N. 555 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 ottobre 2002

Ordinanza  emessa  l'11  ottobre  2002 dal tribunale - sezione per il
riesame di Torino nel procedimento penale a carico di Vela Dashmir

Processo  penale  -  Misure cautelari personali - Termini di durata -
  Computo  -  Pluralita' di ordinanze restrittive per fatti diversi -
  Lamentata  decorrenza dei termini, per tutti i reati in rapporto di
  connessione  qualificata, dalla prima ordinanza , esclusivamente in
  caso  di  accertata sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza al
  momento  dell'emissione del primo provvedimento cautelare - Oppure,
  lamentata  richiesta, ai fini della diversificazione dei termini di
  decorrenza, della verifica positiva della tempestivita' delle nuove
  contestazioni cautelari anche fuori dei casi in cui sia intervenuto
  il  provvedimento  che  dispone  il giudizio relativamente ai fatti
  oggetto  di  piu'  remota  contestazione - Violazione del principio
  costituzionale  che  riserva  alla  legge  la durata dei termini di
  custodia preventiva.
- Cod.  proc.  pen. art. 297, comma 3, nel testo sostituito dall'art.
  12 della legge 8 agosto 1995, n. 332.
- Costituzione, art. 13, ultimo comma.
(GU n.1 del 8-1-2003 )
                            IL TRIBUNALE

    Sull'appello  presentato  dal  difensore  di Vela Dashmir, nato a
Telepene (Albania) in data 28 maggio 1973, avverso l'ordinanza emessa
dal  g.i.p.  presso  il Tribunale di Torino in data 6 agosto 2002, ha
pronunciato  la  seguente  ordinanza; Vela Dashmir e' sottoposto alla
misura  cautelare della custodia in carcere, emessa in data 26 giugno
2002, in relazione al reato di cui all'art. 110 c.p. 74 d.P.R. 309-90
indicato   al   capo   d)   di   incolpazione,  per  essere  concorso
nell'associazione    a    delinquere    finalizzata    al   commercio
internazionale  di  sostanza  stupefacente  composta  da  Vaqo Artur,
Hasanbelliu  Ramazan,  Hasanbelliu  Agim,  Blushi  Arjan partecipando
all'azione  ritorsiva  decisa dal gruppo contro Bejaioui Nourredine e
Amraoui  Ben Foued Houcine, responsabili di essersi resi irreperibili
dopo  avere  ricevuto la consegna di un grosso quantitativo di droga;
lo  stesso  Vela Dashmir, in data 27 novembre 1999, era stato infatti
arrestato ed attinto, in esito al giudizio di convalida, da ordinanza
applicativa  della custodia cautelare in carcere, per rapina ai danni
di  Bejaioui Nourredine e Amraoui Ben Foued Houcine, fatto per cui e'
stato  gia'  condannato  alla  pena  detentiva  di  anni  quattro  di
reclusione.
    Nell'ambito   del   predetto   procedimento   per   concorso   in
associazione  finalizzata  al  traffico  di stupefacenti il difensore
avanzava   istanza   al   g.i.p.   con   cui  richiedeva  dichiararsi
l'inefficacia  della  misura  per  decorrenza  dei termini massimi di
custodia  cautelare  poiche'  tutti gli elementi sui quali si fondava
l'ordinanza   costitutiva  erano  noti  al  p.m.  anteriormente  alla
celebrazione del giudizio per il reato di rapina per il quale Vela e'
stato condannato.
    Il  g.i.p.  respingeva l'istanza, sulla base della considerazione
secondo cui gli indizi del concorso esterno del Vela all'associazione
a  delinquere sarebbero emersi solo successivamente al suo arresto in
flagranza  per rapina e che, quindi, prima di quel momento l'a.g. non
era  in  grado  di  formulare  a  suo  carico  l'ipotesi di reato poi
contestata  e  con  il  provvedimento  di  applicazione  della misura
custodiale emesso in data 26 giugno 2002.
    La  difesa  ha  interposto  appello avverso la predetta ordinanza
rilevando che nelle telefonate intercettate subito dopo l'arresto del
Vela  emergeva  con chiarezza il quadro indiziario posto a fondamento
dell'ordinanza  impugnata  e  che detti elementi erano conosciuti dal
p.m. prima della celebrazione del processo a suo carico per rapina.
    Occorre  preliminarmente  osservare  che fra il reato di rapina e
quello  di  concorso  nell'associazione  volta  al traffico di droga,
capeggiata   da   Vaqo  Artur,  esiste  il  rapporto  di  connessione
qualificata richiesto dall'art. 297 comma 3 c.p.p poiche' il concorso
esterno  all'associazione,  contestato  con  il secondo provvedimento
cautelare,  si sarebbe estrinsecato proprio nella partecipazione alla
rapina  commessa  in  data  27 novembre  1999  ai  danni  di  Bejaoui
Nourredine   e  Amraoui  Ben  Foued  Houcine.  Peraltro,  osserva  il
Tribunale,  gli elementi che hanno determinato il p.m. alla richiesta
di  misura  cautelare,  non  preesistevano  all'arresto  del  Vela ma
emergevano   dalla   trascrizione   delle   telefonate   intercettate
effettuata  dalla  D.I.A. di Bari; e il contenuto di tali telefonate,
inerenti  la  posizione dell'odierno appellante, nel testo trascritto
dalla  P.G.  di  Bari, se pur precedenti o concomitanti l'arresto del
medesimo, erano state portate a conoscenza del p.m. dopo l'arresto ma
prima  del  rinvio a giudizio (avvenuto in data 22 novembre 2000) per
il reato oggetto della prima misura cautelare.
    Invero,  quanto  alla  prima  delle suddette affermazioni si puo'
concludere,  contrariamente  all'assunto  difensivo  secondo  cui  al
momento  dell'arresto  il  p.m.  aveva  gia'  tutti  gli elementi per
formulare  delle  accuse  precise  a carico dell'istante, che la nota
D.I.A.   di  Bari  (inspiegabilmente)  datata  29  novembre  1999(1),
l'arresto e' infatti del 27 novembre 1999. Secondo cui alcune persone
coinvolte  in  traffici  di  droga,  seguendo le direttive del "capo"
dell'organizzazione  in  Albania  si  trovavano nelle vicinanze della
Questura  di  Torino  ed attendevano il rilascio di due nordafricani,
persone  offese  della  "rapina" addebitata al Vela, era assai scarna
delineando  unicamente in modo vago e poco circostanziato l'esistenza
di  un'associazione a delinquere volta al traffico di droga, ma dalla
stessa  nulla emergeva circa i componenti di siffatta organizzazione,
le fonti dell'attivita' di indagine, la cui conoscenza avrebbe potuto
portare  il  p.m.  ad  enucleare  dalla  stessa  fatti  e correlative
responsabilita',   circostanze   viceversa  emergenti  in  modo  piu'
concretamente  apprezzabile  dalla  nota D.I.A.di Bari del 6 dicembre
1999,  cui il g.i.p. procedente ha fatto, nell'ordinanza costitutiva,
frequente riferimento.
    Sgombrato quindi il campo dalla prima delle questioni dedotte (se
cioe'  i  fatti  di  causa  erano desumibili gia' prima della data di
applicazione  della  prima  misura cautelare) occorre esaminare se e'
applicabile  la seconda parte della norma in esame che prevede la non
applicabilita'  della  regola di retrodatazione dei termini di durata
massima  della  custodia  cautelare nel caso in cui i fatti non erano
desumibili  prima  del  rinvio  a giudizio per il reato oggetto della
iniziale contestazione cautelare.
    (1) L'arresto e' infatti dal 27 novembre 1999.
    Ritiene  il  collegio  che il p.m. conoscesse gli atti, su cui e'
fondata  l'ordinanza  costituiva,  prima  del  rinvio  a  giudizio in
relazione al reato originariamente contestato; cio' emerge, oltre che
da tutti gli atti di indagine effettuati precedentemente a tale data,
dalla  missiva  inviata  dal  p.m.  procedente  al  collega presso il
Tribunale  di  Bari (presso cui erano in corso indagini nei confronti
del  medesimo  gruppo  criminale)  in  cui  il  requirente,  in  data
12 luglio  2000,  rappresenta  la  necessita'  di dover procedere, in
relazione  al  reato  di  rapina  e  di  detenzione di arma da guerra
commessi  nel  novembre  1999, al deposito degli atti ex art. 415-bis
c.p.p.  e  chiede  una  valutazione circa l'opportunita' di procedere
alle   iscrizioni   nel   registro  notizie  di  reato  in  relazione
all'art. 74   d.P.R.   n. 309-90  e  di  "provare"  a  richiedere  le
"correlative   misure   cautelari"   pur  rappresentando  l'ulteriore
possibilita'  di  "stralciare  gli  atti  inviati  e  iscrivere nuovo
procedimento  a  carico  degli  indagati ed altri per tale reato". E'
altresi  in  atti  provvedimento  di  iscrizione  nel registro di cui
all'art. 335  c.p.p.  dell'indagato  per  il reato di cui all'art. 73
d.P.R.  n. 309-90 e la formazione di altro fascicolo "stralciato" per
le   altre   fattispecie   di  reato  per  cui  le  indagini  "devono
proseguire", atti datati 18 settembre 2000.
    Ritiene  pertanto  il Collegio che i fatti per cui ora si procede
erano  gia'  "desumibili  dagli atti" prima del rinvio a giudizio del
Vela   (datato,   come  detto,  22  novembre  2000);  trova  pertanto
applicazione la prima parte dell'art. 297 comma 3 c.p.p. che prevede,
in tale ipotesi, la retrodatazione del termine iniziale di decorrenza
dei termini di durata massima della misura cautelare al giorno in cui
e'  stata  eseguita o notificata la prima ordinanza, che pertanto nel
caso di specie, sarebbero gia' decorsi dovendosi computare il termine
di  cui  all'art. 303,  comma 1  lettara  a)  n. 3) dalla data del 27
novembre 1999 (data dell'arresto del Vela).
    A  questo  punto  ritiene  il Collegio di dovere puntualizzare il
carattere  assolutamente  centrale ed assorbente che riveste, ai fini
della  decisione sulla interposta impugnazione, l'interpretazione che
di  fatto  si  e'  venuta  affermando  -  quanto  meno  a  livello di
giurisprudenza   di   legittimita'   -   in  ordine  alla  disciplina
dell'art. 297,  comma  3  c.p.p.,  nella  formulazione introdotta con
l'art. 12 della legge n. 332 del 1995.
    Onde   poter   meglio   inquadrare   le   delicate  problematiche
interpretative     sottese     a    questa    complessa    disciplina
pocessualpenalistica, appare opportuno premettere una rapida disamina
delle  principali  tappe normative e giurisprudenziali attraverso cui
la stessa risulta essersi via via dipanata:
        l'art. 297,  comma  3,  nella  sua  originaria  formulazione,
disponeva   che   i  termini  decorressero  dall'esecuzione  o  dalla
notificazione  del  primo  provvedimento  nel  caso  di pluralita' di
ordinanze  che  dispongono la stessa misura cautelare per il medesimo
fatto;  tale  norma,  come e' dato immediatamente comprendere dal suo
tenore  letterale,  mirava  ad  impedire  l'artificioso prolungamento
della  durata  della  misure  cautelari  derivante  dalla strumentale
rinnovazione dell'originario provvedimento applicativo ed il criterio
in  questione si applicava, per esplicita previsione del legislatore,
anche   nel   caso   in   cui  il  fatto  contestato  nei  successivi
provvedimenti   cautelari   fosse,   diversamente   circostanziato  o
qualificato,  oltreche'  nei  casi di concorso formale e di aberratio
iscus  e  aberratio  delicti  plurilesive di cui agli artt. 82, comma
secondo,  e  83,  comma  secondo, c.p.; non era invece specificamente
disciplinato  il  caso  delle  cosiddette  "contestazioni  a catena",
ovvero della contestazione, attraverso successive ordinanze, di fatti
di  reato  diversi,  ma  gia'  configurabili al momento in cui veniva
adottato  il  primo  provvedimento; in proposito, ed in adesione alla
giurisprudenza  anteriore  all'emanazione  del  nuovo  c.p.p., si era
rilevato  che,  pur  essendo legittima l'emissione, in successione di
tempo,   di   nuovi   provvedimenti  cautelari  volti  ad  integrare,
perfezionare  ed  aggiornare  i  termini dell'accusa, questa non puo'
incidere  sul  termine  di durata della misura - rimanendo fissato il
dies  a quo al giorno della esecuzione della prima ordinanza - quando
sia  dimostrata,  da  parte  dell'imputato.  la  "colpevole  inerzia"
dell'autorita'  giudiziaria  nella  verifica degli indizi relativi ai
nuovi  fatti  contestati:  quando,  cioe',  il  fatto  nuovo era gia'
conosciuto,  o conoscibile, nei suoi elementi fondamentali al momento
della   emissione   del   primo   provvedimento,   e   sarebbe  stata
giuridicamente  possibile  e  doverosa la contestazione simultanea di
tutti i fatti di reato;
        la  Giurisprudenza  di legittimita' aveva cosi' precisato che
l'emissione  di un ulteriore provvedimento restrittivo della liberta'
per  lo  stesso  fatto,  comunque  qualificato, per il quale era gia'
stato  emesso  altro  provvedimento a carico del medesimo soggetto, o
per  fatti  gia'  acquisiti  agli atti al momento della emissione del
primo  dei  provvedimenti  restrittivi,  determina  il fenomeno della
cosiddetta "contestazione a catena"; e sostenuto che tale illegittimo
modo   di   procedere   comporta,   qualora  ne  siano  dimostrati  i
presupposti,  che  la  decorrenza  dei  termini di custodia cautelare
abbia  inizio - e debba, quindi essere calcolata - dal momento in cui
e'  stato  eseguito il primo provvedimento restrittivo della liberta'
personale,  con la conseguente scarcerazione automatica dell'indagato
e  dell'imputato qualora, partendo da tale data, risultino superati i
termini  di  durata  massima  della  custodia  cautelare previsti per
ciascuna  fase procedimentale, o quelli massimi (2) , con particolare
riguardo  all'ipotesi  di reati uniti dal vincolo della continuazione
la  Corte  di  Cassazione  aveva  rilevato  che  in materia di misure
cautelari  personali,  nel  caso  di  pluralita'  di fatti criminosi,
eventualmente  in  continuazione tra loro, l'ingiustificata scissione
delle  diverse  contestazioni  con emissione "a catena" di successivi
provvedimenti  cautelari  nonostante  i fatti contestati fossero noti
fin  dall'inizio  comportava  conseguenze  identiche  a quelle di cui
all'art. 297,   comma   3  (riproducente  lo  schema  gia'  delineato
dall'art. 271, comma 3, del codice abrogato), cioe' la decorrenza del
termine  di  custodia  cautelare dal giorno dell'esecuzione del primo
provvedimento  (3);  in altre decisioni la Corte di cassazione non ha
per  contro  ravvisato  la  violazione  dell'art. 297  comma 3 c.p.p.
ritenendo non sussistente il fenomeno della cosiddetta "contestazione
a  catena"  allorquando  si e' in presenza di una pluralita' di fatti
criminosi,  formanti  oggetto  di  separati provvedimenti restrittivi
emessi  in  successione  fra  loro,  e  non  vi sono elementi atti ad
evidenziare   che   gli   indizi   originariamente   a   disposizione
dell'autorita'  giudiziaria erano gia' tali da consentire l'emissione
di un unico provvedimento (4).
        gia'  sotto la vigenza della precedente disciplina introdotta
con il nuovo codice del 1989 si era posto il problema dell'estensione
della  disciplina  di  cui  si  sta  trattando  alle  ipotesi di piu'
provvedimenti  cautelari emessi per un medesimo fatto e nei confronti
della stessa persona, ma nell'ambito di piu' procedimenti distinti, e
tale  questione era stata risolta nel senso che lo speciale regime di
decorrenza  dei  termini  di  custodia  cautelare di cui all'art. 297
comma  3  c.p.p.  si  applica  solo se le ordinanze sono state emesse
nell'ambito   di   un   unico   procedimento  cumulativo,  riferibile
all'imputato  e  pendente  davanti  allo  stesso  giudice,  mentre le
ordinanze  custodiali  emesse,  sia pur in relazione a reati fra loro
connessi,  ma  da  Giudici aventi una diversa competenza funzionale o
territoriale,  conservano  autonomi  termini  di  decorrenza iniziale
della custodia (5);
        in  questo  quadro  si  e'  inserita la citata novella di cui
all'art.  12  della legge n. 332 del 1995 che ha sensibilmente mutato
la  situazione  normativa;  oltre a prevedere che la "retrodatazione"
del  conto iniziale della durata dei termini di custodia cautelare si
ha  non  soltanto  nei  casi di ordinanze relative allo stesso fatto,
benche'  diversamente circostanziato o qualificato, ma anche nel caso
di  fatti diversi, quando sussista connessione ai sensi dell'art. 12,
lett.  b)  (concorso  formale  e  continuazione  di reati) e lett. c)
(limitatamente  all'ipotesi  di reati commessi per eseguirne altri) e
purche'  i  fatti  diversi  siano  stati  commessi anteriormente alla
emissione della prima ordinanza, tale norma ha altresi' precisato che
la  disposizione  non  si  applica  quando  i fatti diversi non erano
desumibili  dagli  atti  prima  del  rinvio  a  giudizio  per i reati
rispetto  ai  quali  sussiste  il prescritto rapporto di connessione;
verificandosi  tale caso si ritorna al regime ordinario di decorrenza
dei  termini  di  custodia  che,  conseguentemente,  dovranno  essere
computati autonomamente per le nuove ordinanze;
        sulla   applicabilita'  della  disposizione  in  esame  anche
nell'ipotesi in cui il fatto connesso sia emerso successivamente alla
adozione   della  prima  misura  cautelare  e'  stata  sollevata  una
questione  di  legittimita' costituzionale per contrasto con l'art. 3
Cost. (6), nella quale si rileva in particolare che il legislatore ha
disciplinato  in  modo  identico  situazioni assai divergenti, con la
previsione  di  uno  stesso  regime  di  decorrenza  della misura sia
nell'ipotesi   di   artificioso  ritardo  della  nuova  contestazione
cautelare,  sia nel caso in cui il successivo provvedimento sia stato
tempestivo in rapporto al momento in cui il fatto e' stato accertato:
in quest'ultima ipotesi, ad avviso del giudice rimettente, si sarebbe
verificato   un   sacrificio  ingiustificato  di  effettive  esigenze
cautelari,  scaturente  da  una  sorta  di  presunzione che la stessa
tardivita'  della  notizia  rispetto  a quella sfruttata per la prima
contestazione  sia espressione di una sottostante volonta' di eludere
artificiosamente  la  disciplina  sui termini massimi di durata della
custodia  cautelare;  e  si  sarebbe  altresi'  verificata, sempre ad
avviso  del  giudice  rimettente,  una  ingiustificata  disparita' di
trattamento con riguardo al diverso regime stabilito nelle ipotesi in
cui  i  fatti oggetto della nuova ordinanza cautelare siano accertati
prima o dopo il rinvio a giudizio per i fatti connessi che sono stati
posti a fondamento della prima ordinanza;
    (2) Cfr. Cass. 11 marzo 1994, Sena, Cass. pen. 1996, 243; Cass. 1
aprile 1991, Falanga, Cass. pern. 1992, 705; Cass. 14 settembre 1990,
Osareme,  Giust. pen. 1990, III, p. 732, Arch. Nuova proc. pen. 1991,
285.
    (3) Cfr. Cass. 23 luglio 1992, Pezzella, C.E.D. Cass., n. 191938.
    (4)  Cfr.  Cass. 25 febbraio 1992, Mezzacuocolo, Cass. pen. 1993,
1772.
    (5) Cfr. Cass. 3 maggio 1996, Manuele, Cass. pen. 1996, 3379.
    (6) Vedi Tribunale di Milano, 13 settembre 1995, Sarlo, Cass. pen
1995, 3095;
        la  Corte  adita  -  pur affermando che le scelte operate dal
legislatore,  spinte  ben  oltre  i  risultati  cui  era pervenuta la
giurisprudenza di legittimita' in ordine al patologico fenomeno delle
cosiddette  "contestazioni  a  catena",  possono  offrire spazio alle
perplessita' ed ai dubbi di coerenza enunciati dal giudice rimettente
-  ha  dichiarato  l'infondatezza della questione assumendo che nella
disciplina  in  questione  puo'  essere  rinvenuto  l'intendimento di
comprimere  entro  spazi  sicuri  il  termine di durata massima delle
misure  cautelari,  in aderenza a quanto previsto dall'art. 13 ultimo
comma  della Costituzione, e di impedire la diluizione dei termini in
ragione  dell'episodico concatenarsi di piu' fattispecie cautelari, e
non  puo'  conseguentemente ritenersi incoerente allo scopo, e quindi
priva  di  ragione, la scelta di individuare alcune ipotesi che, piu'
di  altre,  presentano  elementi  di  correlazione  contenutistica di
spessore  tale  da  consentire  una  valutazione unitaria ai fini del
trattamento  cautelare;  con  la conseguenza che l'individuazione del
rinvio  a  giudizio  come momento processuale che traccia la linea di
displuvio  agli  effetti della operativita' della deroga risulta, per
un  verso, perfettamente simmetrica rispetto al regime che scandisce,
nell'art.  303  c.p.p.,  i termini di durata delle misure in funzione
delle   diverse   fasi  processuali  e,  per  altro  verso,  aderente
all'intendimento  del  legislatore  di  impedire che, nel corso delle
indagini,  le  contestazioni  cautelari  plurime  per  fatti connessi
ammettano  un diverso trattamento sul piano della durata delle misure
a  seconda  che  l'indagato  riesca  o  meno  a provare l'artificiosa
diluizione  nel  tempo  delle  singole  ordinanze; pertanto l'opzione
legislativa  attuata  attraverso  la novella del 1995, sostanziantesi
nell'introduzione  di  parametri certi e predeterminati, risulterebbe
in  tale  prospettiva  del  tutto  coerente  rispetto  alla avvertita
esigenza  di  configurare limiti obiettivi ed ineludibili alla durata
dei  provvedimenti  che incidono sulla liberta' personale, e cio' con
particolare  riguardo  alla  fase  delle  indagini  preliminari  che,
trovando  la sua principale linea di sviluppo nell'autonomo potere di
ricerca  della  prova  spettante  al  pubblico ministero, finisce per
rivelarsi  scarsamente  permeabile a qualsivoglia azione di controllo
successivo   sul   piano   della   tempestivita'   delle   iniziative
investigative.
    Emerge quindi piuttosto chiaramente che, di fronte al nuovo testo
dell'art. 297  comma  3  c.p.p.,  si e' sostanzialmente intravisto un
intendimento del legislatore specificamente volto a stabilire - anche
nel   caso   di   distinte  ordinanze  relative  a  "fatti  diversi",
limitatamente alle situazioni di connessione qualificata ivi indicate
- la regola della comune decorrenza dalla prima ordinanza dei termini
di  durata delle misure applicate, e cio' senza attribuire alcun peso
alla  circostanza che, a quell'epoca, tali fatti fossero gia' noti al
Pubblico  Ministero  in  tutti  i  loro  elementi rilevanti a livello
cautelare, ovvero gli fossero sconosciuti.
    Peraltro  simile  impostazione ermeneutica - escludendo qualunque
margine   di   valutazione  circa  la  "tempestivita'"  del  Pubblico
Ministero  nel  richiedere le misure cautelari successive alla prima,
con  riferimento  ai  predetti  "fatti diversi" - ha continuato anche
dopo  la  pronuncia  della  suddetta  sentenza di rigetto della Corte
costituzionale  a  suscitare le maggiori riserve circa la congruita',
in   chiave  di  ragionevolezza,  della  regola  come  sopra  desunta
dall'art. 297, comma 3 attualmente vigente.
    Piu'  esattamente si e' stigmatizzato il fatto che la novella del
1995, non distinguendo a seconda della "tempestivita'" - ovvero della
"intempestivitap  -  dell'iniziativa del pubblico ministero in ordine
alle  ordinanze cautelari successive alla prima, ancorche' riferite a
"fatti diversi", abbia finito per introdurre una sorta di presunzione
assoluta  di  indebito  prolungamento della custodia cautelare, sulla
scorta  di un meccanismo che non lascia spazio (come avrebbe, invece,
suggerito  un  apprezzato indirizzo giurisprudenziale sviluppatosi in
precedenza) ad alcuna verifica circa la sussistenza di una "colpevole
inerzia"  o  di  un  "artificioso  ritardo"  da  parte  del  pubblico
ministero  nel  richiedere  la  misura cautelare per il fatto diverso
connesso a quello anteriormente contestato.
    Ne' d'altro canto si e' ritenuto sufficiente, per respingere tali
censure, il richiamo alla esigenza di configurare limiti obiettivi ed
ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla liberta'
personale  - esigenza sulla quale nessuno potrebbe avanzare obiezioni
come   pure  sulla  conseguente  necessita'  che  vengano  introdotti
parametri  certi  e  predeterminati  in  materia  -  in  quanto  tali
insopprimibili   esigenze   risulterebbero   gia'  soddisfatte  dalla
previsione  di  ben  definiti  termini "intermedi" e "complessivi" di
durata  delle  misure  cautelari  (e,  nella  specie,  della custodia
carceraria)  in  rapporto  alle  differenti imputazioni contestate al
medesimo  imputato. Da qui l'assunto secondo cui la regola codificata
nell'art. 297  comma  3  c.p.p.,  soprattutto  nella  parte in cui si
riferisce  ai  "fatti  diversi",  non  sarebbe  riconducibile  ad una
esigenza  di  salvaguardia  della  obiettivita' ed ineludibilita' dei
termini di durata della custodia cautelare posto che, se per un verso
e'  la  stessa  Costituzione  a  imporre  la previsione di termini di
durata delle misure cautelari (almeno per quanto concerne la custodia
carceraria)  e,  quindi,  a presupporre l'inconferenza delle esigenze
che  dovessero  residuare  al  di la' di un limite temporale certo ed
invalicabile,  per altro verso il canone della "retrodatazione" della
decorrenza dei termimi di custodia risultante dalla norma processuale
in   questione  non  presenterebbe  alcun  rapporto  diretto  con  la
previsione  costituzionale  di  cui  all'art. 13,  comma quinto della
Costituzione.
    In  altri  termini,  si  e'  rilevato come nell'art. 297, comma 3
c.p.p.  risulti  sancita  una  sorta  di  fictio  iuris  volta  a far
decorrere  dal  medesimo giorno i termini relativi a misure cautelari
applicate  con  provvedimenti  distinti, ed in epoche distinte, anche
per  "fatti  diversi"  tutte  le  volte che si e' in presenza di quei
presupposti   specificamente   ed  esplicitamente  indicati  in  sede
normativa  quali  la antecedenza di tutti i fatti contestati rispetto
alla data di emissione del primo provvedimento e la sussistenza di un
rapporto  di  identita'  o  di  connessione  qualificata  fra i fatti
contestati  con  le varie ordinanze. Ma si e' altresi' osservato come
tale impostazione normativa possa esclusivamente giustificarsi' quale
strumento    di   neutralizzazione   dell'indebito   utilizzo   delle
contestazioni   c.d.   "a   catena",   quali   espedienti  di  sapore
vanificatorio  rispetto  all'ordinaria  disciplina della durata delle
misure  cautelari,  attraverso  la  distribuzione  nel  tempo di piu'
provvedimenti  cautelari per fatti criminosi legati dal vincolo della
continuazione  o  della  connessione  teleologica ancorche' i singoli
episodi delittuosi da contestare fossero tutti noti fin dall'inizio e
sulla  base di elementi idonei a consentire fin da subito l'emissione
del  corrispondente  provvedimento.  E  si  e' quindi concluso che un
meccanismo  processuale  come quello contenuto nell'art. 297, comma 3
c.p.p.  risulti  del tutto ragionevole soltanto quando si verifichino
queste   situazioni   di  differimento  contra  legem,  collegato  ad
"inerzie"   od   a   "ritardi",   o   ad  altre  improprie  dilazioni
nell'iniziativa  dei  pubblico  ministero  in  ordine all'adozione di
provvedimenti  cautelari  tutti  immediatamente azionabili; mentre in
assenza  di  tali  presupposti fattuali il medesimo meccanismo appaia
privo  di  ragionevolezza  in  quanto  l'alterazione  (in  chiave  di
"retrodatazione" del dies a quo di decorrenza) degli ordinari criteri
di  computo  dei  termini  delle  diverse misure, quali risultano dai
commi 1 e 2 dell'art. 297 c.p.p. non troverebbe giustificazione nella
esigenza   di   "controbilanciare"   il  rischio  di  un  surrettizio
svuotamento  della garanzia rappresentata dalla definizione per legge
dei termini massimi di durata delle misure cautelari.
    Tale    orientamento   interpretativo   si   e'   definitivamente
consolidato  attraverso  quella  pronuncia  delle Sezioni unite della
Cassazione  (Sent.  17  luglio  1997, cc. 25 giugno 1997, ric. Atene,
Cass.  pen. 1996,  m.  1654),  poi  costantemente  seguita in sede di
legittimita'  (7),  che  derivava  dalla  necessita'  di  comporre un
contrasto   venutosi   a   creare  sulla  effettiva  possibilita'  di
estendere,  alla  luce  della  modifica  introdotta dalla novella del
1995,  il gia' esistente regime derogatorio del principio generale di
autonomia  delle  ordinanza  che  dispongono  una misura cantelare, a
situazioni  cautelari  afferenti  a  procedimenti "diversi", e che ha
optato per la soluzione positiva avallando l'orientamento gia' emerso
a   seguito   dell'entrata   in   vigore  della  suddetta  novella  e
coiltrastante  con  l'indirizzo  assolutamente  prevalente che si era
formato  antecedentemente,  anche  sulla scia di quello consolidatosi
sotto la vigenza dell'art. 271, comma 3 c.p.p. 1930 (8).
    La  suddetta  pronuncia  delle  Sezioni unite della Cassazione e'
stato ancorata, sul piano logico sintattico, al rilievo che la regola
posta  dall'art.  297  comma 3 c.p.p. si applica anche a procedimenti
connessi  ai  sensi  dell'art. 12  c.p.p.  (nei limiti indicati dalla
prima parte della norma stessa) e pertanto necessariamente "diversi",
oltreche'  all'ulteriore  rilievo  che la stessa regola vale anche (e
sempre  con  i  limiti  imposti  dal citato comma 3 parte seconda) in
relazione   a   fatti   oggetto  di  procedimento  scaturito  da  una
"separazione"  di  atti a seguito di richiesta di rinvio a giudizio e
quindi  di  un  procedimento  ancora  una  volta  diverso  da  quello
originario.
    (7) Cfr., tra le alte, Cass. III, 29 gennaio 1999 (cc. 9 dicembre
1998), Paggian G., rv. 212824; Cass. VI, 15 aprile 1998 (cc. 19 marzo
1998), Ciresi, rv. 211950.
    (8)  Per  quanto attiene all'orientamento contrastante con quello
assunto  dalle  Sezioni  Unite vedi, per il periodo in cui era ancora
vigente  il codice abrogato, Cass. sez. I, 2 febbraio 1989, Imparato,
Cass.  pen.,  1990,  p.  895, n. 753; Cass. sez. I, 13 dicembre 1988,
Sorrentino,  ibid.,  1990,  pag.  104,  n. 92;  per quanto attiene al
periodo  successivo  all'entrata  in vigore dell'attuale codice, cfr.
Cass., sez. I, 31 gennaio 1994, Loiero, in Giust. Pen., 1994, III, c.
493;  Cass.  sez.  II, 1 dicembre 1993, Prete, in Riv. Pen., 1995, p.
126;  Cass.  sez.  V, 18 novembre 1992, Defina, Cass. peri., 1994, p.
2496,  n. 1561; ed infine, con riferimento al periodo successivo alla
entrata  in  vigore  della  novella  del  1995, cfr. Cass. sez. I, 12
novembre  1996,  Rotolo,  in  C.E.D.  Cass., 206344; Cass. sez. V, 15
luglio  1996,  Cuzzola, ibid, n. 205877; Cass, sez. I, 3 luglio 1996,
Esposito,  ibid.  n. 205319;  Cass.  sez.  I, 1 maggio 1996, Manuele,
ibid.,  n. 204929  e  Cass.  pen., 1996, p. 3379, n. 1891. Per quanto
attiene  invece  all'orientamento  conforme  a  quello espresso dalle
Sezioni Unite, cfr. Cass. sez. VI, 13 marzo 1997, Comande', in C.E.D.
Cass.,  n. 207161;  Cass.  sez. VI, 13 gennaio 1997, De Fusco, ibid.,
n. 207160;   Cass.   sez.  IV,  21  dicembre  1996,  Panetta,  ibid.,
n. 206325,  Cass.  sez. IV, 2 dicembre 1996, Greco, ibid., n. 206321;
Cass. sez. IV, 23 settembre 1996, Micheletti, ibid., n. 205574; Cass.
sez. V, 26aprile 1996, Cuneo, ibid., n. 204853.
    Sul  piano  sistematico  il  Supremo Collegio ha poi ritenuto non
condivisibili  quelle  sentenze  che  avevano  individuato  la  ratio
dell'attuale  art. 297 comma 3 c.p.p. nella necessita' di impedire la
artificiosa  diluizione nel tempo delle contestazioni, sostenendo che
tale ratio deve anzi essere riconsiderata alla luce della riforma del
1995  il cui scopo sarebbe piuttosto quello di contenere entro sicuri
spazi  il  termine di durata massima delle misure cautelari in virtu'
di   quanto   previsto  dall'ultimo  comma  dell'art. 13  Cost.,  con
l'introduzione  di  paramentri  certi e determinati. In altri termini
(ed  e'  questo  il  punto  maggiormente rileva ai fini della presene
decisione)  le Sezoni unite hanno con detta pronuncia sostanzialmente
ribaltato   quell'argomento   portato  a  principale  sostegno  della
pronuncia   sostanzialmente   ribaltato   quell'argomento  portato  a
principale  sostegno  della  opposta  tesi  -  e cioe' il riferimento
contenuto  nell'ultima parte del piu' volte citato comma 3 del l'art.
297  c.p.p.  alla "desumibilita' dagli atti" delle circostanze su cui
vengono  fondate  le  ulteriori ordinanze cautelari, indice eloquente
del  fatto  che  deve  essere  la  stessa autorita' ad emettere anche
queste  ultime, nell'ambito di un medesimo procedimento - utilizzando
proprio  tale  riferimento  alla  "desumibilita' degli atti" non gia'
come  spia del criterio ispiratore della norma, ma quale fondamentale
e  oggettivo parametro al quale ancorare, al di la' di valutazioni di
tipo soggettivistico, l'operativita' dell'istituto (9).
    Ritiene  il  Collegio  che il criterio della "desumibilita' dagli
atti",  concretamente  ed  efficacemente  adottabile  in  un contesto
processuale  quale  quello esplicitamente delineato nell'ultima parte
del   comma   3   dell'art.  278  c.p.p.,  e  cioe'  con  riferimento
all'intervenuta  conclusione  delle  indagini preliminari relative al
fatto,   od   ai   fatti,   costituenti   oggetto   della  originaria
contestazione   cautelare   (vertendosi,  in  tale  ipotesi,  in  una
situazione   processuale   ormai   cristallizzata   ed  integralmente
conoscibile   dalle  parti,  e  per  cio'  stesso  obiettivamente  ed
organicamente   controllabile   nelle   sue  implicazioni  di  ordine
indiziario),   comporti,   per   contro,  obiettive  ed  insuperabili
difficolta' ove rapportato ad una situazione processuale in divenire,
non   integralmente   conoscibile   dalle   parti  ed  essenzialmente
sottoposta,  per quanto attiene alle possibili implicazioni di ordine
indiziario,  ad una insindacabile valutazione dell'organo inquirente,
unico   dominus  delle  scelte  investigative  di  segno  accusatorio
concretamente prospettabili.
    La  desumibilita'  dagli  atti  di ipotesi delittuose distinte ed
ulteriori  rispetto  a  quelle  per cui si sta procedendo costituisce
infatti,  in  molti  casi,  il  frutto  di  una  elaborazione  logico
deduttiva svolta dall'Organo inquirente sulla base di una valutazione
squisitamente   soggettiva   e   non   efficacemente  apprezzabile  a
posteriori   in  termini  di  obiettiva  ed  inoppugnabile  evidenza;
bastera'   in  proposito  considerare  quei  casi  in  cui  l'ipotesi
delittuosa  destinata a divenire ulteriore titolo custodiale abbia ad
oggetto  -  come  nel caso di specie - fattispecie complesse, quali i
reati  associativi,  la  cui  integrazione, quanto meno nella fase di
iniziale  impulso  della  azione penale, deve necessariamente passare
attraverso  una  delibazione di circostanze meramente "sintomatiche",
costituente  appannaggio  esclusivo  dell'Organo inquirente; bastera'
altresi'  considerare  le  non  meno problematiche ipotesi delittuose
fondate  non  gia'  su  risultanze d'indagine certe e definite, ma su
dichiarazioni testimoniali o, ancor peggio, su chiamate in correita',
la  cui  rilevanza  indiziaria  passa  necessariamente attraverso una
valutazione  del  tutto autonoma ed insindacabile dello stesso organo
inquirente  e  la  cui  concludenza, ai fini della formulazione di un
giudizio   di  "conoscibilita'"  dei  fatti  di  reato  eventualmente
prospettabili, non sempre risulta obiettivamente ed inoppugnabilmente
individuabile  a posteriori (si pensi in proposito, e sempre a titolo
meramente    esemplificativo,   alla   prospettazione   di   condotte
fraudolente  poste in essere dalla persona indagata, la cui effettiva
portata  decettiva puo' essere efficacemente vagliata soltanto previo
espletamento di complesse ed articolate verifiche istruttorie).
    (9)  Cfr.  Cass.  Sezioni Unite 25 giugno 1997 cit., paragrafo 8:
"Quanto  ai  dubbi  manifestati  in ordine a/dato temporale, al quale
riferire  la  "desumibilita'  dagli  atti",  va detto che, come essa,
affini  dell'applicazione  del disposto di cui al secondo periodo del
comma  3, deve farsi risalire ad epoca anteriore al "disposto" rinvio
a  giudizio  - che segna il termine massimo di fase ai sensi dell'art
303  comma  1  lett.  h) - cosi' la "desumibilita' dagli atti" di cui
a/primo  periodo  della  citata  norma  deve essere riferita ad epoca
anteriore  all'emissione  della prima ordinanza caute/ape. Altrimenti
verrebbe   meno  la  ratio  dell'intera  disposizione;  ed  il  tutto
risulterebbe  davvero  affidato  ad  un  paradossale ed irragionevole
automatismo. D'altra parte, e sempre in linea con il dato letterale e
con   il  significato  complessivo  della  norma  rispetto  alla  sua
finalita'   appare  evidente  che  le  situazioni  apprezzabili  come
presupposti  per  l'emissione  delle  successive  ordinanze,  la  cui
efficacia va retrodatata, debbano avere caratteristiche e consistenza
tali  da legittimare l'adozione della misura cautelare sin dall'epoca
della  prima  ordinanza.  Non  e'  sufficiente, pertanto, che entro i
limiti  temporali  di  cui al primo ed al secondo periodo del comma 3
dell'art. 297,  sia  stata  acquisita  e  risulti  dagli atti la mera
notizia  del  fatto reato, essendo invece indispensabile che sussista
il   quadro   legittimante  l'adozione  della  misura  cautelare  sin
dall'epoca  dell'emissione  della  prima ordinanza (ovvero dall epoca
del rinvio a giudizio: art. 297 comma 3, ult. parte, c.p.p.).
    Senza  poi  contare che l'impiego del suddetto criterio normativo
diviene  ancor  piu'  complesso  ove  si  consideri, in conformita' a
quanto  costantemente affermato dalla Suprema Corte ed esplicitamente
ribadito  nella  piu' volte citata pronuncia delle Sezioni Unite, che
non  e'  sufficiente che, entro i limiti temporali di cui al primo ed
ai  secondo  periodo del comma 3 dell'art. 297, sia stata acquisita e
risulti  dagli  atti la mera notizia o il fatto-reato, essendo invece
indispensabile  che  sussista il quadro legittimante l'adozione della
misura  cautelare sin dall'epoca dell'emissione della prima ordinanza
(ovvero  dall'epoca  del  rinvio  a  giudizio: art. 297 comma 3, ult.
parte,  cp.p.).  Se  per  un verso, infatti, e' incontestabile che la
pura  e  semplice  sussunzione  dei  fatti  di  cui  si  e'  venuti a
conoscenza  in sede inquirente entro l'alveo di una determinata norma
incriminatrice  puo'  presentare,  in  taluni casi, problematiche non
indifferenti   ed  implicare  complesse  valutazioni  non  facilmente
apprezzabili  "con  il  senno  di  poi"  in  termini  di obiettiva ed
incontrovertibile  evidenza, per altro verso e' altrettanto certo che
la delibazione in ordine alla gravita' e concludenza delle risultanze
indiziarie raccolte in ordine a detta ipotesi di reato sconta, quanto
meno  nella  delicata  fase  di  impulso  del  procedimento cautelare
disciplinata   dall'art.   291  c.p.p.,  un  larghissimo  margine  di
autonomia operativa e valutativa dell'organo inquirente, concesso non
soltanto   sul   terreno   dei   presupporti  di  ordine  prettamente
socialpreventivo  delle  misure  cautelari  (del tutto irrilevanti ai
fini  della  determinazione  dei  limiti  temporali  di  cui  si  sta
trattando),   ma  anche  e  soprattutto  sul  piano  della  effettiva
concludenza  e gravita' delle risultanze di indagine raccolte e sulla
possibilita'  ed  opportunita'  di  procedere  ad  integrazione delle
stesse;  un margine di autonomia che, comunque venga utilizzato, pone
grossi  ostacoli  all'accertamento  della effettiva "conoscibilita'",
soprattutto  in  quella  piu' ampia ed articolata accezione tracciata
dalla giurisprudenza di legittimita'.
    Bastera'  in  proposito  considerare,  ancora  una  volta, che la
valutazione  richiesta  all'organo  giurisdizionale di controllo, sia
esso il giudice procedente o il Tribunale del riesame, verte non gia'
sulla  "desumibilita'"  all'interno  di  un contesto istruttorio gia'
cristallizzato   e  conoscibile  dalle  parti  -  quale  puo'  essere
l'insieme  degli  atti  depositati  ai  sensi  dell'art.  415,  od il
fascicolo  processuale  presentato  ai  sensi  dell'art. 291 c.p.p. -
obiettivamente  ed organicamente controllabile nelle sue implicazioni
di  ordine  indiziario, ma nell'ambito di un contesto processuale "in
divenire",   le   cui   implicazioni   indiziarie,  indissolubilmente
collegate  alle  iniziative investigative del pubblico ministero, mal
si prestano a qualsivoglia controllo successivo.
    Non  solo,  ma la situazione tende inevitabilmente a complicarsi,
quanto meno ai fini della determinazione dei limiti temporali che qui
interessano,  ove gli elementi indiziari destinati a sostanziare quel
livello  di qualificata probabilita' dell'ipotesi accusatoria oggetto
delle  ordinanze cautelari successive debbano essere desunti da fonti
conoscitive cormotate da particolare complessita', la cui valutazione
da   parte   dell'organo   inquirente  componi  un  lungo  lavoro  di
interpretazione  ed analisi (si considerino, per tutte, le consulenze
tecnico contabili disposte in sede di accertamento di reati fiscali o
di reati in materia di diritto penale commerciale), ed in ordine alle
quali  ben  difficilmente puo' essere individuato a priori un preciso
termine  a  partire  dal  quale  si  concretizza  una  situazione  di
effettiva ed inoppugnabile "desumibilita' dagli atti" a meno di voler
fare  sempre retroagire - con una astrazione del tutto difforme dalla
realta'  di  fatto  -  tale  termine  al  momento  in  cui  le  fonti
informative sono pervenute all' inquirente.
    Ritiene   pertanto  il  Collegio  che  la  interpretazione  sopra
richiamata    sembra    discostarsi    nettamente   dall'orientamento
ermeneutico  accolto  dalla  Corte  costituzionale  nella sentenza 28
marzo 1996 n. 89(10) e che, d'altro canto,
    (10)  Secondo  cui  nel nucleo della disciplina in questione puo'
essere agevolmente rinvenuto l'intendimento di comprimere entro spazi
sicuri  il  termine  di  durata  massima  delle  misure  cautelari in
perfetta  aderenza  con  quanto  previsto  dall'art. 13, ultimo comma
della  Carta  fondamentale,  e  se,  dunque la "causa" delle norma e'
quella   di   impedire   la   diluizione   dei   termini  in  ragione
dell'episodico  concatenarsi  di piu' fattispecie cautelari, non puo'
certo ritenersi incoerente allo scopo e, dunque, priva di ragione, la
scelta  di  individuare alcune ipotesi che, piu' di altre, presentino
elementi   di   correlazione   contenutistica  di  spessore  tale  da
consentirne  una  valutazione  unitaria  agli effetti del trattamento
cautelare.  Allo  stesso  modo,  una volta individuata la regola, non
puo'  neppure dirsi eterodossa rispetto ai fini perseguiti la "causa"
che  sostiene  la  deroga  introdotta nel secondo periodo del comma 3
dell'art. 297  c.p.p. la quale esclude l'applicabilita' del principio
della  retrodatazione  dei  termini  in  relazione alle ordinanze per
fatti "nuovi" che, malgrado connessi a quelli oggetto della primitiva
contestazione, emergono soltanto dopo il rinvio giudizio per il fatto
cui  si riferisce l'originaria ordinanza cautelare. La individuazione
del  rinvio  a giudizio come momento processuale che traccia la linea
di  displuvio  agli  effetti della operativita' della deroga, appare,
infatti  da  un  lato perfettamente simmetrica rispetto al regime che
scandisce,  nell'art. 303  c.p.p.,  i termini massimi di durata della
misure  in  funzione  delle  diverse  fasi  processuali e, dall'altro
aderente  all'intendimento del legislatore di impedire che, nel corso
delle indagini, le contestazion cautelari plurirme per fatti connessi
ammettono  un diverso trattamento sul piano della durata delle misura
a  seconda  che  l'indagato  riesca  o  meno  a provare l'artificiosa
diluizione  nel  tempo  delle  singoli  ordinanze.  L'introduzione di
parametri   certi   e  predeterminati,  quindi,  lungi  dall'assumere
connotazioni  di arbitrarieta', si appalesa nella specie come opzione
rispetto  alla  avertita  esigenza  di configurare limiti obiettivi e
ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla liberta'
personale  e  cio'  con particolare riguardo alla fase delle indagini
preliminari,   la   quale,   per   essere  affidata  alle  iniziative
investigative  del  pubblico  ministero,  mal  si  presta a controlli
successivi  sul  sempre  opinabile  terreno della tempestivita' delle
relative acquiszioni.
l'attribuire  alla norma in esame un implicito richiamo - anche fuori
dei casi in cui sia intervenuto provvedimento che dispone il giudizio
relativamente  ai  fatti  oggetto di piu' remota contestazione - alla
tardivita'   della   contestazione   cautelare   piu'  recente  quale
presupposto  imprescindibile  per  la  retrodatazione  dei termini di
durata  massima  della  misura  comporta,  in  assenza  di  parametri
normativamente predeterminati, una situazione di incertezza in ordine
alla  data  di  decorrenza dei termini di durata massima delle misure
applicate  successivamente  per  fatti  in  rapporto  di  connessione
gualificata  rispetto  a  quelli  di  piu'  remota contestazione, con
conseguente  indeterminatezza  della  durata complessiva delle misure
stesse.
    Una  simile  impostazione normativa sembra infatti porsi in netto
contrasto  con  il  dettato  dell'art. 13  ultimo  comma  della Carta
costituzionale  che,  nel  riservare alla legge la determinazione dei
limiti  massimi della carcerazione preventiva, demanda al legislatore
non  soltanto  la  scelta dei criteri di computo della durata massima
della  custodia  cautelare,  ma anche la impostazione di tali criteri
secondo  schemi  operativi  atti a precludere qualsivoglia margine di
incertezza  e  discrezionalita'  in  sede  applicativa, sgombrando il
campo    da    scomode   e   pericolose   interferenze   con   ambiti
endoprocedimentali  governati da scelte discrezionali di taluna delle
parti ed ancorande gli ambiti di decorrenza ad eventi endoprocessuali
assolutamente certi ed obiettivi.
    Alla  luce  delle  circostanze sommariamente enunciate ritiene il
Collegio sussistere la condizione di rilevanza cui la legge subordina
l'eccezione di legittimita' costituzionale posto che, in applicazione
della  legge vigente cosi come sopra interpretata non dovrebbe essere
riconosciuta  ex  art. 303  c.p.p.  l'inefficacia  sopravvenuta della
misura cautelare in corso di esecuzione.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23 della legge n. 87/1953.
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
costituzionalita'  dell'art. 297, comma 3 c.p.p., nel testo novellato
ex  art. 12  della  legge  n. 332/1995,  per  contrasto con l'art. 13
ultimo  comma  della  Costituzione, nella parte in cui, per l'ipotesi
d'una  pluralita'  di  ordinanze  restrittive  per  fatti diversi, e'
prevista  la decorrenza del termine massimo della custodia cautelare,
per tutti i reati in rapporto di connessione qualificata, a far tempo
dalla  data  della contestazione piu' remota, esclusivamente nei casi
in  cui  la  sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine a
fatti di successiva contestazione non risultasse dagli atti all'epoca
del  primo  provvedimento;  o  nella  parte,  almeno,  in  cui  viene
richiesta,  ai fini della diversificazione dei termini di decorrenza,
la  verifica  positiva  di  tempestivita'  delle  nuove contestazioni
cautelari  anche  fuori dei casi in cui sia intervenuto provvedimento
che dispone il giudizio relativamente ai fatti oggetto di piu' remota
contestazione.
    Dispone  la  sospensione  del procedimento relativo ad istanza di
declaratoria  di  sopravvenuta  inefficacia della misura cautelare in
corso e di conseguente scarcerazione nell'interesse di Vela Dashmir.
    Ordina la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    Dispone  che la presente ordinanza, a cura della cancelleria, sia
notificata  al Presidente del Consiglio dei ministri, e comunicata ai
Presidenti della Camera dei deputati e del Senato della Repubblica.
    Dispone  che  una  copia del presente provvedimento, a cura della
cancelleria,   sia  direttamente  inviata  al  direttore  della  casa
circondariale  di  assegnazione  dell'interessato, ai sensi e per gli
effetti  degli articoli 1-bis e 1-ter dell'art. 94 delle disposizioni
di attuazione c.p.p., come modificato ex art. 23 della legge 8 agosto
1995 n. 332.
    Dispone  la  notifica del presente provvedimento a tutte le parti
del giudizio.
    Cosi' deciso in Torino all'esito dell'udienza del 2 ottobre 2002.
                Il Presidente estensore: Balestretti
                    Il giudice estensore: Colpo
02C1185