilievo che la lamentata incompatibilita' non risulta "endoprocedimentale" (come evidenziato dalla P.C.M.. intervenuta in quel giudizio di leg. costituz.), sta di fatto che il Giudice delle leggi ha ritenuto "sufficiente" al fine della declaratoria di manifesta infondatezza della questione in esame, il rilievo che "il giudice rimettente non sia chiamato a svolgere una (nuova) valutazione contenutistica dei fatti in vista di una decisione di merito, cio' che secondo la giurisprudenza della Corte costituzionale (ad es. sent. 131/1996) costituisce necessaria condizione per far valere l'incompatibilita' prevista dall'art. 34 c.p.p. Dal che dovrebbe inferirsi - per quanto interessa in questa sede - che anche dopo l'entrata in vigore della legge n. 479/1999, l'udienza preliminare non esprima un momento di "giudizio" pregiudicabile da pregressa valutazione di merito. Sennonche' l'assoluta mancanza di riferimenti alla legge n. 479/1999 ed alle sue concrete implicazioni, nonche' il richiamo di un precedente (sent. 131/1996) sicuramente rapportabile ad un ordito normativo anteriore alla novellazione operata con la legge Carotti, non offre soluzioni esaustive sul punto. Affronta, invece, la questione riflettente le connotazioni assunte dall'udienza preliminare dopo l'entrata in vigore della legge n. 479/1999, l'ordinanza della Corte costituzionale n. 185 del 4 giugno 2001, con la quale e' stata dichiarata la manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 423 c.p.p. sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost. dal g.i.p. presso il tribunale militare di Padova, e riguardante la mancata previsione, in caso di modifica del capo di imputazione operata nel corso dell'udienza preliminare, della richiesta da parte del p.m. che la modificata contestazione sia inserita nel verbale di udienza e della notifica del verbale per estratto all'imputato contumace. Osserva, infatti, la Corte costituzionale - per la parte che interessa in questa sede - come le pur significative e rilevanti modifiche che la legge n. 479 del 1999 ha apportato alla disciplina dell'udienza preliminare, pur avendo contribuito a ridefinire, in termini di maggiore pregnanza, la struttura, la dinamica ed i contenuti decisori di quella fase, non ne abbiano tuttavia mutato le connotazioni eminentemente processuali che ne contraddistinguono l'essenza. Ed infatti - prosegue la Corte costituzionale - la funzione dell'udienza preliminare era e resta quella di verificare - sia pure alla luce di una valutazione "contenutistica" piu' penetrante rispetto al passato - l'esistenza dei presupposti per l'accoglimento della domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero, cosicche' ad una richiesti in rito, non puo' non corrispondere, in capo al giudice, una decisione di eguale natura, proprio perche' anch'essa calibrata sulla prognosi di non superfluita' del sollecitato passaggio alla fase dibattimentale. Sennonche' la perdurante problematicita' della questione resta denotata - ad avviso del giudice distrettuale - tra l'altro, dalle significative proposizioni del percorso motivazionale della sentenza della Corte costituzionale n. 224 del 4 luglio 2001, con la quale e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 1, c.p.p. nella parte in cui non prevede l'incompatibilita' alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto. Nella succitata pronuncia la Corte costituzionale riafferma, innanzitutto, il principio secondo cui il momento "pregiudicato", quale secondo termine della relazione di incompatibilita' endoprocedimentale, debba implicare una valutazione sul merito dell'accusa e non determinazioni incidenti sul semplice svolgimento del processo, ancorche' adottate sulla base di un apprezzamento delle risultanze processuali. Ma la stessa Corte segnala come per effetto delle importanti innovazioni introdotte dalla legge n. 479/1999 l'udienza preliminare abbia subito una profonda trasformazione sia sul piano degli elementi valutativi che vi possono trovare ingresso, sia dei poteri correlativamente attribuiti al giudice, sia, infine, quanto alla piu' estesa gamma di decisioni adottabili all'esito della stessa. La constatata incompletezza delle indagini da', invero, al giudice la possibilita' di ordinare de plano al pubblico ministero quali ulteriori indagini debba compiere e fissare il termine per il loro compimento o di disporre, anche di ufficio, l'assunzione delle prove delle quali appaia evidente la decisivita' ai fini della sentenza di non luogo a procedere. L'ampliamento del tema decisorio - sottolinea la Corte costituzionale - risulta coniugato anche alle nuove cadenze delle indagini difensive, ex lege n. 397/2000. Col risultato che la determinazione conclusiva finisce per involgere un apprezzamento di merito ormai privo di quei caratteri di "sommarieta'" che prima della riforma erano tipici di una delibazione tendenzialmente circoscritta allo stato degli atti. Significativi risultano, inoltre, i profili contenutistici che puo' assumere la decisione adottata a conclusione dell'udienza. Ed infatti il nuovo comma III dell'art. 425 c.p.p. (introdotto con l'art. 23, comma 1, legge n. 479/1999) stabilisce che il giudice e' tenuto a pronunciare sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultino insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l'accusa in giudizio, laddove il previgente impianto normativo imponeva il rinvio a giudizio, lasciando cosi' al giudice del dibattimento il compito di statuire sulla sufficienza della prova raccolta. La sentenza di non luogo a procedere puo', inoltre, scaturire dal riconoscimento delle circostanze attenuanti e dall'applicazione del giudizio comparativo di cui all'art. 69 c.p. Soluzione gia' anticipata dall'art. 226 del d.lgs. 19 febbraio 1998 n. 51 ed impraticabile alla stregua del previgente ordito normativo processual-penalistico (Corte cost. n. 431/1990; Cass. sez. VI 3 dicembre 1997 Gattari). Ugualmente sul merito - prosegue la Corte costituzionale nella sentenza n. 244/2001 - finisce per proiettarsi la sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilita', consentita quando non ne consegua l'applicazione di una misura di sicurezza, trattandosi di sentenza che postula il necessario accertamento di responsabilita' in ordine al fatto reale. Va rimarcato come secondo il Giudice delle leggi l'alternativa decisoria che si offre al giudice quale epilogo dell'udienza preliminare riposi, dunque, su una valutazione del merito dell'accusa ormai non piu' distinguibile - quanto ad intensita' e completezza del panorama delibativo - da quella propria di altri momenti processuali, gia' ritenuti non solo "pregiudicanti" ma anche "pregiudicabili" ai fini della sussistenza dell'incompatibilita'. Conclusione che la Corte costituzionale reputa essere avvalorata dal disposto del nuovo comma 2-bis dell'art. 34 c.p.p. aggiunto dall'art. 171 del d.lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 (divenuto efficace dal 2 gennaio 2000 anche nei procedimenti nei quali l'udienza preliminare fosse in corso al 24 luglio 1999, data di entrata in vigore della legge n. 234/1999 di conversione del d.l. n. 145/1999) confermativo della particolare cautela che attualmente circonda il momento decisionale dell'udienza preliminare dal pericolo della forza pregiudicante di atti compiuti in precedenza. Orbene, se una valutazione "sostanzialmente" di merito quale quella espressa all'esito dell'udienza preliminare puo' essere (o apparire) "pregiudicata" da una precedente sentenza (dibattimentale) emessa dallo stesso giudice - persona fisica, non si vede perche' l'udienza preliminare atta a sostanziare il "momento pregiudicato" non possa anche concretare il "momento pregiudicante" nell'ambito di una relazione di incompatibilita' endoprocedimentale. La compromissione dell'imparzialita' del g.u.p. risulterebbe, in detta ipotesi, ascrivibile alla forza di prevenzione esercitata nella reiterata fase processuale dalle valutazioni gia' espresse in quella precedente conclusasi con provvedimento (sentenza ex art. 425 c.p.p.) annullato. Ne discende l'innegabile cittadinanza del dubbio di legittimita' costituzionale dell'art. 341, primo comma, c.p.p., in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede l'incompatibilita' alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del giudice che in relazione a pregressa udienza preliminare abbia pronunciato sentenza di non luogo a procedere, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto. La non manifesta infondatezza della questione, la cui soluzione si appalesa rilevante per l'esito del procedimento camerale in atto, involgente prospettata compromissione del principio di uguaglianza, nonche' del diritto di difesa e della garanzia del giusto processo, siccome correlata al vulnus ai principi di terzieta' ed imparzialita' del giudice, resta vieppiu' denotata - ad avviso della Colte territoriale - dall'analisi della surriferita giurisprudenza costituzionale, si' da imporsi la trasmissione degli atti al giudice delle leggi per i relativi provvedimenti.
P. Q. M. Visto l'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87; Ritenuta non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 34, comma 1, del c.p.p., in relazione agli artt. 3, 24 e 111 Cost., nella parte in cui non prevede l'incompatibilita' alla funzione di giudice dell'udienza preliminare del giudice che in relazione a pregressa udienza preliminare abbia pronunciato sentenza di non luogo a procedere, poi annullata, nei confronti del medesimo imputato e per lo stesso fatto; Ordina sospendersi il presente procedimento camerale e disporsi l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Ordina, a cura della cancelleria, la notificazione della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri, nonche' la comunicazione della stessa ai Presidenti del Senato della Repubblica e della Camera dei deputati. Cosi' deciso in Potenza l'11 giugno 2002. Il Presidente: Scermino Il consigliere estensore: Capasso 02C0985