N. 535 ORDINANZA (Atto di promovimento) 19 settembre 2002

Ordinanza  emessa  il  19  settembre 2002 dal g.i.p. del Tribunale di
Forli' nel procedimento penale a carico di Gardini Secondo

Reati  e  pene  -  False  comunicazioni  sociali  -  Natura  -  Reato
  contravvenzionale  -  Lesione  del  principio di eguaglianza per il
  diverso  regime  previsto, anche in relazione alla configurabilita'
  del tentativo, per la fattispecie, caratterizzata dal medesimo dolo
  specifico,  di  false comunicazioni sociali in danno dei soci o dei
  creditori, qualificata come delitto.
- Cod. civ., artt. 2621 e 2622, in combinato disposto.
- Costituzione, art. 3.
Reati  e  pene  -  False  comunicazioni  sociali  -  Natura  -  Reato
  contravvenzionale  -  Perseguibilita'  a  querela  - Non consentita
  perseguibilita'  nel  caso  di  commissione  del reato all'estero -
  Mancata   adeguata  considerazione  della  gravita'  della  lesione
  (interesse  pubblico  alla  trasparenza  del  mercato)  in  cui  si
  sostanzia  l'elemento oggettivo del reato - Lesione della finalita'
  rieducativa  della  pena  - Violazione del principio di eguaglianza
  per  il diverso regime previsto per il reato di aggiotaggio, lesivo
  dei medesimi interessi - Disparita' di trattamento nella ipotesi di
  falso consumato in una societa' controllata avente sede all'estero.
- Cod. civ., art. 2621.
- Costituzione, artt. 27, terzo comma, e 3.
Reati  e  pene  - False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei
  creditori  - Perseguibilita' a querela - Mancata considerazione del
  carattere   plurioffensivo   del  reato  previsto  a  tutela  degli
  interessi  patrimoniali  di  singoli  (soci  o  creditori) ma anche
  dell'interesse  pubblico alla trasparenza del mercato - Sostanziale
  impossibilita'  per  i  soggetti  legittimati  a proporre querela -
  Irragionevolezza.
- Cod. civ., art. 2622.
- Costituzione, artt. 24, primo comma, e 3.
Reati  e  pene  - False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei
  creditori  - Perseguibilita' d'ufficio quando si tratti di societa'
  quotata in borsa - Sostanziale impossibilita' della perseguibilita'
  d'ufficio  qualora la falsita' del bilancio consolidato di societa'
  quotate  in borsa derivi da falsita' proprie di bilanci di societa'
  controllate non quotate - Disparita' di trattamento.
- Cod civ., art. 2622, comma 2.
- Costituzione, art. 3.
Reati  e  pene  - False comunicazioni sociali in danno dei soci o dei
  creditori  - Perseguibilita' a querela - Remissione della querela -
  Incidenza  sulla  configurabilita' del reato di false comunicazioni
  sociali  di  cui  all'art.  2621  cod.  civ.  -  Irragionevolezza -
  Disparita' di trattamento.
- Cod civ., art. 2622.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.50 del 18-12-2002 )
               IL GIUDICE PER LE INDAGINI PRELIMINARI


                          Premesso in fatto

    Con   denuncia-querela  in  data  4 maggio  2001,  Gardini  Palma
esponeva  che  il  giorno  27 dicembre  1999 era morto senza lasciare
testamento  suo padre Gardini Quinto, al quale erano succeduti, quali
legittimi  eredi,  ella  ed  il  fratello Gardini Secondo, che l'asse
ereditario  era  comprensivo  di  quote  nominali,  pari  al  50%, di
partecipazione   alla  societa'  "Gardini  Quinto  &  C.  S.n.c."  di
Cesenatico; che ella aveva quindi chiesto la liquidazione della quota
a  lei  spettante, pari a un quarto; che Gardini Secondo, che gestiva
l'impresa,  le  aveva offerto, in liquidazione di quanto le spettava,
una  somma  del  tutto  inadeguata  rispetto  all'entita' e al valore
dell'azienda   in   questione;   che  dalla  situazione  patrimoniale
societaria  presentata  da  Gardini  Secondo  alla Confartigianato di
Cesenatico,  per  la  redazione  del  bilancio  al  31 dicembre 1999,
risultava  una situazione patrimoniale assai diversa da quella invece
risultante dalla dichiarazione di successione dal medesimo presentata
a un notaio.
    Sulla  base  di  tale  denuncia,  il p.m. di Forli' iscriveva sul
registro  delle  notizie  di  reato,  a  carico  di  Gardini Secondo,
fattispecie di reato ex artt. 56, 640 c.p. e 2621 c.c.
    All'esito  delle  indagini  all'uopo  disposte,  il p.m., in data
3 novembre  2001,  richiedeva  l'archiviazione  del  procedimento  al
g.i.p.,  il  quale,  non accogliendo la richiesta, fissava udienza in
camera  di  consiglio  e  poi,  in  data  21 marzo 2002, rigettava la
richiesta.
    Il p.m., svolte le indagini indicate dal g.i.p., in data 6 aprile
2002  reiterava  la richiesta di archiviazione. Nuovamente il g.i.p.,
non  accogliendo  la  richiesta,  con  provvedimento in data 8 maggio
2002, fissava udienza in camera di consiglio.
    In  data  11 giugno  2002,  Gardini  Palma  proponeva,  ai  sensi
dell'art. 5  del decreto legislativo n. 61/2002, querela in ordine al
nuovo reato di cui all'art. 2622 c.c.
    In   data  24 luglio  2002  si  teneva  l'udienza  in  camera  di
consiglio, all'esito della quale questo g.i.p. si e' riservato;

                         Premesso in diritto

    Il  fatto-reato  attribuito  nell'originaria  denuncia  a Gardini
Secondo,  e  che il p.m. ha trasfuso nell'iscrizione del reato di cui
all'art. 2621  c.c.  vecchio  testo,  riproduce  ora  le due distinte
fattispecie  previste  dal  d.lgs.  n. 61/2002,  che  ha riformato la
materia  del  falso  in  bilancio, ossia la contravvenzione di cui al
nuovo    art. 2621,    reato    di   false   comunicazioni   sociali,
contraddistinto  dal  dolo specifico di trarre in inganno i soci o il
pubblico,  che  il  Gardini,  nello specifico, avrebbe commesso nella
dichiarazione di successione al padre in atto notarile, atto pubblico
ed il delitto previsto dall'art. 2622 c.c. nuovo testo, che contempla
la  diversa,  ulteriore  ipotesi  in  cui,  dalla condotta penalmente
rilevante  ai  sensi  dell'articolo  precedente  (contraddistinta dal
medesimo  dolo  specifico),  sia  derivato un danno per un socio o un
creditore (nel caso, Gardini Palma).
    Peraltro, la querela sporta da Gardini Palma ai sensi dell'art. 5
d.lgs.  n. 61/2002,  non  puo'  essere  considerata  tale  in  quanto
mancante  dei  requisiti all'uopo previsti per la presentazione della
querela.
    Essa, infatti, e' stata presentata su due fogli riportanti sia il
testo  della  stessa  che  le relative sottoscrizioni in calce (della
querelante e del difensore) in fotocopia.
    Con  atto  successivo  di ratifica, sottoscritto da ufficiale dei
Carabinieri  e  dalla  Gardini  di  seguito nel secondo foglio, vi e'
conferma del contenuto della querela.
    Tale formula, tuttavia, non e' aderente alle forme tassativamente
previste  a pena di nullita' dagli artt. 333 e 337 c.p.p. Infatti, la
conferma e/o ratifica esula da poteri accertativi del contenuto della
volonta'  negoziale del querelante, propri del pubblico ufficiale che
riceve  la  querela,  il  quale  ha  la  sola  funzione  di stabilire
l'identita'  del  querelante (si veda Cass. n. 7857/1987, la quale ha
specificato  che  la cosiddetta conferma o ratifica della querela non
e'  riferibile  al querelante, ma e' atto esclusivamente rapportabile
all'autorita'  che  ha  ricevuto la querela, la quale, appunto, ha la
sola  funzione  di  stabilire l'identita' del querelante; conf. Cass.
13055/2000, la quale riconduce l'attivita' del pubblico ufficiale che
ha ricevuto la querela alla sola identificazione del querelante).
    Ne'  la  sottoscrizione  apposta  dalla  Gardini  al  verbale  di
ratifica  puo'  essere riferita al contenuto della querela, in quanto
non  apposta  in  calce  alla  stessa  ma in calce ad altro atto (sul
punto,  Cass.  4321/2000,  per  la quale "ogni documento scritto, per
assumere rilevanza e produrre effetti giuridici, deve recare in calce
la firma del suo autore").
    Va inoltre considerato che, in via di principio, la ratifica puo'
intervenire  a  sanare  un  atto viziato ma esistente, ma non un atto
inesistente   in   quanto   mancante   di   sottoscrizione.   A  tali
considerazioni  di  principio  ci  si  deve riferire in quanto qui la
ratifica  attiene  a  un  atto  come  la  querela  che  ha  contenuto
negoziale. (Giurisprudenza costante, da ultimo Cass. n. 4695/2000).
    La  querela  sporta dalla Gardini in data 11 giugno 2002, quindi,
deve  considerarsi tamquam non esset per difetto delle forme previste
a pena di nullita'.
    A   questo  punto,  questo  giudice,  in  ordine  all'ipotesi  ex
art. 2622  c.c.,  dovrebbe  archiviare  il  procedimento, senza poter
scendere nel merito della questione.
    lmpregiudicata  ogni  decisione  in  ordine  alla  fattispecie ex
art. 2621,  questa  dovrebbe  comunque, anche nell'ipotesi di rigetto
della  richiesta  di  archiviazione  ed eventuale imputazione coatta,
essere considerata secondo la sua nuova natura contravvenzionale, con
tutto quanto ne segue (in primis, quanto riguarda la prescrizione).
    E' pertanto rilevante la questione di legittimita' costituzionale
che  si  va  ora  ad esporre in relazione alla nuova normativa di cui
agli artt. 2621 e 2622 c.c.
    Questione    di    legittimita'    costituzionale,    sul   piano
logico-sistematico,  ed  in  relazione  al comune dolo specifico, del
combinato  disposto  degli  artt. 2621  e  2622  c.c.  Contrasto  con
l'art. 3 Cost.
    Occorre   anzitutto  considerare  che  le  nuove  fattispecie  ex
artt. 2621   e  2622  c.c.  sono  caratterizzate  dal  medesimo  dolo
specifico.
    Peraltro, questa diversita' dell'elemento oggettivo nei due reati
(in  relazione  al  quale  essi  si  inquadrano  come  fattispecie  a
formazione  progressiva: nell'un caso, la dichiarazione infedele, nel
secondo la dichiarazione infedele a cui consegua un danno specifico e
concreto  per singoli soci o creditori), ovviamente, deve riflettersi
sull'elemento soggettivo quale rappresentazione dell'evento tipico.
    Bisogna  allora  chiedersi  se,  in  costanza  del  medesimo dolo
specifico,  si  giustifichino risposte repressive cosi' diverse, tali
addirittura  che  in  un  caso  si  ha  contravvenzione  e nell'altro
delitto.
    E'  utile,  al riguardo, richiamare la giurisprudenza della Corte
costituzionale   affermativa  di  principi  all'uopo  assumibili,  in
particolare   la   sentenza   n. 247/1989,   concernente   l'abrogata
fattispecie  ex  art. 4  n. 7  d.l.  n. 429/1982  (in  particolare la
legittimita'   della   previsione   normativa   dell'alterazione   di
componenti   di   reddito  "in  misura  rilevante"  quale  soglia  di
punibilita'  della  falsa  dichiarazione  dei  redditi del lavoratore
indipendente),  ove  si  e'  affermato  che la "misura rilevante" non
poteva  ragionevolmente far parte dell'oggetto del dolo, in quanto un
tale  coefficiente  psicologico presupponeva da parte dell'agente, un
calcolo  puntuale di profitti da indebitamente conseguire, mentre, di
regola,  la condotta dissimulatoria o simulatoria e tenuta secondo un
criterio   di   opportunita'   criminosa   non   implica  affatto  la
determinazione del risparmio da conseguire.
    Nel  caso  del  nuovo  falso  in  bilancio,  e quindi delle nuove
previsioni  normative  di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., ci si deve
allora  chiedere se il diverso coefficiente psicologico che distingue
le  due  ipotesi  di reato (nella fattispecie ex art. 2622 c.c., mera
rappresentazione  di un evento di danno in costanza del medesimo dolo
specifico  che  ispira  la fattispecie ex art. 2621 c.c.) sia tale da
giustificare risposte sanzionatorie cosi' radicalmente diverse.
    Invero,  cio'  non appare ragionevole, se si considera che, nella
sentenza  n. 247/1989  della Corte costituzionale, veniva contemplata
un'ipotesi  di  evento voluto nel tipico interesse dell'agente (utile
da  risparmio  fiscale),  e  quindi, fisiologicamente, oggetto di una
volizione, mentre nel caso dell'art. 2622 c.c. si tratta, come detto,
della  mera  rappresentazione  di un evento di danno che, incidenter,
viene  causato  a  terzi  (soci o creditori) quale conseguenza di una
primaria e diversa volonta' di base (la frode in danno dei soci o del
pubblico),  e  che  puo'  anche  costituire  mera  accettazione di un
rischio,  nei  termini del dolo eventuale (ammesso poi che questo sia
configurabile, stante la previsione del dolo specifico).
    Sembra,  quindi,  che  non  vi  sia quel ragionevole coefficiente
psicologico  tale  da  ritenere  verosimile,  in capo all'agente, una
opportunita'   criminosa   (data  dal  danno  incidentale  a  soci  o
creditori)   cosi'  diversa  e  decisiva  da  rendere  plausibile  il
passaggio da una contravvenzione a un delitto.
    Sempre  nella  sentenza  n. 247/1989,  la Corte costituzionale ha
affermato  che gli elementi condizionanti la risposta punitiva devono
fungere  "da filtro selettivo nel ricorso alla sanzione criminale per
fatti  meritevoli  di pena" "in funzione della parita' di trattamento
tra  gli  autori  del fatto illecito, la cui selezione repressiva non
puo' porsi in contrasto con il principio di uguaglianza".
    Lo  stridore  della nuova impostazione normativa, poi, si avverte
ulteriormente  se  si  considera  che  per  le  ipotesi  ex art. 2621
(contravvenzione)  non  e' ipotizzabile il tentativo, a differenza di
quelle  ex  art. 2622  (delitto),  quando  l'elemento  soggettivo  di
entrambe  e'  connotato  dallo stesso dolo specifico. Apparendo, come
detto,  del  tutto  conseguenziale  ed  eventuale  il  danno a soci o
creditori,   e   quindi   essendo  del  tutto  marginale,  sul  piano
dell'elemento   psicologico,  la  rappresentazione  o  l'accettazione
ditale   danno,  il  rilievo  di  una  violazione  del  principio  di
proporzione   della   pena   in  fattispecie  diverse,  e  quindi  di
uguaglianza  (art. 3 Cost.), anche in relazione alla configurabilita'
del tentativo, s'impone.
    Questione    di    legittimita'   costituzionale   della   natura
contravvenzionale  del  nuovo  reato  di  false comunicazioni sociali
previsto dal nuovo art. 2621 c.c. Contrasto con gli artt. 27, comma 3
e 3 Cost.
    Dubbi  di  legittimita'  costituzionale della nuova normativa sul
falso  in  bilancio,  peraltro, devono incentrarsi anche sulla natura
contravvenzionale dell'ipotesi ex art. 2621 c.c. (false comunicazioni
sociali tout court).
    La  Corte  costituzionale,  in  un'altra  sentenza  (n. 50/1980),
infatti,   gia'   aveva   rimarcato   come   l'eventuale   dubbio  di
incostituzionalita' di una previsione di reato "puo' essere, caso per
caso,   superato  a  condizione  che,  per  la  natura  dell'illecito
sanzionato  e  per  la  misura  della sanzione prevista, quest'ultima
appaia  ragionevolmente  proporzionata  rispetto  all'intera gamma di
comportamenti riconducibile allo specifico tipo di reato"
    Occorre  allora  richiamare,  ai  fini  che  qui  interessano, la
giurisprudenza,  univoca e consolidata, della Corte di cassazione, la
quale  ha  affermato  che  il  reato  di  falso  in bilancio e' reato
plurioffensivo,  posto  a  tutela  degli interessi patrimoniali della
societa',  dei  singoli  soci, dei creditori, ma anche a tutela degli
interessi   dei   terzi  in  genere  e  della  fede  pubblica  (Cass.
n. 4073/1994,  idem,  sulla  plurioffensivita',  Cass.  n. 307/1990).
Sempre  secondo la Corte, "la pubblicazione del bilancio e' strumento
insostituibile  di garanzia per i terzi che vengono a contatto con la
societa'"  (Cass. n. 1585/1966), ed ancora, la tutela garantita dalla
previsione  del  reato  di  falso  in  bilancio "riguarda non solo la
societa',  i  soci  uti  singuli,  i  futuri  soci, i creditori e, in
genere,  i terzi interessati, ma si estende all'interesse generale al
regolare    funzionamento    delle   societa'   commerciali"   (Cass.
n. 6889/2001).
    Il bilancio, quindi, proprio per la sua attitudine a garantire la
veridicita' di un documento ufficiale destinato a riprodurre lo stato
economico di un soggetto operante nel mercato, soddisfa un preminente
interesse   pubblico.  Ed  infatti,  la  Corte  ha  anche  affermato,
esplicitamente  e  coerentemente,  che  la  norma di cui all'abrogato
art. 2621  c.c.  tutelava la fede pubblica documentale, ossia un bene
tipicamente  indisponibile, come tale fuori della teoria del consenso
dell'offeso (Cass. n. 3416/1981).
    Il sistema normativo introdotto dai nuovi artt. 2621 e 2622 c.c.,
quindi, non sembra aderire al principio di proporzione ribadito dalla
Corte  costituzionale  nella citata sentenza n. 50/1980, peraltro poi
confermato  dalla  stessa  Corte  costituzionale  in altra successiva
sentenza,  n. 243/1994,  ove,  ancora,  si  riafferma che nel sistema
penale  sussiste  pur sempre un'apprezzabile differenza fra delitti e
contravvenzioni  che comporta, sotto taluni aspetti, quali l'elemento
psicologico,  un  diverso regime giuridico (nella sentenza n. 50/1980
gia'  la  Corte  aveva  dato atto che "la congiunta considerazione di
fatti  dolosi  e  colposi",  sia  pure  "a fronte di cornici edittali
aperte", "e' la regola in materia contravvenzionale").
    Viene  infatti  sanzionato  come contravvenzione un reato che non
solo  non implica quella fisiologica indifferenziazione dell'elemento
soggettivo   che,  di  massima,  contraddistingue  la  species  delle
contravvenzioni, ma addirittura presuppone il dolo specifico.
    Vero   e'   che  il  sistema  penale  prevede  ipotesi  di  reato
contravvenzionale  tipicamente  dolose  (art. 661  c.p.,  abuso della
credulita'  popolare, art. 137, comma 2, d.lgs. n. 385/1993, mendacio
e  falso  interno  bancario  da  parte  del dipendente bancario, pure
contraddistinta    da   dolo   specifico).   Peraltro   (considerato,
ovviamente,  l'insindacabile potere di valutazione delle opportunita'
di   politica  penale  proprie  del  legislatore),  questa  apparente
anomalia  si spiega in quanto si tratta di fatti contrassegnati da un
disvalore  limitato,  segnatamente,  nel  caso  del  falso e mendacio
bancario,  contenuto  entro ambiti di interesse privato e individuale
(favorire  il singolo mutuatario), per i quali, quindi, si giustifica
la piu' tenue dimensione contravvenzionale.
    L'ipotesi  contravvenzionale  ex art. 2621 c.c., invece, concerne
un  fatto  altamente  lesivo  di  un bene pubblico, ossia l'interesse
pubblico  alla  trasparenza  del mercato, fattore primario e fondante
della  moderna  societa' liberale. L'elemento oggettivo di tale reato
si  sostanzia,  quindi,  in una lesione estremamente grave. Non solo.
Anche  l'elemento soggettivo del reato e' previsto nella piu' intensa
espressione  possibile (il dolo specifico). A fronte di tali elementi
di   (primaria)   gravita',  la  risposta  sanzionatoria  ideata  dal
legislatore  e'  quella  tipicamente  ancorata  alla  sussistenza del
requisito subiettivo minimo di imputazione costituito dalla colpa, ed
altresi'  tipicamente  riservata  alla  parvitas  materiae  (cosi' si
esprime  la  dottrina  piu'  recente  ed  accreditata  in  materia di
contravvenzioni: Donini, "Il delitto contravvenzionale").
    Sorgono  quindi dubbi sull'adeguatezza di tale risposta del tutto
inadeguata,  quanto meno in relazione alla funzione rieducativa della
pena.
    Occorre, su questo punto, richiamare nuovamente la giurisprudenza
della   Corte  costituzionale,  la  quale  (sentenza  n. 50/1980)  ha
affermato   che   "l'adeguamento  delle  risposte  punitive  ai  casi
concreti,   in   termini   di  uguaglianza  e/o  differenziazione  di
trattamento  ...  e'  strumento  per una determinazione della pena il
piu'  possibile  finalizzata,  nella  prospettiva dell'art. 27, terzo
comma  della  Costituzione",  ed  ancora,  piu'  di  recente, che "la
determinazione  della  pena  quanto  piu'  possibile finalizzata alla
rieducazione  del  condannato,  nella prospettiva dell'art. 27, terzo
comma  della  Costituzione",  consente  il rispetto del "principio di
uguaglianza  che,  di  fronte  alla  pena, acquista il significato di
proporzione  della  pena  rispetto  alle personali responsabilita' ed
alle  esigenze  di risposta che ne conseguono, svolgendo una funzione
di  giustizia  e  di  tutela  delle  posizioni individuali nonche' di
limite alla potesta' punitiva statale" (C. cost. n. 299/1992).
    Pare   quindi   sussistere   contrasto  fra  l'art. 2621  c.c.  e
l'art. 27, comma 3 della Costituzione.
    Altre   ancora,   pero',  sono  le  perplessita'  che  la  natura
contravvenzionale  dell'ipotesi  di  reato  ex  art. 2621  c.c.  puo'
suggerire, a seguito, in particolare del raffronto con la fattispecie
di  cui all'art. 501 c.p. (rialzo e ribasso fraudolento di prezzi sul
pubblico  mercato  o  nelle  borse  di  commercio,  alias aggiotaggio
"comune").
    Sempre  la  Corte costituzionale affermo' la costituzionalita' di
tale previsione criminosa, costituente delitto perseguibile d'ufficio
(punibile  con reclusione fino a tre anni) e pure analogamente lesivo
dell'interesse   alla  trasparenza  del  mercato,  riconoscendovi  un
contesto  di  "tutela  dell'economia  pubblica,  che  non  puo' dirsi
estranea  al  contenuto  e  allo spirito della Costituzione". In quel
caso  la  Corte  ribadi'  che "la liberta' d'iniziativa economica non
puo' comunque svolgersi in contrasto con l'utilita' sociale, la quale
ha  anche  un  contenuto economico", citando all'uopo espressamente i
fini  indicati  dall'art. 47  Cost.,  e  quindi  anche  il  diretto e
indiretto  investimento azionario nei grandi complessi produttivi del
Paese".  La previsione dell'aggiotaggio, concludeva la Corte, "mira a
che  non  sia  compromesso,  mediante  una determinazione fraudolenta
delle  merci  o  delle  quotazioni,  l'interesse pubblico legato alla
circolazione  e  allo  scambio  delle  merci  e dei valori" (C. cost.
n. 123/1976).
    Ci  si  deve  allora domandare per quale motivo un reato di frode
quale  l'aggiotaggio, lesivo dei medesimi interessi che riguardano il
falso   in   bilancio,   sia  previsto  come  fattispecie  delittuosa
perseguibile  d'ufficio (come, del pari l'aggiotaggio "speciale", ora
punito con reclusione fino a cinque anni, a mente dell'art 2637, pure
introdotto  dal  d.lgs.  n. 61/2002), mentre una fattispecie non meno
fraudolenta  e  lesiva  del pubblico interesse all'economia, quale il
falso   in   bilancio,   possa   essere   prevista  come  fattispecie
contravvenzionale  (con  prescrizione  ben  inferiore). Riaffiorano a
questo  proposito, ancora, inevitabilmente, perplessita' in ordine al
rispetto  del  principio  di  proporzione  della  pena in relazione a
diverse ipotesi di reato, e quindi di eguaglianza (art. 3 Cost.).
    Non  solo.  Il  reato  di  falso  ex  art. 2621  c.c.,  in quanto
contravvenzione,  a  mente  degli  artt. 9 e 10 c.p., neppure e' piu'
perseguibile  se  commesso  all'estero.  Quindi,  nel caso di bilanci
consolidati  di  complessi  societari  che  hanno ramificazioni anche
all'estero,  il  falso  consumato  in una societa' controllata avente
sede all'estero, ma i cui effetti lesivi dell'interesse pubblico alla
trasparenza  del  mercato si determinano, identicamente, nel bilancio
della   societa'   controllante   italiana,   e   quindi  in  Italia,
inopinatamente non e' punibile (a differenza di tutti gli altri falsi
in  bilancio  non  "viziati"  ab origine in questo modo). Anche sotto
questo profilo vi sono aspetti di diseguaglianza.
    Questione di legittimita' costituzionale del nuovo reato di false
comunicazioni  sociali previsto dall'art. 2622 c.c. in relazione alla
perseguibilita'  a  querela.  Contrasto con gli artt. 24, comma 1 e 3
Cost.
    Neppure  la fattispecie di cui all'art. 2622 c.c., in se', sembra
immune da rilievi attinenti la sua costituzionalita', per ragioni che
riguardano la perseguibilita' a querela (cio' lo si afferma anche per
l'ipotesi  che  la  norma  ex art. 2621 sia affetta da illegittimita'
costituzionale,  e  quindi  residui  la  sola  ipotesi  di  reato  ex
art. 2622 c.c.).
    Anche  qui  occorre  rifarsi  alla pregressa giurisprudenza della
Corte  costituzionale,  la  quale  ha  piu'  volte  affermato  che la
perseguibilita' a querela costituisce una deroga alla obbligatorieta'
dell'azione  penale  e  puo'  essere sindacata in sede di giudizio di
legittimita'    costituzionale    solo   per   vizio   di   manifesta
irrazionalita'  o  arbitrarieta' (C. cost. n. 354/1999), massimamente
"quando  la  necessita'  dell'impulso di parte si risolverebbe, nella
generalita'  dei  casi,  nella  sostanziale impunita' dell'autore del
reato"  (C.  cost.  n. 7/1987).  "Cio'  che  conta",  infatti, sempre
secondo  la  Corte  costituzionale, "e' il contributo alla conoscenza
del  fatto  che  la  parte offesa e' costretta a fornire se non vuole
rinunciare alla punizione del colpevole" (C. cost. n. 216/1974).
    Ancora,    sempre    secondo   la   Corte   costituzionale,   "la
perseguibilita'  a  querela e' prevista per i reati di lieve entita',
in   considerazione  anche  della  tenuita'  dell'interesse  pubblico
all'esercizio   dell'azione  penale"  (C.  cost.  n. 216/1994).  Piu'
apprafonditamente,  la  Corte  ha chiarito che "la scelta del modo di
procedibilita'   dei  reati  deve  rimanere  affidata  a  valutazioni
discrezionali   del   legislatore,   insindacabili  nel  giudizio  di
costituzionalita',  ed  al  riguardo concorrono a spiegare l'istituto
della  querela  sia  l'interesse  pubblico  sia l'interesse privato".
Pero',  ha  anche  affermato  la  Corte,  la  scelta  di tale modo di
procedibilita'   e'  giustificabile  dalla  "tenuita'  dell'interesse
pubblico",  a  fronte  del quale il legislatore abbia "preferito, per
ragioni  di  politica criminale e di opportunita', rendere rilevante,
come  presupposto  della  perseguibilita'  del reato, la volonta' del
privato" (C. cost. n. 204/1988).
    Cosi',  ad  esempio, sempre la Corte costituzionale, a suo tempo,
ritenne  ragionevole "il mantenimento della perseguibilita' d'ufficio
per  un  reato  posto  a  salvaguardia dell'ordine economico quale la
frode   nell'esercizio  del  commercio  (art. 515  c.p.)"  (C.  cost.
n. 294/1987),  ed  altresi' dichiaro' l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 573 c.p. ove esso prevedeva la perseguibilita' a querela da
parte   del   solo   padre   (unico  titolare,  allora,  di  potesta'
genitoriale)  del  delitto  di sottrazione di minore, importando tale
reato  una  offesa  a tutta la famiglia, nella intera consistenza dei
suoi interessi sociali, morali, affettivi (C. cost. n. 9/1964).
    Premessi  questi  fondamenti  della  legittimita' costituzionale,
occorre considerare due presupposti essenziali:
      se  la  fattispecie  di  reato  di  cui  all'art. 2622 c.c. sia
prevista a tutela di un rilevante interesse diffuso che supera quello
individuale e privato di chi ha o ha avuto rapporti con l'impresa;
      se  la  normativa  che  regola  la  formazione del bilancio sia
compatibile  con  la  perseguibilita'  a querela del singolo privato,
ossia  sussista  una  reale  possibilita'  (e quindi la capacita) del
privato, socio o creditore, di acquisire elementi e coordinate idonei
a proporre e sostenere una notizia di reato.
    La risposta al primo quesito e' affermativa. Come infatti abbiamo
gia'  visto,  la  giurisprudenza della Corte di cassazione e' univoca
nel  ritenere  che  il  falso  in  bilancio  comunque  pregiudica gli
interessi   dei   terzi  in  genere  e  della  fede  pubblica  (Cass.
n. 4073/1994,  Cass.  n. 307/1990),  e  che  il bilancio e' strumento
insostituibile  di garanzia per i terzi che vengono a contatto con la
societa'" (Cass. n. 1585/1966).
    Il bilancio, quindi, proprio per la sua attitudine a garantire la
veridicita' di un documento ufficiale destinato a riprodurre lo stato
economico di un soggetto operante nel mercato, soddisfa un preminente
interesse   pubblico.  Ed  infatti,  la  Corte  ha  anche  affermato,
esplicitamente  e  coerentemente,  che  la  norma di cui all'abrogato
art. 2621  c.c.  tutelava la fede pubblica documentale, ossia un bene
tipicamente  indisponibile, come tale fuori della teoria del consenso
dell'offeso  (Cass.  n. 3416/1981),  e  che  tale tutela si estendeva
all'interesse  generale  al  regolare  funzionamento  delle  societa'
commerciali" (Cass. n. 6889/2001).
    Il nuovo reato di cui all'art. 2622 c.c., quindi, se pur previsto
espressamente  a  tutela di interessi patrimoniali di singoli (soci o
creditori),    e'    comunque,   ontologicamente,   una   fattispecie
plurioffensiva,   in  quanto,  in  ogni  caso,  la  lesione  sofferta
dall'interessato   discende   imprescindibilmente  da  una  pregressa
lesione  dell'interesse  pubblico  alla  trasparenza  del  mercato (e
d'altronde,  anche  il  dato  letterale  della norma, esplicitamente,
esprime  tale  risvolto  pubblicistico, laddove contempla, quale dolo
specifico, l'intento di ingannare il pubblico).
    La risposta al secondo quesito, invece, e' negativa.
    Il  socio puo' unicamente, ai sensi dell'art. 2429, comma 3 c.c.,
prendere  visione  del  bilancio  (unitamente  alla  relazione  ed ai
prospetti  annessi)  quando  questo  e' gia' redatto e depositato, ma
nulla puo' conoscere in ordine alla veridicita' delle modalita' e dei
passaggi  che  hanno  condotto  alla  redazione  del  bilancio  (come
argomentati    nelle   relazioni   accompagnatorie   e   nella   nota
integrativa),  ossia  dell'effettivo  rispetto  di  tutti i criteri e
principi  stabiliti  dagli artt. 2423-2429 c.c. per la formazione del
bilancio.
    Ne',  per  i soci, vi e' la possibilita' reale di verificare tale
veridicita'   ai   sensi   dell'art. 2489   c.c.  (nelle  societa'  a
responsabilita'  limitata),  il quale prevede, per i soci, un diritto
di  consultazione  limitato  alla visione dei libri contabili, ma non
delle  scritture  contabili  (giurisprudenza  costante). Questa norma
prevede  altresi'  la  possibilita'  di richiedere la revisione della
gestione  da  parte  di  una  minoranza qualificata di soci, ma anche
questa norma e' estranea a una tutela specifica per il singolo socio.
    Come    una    maggioranza   qualificata   e'   quella   prevista
dall'art. 2409   c.c.,   in  ordine  alla  quale  valgono  le  stesse
considerazioni.
    Ne'  si  puo' obiettare che il collegio sindacale, quando esiste,
costituisca   un   filtro   di   garanzia,   considerando  che  esso,
realisticamente  e  normalmente, e' espressione della maggioranza (ed
in  ogni  caso  non si puo' sancire, per il socio diretto titolare di
diritto  querela, l'onere di una ricognizione mediata dall'intervento
dei sindaci).
    Il   creditore   sociale,  poi,  in  ogni  caso,  non  ha  alcuna
possibilita'  nemmeno  di  accedere  alle opportunita' previste dalle
suddette norme.
    In definitiva, quindi, la cognizione del terreno ove si annida il
falso   (ossia   l'analisi  di  tutta  la  documentazione  fiscale  e
commerciale,  fatture,  ordinativi  e  altro,  nonche' la visione dei
supporti e degli archivi informatici) al privato e' preclusa.
    Non  si  vede,  allora, in quali termini egli possa elaborare una
querela,  la  quale,  costituendo  notitia  criminis,  deve  comunque
contenere  elementi, comunque minimi, suscettibili di una valutazione
sul  piano  indiziario, al fine di un possibile, ragionevole sviluppo
investigativo.  Non  puo'  invece  essa  basarsi sull'enunciazione di
apodittici ed arbitrari sospetti (nei quali qualsiasi affermazione si
risolverebbe  in  mancanza  di  una  ricognizione,  se pure sommaria,
dell'attivita'  d'impresa  nel  suo svolgersi, per come documentata o
documentabile).
    Tutto questo si risolve in una sostanziale impossibilita', per il
singolo socio e il singolo creditore, da soli, di denunciare qualcosa
di  apprezzabile,  appartenendo  la  formazione  e  la  redazione del
bilancio  a  una  sfera  completamente  "blindata", riservata ai soli
amministratori sociali.
    Questa impossibilita', d'altro canto, e' stata riconosciuta dalla
stessa  giurisprudenza,  laddove si e' ritenuto, nel caso di bilancio
consolidato,  ove  la falsita' derivi dai dati contabili contenuti in
uno  o  piu'  bilanci  delle  societa' collegate, che addirittura gli
amministratori  della societa' controllante non rispondano penalmente
della  falsita'  in  bilancio  consolidato,  "non essendo titolari di
alcun  potere  di  accertamento  sulla veridicita' dei dati trasmessi
dalla societa' del gruppo" (Cass. n. 191/2001).
    La   Corte  costituzionale,  in  ordine  alla  perseguibilita'  a
querela,  ha  affermato  che  "cio'  che  conta e' il contributo alla
conoscenza  del  fatto  che la parte offesa e' costretta a fornire se
non  vuole  rinunciare  alla punizione del colpevole". Ebbene, non si
vede  quale  contributo  serio possa dare alla conoscenza di un fatto
come  il  falso  in  bilancio  il socio o il creditore, che non hanno
alcun  accesso  alla  documentazione,  cartacea  e informatica, della
societa'.
    Come gia' detto, inoltre, la Corte costituzionale ha riconosciuto
l'irragionevolezza  della  scelta legislativa della perseguibilita' a
querela  "quando la necessita' dell'impulso di parte si risolverebbe,
nella  generalita'  dei casi, nella sostanziale impunita' dell'autore
del  reato"  (C. cost. n. 7/1987). Il caso di specie che ispiro' tale
affermazione  di  principio  fu  la procedibilita' comunque d'ufficio
dell'omicidio  colposo,  pur  se  commesso  in danno di congiunti, in
considerazione  dell'indiscutibile  preminenza  del  bene  della vita
rispetto  a  interessi  diversi,  e  del  fatto che, in tal caso, "la
necessita'  dell'impulso  di parte si risolverebbe, nella generalita'
dei casi, nella sostanziale impunita' dell'autore del reato".
    Il caso del reato di falso in bilancio perseguibile a querela del
singolo   socio   o  creditore  (peraltro,  all'uopo  trasformato,  e
snaturato,  da  reato  di  pericolo  in  reato di evento) realizza il
pericolo  di un'analoga, viziata impostazione. Di fronte alla lesione
di  un  interesse  pubblico  preminente  (trasparenza  del  mercato e
affidabilita' dei soggetti di mercato), la sostanziale impossibilita'
per  i  soggetti  legittimati  a  proporre  querela  ora conduce alla
sostanziale  impunita'  degli autori del falso, pur in presenza di un
preminente interesse pubblico.
    Ne derivano dubbi di illegittimita' costituzionale ai sensi degli
artt. 24, comma 1 e 3 Cost.
    Note  critiche devono inoltre formularsi relativamente alla norma
dell'art. 2622, comma 2 c.c., che prevede la procedibilita' d'ufficio
del  falso  in bilancio in danno di soci o creditori quando si tratta
di societa' quotata in borsa.
    Tale  procedibilita'  d'ufficio, in realta', appare illusoria nel
caso  in  cui  la  societa'  quotata  in  borsa  sia  una holding che
controlla  societa'  non  quotate  in borsa (evenienza normalissima).
Come   gia'   detto,   secondo   quanto  ha  affermato  la  superiore
giurisprudenza,  ove  la falsita' derivi dai dati contabili contenuti
in  uno  o  piu' bilanci delle societa' collegate, gli amministratori
della  societa' controllante non rispondono penalmente della falsita'
in  bilancio  consolidato,  "non  essendo titolari di alcun potere di
accertamento  sulla veridicita' dei dati trasmessi dalla societa' del
gruppo"  (Cass.  n. 191/2001). Ne deriva che la falsita' del bilancio
consolidato  di  societa'  quotate  in  borsa,  derivante da falsita'
proprie  dei  bilanci di societa' controllate non quotate, in realta'
non  e'  perseguibile  d'ufficio.  Vi sono quindi, anche sotto questo
aspetto, elementi di disparita' di trattamento.
    Inoltre, ad abundantiam si deve osservare che, in ogni caso, gia'
suscita  perplessita'  in  se'  la  devoluzione  della  tutela  di un
interesse  pubblico  fondamentale  a  un'iniziativa (come gia' detto)
negoziale  quale  la querela (si vedano, sulla natura negoziale della
querela,   espressamente,   fra   le   tante,   Cass.   n. 1754/1983,
n. 2610/1983,  n. 4554/1986  e,  di  recente,  Cass. n. 4695/2000), e
quindi   all'ambito   dell'autonomia   privata.  Occorre  qui  tenere
presente,  realisticamente,  che la remissibilita' della querela puo'
favorire  soluzioni  altamente  compromissorie fra privati, evenienza
ancora  una volta ed ulteriormente lesiva del pubblico interesse alla
trasparenza dei bilanci e del mercato.
    Quest'ultimo  risvolto,  peraltro, ha anche una precisa rilevanza
tecnico-giuridica.
    Se   si   considera  infatti  l'inciso  che  introduce  la  norma
dell'art. 2621  c.c.,  "Salvo quanto previsto dall'art. 2622" si deve
ritenere  che  fra  le  due  ipotesi  di  reato  sussista rapporto di
specialita'. Ne consegue che l'eventuale remissione di querela per il
reato  di  cui  all'art. 2622  c.c.,  per  il  suo effetto estintivo,
travolgerebbe   anche   la   configurabilita'   del   reato   di  cui
all'art. 2621  c.c.,  e  cio', indebitamente e irragionevolmente, con
prevalenza  di  ragioni transattive di natura privata su un interesse
pubblico (comunque) sancito dall'ordinamento attraverso la previsione
dell'ipotesi di reato di cui all'art. 2621 c.c.
    In  altri  termini,  si  e' cosi' creata una via legale, affidata
alla   concertazione   privata,   per  elevare  la  falsificazione  a
opportunita' di gestione.
    Anche sotto questo profilo vi sono elementi di irragionevolezza e
di  disparita' di trattamento (l'iniziativa conciliatoria del singolo
"danneggiato patrimoniale", infatti, cosi' preclude la tutela diffusa
degli "ingannati").
                              P. Q. M.
    Solleva questione di legittimita' costituzionale degli artt. 2621
e  2622 c.c., per come introdotti dall'art. 1, d.lgs. 11 aprile 2002,
n. 61, per contrasto con gli artt. 3, 24, comma 1 e 27, comma 3 della
Costituzione;
    Dispone  pertanto la immediata trasmissione degli atti alla Corte
costituzionale e la sospensione del presente procedimento penale;
    Dispone  che, a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata al p.m., all'indagato Gardini Secondo, alla persona offesa
Gardini  Palma, nonche' al Presidente del Consiglio dei ministri e ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
        Forli', addi' 19 settembre 2002
            Il giudice per le indagini preliminari: Leoni
02C1150