N. 44 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 19 dicembre 2002

Ricorso  per  conflitto  di attribuzione depositato in cancelleria il
19 dicembre 2002 (dell'on. sen. prof. avv. Francesco Cossiga)

Presidente  della  Repubblica  -  Sentenza  della  Corte  Suprema  di
  Cassazione-sez. III  civile, nn. 8733 e 8734 del 27 giugno 2000, di
  annullamento  con  rinvio  di  due  sentenze  della Corte d'appello
  civile  di  Roma, in data 21 aprile 1997 e 16 marzo 1998, emesse in
  riforma  di  due decisioni del Tribunale civile di Roma di condanna
  del senatore Francesco Cossiga al risarcimento dei danni morali per
  le  opinioni  dallo  stesso  espresse quando ricopriva la carica di
  Presidente  della  Repubblica, nei confronti degli onorevoli Sergio
  Flamigni   e   Pierluigi   Onorato   -  Ricorso  per  conflitto  di
  attribuzione   tra   poteri  dello  Stato  sollevato  dal  senatore
  Francesco   Cossiga   -   Ritenuta  legittimazione  attiva  dell'ex
  Presidente  della  Repubblica  per  la  lesione  del  principio  di
  irresponsabilita'  del  Presidente  della Repubblica e del relativo
  potere  di  esternazione  in relazione ad opinioni espresse durante
  l'esercizio dell'incarico presidenziale.
- Corte di cassazione, sentenze del 27 giugno 2000, nn. 8733 e 8734.
- Costituzione, artt. 87 e 90.
(GU n.1 del 8-1-2003 )
    Ricorso  per  conflitto  di attribuzione tra i poteri dello Stato
per  l'on. sen. prof. avv. Francesco Cossiga, rappresentato e difeso,
in  virtu'  di  delega  in calce al presente atto, dagli avv.ti prof.
Franco  Coppi,  prof. Agostino Gambino e prof. Giuseppe Morbidelli ed
elettivamente  domiciliato  presso lo studio dell'avv. prof. Agostino
Gambino in Roma, via dei Tre Orologi 14/a;
    Contro  la  III  sezione civile della Corte suprema di cassazione
per l'annullamento delle sentenze nn. 8733 e 8734 del 27 giugno 2000.
    1. - Le sentenze della Corte suprema di cassazione.
    Con  le  sentenze  di  seguito  indicate  (Cass.,  III sez. civ.,
27 giugno  2000, n. 8733, Flamigni c. Cossiga e Cass., III sez. civ.,
27  giugno  2000,  n. 8734,  Onorato c. Cossiga), la suprema Corte di
Cassazione  ha  disposto  l'annullamento di due decisioni della Corte
d'appello  civile  di  Roma  rese, rispettivamente, in data 21 aprile
1997  e  16 marzo  1998  ed  emesse  in  riforma  di due pronunce del
Tribunale   civile  di  Roma  con  le  quali  l'ex  Presidente  della
Repubblica,   on.  sen.  prof.  avv.  Francesco  Cossiga,  era  stato
condannato   al   risarcimento   dei  pretesi  danni  morali  per  le
espressioni  dal medesimo pronunciate, nel corso del suo mandato, nei
confronti  degli  onorevoli  Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato e da
questi  ritenute  lesive  del  loro  onore  e  della loro dignita'. I
giudici  di  primo  grado  erano  giunti  al convincimento che "fuori
dell'esercizio  delle  sue  funzioni  il  Presidente della Repubblica
risponde  come qualsiasi cittadino", perche' la sua irresponsabilita'
e'  "strettamente  correlata  alla  responsabilita' dei ministri" che
controfirmano  gli  atti  presidenziali.  Ad  avviso del Tribunale di
Roma,  questa  interpretazione  si  ricaverebbe tra l'altro da quanto
disposto  dalla  legge 5 giugno 1989, n. 219 che, all'art. 8, prevede
espressamente il caso dell'incompetenza del Comitato parlamentare per
la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica in caso di
"reato diverso da quelli previsti dall'art. 90 della Costituzione" e,
all'art. 9,   contempla   la  conseguente  "trasmissione  degli  atti
all'autorita'  giudiziaria ordinaria". Dall'assenza della controfirma
su  un  atto  presidenziale si potrebbe dunque "trarre un ragionevole
sintomo  o  indizio della non riferibilita' dell'atto medesimo ad una
specifica  finzione  presidenziale".  Inoltre l'irresponsabilita' del
Presidente della Repubblica costituirebbe il "logico corollario della
particolare  posizione  che  la  Costituzione  assegna  al capo dello
Stato, posizione il piu' possibile avulsa da qualsiasi coinvolgimento
del medesimo in attivita' di indirizzo politico ed amministrativo" ed
"eminentemente  rappresentativa  e  quale  custode  e  garante  della
Costituzione  medesima, al di fuori delle funzioni di governo". Essa,
quindi,   rappresenterebbe   un   "elemento  rafforzativo  della  sua
posizione  (oltre  che  super  partes) priva di "potere" di indirizzo
politico"  (cosi',  Tribunale  civile di Roma, I Sez. Civ., 22 giugno
1993, Onorato c. Cossiga).
    Alle  condanne  pronunciate  dal  Tribunale civile di Roma si era
opposta,  invece,  la  Corte  d'appello  civile  di  Roma  che  aveva
integralmente  riformato  le sentenze dei giudici primo grado. Per la
Corte   d'appello  infatti  "il  carattere  politico  della  funzione
esercitata"   dai  titolari  degli  organi  monocratici  dello  Stato
apparato  non consente "di distinguere il munus dalla persona fisica"
giacche'  questa  "si  immedesima  in  esso  si'  che  non e' dato di
distinguere la volonta' dell'uno che non sia la volonta' dell'altro".
Il  Capo  dello  Stato,  ha  proseguito  il  giudice  d'appello, puo'
esprimere  "proprie  valutazioni  ed  orientamenti  in  quanto, a suo
insindacabile  giudizio,  ritenuti  indispensabili per lo svolgimento
della  funzione  di  monito e di persuasione oltre che di garante dei
valori costituzionali di cui e' senz'altro uno dei maggiori esponenti
quale  viva  vox  constitutionis"  senza,  per  questo,  incorrere in
responsabilita'.
    La  suprema  Corte di cassazione infine, annullando con rinvio ad
altra  Sezione  della medesima Corte d'appello, e' intervenuta per la
prima  volta  in materia di immunita' presidenziali ex art. 90 Cost.,
precisandone  natura  ed  estensione.  Per  fare  cio' ha operato una
complessa   ricostruzione  del  ruolo  e  delle  responsabilita'  del
Presidente della Repubblica, optando per una lettura ampia dei poteri
presidenziali  nel  senso di considerare il Capo dello Stato titolare
non  solo  delle  funzioni  espressamente elencate nell'art. 87 della
Costituzione    ma,   soprattutto,   valorizzandone   il   ruolo   di
rappresentante  dell'unita' nazionale. Ed infatti essa ha considerato
-  in  base  agli  artt. 89 e 90 Cost. - atti compiuti nell'esercizio
delle  funzioni  non  solo quelli ufficiali e controfirmati, ma anche
"ogni  atto,  dichiarazione  o  comportamento  che trovi la sua causa
nella  funzione  o  in  un fine ad essa inerente". In quest'ottica e'
stato affrontato il problema del c.d. "potere" di esternazione che la
suprema   Corte   ha  ricondotto  alla  previsione  del  primo  comma
dell'art. 87 della Costituzione, in base al quale il Presidente della
Repubblica  rappresenta l'unita' nazionale. In tale veste infatti ben
potrebbe  il  Capo  dello  Stato  rivolgersi  direttamente  al  Paese
esplicando  la  sua  naturale  funzione  di  stimolo  e  di  garanzia
costituzionale.  Secondo  la  Cassazione tale punto "merita di essere
condiviso  in  nome  del  diritto vivente" e alla luce della "prassi"
instauratasi.
    Ma  nonostante  questa  lettura  ampia  dei poteri presidenziali,
anche attraverso il richiamo al "diritto vivente" e alla "prassi" per
concretizzare  un  esercizio  immune  delle funzioni, rimane comunque
necessario - sottolinea la Cassazione - che l'attivita' presidenziale
"rientri  tra  quelle elencate" non potendosi parlare di una generale
(e  generica)  funzione  presidenziale,  al  di  fiori delle suddette
ipotesi.  In  proposito,  la  Cassazione, richiamandosi alla sentenza
della   Corte   cost.   n. 10   del   17 gennaio  2000,  in  tema  di
insindacabilita'  ex  art. 68  Cost.,  per cui: "Nel linguaggio e nel
sistema  della  Costituzione,  le "funzioni" riferite agli organi non
indicano   generiche   finalita',   ma   riguardano   ambiti  e  modi
genericamente  definiti",  ha  sostenuto  che  la ricostruzione ampia
delle  funzioni  presidenziali  trova  percio'  un  limite  nel dover
comunque  ogni  atto  o  comportamento  essere connesso con una delle
esplicite   funzioni   elencate.  In  altri  termini,  "in  tanto  e'
ammissibile  un potere (o una facolta) di esternazione del Presidente
della  Repubblica,  in  quanto  esso sia strumentalmente diretto alla
realizzazione  di  un compito presidenziale, pur nell'ampia accezione
suddetta".
    Per la Cassazione dunque l'irresponsabilita' del Capo dello Stato
ex  art. 90  Cost. deve risultare strettamente connessa all'esercizio
di  concrete  funzioni  e  quindi  ratione  materiae  e  non  ratione
personae.  Sotto  questo  profilo  essa ha infatti affermato che: "il
principio  di  irresponsabilita'  del capo dello Stato e' un istituto
tipico  delle  forme  di  governo  parlamentare",  essendo "il logico
corollario  della particolare posizione" del Presidente in tale forma
di  governo,  "avulsa  da  qualsiasi  coinvolgimento  in attivita' di
indirizzo  politico".  Conseguentemente,  "vi  e'  (...) una profonda
differenza  tra  lo Stato monarchico (art. 4 Statuto Albertino), dove
l'irresponsabilita'  del  Monarca era assoluta (la persona del re era
"sacra  ed  inviolabile")  e,  quindi,  ratione  personae  e lo Stato
repubblicano,   dove   l'irresponsabilita'   del   Presidente   della
Repubblica  e'  strettamente  connessa  all'esercizio  delle funzioni
presidenziali, ed e', quindi ratione materiae".
    Di  conseguenza,  "gli atti compiuti fuori da detto esercizio non
vanno   esenti   da   responsabilita'"   perche'  l'irresponsabilita'
presidenziale  va  collegata alla sua posizione nel sistema che e', e
rimane,  quella  di  garante  della  Costituzione,  privo, quindi, di
poteri di politica attiva.
    Dette  sentenze,  dalla  motivazione  pressoche'  identica, hanno
pertanto statuito in punto di diritto quanto segue.
    In  primo  luogo,  in base all'art. 90 Cost., l'irresponsabilita'
giuridica   del   Capo   dello   Stato   in   sede   civile,  penale,
amministrativa,  deve  considerarsi  limitata  unicamente  agli "atti
compiuti   nell'esercizio   delle   sue   funzioni"   (ovvero  quelli
controfirmati  ai  sensi  dell'art. 89  Costituzione e quelli, piu' o
meno  formali,  che  trovino la loro causa o in un fine inerente alla
funzione  ovvero  nella  funzione  stessa, come ad esempio ex art. 87
Cost.  nella  rappresentanza  dell'unita'  nazionale,  che  fonda  la
possibilita',  in capo al Presidente, di parlare in nome del Paese) e
non comprende quelle c.d. "extrafunzionali".
    In secondo luogo, tra le funzioni del Presidente della Repubblica
coperte  dall'immunita',  puo' annoverarsi anche la c.d. "autodifesa"
dell'organo costituzionale, allorche' l'ordinamento non assegni detta
difesa alle funzioni di altri organi ovvero nei casi in cui oggettive
circostanze concrete impongano l'immediatezza dell'autodifesa.
    In  terzo  luogo,  spetta  all'autorita' giudiziaria accertare se
l'atto  compiuto  sia funzionale o extrafunzionale "salva la facolta'
per  il  Presidente  della  Repubblica  di  sollevare il conflitto di
attribuzione per menomazione" di fronte alla Corte costituzionale. In
quarto  luogo,  il  Presidente  della  Repubblica  non  e' certamente
vincolato ad esprimersi solo attraverso messaggi formali, ma comunque
"il  suo  c.d. "potere di esternazione , che non e' equiparabile alla
libera  manifestazione  del  pensiero  di  cui all'art. 21 Cost., non
integra   di  per  se'  una  funzione,  per  cui  e'  necessario  che
l'esternazione   sia   strumentale   o  accessoria  ad  una  funzione
presidenziale, perche' possa beneficiare dell'immunita'".
    Infine,  le  ingiurie  e  le diffamazioni compiute dal Capo dello
Stato  "beneficiano  dell'immunita'  solo  se commesse "a causa della
funzione,  e  cioe'  come  estrinsecazione  modale  della stessa, non
essendo sufficiente la mera contestualita' cronologica, che da' luogo
solo   ad  atto  arbitrario  concomitante".  A  cio'  si  collega  la
considerazione  per  cui  il  c.d. "legittimo esercizio della critica
politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni
aspri e di disapprovazione, non deve comunque trasmodare nell'attacco
personale  e  nella  pura  contumelia,  con  conseguente  lesione del
diritto altrui all'integrita' morale".
    2. - L'ammissibilita'  del  ricorso:  la  legittimazione  dell'ex
Presidente  della Repubblica, senatore Francesco Cossiga, a sollevare
conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato.
    In  primo  luogo, questa difesa ritiene di dovere svolgere alcune
considerazioni  preliminari  sulla ammissibilita' del ricorso che con
il  presente  atto viene proposto sotto il duplice profilo soggettivo
ed oggettivo.
    Sotto  il  profilo  soggettivo,  ovvero  circa  la legittimazione
dell'ex  Presidente  della  Repubblica, senatore Francesco Cossiga, a
sollevare  conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, e' ben
noto che la identificazione dei "poteri dello Stato" (art. 134 Cost.)
e  degli  "organi competenti a dichiarare definitivamente la volonta'
del  potere  cui  appartengono"  (art. 37,  legge  87  del 1953) e' a
tutt'oggi  lontana dall'aver trovato una sua definitiva sistemazione.
Il  sistema  costituzionale si configura infatti in modo estremamente
articolato  con  la  previsione di una pluralita' di centri di potere
che  si  affiancano a quelli tradizionali ciascuno dei quali esercita
funzioni  proprie direttamente assegnate dalla Costituzione e tali da
incidere  sull'organizzazione  e  sul  funzionamento  della  forma di
governo e della forma di Stato.
    La  nozione  di  potere si e' allargata fino ad abbracciare tutti
gli  organi  ai  quali  sia  riconosciuta  e  garantita  una quota di
attribuzioni  costituzionalmente  definita  e  quindi  le  parti  del
conflitto  tra poteri non risultano nominativamente individuabili; il
che  si  colloca  -  come autorevolmente affermato - nel quadro di un
sempre  piu'  accentuato  pluralismo istituzionale (C. Mezzanotte, Le
nozioni  di  potere  e  di conflitto nella giurisprudenza della Corte
costituzionale,  in  Giur.  cost. 1979, I, 110) a fronte del quale la
concreta individuazione dei poteri confliggenti non puo' che avvenire
caso  per  caso,  con  riferimento  alla  struttura del potere e alla
dinamica  delle relazioni intercorrenti tra gli organi che concorrono
a  costituirlo. Emblematica in tal senso e' la recente giurisprudenza
costituzionale  che  ha  previsto,  sia  pur negandola, l'ipotesi del
coinvolgimento  di  singoli  parlamentari  nel  conflitto  tra poteri
presentatasi nel corso del 1998 varie volte (conflitti - come e' noto
-   sollevati  dal  deputato  Vittorio  Sgarbi  contro  organi  della
magistratura  giudicante  e  requirente. La negazione dell'accesso al
giudizio  della  Corte  viene  riferita  all'ipotesi  per la quale il
ricorrente    lamenti    una    lesione   della   prerogativa   della
irresponsabilita'  per  le  opinioni espresse sulla base dell'art. 68
Cost.  che  secondo la Corte viceversa puo' venire fatta valere dalla
Camera  di  appartenenza del parlamentare trattandosi di una potesta'
che  fa capo all'organo collegiale complessivamente inteso, ma non al
singolo,   per   il   quale   restano   esperibili   tutti  i  rimedi
endoprocessuali riconosciuti dall'ordinamento).
    Nei casi di specie la Corte costituzionale ha negato il conflitto
tra poteri sull'assunto che esso risulti circoscritto ai rapporti tra
prerogative  parlamentari e autorita' giudiziaria, peraltro "restando
impregiudicata   la   questione   se   in   altre   situazioni  siano
configurabili  attribuzioni individuali di potere costituzionale, per
la  cui  tutela  il  singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere
allo  strumento  del  conflitto tra poteri dello Stato" (ord. 177 del
1998).   Nell'ordinanza   n. 101  del  2000  (caso  Previti)  inoltre
l'inammissibilita'  non e' stata dichiarata per carenza del requisito
soggettivo.  Secondo  la  Corte  infatti per tutelarsi in ordine alla
situazione  lamentata  (ovvero la menomazione lamentata della propria
posizione   costituzionale   da   parte   di   alcuni   provvedimenti
dell'autorita'  giudiziaria) il ricorrente impropriamente ha usato lo
strumento  del conflitto di attribuzioni nei confronti dell'autorita'
giudiziaria; il che costituisce una conferma di quanto gia' sostenuto
nell'ordinanza  177  del  1998  nella  quale appunto si ipotizzava la
configurabilita'    di    attribuzioni    individuali    di    potere
costituzionale,  per  la  cui  tutela  il  singolo  parlamentare  sia
legittimato a ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri dello
Stato.
    Da  tale  giurisprudenza  emerge  la centralita' del c.d. aspetto
"oggettivo"  del  conflitto,  cioe' il carattere costituzionale delle
attribuzioni  in  contestazione,  cosicche' "il profilo soggettivo e'
privo di autonomia e va risolto alla luce del profilo oggettivo", con
la  conseguenza  -  se  ne  e'  dedotto  -  che  laddove sia lesa una
attribuzione  del  parlamentare  questo  e'  comunque  legittimato  a
ricorrere  allo strumento del conflitto tra poteri (vedi G. Brunelli,
"Caso Previti", atto I: porte aperte alla Camera (e al Senato), porta
chiusa  (ma  non  del  tutto)  al deputato, in Giur. cost., 2000, 963
ss.).  In  sintesi,  come  sostenuto  in  dottrina  (R.  Bin L'ultima
fortezza.  Teoria  della  costituzione  e  conflitti di attribuzioni,
Milano,  1996,  spec.  115),  tutti i meccanismi decisionali e i loro
protagonisti  purche'  trovino in disposizioni costituzionali il loro
fondamento, sono potenzialmente coperti dalla garanzia del conflitto:
si  tratta di un criterio elastico che non consente di identificare e
selezionare  a priori i possibili soggetti della controversia, ma che
spinge  piuttosto  a  verificare  nel  concreto  delle  situazioni se
esistano  i  presupposti  per  un  intervento  della  Corte  volto  a
ristabilire  l'equilibrio  tra  i  poteri.  Nella specie, e' vero che
l'on.,  sen. prof. avv. Francesco Cossiga, non riveste piu' la carica
di Presidente; ma proprio alla luce della piu' recente giurisprudenza
indirizzata  nel  senso  di  una  progressiva  estensione dei profili
soggettivi del conflitto attraverso la verificabilita' caso, per caso
della  legittimazione  attiva  (e  passiva),  si ritiene che si debba
tener  conto  a  tal  fine,  cioe'  ai  fini  della  dichiarazione di
ammissibilita'  del  presente ricorso, la posizione giuridica dell'ex
Presidente della Repubblica.
    Si  tratta di una questione assai importante e che merita attenta
analisi.  Siamo  infatti convinti che lo status derivante dall'essere
stato  investito di una carica pubblica - ovvero della suprema carica
prevista  dal  nostro ordinamento, cioe' quella di Capo dello Stato -
e'  fattore  dirimente  ai fini della ammissibilita' del conflitto in
esame.
    La  questione merita tanto piu' attenzione se consideriamo che il
senatore  Francesco  Cossiga  e'  stato  citato  in  giudizio  mentre
ricopriva  la carica di Presidente e che oggi, pur ancora pendente il
giudizio  civile  a seguito dell'annullamento con rimessione disposto
dalla  suprema  Corte  di  cassazione,  ma  avendo  terminato  il suo
mandato,  non  potrebbe  piu'  -  secondo  una  rigida e formalistica
interpretazione  "di  potere  dello  Stato"  - sollevare il conflitto
stesso.
    In  via  generale,  l'ordinamento  costituzionale italiano, cosi'
come  quelli  di altri Paesi stranieri, riconduce spesso in capo alle
persone  che hanno occupato determinati uffici pubblici una posizione
giuridica   del   tutto   singolare.   Si  pensi  -  a  puro  titolo,
esemplificativo  -  alla  Costituzione francese (art. 56) che prevede
che  gli  ex  Presidenti  della Repubblica sono membri di diritto del
Consiglio  costituzionale,  o  alla  Costituzione irlandese (art. 12,
comma  4)  che  consente  agli  ex  Presidenti  della  Repubblica  di
candidarsi alla carica di Presidente su loro stessa designazione, con
cio'  derogando al complesso e articolato procedimento previsto dalla
stessa  norma  per  tutti coloro che aspirano ad essere eletti ma che
non rivestono detto status.
    Quanto  all'Italia,  e'  noto  come  la qualita' di "ex" acquista
rilevanza  nel  dettato  costituzionale in tre differenti fattispecie
(v.  M.  Ainis,  L'ex Presidente della Repubblica, in La figura ed il
ruolo  del  Presidente  della  Repubblica  nel sistema costituzionale
italiano,  Milano,  1985, 263 ss.): in primo luogo, la circostanza di
avere  mantenuto  in  passato una certa posizione nell'organizzazione
costituzionale dello Stato inibisce, per il futuro, a ricoprire altre
cariche  pubbliche  o  a  fruire di diritti riconosciuti al resto dei
cittadini:  e' questo il caso regolato dalla XIII disp. fin., in base
alla quale "i membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori
e  non possono ricoprire uffici pubblici ne' cariche elettive", oltre
a  disporre  l'avocazione  allo  Stato  dei  beni  appartenenti  alla
famiglia  reale situati nel territorio nazionale; ma si pensi anche a
tutte  le  altre  ipotesi  in  cui  la qualita' di ex rappresenta una
condizione  ostativa  alla  riassunzione  dell'ufficio  pubblico gia'
precedentemente  occupato  [ad  esempio per i giudici costituzionali,
l'art. 135,  comma 3,  Cost.); in secondo luogo ce tutta una serie di
ipotesi  in  relazione alle quali lo status di ex detentore di taluni
uffici  o  costituisce  requisito  per  l'accesso  ad  altre  cariche
pubbliche,  oppure  legittima  alla  partecipazione nell'esercizio di
attivita'  costituzionalmente  rilevanti. Si pensi, quanto alla prima
fattispecie,  all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato o
al  Garante  dell'editoria  (rispettivamente  art. 10, comma 2, legge
n. 287  del  1990: "il Presidente e' scelto tra le persone di notoria
indipendenza  che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di grande
responsabilita'  e  rilievo. I quattro membri sono scelti tra persone
di   notoria  indipendenza  da  individuarsi  tra  i  magistrati  del
Consiglio di Stato, della Corte dei conti e della Corte di cassazione
...)";  art. 6,  comma 2, legge 6 agosto 1990, n. 223: "il Garante e'
nominato  con  decreto  del  Presidente della Repubblica, su proposta
formulata  dai  Presidenti  del  Senato  e della Camera dei deputati,
d'intesa  tra  loro,  tra  coloro  che abbiano ricoperto la carica di
giudice  della  Corte  costituzionale  ovvero che ricoprano o abbiano
ricoperto  la  carica  del  Presidente  della  Corte  di cassazione o
equiparati (...)"].
    Quanto   alla   seconda,  si  pensi  invece  al  procedimento  di
formazione del Governo nell'ambito del quale regole consuetudinarie o
perlomeno convenzionali, fanno si' che il Capo dello Stato abbia piu'
volte proceduto alle consultazioni degli ex Presidenti del Consiglio,
delle Camere, oltre che degli stessi ex Presidenti della Repubblica".
    Infine,  vi  sono  altre  ipotesi  rispetto  alle  quali  l'avere
ricoperto  una  certa carica nell'organizzazione costituzionale dello
Stato   conferisce   il  diritto  di  accedere  ad  un'altra  carica,
solitamente legata alla prima da un nesso di omogeneita'. Esempi sono
costituiti  dalla III disp. trans. della Costituzione che contemplava
il  diritto  di entrare a far parte del Primo Senato della Repubblica
ai  deputati  dell'Assemblea  costituente  il  cui  curriculum  vitae
comprendesse  la  presidenza  del  Consiglio  dei  Ministri  o di una
Assemblea legislativa; oppure l'aver fatto parte del disciolto Senato
o  l'aver  avuto  almeno  tre elezioni, compresa quella all'Assemblea
costituente;  o l'essere stati dichiarati decaduti nella seduta della
Camera  dei  deputati  del  9 novembre  1926; o ancora l'essere stati
condannati  dal tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato
ad  un  periodo  di  reclusione  non  inferiore a cinque anni; infine
l'avere partecipato alla Consulta nazionale.
    Rientra  in questa categoria anche - ed e' intuitivo - l'art. 59,
comma 1  della  Costituzione  ai  sensi  del  quale:  "E' senatore di
diritto  e  a  vita,  salvo  rinunzia,  chi e' stato Presidente della
Repubblica".  Come  in proposito si e' affermato (M. Ainis, op. cit.,
268),   proprio  l'inserzione  dell'art. 59  nel  corpo  della  legge
fondamentale  dello  Stato  testimonia  a  chiare  lettere  che  alla
scadenza  del  mandato  il  Presidente  della Repubblica conserva una
posizione  costituzionalmente  rilevante  la cui messa a fuoco non e'
priva  d'interesse.  Al  tempo stesso, la norma in questione gioca un
ruolo  decisivo per ricostruirne lo status giuridico: in questo senso
infatti  la  ratio dell'articolo e' stata quella di inserire soggetti
forniti  di  un patrimonio di esperienza da utilizzare nella gestione
costituzionale  dello  Stato  e  quindi  al  tempo  stesso  capaci di
garantire  la continuita' dell'ordinamento e la salvaguardia dei suoi
valori  fondamentali.  Accordando  l'ingresso  al  Senato all'ex Capo
dello  Stato  i  Costituenti  non  intesero  conferirgli  un ruolo di
soggetto    politico    attivo,   come   parrebbe   desumersi   dalle
caratteristiche del consesso senatoriale: l'approvazione dell'art. 59
fu  piuttosto il mezzo attraverso cui venne sanzionata la qualita' di
"consigliere"  nelle  ...  questioni  istituzionali  di  chi e' stato
Presidente   della   Repubblica;  si  tratto'  di  una  soluzione  di
compromesso   rispetto   alla   primitiva   formulazione   del  testo
costituzionale  redatto  dalla  Commissione  dei settantacinque nella
quale  (art. 56)  il  Senato  veniva  delineato  come  una Camera dei
meliores,  composta da coloro che "per cariche ed uffici ricoperti, e
per  la  loro  posizione  e  l'attivita'  che svolgono, danno fondata
presunzione  di  capacita'  politica,  amministrativa, tecnica" della
quale  avrebbero  potuto  farne  parte soltanto una limitata lista di
eleggibili, tra cui appunto gli ex Presidenti della Repubblica.
    Accanto a cio' vi sono tutta una serie di norme convenzionali, di
regole  di correttezza o piu' semplicemente di canoni di opportunita'
politica o di costume il cui insieme da' vita ad un mosaico del tutto
peculiare:  si  puo' fare riferimento ad esempio al rispetto del c.d.
"segreto  d'ufficio"  (G.U.  Rescigno,  Art. 87, in Commentario della
Costituzione,  a  cura  di  G. Branca, Bologna-Roma, 1978, 195) quale
limite  giuridico  che  comprime  la  liberta' di manifestazione, del
pensiero dell'ex Presidente; nel senso cioe' che il segreto d'ufficio
resiste  anche dopo la scadenza della carica. In proposito e' da dire
che  sui  fatti di cui e' venuto a conoscenza nel corso del mandato e
in  ragione  della  sua  posizione, l'ex Capo dello Stato e' tenuto a
mantenere  un  assoluto  riserbo,  tanto  che ben potrebbe ad esempio
rifiutarsi  di testimoniare dinanzi ad una Commissione parlamentare o
all'autorita' giudiziaria ordinaria.
    Dagli  elementi  ora  esposti, si ricava che il Capo dello Stato,
una  volta cessato dalle funzioni, acquisisce comunque uno status del
tutto   peculiare,   che   i  Costituenti  hanno  ritenuto  opportuno
disciplinare  e che non puo' non ripercuotersi sulla questione ora in
esame.  In  sintesi,  questa  difesa ritiene che l'avere rivestito la
carica  di Presidente della Repubblica, abbia di per se' una sorta di
"effetto  di irradiamento" sulla posizione del soggetto cessato dalla
carica.  E  sarebbe  quindi contraddittorio che l'odierno ricorrente,
pur  senatore  di  diritto  e  a  vita,  non  avesse  piu', in quanto
terminato il mandato di Presidente, alcuna legittimazione a sollevare
un  conflitto  tra  poteri,  trattandosi  di  fatti  che riguardavano
l'ufficio  presidenziale  durante l'esercizio del suo mandato e per i
quali non vi e' stato ancora alcun giudicato.
    Dette  considerazioni  inducono a ritenere piu' che ragionevole e
dunque   confidare   che   l'ecc.ma   Corte  costituzionale  dichiari
ammissibile il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato che
col presente viene sollevato.
    3. - Il "tono" costituzionale del conflitto.
    Queste   conclusioni,   motivate  sotto  il  profilo  soggettivo,
acquistano   ancora   maggiore   pregnanza  se  passiamo  al  profilo
"oggettivo" del conflitto.
    In proposito non sussiste dubbio alcuno che il presente conflitto
tra  poteri  abbia natura costituzionale, ovvero - come si usa dire -
il conflitto abbia un "tono" costituzionale.
    E'  noto infatti come il conflitto tra poteri dello Stato sia una
"controversia    costituzionale   riguardante   l'interpretazione   o
l'applicazione  delle  norme  di competenza; in termini piu' precisi,
come  una controversia intorno alla appartenenza di una potesta', che
interessa   la   sfera   costituzionale   e   che   ha  come  oggetto
l'interpretazione   o   l'applicazione  di  norme  costituzionali  di
competenza.  Il conflitto costituzionale trae origine da un'attivita'
viziata  (o  almeno  ritenuta  tale)  per una violazione di limiti di
competenza   segnati   da   una   norma  costituzionale:  in  genere,
dall'attivita'  di  un  organo  costituzionale  il  quale, violando i
limiti  posti alla sua sfera di attribuzioni, abbia invaso o menomato
la  sfera di potesta' propria di altri organi" (cosi' A. Pensovecchio
Li  Bassi,  voce  Conflitti costituzionali, in Enc. dir., VIII, 1961,
1002).
    Ed  infatti  il  conflitto  ha  a  che vedere con il rispetto del
disegno  tracciato  dal  Costituente  e  non  e'  limitato al caso di
vindicatio potestatis ma si estende a comprendere ogni ipotesi in cui
dall'illegittimo   esercizio   di   un   potere  altrui  consegua  la
menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnata
all'altro soggetto.
    Nel  caso  di  specie  il conflitto nasce da eccedenze del potere
giudiziario    e,    piu'    precisamente,    dalla   ascrizione   di
responsabilita',  nei  confronti  del  senatore Francesco Cossiga per
atti  e  comportamenti,  nel  caso  di  specie,  il  c.d.  potere  di
esternazione, che sono ricollegabili alla funzione presidenziale.
    Si  e'  infatti  in  presenza di una serie di atti dell'autorita'
giudiziaria  invasivi  e  menomativi delle prerogative costituzionali
dell'ufficio   presidenziale,  piu'  precisamente  del  regime  delle
immunita' di cui gode il Capo dello Stato ai sensi dell'art. 90 della
Costituzione.
    Detto   regime   trova   giustificazione   costituzionale   nella
necessita'   di  proteggere  da  eventuali  abusi  l'esercizio  delle
funzioni  attribuite a determinati soggetti. Cio' significa - come e'
stato  ritenuto in dottrina - che gia' in sede di definizione di tali
prerogative,  il Costituente e il legislatore costituzionale si erano
posti   il   problema   del   bilanciamento   fra  opposte  esigenze,
circoscrivendo e delimitando in nome di quei valori l'esercizio della
funzione giurisdizionale. Nel nostro ordinamento dunque, nel quale la
ripartizione  costituzionale  delle  competenze  tra gli organi dello
Stato   e'   garantita  attraverso  lo  strumento  del  conflitto  di
attribuzione,  deve  essere  la  Corte costituzionale, e nessun altro
organo,  a  risolvere  le  controversie che possono insorgere tra gli
organi  giudiziari  e gli organi titolari delle immunita' a fronte di
un eventuale uso distorto delle attribuzioni a ciascuno assegnate. La
controversia riguardera' dunque la delimitazione costituzionale delle
attribuzioni  del  potere giudiziario in riferimento alle norme sulle
immunita'.
    Certo   e'   che  fa  molto  dubitare  l'asserita  compatibilita'
costituzionale  di  una  verifica effettiva di cio' che sia esercizio
delle  funzioni  presidenziali e di cio' che non lo sia lasciata alla
giurisdizione ordinaria. Del resto, anche a voler sostenere - e certo
sarebbe   una   tesi  errata  -  l'estraneita'  del  contenuto  delle
esternazioni  del  senatore  Francesco Cossiga rispetto all'esercizio
delle  funzioni  presidenziali, il tema delle immunita' presidenziali
e'  questione  delicatissima  e  ad altissimo tasso di "politicita'",
tanto   che  si  ritiene  a  dir  poco  inopportuno  che  l'autorita'
giudiziaria  possa  spingersi  a  sindacare le funzioni presidenziali
costituzionalmente  stabilite,  qualificando  come  estranee  ad esse
esternazioni magari soltanto non gradite.
    La  Corte  di  cassazione,  del resto, pur ritenendo di rimettere
all'autorita'  giudiziaria il compito di accertare se l'atto compiuto
sia  funzionale  o  extra  funzionale,  fa  "salva la facolta' per il
Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione
per menomazione" di fronte alla Corte costituzionale".
    In questo modo di procedere risulta pertanto palese che la stessa
suprema   Corte  si  e'  posta  il  problema  della  competenza  alla
identificazione  delle  materie oggetto di riserva di immunita' e pur
risolvendo la questione in modo contraddittorio - considerato appunto
che  attribuisce  detto  potere alla autorita' giudiziaria ma ammette
nel contempo la sollevabilita' del conflitto per menomazione da parte
del  Presidente  - pone un punto fermo: e cioe' l'ex Presidente della
Repubblica, senatore Francesco Cossiga, e' legittimato a sollevare il
conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato.
    L'interesse  al  ricorso  nasce  dal  fatto che la determinazione
concreta  del  contenuto  delle  immunita'  presidenziali  ex art. 90
Cost.,  in  particolare  per quanto qui interessa, e' stato intaccato
dalla   sentenza   della   suprema   Corte  di  cassazione,  rendendo
inevitabile  il  conflitto  -  che  peraltro, giova ribadirlo, sembra
auspicare  la  stessa Corte di cassazione - nella misura in cui viene
legittimata  l'autorita'  giudiziaria  ordinaria ad intervenire in un
campo,  quello  appunto delle immunita' costituzionali, che le e' del
tutto estraneo.
    Vero  e'  che la identificazione delle materie oggetto di riserva
di  immunita'  e'  competenza  riservata alla Corte costituzionale, a
norma  dell'art. 37  della legge 87 del 1953 per cui il conflitto tra
poteri  sorge  per  la  delimitazione  della  sfera  di  attribuzioni
determinata  per  i  vari  poteri  da  norme  costituzionali,  mentre
l'art. 38   stabilisce   poi   che  la  Corte  risolve  il  conflitto
dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni contestate e,
ove sia stato emanato un atto viziato da incompetenza, lo annulla.
    Il punto centrale e' l'assoluta incompatibilita' e contraddizione
tra  l'interpretazione  accolta  della figura presidenziale come cio'
che  vi  e'  di  permanente, di superiore, di indiscusso, di comune a
tutti nella vita nazionale, come interprete degli interessi superiori
della   nazione   e   la   successiva   asserzione  di  un  controllo
giurisdizionale   ordinario   sulla   natura   e   sui  limiti  della
irresponsabilita'  presidenziale,  a  tutela  dei  diritti  dei terzi
coinvolti.
    Per  concludere  su  questo  punto,  questa difesa auspica che il
conflitto   ora   proposto   venga  dichiarato  ammissibile;  il  che
consentirebbe  alla  ecc.ma  Corte costituzionale, nella seconda fase
del   giudizio,  di  delimitare  le  attribuzioni  in  contestazione,
tracciando   in   concreto   il  confine  dei  poteri  dell'autorita'
giudiziaria  nei  confronti  delle immunita' presidenziali ex art. 90
Cost.,   cosi'   come   ha   fatto  in  relazione  all'art. 68  della
Costituzione.
    Ma  vi  e'  un'altra ragione - questa volta di opportunita' - che
suggerisce   che   la   Corte  si  pronunci  sull'ammissibilita'  del
conflitto.   Dichiarare  ammissibile  il  conflitto  consentirebbe  a
privare  di  fondamento  quelle  posizioni,  peraltro  isolate  della
dottrina,   che   hanno   stigmatizzato  come  "sconcertanti"  alcune
affermazioni  contenute  nelle  decisioni della prima sezione civileĀ
della  Corte  di  appello  di  Roma  che,  in riforma delle impugnate
sentenze del Tribunale civile di Roma, hanno dichiarato improponibile
le  domande  di  risarcimento  dei  danni  avanzate nei confronti del
senatore  Cossiga.  Come puo' desumersi dalla lettura degli atti, cui
si  rinvia,  la  Corte  di  appello  di  Roma,  nella  sua articolata
motivazione   si   e'   richiamata   -  tra  le  varie  e  articolate
argomentazioni  -  alla nota tesi di Carlo Esposito, secondo la quale
anche   al   Presidente   della   Repubblica   deve  riconoscersi  la
possibilita'  di fluire della liberta' di manifestazione del pensiero
che  la Costituzione riconosce a tutti. Avverso questa argomentazione
si  e'  testualmente  sostenuto (A. Pizzorusso, in Giur. cost., 1998,
2853  ss.,  spec.  2857)  che  "se,  nel  caso  del  Presidente della
Repubblica,  cio'  dovesse  comportare  l'eliminazione  di  qualunque
limite  a  tale  liberta',  perche'  mai  lo  stesso ragionamento non
dovrebbe  valere anche per qualunque altro soggetto ed in particolare
per  qualunque  altro  titolare di un munus pubblico anche diverso da
quello  del  Presidente  che comporti una qualche limitazione di tale
liberta'?  (...).  In  realta', l'argomento secondo cui costituirebbe
una  funzione  propria  del  Presidente,  se non quella di commettere
reati, quanto meno quella di stabilire "a suo insindacabile giudizio"
in  quali  casi il commetterli sia indispensabile "per lo svolgimento
della  funzione  di  monito e di persuasione oltreche' di garante dei
valori costituzionali di cui e' senz'altro uno dei maggiori esponenti
quale  viva vox constitutionis" e' di rara speciosita', se si osserva
che  esso tende a stabilire un parallelo con l'ipotesi dell'immunita'
parlamentare  ex  art. 68, comma l, della cui applicabilita', secondo
la  discussa  giurisprudenza sopra riferita, sarebbe comunque giudice
esclusivo  la camera di appartenenza dell'autore di un fatto conforme
ad  una  fattispecie  penale  e  non l'autore stesso. Non si puo' non
rammentare  infatti che, nel caso del parlamentare, non e' lui stesso
a  decidere,  bensi'  la  camera, della quale fanno parte molti altri
soggetti  (e  qualcuno  potrebbe  pensare  che  lui  abbia un qualche
dovere,  almeno morale, di astenersi) e soprattutto che la camera non
dispone  di  un  potere  arbitrario,  ma  ad  essa spetta soltanto di
valutare  se  la  persecuzione  del suo membro non sia determinata da
intento  persecutorio  diretto a nuocere all'esercizio della funzione
parlamentare (e non soltanto alla persona fisica). Si aggiunga che il
giudizio  della  camera  non  e'  "insindacabile", ma puo' costituire
oggetto, quanto meno, di un ricorso per conflitto di attribuzioni (il
che  dimostra  che  esso  non  costituisce  una valutazione puramente
fondata  sull'arbitrio,  ma un'applicazione della legge). Nel caso in
esame,  invece,  secondo  la  Corte  d'appello,  la  decisione  circa
l'applicabilita'  dell'immunita'  spetterebbe  insindacabilmente allo
stesso autore del fatto per cui si dovrebbe procedere".
    Il  tenore  di  queste  argomentazioni,  oltre a non cogliere nel
segno,  devono essere respinte. A parte infatti una considerazione di
carattere  generale circa il diritto della liberta' di manifestazione
del  pensiero a tutti riconosciuto e dunque anche al Presidente della
Repubblica,    peraltro    gia'    fortemente   limitato   anche   in
misura maggiore  rispetto ad altri titolari di organi, vero che - per
usare  le  parole  di  G. Guarino (Il Presidente della Repubblica, in
Riv.  trim. dir. pubbl., 1951, 903 ss.) - "Noi dobbiamo partire dalla
constatazione che il principio generale del nostro ordinamento non e'
quello  della  limitazione  dei  diritti  privati  in  funzione delle
cariche  pubbliche,  ma  e'  al contrario quello che il cittadino non
deve  subire alcuna limitazione dei suoi diritti per il solo fatto di
ricevere  una  nomina dallo Stato. Il diritto politico di accedere ai
pubblici  uffici  e  alla  cariche  elettive  (art. 51  Cost.) non e'
alternativo con tutti gli altri, ma viene anzi a conchiudere la serie
dei diritti pubblici dei cittadini".
    Inoltre  -  ed  e'  cio'  che  qui interessa - consentendo all'ex
Presidente  della  Repubblica  di  sollevare il conflitto, ed essendo
quindi  lo  stesso  senatore  Francesco Cossiga a volere che la Corte
costituzionale  intervenga  in  materia,  verrebbe  meno il paventato
rischio  -  peraltro  tutto da dimostrare - per il quale la decisione
circa  l'applicabilita'  dell'immunita' spetterebbe insindacabilmente
allo stesso autore del fatto per cui si dovrebbe procedere.
    4.  -  Il problema della responsabilita' giuridica del Capo dello
Stato.
    Il  tema  della  responsabilita'  giuridica  del Presidente della
Repubblica  -  da  distinguere  rispetto alla c.d. responsabilita' di
carattere  politico  che  non  interessa in questa sede - e' stato da
sempre   dibattuto   dalla   dottrina   costituzionalistica,   divisa
sull'interpretazione  di  tale prerogativa costituzionale, in ragione
delle piu' diverse ricostruzioni del complessivo ruolo costituzionale
da riconoscere al Capo dello Stato.
    Sul  tema  -  ci  preme  ricordarlo  -  regna  la  piu'  assoluta
incertezza  interpretativa,  non solo della giurisprudenza che - come
si  e' visto - ha variamente deciso in ordine ai problemi riguardanti
la responsabilita' giuridica del Capo dello Stato (per fatti commessi
tanto al di fuori dell'esercizio delle proprie funzioni, quanto prima
di  assumere la carica di Presidente della Repubblica), ma ancor piu'
della  dottrina,  a  dimostrazione  che  la  materia  ha ricevuto una
configurazione a livello costituzionale talmente ambigua che e' assai
arduo   qualunque  tentativo  di  ricostruzione  di  essa  in  chiave
unitaria.
    Innanzitutto il tema della responsabilita' deve essere analizzato
in  prospettiva  diacronica,  poiche' l'evoluzione storica subita dal
ruolo   del  Capo  dello  Stato  ha  influenzato  anche  la  concreta
estensione delle sue prerogative. In questa prospettiva, al principio
monarchico,  cui corrisponderebbe l'idea di un Capo dello Stato quale
organo sovrano, collocato in posizione preminente rispetto agli altri
organi   costituzionali,   si   sarebbe   sostituito   il   principio
repubblicano, che contempla l'idea di un Capo dello Stato "organo tra
gli organi", soggetto al pari degli altri alla Costituzione (cosi' F.
Pergolesi, Diritto costituzionale Padova, 1963, I, 398).
    Di  conseguenza,  mentre nelle esperienze monarchiche "la persona
del  Re  e' sacra e inviolabile" - come espressamente contemplato, ad
esempio,  dall'art. 4  dello  Statuto  Albertino  - ovvero totalmente
immune dalla legge penale e quindi assolutamente irresponsabile (cfr.
E.  Crosa,  La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino, 1922,
22, che concepisce l'immunita' del capo dello Stato come un attributo
che  consegue  alla "regalita' nel complesso sociale storico ed etico
che  rappresenta"),  detta  irresponsabilita'  c.d. ratione personae,
tipica  appunto  delle  monarchie, non sarebbe piu' concepibile negli
ordinamenti  repubblicani,  nei  quali  e' costituzionalmente sancita
l'origine  popolare  della  sovranita'  [ad  es.  A.  Pace,  Le forme
extrapenali di responsabilita' del Capo dello Stato, in Il Presidente
della  Repubblica (a cura di M. Luciani e M. Volpi Bologna, 1997, 371
ss]. Si tratterebbe dunque di una irresponsabilita' oggettivata nella
Costituzione   che   ne  definisce  e  circoscrive  il  ruolo  e  non
personificata  nella  sacralita'  dell'istituzione regia (C. Mortati,
Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, I, 540-541).
    In  sintesi,  negli  Stati  monarchici  (come  ricorda C. Cereti,
Diritto  costituzionale,  Torino,  1963, 392) il "carattere vitalizio
dell'ufficio  regio esigerebbe, necessariamente, la sua piu' assoluta
irresponsabilita'  (non  nel senso ch'egli si trovi al di sopra delle
leggi,  ma nel significato ch'egli non possa essere oggetto di alcuna
sanzione").  In questo senso lo Statuto Albertino affermava, appunto,
la sacralita' e inviolabilita' del Sovrano: e se con il primo termine
si  faceva  riferimento  a  specifiche  regole  di  correttezza,  che
dovevano  assicurare  al  Capo  dello  Stato un particolare prestigio
formale,  con  il  secondo  non  solo  si indicava la speciale tutela
penale  che ricopriva la persona del Re, ma anche, e specialmente, si
voleva  intendere  la sua irresponsabilita' (sotto il profilo penale,
l'incapacita'  processuale  del  Re  era  assoluta;  nel  campo della
responsabilita'  civile,  in particolare in Italia, si era ammesso il
danneggiato  a rivolgersi all'Amministrazione della Casa Reale per il
risarcimento del danno subito; sotto il profilo della responsabilita'
politica  il  principio  per cui "il Re non puo' mai far male", ossia
"the  King  can  do  no  wrong",  era  stato concretamente realizzato
affiancando  sempre al Sovrano almeno un ministro, che assumesse tale
responsabilita'  per  ogni suo atto, sulla base del principio: "il Re
non puo' mai agire da solo, cioe' the King cannot act alone").
    Analoghe  disposizioni  circa  l'irresponsabilita' del Capo dello
Stato   sono   attualmente   previste  dai  testi  costituzionali  di
ordinamenti  che  conoscono  la  monarchia  parlamentare.  Ad esempio
art. 88  Cost.  Belgio:  "La  persona  del  Re e' inviolabile; i suoi
ministri  sono  responsabili";  art. 13  Cost.  Danimarca:  "Il Re e'
irresponsabile  e  la  sua persona e' inviolabile e sacra. I ministri
sono responsabili dell'esercizio dei poteri di Governo"; art. 4 Cost.
Lussemburgo:  "La  persona del Granduca e' inviolabile"; art. 7 Cost.
Svezia:  "Il Re non puo' essere perseguito penalmente per i suoi atti
o per le sue omissioni. Il Reggente non puo' essere messo in stato di
accusa  per  gli  atti o le omissioni compiuti nella qualita' di Capo
dello Stato".
    La  scelta  per  la  forma  repubblicana seguita da quella per la
forma  di  governo  parlamentare  si  sono rivelate significative per
determinare    la    portata   dell'irresponsabilita'   presidenziale
nell'attuale  sistema  costituzionale. Ed infatti l'art. 90 Cost. che
statuisce  la  "non  responsabilita'" del Presidente della Repubblica
per  gli  atti  compiuti  nell'esercizio delle proprie funzioni fatta
eccezione   per   i   reati  di  alto  tradimento  e  attentato  alla
Costituzione; e' frutto di quelle scelte.
    E'  evidente  dunque che il regime della responsabilita' del Capo
dello  Stato e' derivato da come l'Assemblea costituente ha delineato
la  posizione  di tale organo nel sistema costituzionale. Posizione -
quella  riconosciuta  al  Presidente  della  Repubblica  dalle  norme
costituzionali  - a dir poco ambigua, che spiega le difficolta' della
dottrina a ricostruire in maniera unitaria funzioni e responsabilita'
dell'organo,   per   certi  profili  assimilabile  ad  una  struttura
governante e per altri ad una struttura garante dell'ordinamento.
    Ed  infatti,  pur  condividendo l'idea di fondo che il Capo dello
Stato  e' organo di garanzia costituzionale (nell'accezione che ne ha
dato   S.   Galeotti,   La  garanzia  costituzionale  (presupposti  e
concetti),  Milano,  1950, nonche' Id., voce Garanzia costituzionale,
in  Enc.  dir.,  XVIII,  Milano,  1969,  491. ss.), la dottrina si e'
divisa  tra chi ha preferito accentuarne i "profili governanti" e chi
invece quelli "garanti" (l'alternativa e' stata prospettata in questi
termini  da  S.  Galeotti,  Il Presidente della Repubblica: struttura
garantistica o struttura governante?, in G. Silvestri (a cura di), La
figura  e  il  ruolo  del  Presidente  della  Repubblica  nel sistema
costituzionale italiano, cit., 17 ss.).
    Certo  e' che - come autorevolmente sostenuto - e' da considerare
"un  luogo  comune  quello che vuole che i nostri costituenti abbiano
inteso creare un Presidente debole. Essi intesero piuttosto creare un
governo  parlamentare  a maglie larghe, affidato per la sua effettiva
determinazione  alla  pratica  applicativa,  entro  cui il parlamento
avrebbe  dovuto  essere  sufficientemente libero nella individuazione
della maggioranza  di  governo, ma in cui anche il Presidente avrebbe
dovuto  occupare  uno  spazio consistente, dedicato all'esercizio del
proprio potere d'influenza. I costituenti confidavano anche nel ruolo
d'influenza,  di  mediazione,  di  arbitrato  che  avrebbe  svolto il
Presidente  della  Repubblica"  (cosi',  M.  Fioravanti, Sovranita' e
forma di governo, relazione al Convegno su Costituzione e Repubblica,
Firenze,  1997,  paper,  9,  pubblicato sul sito Internet - HYPERLINK
"http://www.bdp.it/costituzione"  www.bdp.it/costituzione  ).
    Nella  prima  accezione,  cioe'  nella  accentuazione dei profili
"governanti",  gia'  nel  1960  Carlo Esposito sosteneva, secondo una
formula  che  e'  stata  a piu' riprese riproposta e che e' diventata
famosissima  che:  "(...)  la  tesi  del Capo dello Stato come organo
politico   imparziale  o  supra  partes  appartiene  al  mondo  delle
ricostruzioni  mistiche  e non a quello delle definizioni realistiche
del   Capo  dello  Stato  (...).  Secondo  ogni  seria  ricostruzione
realistica,  quando si attribuiscono poteri al Capo dello Stato (e in
particolare  quando si attribuiscono poteri sottratti alla prevalente
volonta'  ministeriale) questi non sono dati alla "Dea Ragione", ma a
un  uomo  con  i suoi vizi e con le sue virtu', con le sue passioni e
con  i  suoi inevitabili orientamenti, che (...) nell'esercizio delle
sue  funzioni  sara' animato dal desiderio di attuare o conservare il
proprio  potere,  di  far  valere  e  prevalere  (sia pure nei limiti
segnati  dal  diritto)  il  proprio potere, i propri orientamenti, le
proprie  idee  sulle  altre.  L'unica  distinzione qualitativa tra il
potere  del  Capo  dello  Stato irresponsabile, salvo i casi di grave
illegalita',  e inamovibile, a vita o per tempo determinato, e quello
degli  altri  organi  politici,  in regime parlamentare, non e' nella
imparzialita'    del    Capo   dello   Stato,   ma   se   mai   nella
"personalizzazione"  del  suo  potere  (C.  Esposito, voce Capo dello
Stato, in Enc. dir. VI, 1960, 236).
    Altri  autori,  invece,  riconoscono  in capo al Presidente della
Repubblica  un potere di indirizzo politico costituzionale attraverso
il  quale dovrebbe darsi attuazione ai fini costituzionali (G. Motzo,
Il  potere  di  esternazione e di messaggio (Appunti), in Arch. giur.
Serafini, CLII, 1957, 22 ss; P. Barile, I poteri del Presidente della
Repubblica,  cit.,  308-309;  E.  Cheli,  Atto politico e funzione di
indirizzo  politico, Milano 1961, 97 ss. nonche' dello stesso autore,
art. 89, in Commentario della Costituzione, cit., 145 ss.) e limitare
"l'azione   delle  forze  di maggioranza"  in  quanto  garante  degli
"indirizzi   fondamentali,   unitari  e  permanenti  della  comunita'
statale"  (cfr.  V.  Crisafulli,  Aspetti  problematici  del  sistema
parlamentare  vigente  in  Italia,  in Studi per E. Crosa, I, Milano,
1960,  652 ss; cfr. anche A. Baldassarre C. Mezzanotte, Il Presidente
della Repubblica fra unita maggioritaria e unita' nazionale, in Quad.
cost.  1985,  7  ss  P.  Biscaretti  di  Ruffia,  Le attribuzioni del
Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1963, 280).
    Viceversa,  sul versante opposto, si schierano coloro i quali sia
pure  con  posizioni  differenziate - riconoscono al Presidente della
Repubblica  esclusivamente un ruolo di garanzia costituzionale (cosi'
G.  Guarino,  Il  Presidente  della  Repubblica italiana. cit., U. De
Siervo  La  responsabilita'  penale  del  capo  dello  Stato,  in  Il
Presidente   della  Repubblica,  cit.,  345  ss  A.  Pace,  Le  forme
extrapenali,  cit.,  371 ss R. Romboli, Presidente della Repubblica e
Corte costituzionale, in Il Presidente della Repubblica, cit., 348 ss
L.  Carlassarre, art. 90, cit., 149 ss.), da intendersi nel modo piu'
vario:  alcuni interpretano il concetto in senso lato, ovvero il Capo
dello Stato sarebbe chiamato "non a decidere ma a far decidere (...),
a  richiamare  le  ragioni dell'unita' nei confronti della dialettica
politica,  a  salvaguardare l'indipendenza degli apparati di garanzia
in  senso  ampio (...) rispetto agli interessi e alle vedute di parte
che  legittimamente  si  esprimono  nel  continuo Parlamento Governo"
(cosi' V. Onida, L'ultimo Cossiga: recenti novita' nella prassi della
presidenza  della  Repubblica, in Quad. cost., 1992, 168); per altri,
garanzia  costituzionale  vuol  dire  piu'  semplicemente tutelare la
conservazione,  l'osservanza  e  l'attuazione  della  Costituzione da
parte degli organi costituzionali, assicurando la regolarita' formale
e  sostanziale  del  loro  funzionamento  e  della  loro  azione  (S.
Galeotti,  Garanzie  costituzionali, cit., 491; M. Galizia, Studi sui
rapporti  tra  Parlamento  e  Governo, Milano, 1972, 291; C. Mortati,
Istituzioni  di  diritto  pubblico  cit.,  II,  1223  ss  C. Lavagna,
Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1986, 473 ss.).
    Alle  diverse  interpretazioni  circa la posizione del Capo dello
Stato  nel  sistema  costituzionale  italiano,  si  ricollegano anche
diverse interpretazioni in ordine alla sua responsabilita' giuridica.
Coloro  i  quali  tendono  a  rico-struire  il  ruolo  del Presidente
accentuandone  i  profili  "governanti"  sono,  in genere, propensi a
riconoscerne  anche la sostanziale immunita', invocando la necessita'
di  garantire la liberta' e l'autonomia del Presidente nell'esercizio
delle proprie funzioni.
    Si  pensi,  ad  esempio,  a  coloro  che  hanno sostenuto che "in
ipotesi  di crisi dell'intero sistema" il Presidente della Repubblica
potrebbe  ergersi  a  supremo reggitore dello Stato, comandando "quel
che  resta  dell'apparato  burocratico  e militare anche senza previa
legittimazione  formale"  (cosi'  G. U. Rescigno, Il Presidente della
Repubblica.  Art.  87, in Commentario della Costituzione, cit., 146),
oppure  assumendo "poteri dittatoriali" (F. Modugno, D. Nocilla, voce
Stato  d'assedio, in Noviss. dig. it., XVIII, Torino, 1957, 290-291),
ovvero sostituendosi al Parlamento e provvedendo "con ministri da lui
nominati   e   godenti  della  sua  fiducia  (invece  di  quella  del
parlamento)" (cfr. C. Esposito, voce Capo dello Stato, cit.). Ebbene,
per  questa  dottrina, il Capo dello Stato e', e non puo' non essere,
salvo   che   per  i  reati  di  alto  tradimento  e  attentato  alla
Costituzione, totalmente irresponsabile.
    E  "questa  irresponsabilita'  penale,  poi, e' sostanziale e non
solamente  processuale;  cioe'  non solo impedisce- che il Presidente
della  Repubblica  venga  processato, ma addirittura impedisce che il
fatto   possa   essere   considerato  illecito,  con  la  conseguenza
fondamentale   che   l'uomo   Presidente   della   Repubblica   resta
irresponsabile  giuridicamente  anche  dopo  che  e'  cessato  il suo
mandato"  (cosi'  G. U. Rescigno, Corso di diritto pubblico, Bologna,
1997, 487).
    Il  Capo  dello  Stato,  cioe',  stando a questa interpretazione,
godrebbe  di  una  vera  e propria "immunita' di diritto sostanziale"
concernente  "i fatti commessi nel periodo di tempo in cui esistono i
presupposti  dell'immunita';  e  tali  fatti  restano  sottratti alla
sanzione  penale anche dopo che l'immunita' e' cessata" (A. Pagliaro,
voce  Immunita',  in  Enc.  dir.,  XX, 1970, 218). Cio' che, detto in
altri  termini,  equivale  a  riconoscere in capo al Presidente della
Repubblica una vera e propria immunita' assoluta del tutto parificata
a  quella  della quale godeva il Sovrano in regime monarchico proprio
perche'  collegata  direttamente  alla  loro  persona  in  forza  del
"carattere   "sacro   dell'istituzione   regia"   (cfr.  C.  Mortati,
Istituzioni, cit., 549-550).
    Al  contrario,  coloro che ricostruiscono il ruolo del Capo dello
Stato  in  chiave  "garantistica"  ne  ammettono  la  responsabilita'
giuridica   con   l'unica   eccezione   dei  reati  posti  in  essere
nell'esercizio  delle  funzioni presidenziali, con la conseguenza che
per  costoro sarebbe sempre possibile ricorrere in giudizio sia per i
reati  extrafunzionali  sia per quelli commessi prima dell'assunzione
della  carica:  si  sostiene  in  proposito  che  "il prestigio delle
istituzioni sarebbe assai piu' gravemente compromesso nel caso in cui
un  capo dello Stato colpevole, o anche sospetto, di- un reato comune
rimanesse  in  carica esente da processo" (cosi' L. Carlassarre, Art.
90, cit., 151; A. Pace, Le forme extrapenali cit., 375. V. anche, nel
medesimo   senso   G.   Ferrara,  Sulla  responsabilita'  penale  del
Presidente  della  Repubblica,  in  Studi in onore di M. Mazziotti di
Celso,   I,   Padova,  1995,  597;  F.  Dimora,  Alla  ricerca  della
responsabilita'   del   capo  dello  Stato,  Milano,  1991,  114;  V.
Angiolini,  Le  braci  del  diritto costituzionale ed i confini della
responsabilita'  politica,  in  Riv.  dir. cost., 1998, 57 ss., spec.
96).
    A  tutela  del Capo dello Stato, cioe', sarebbe disposta soltanto
"una   parziale  immunita'"  limitata  "agli  atti  posti  in  essere
nell'esercizio della funzione presidenziale" (V. Crisafulli, Lezionir
II,  2,  cit., 457 e C. Rossano, voce Presidente della Repubblica, I,
Diritto costituzionale, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, 4),
il   che   equivale  a  dire  che  la  sua  irresponsabilita'  rimane
"strettamente  circoscritta",  fatta  eccezione  per  i reati di alto
tradimento  e  attentato  alla  Costituzione,  a  quei fatti connessi
all'esercizio delle sue funzioni sussistendo percio' "con riguardo ad
ogni  altra  possibile  ipotesi piena responsabilita' anche di ordine
penale  della  persona  investita  della carica" (cfr. V. Crisafulli,
Lezioni, II, 2, cit., 458).
    Premesse  le  suesposte  considerazioni  sulle  diverse  opzioni,
interpretative  del  ruolo  del  Capo  dello  Stato  nell'ordinamento
costituzionale  italiano,  bisogna  cominciare  ad entrare nel merito
della  questione  in  esame  al fine di chiarire se il Sen. Francesco
Cossiga  possa  essere  chiamato  a rispondere di alcune affermazioni
ritenute  dagli  onorevoli Flamigni e Onorato lesive del loro onore e
dignita'.
    Si  tratta  dunque  di verificare se dette "esternazioni" possano
considerarsi  coperte  dal  principio  di  irresponsabilita'  sancito
dall'art. 90  della Costituzione per gli atti compiuti dal Presidente
della Repubblica nell'esercizio delle sue funzioni.
    In  primo luogo ci preme sottolineare che detta verifica era gia'
stata  ampiamente  effettuata  dalla Corte d'apello di Roma, la quale
non  solo  non  si era sottratta alla valutazione delle dichiarazioni
del  Presidente Cossiga, ma anzi, al contrario, ne aveva puntualmente
verificato la (eventuale) portata "offensiva" e la riconducibilita' o
meno  alle  funzioni presidenziali, ritenendo l'ambito della funzione
presidenziale  non circoscrivibile ai soli atti controfirmabili, come
aveva erroneamente ritenuto il Tribunale civile di Roma.
    In  secondo  luogo  e'  da  precisare  che l'irresponsabilita' ex
art. 90  Cost. si prospetta (G. Di Raimo, voce Reati ministeriali, in
Enc.  dir.,  XXXVIII,  1987,  1156) "come una causa funzionale di non
assoggettabilita'  a  sanzioni  penali, civili o amministrative. Tale
causa,   infatti,  non  impedisce  nell'art.  90  il  delinearsi  del
carattere  antigiuridico  del fatto, di cui viene a condizionare solo
la  punibilita'.  La  ratio  della irresponsabilita' presidenziale e'
quella  di  coprire,  nel  modo piu' largo, ogni atto anche realmente
illecito  (...)  onde  porre  al  riparo da qualsiasi interferenza di
altri  organi  una  funzione  in  cui si riassume al vertice l'intero
ordinamento  dello  Stato;  facendovi  eccezione solo nei casi in cui
l'azione  del Presidente si rivolga contro l'ordinamento stesso nella
sua  essenza unitaria e costituzionale. Conseguentemente - per autore
-  devono  respingersi le diverse opinioni che sono state espresse in
dottrina  sull'irresponsabilita'  presidenziale  e  che  collocano la
stessa  in  un  momento anteriore al completarsi dell'astratta figura
del fatto di reato. Quelle che affermano trattarsi di una incapacita'
penale  o  di  una  sottrazione  alla  generale  obbligatorieta'  dei
precetti  giuridici  (...);  e  quella,  infine, che vi individua una
causa  di  giustificazione.  E'  anche  da  escludere che ricorra una
ipotesi  di  esenzione,  dalla giurisdizione, il che comporterebbe la
procedibilita'  degli  illeciti  funzionali, diversi dalle due figure
previste dall'art. 90, dopo la cessazione dalla carica".
    In  sintesi, non vi e' dubbio dunque che la precisa ricostruzione
operata  dalla  Corte  di  appello  di  Roma lungi dal ridursi ad una
immotivata   affermazione   di   guarentigie   sovrane,  descrive  al
contrario,  con ampiezza di motivazione e di argomenti, il ruolo e le
funzioni  dell'istituzione  Presidente della Repubblica cosi' come e'
venuta delineandosi nella forma di governo, attraverso una realistica
ricostruzione  dell'organo  presidenziale nell'ordinamento italiano e
in specie della sua capacita' di incidere sull'attivita' di indirizzo
politico.
    Non  a  caso  la disciplina costituzionale dedicata al Presidente
della  Repubblica  e'  stata riconosciuta dotata di elasticita', onde
consentire  di  adattarsi  dinamicamente  alle  contingenze politiche
esterne  ed a tutti i possibili mutamenti degli assetti istituzionali
e  che  la categoria degli atti presidenziali coperti della immunita'
ex  art. 90 Cost., in quanto ricomprendente fatti e comportamenti, e'
stata  ritenuta  ben  piu'  ampia  di  quella indicata dal precedente
art. 89 e ricomprendente solo atti.
    Se  infatti  le  prese di posizione del Presidente anche quelle a
contenuto  politico,  potessero essere sindacate, si porrebbe il Capo
dello  Stato in una posizione persino deteriore rispetto a quella del
parlamentare  e,  di  fatto,  gli  si  impedirebbe  di  esercitare la
posizione  costituzionale  di rappresentanza dell'intera Nazione, con
gravi  ripercussioni  sul  complessivo assetto istituzionale .e sulle
garanzie  dei cittadini. Sotto questo profilo, bastera' ricordare che
la  Costituzione  affida  al  Presidente le funzioni primarie di Capo
dello  Stato  e  di  rappresentante  dell'unita'  nazionale, cioe' di
soggetto    tendenzialmente    autonomo    dai   circuiti   fiduciari
di maggioranza e quindi garante di tutti i cittadini, anche di quelli
che  non  si  riconoscono  nell'indirizzo  politico governativo (come
conferma  l'art. 83, terzo comma Cost., con l'aspirazione della Carta
fondamentale, realizzatasi piu' volte nella prassi, ad un'elezione di
un  Capo  dello  Stato  espressione  di una maggioranza piu' ampia di
quella  di  governo).  In  altri  termini,  se  le  comunicazioni del
Presidente  (quelle  a  contenuto politico, ovviamente) non godessero
del  regime  di  irresponsabilita' di cui all'art. 90, comma 1, Cost.
verrebbe  meno  proprio la garanzia di assoluta indipendenza del Capo
dello  Stato nei confronti di qualsiasi altro organo costituzionale e
si  porrebbe,  di  fatto,  il  Presidente  della  Repubblica  in  una
inaccettabile  posizione  di  subalternita', certamente lontana anche
dalla  visione  dei Costituenti e dall'idea, comunque superata, di un
Capo  dello  Stato  del tutto estraneo alla formazione dell'indirizzo
politico-costituzionale del Paese.
    5 - Il potere di "esternazione" del Presidente della Repubblica.
    Si  entra  in  questo  modo nella delicatissima e assai dibattuta
questione   del   potere   di  "esternazione"  del  Presidente  della
Repubblica.
    In  via  di  principio,  si  ritiene  che  non si possa negare al
Presidente  della  Repubblica  di  esprimere  proprie  valutazioni ed
orientamenti  laddove  essi  siano  ritenuti  indispensabili  per  lo
svolgimento  delle  funzioni  che la Costituzione gli attribuisce. E'
d'altra  parte  da  tempo acquisito il principio che nell'espressione
della  funzione  rappresentativa del Capo dello Stato questi provvede
"alla  realizzazione  di  un autonomo indirizzo, volto a garantire il
rispetto  e l'attuazione di quei principi costituzionali nei quali si
identificano gli interessi unitari dell'intera comunita' e a tal fine
materialmente  espresso attraverso una molteplicita' di comportamenti
coperti  dalla  irresponsabilita'  del Capo dello Stato, anche se non
espressi  attraverso  atti  formalmente  prescritti"  (M:C. Grisolia,
Potere  di  messaggio  ed esternazioni presidenziali Milano, 1986, 23
ss.).
    Vero  e'  che  -  come  e' stato ben rilevato (V. Onida, L'ultimo
Cossiga:   recenti   novita'  nella  prassi  della  Presidenza  della
Repubblica,  in  Quad.  cost.  1992,  165  ss.) - "Tanto improvvisa e
drastica  e'  stata  la messa in discussione, da parte del Capo dello
Stato,  da  un  lato  delle  norme in vigore, invocando non tanto una
riforma   quanto   una   vera  e  propria  rifondazione  del  sistema
costituzionale,   dall'altro   lato   di   prassi  e  di  convenzioni
consolidate;  tanto  clamorosa  la  rivendicazione (quasi sempre piu'
teorica  che  pratica,  ma  non  priva di conseguenze) di una diversa
interpretazione dei poteri presidenziali; tanto frequenti e vivaci le
polemiche  sollevate  dalla  prima  magistratura dello Stato non solo
verso  individui  e gruppi, ma anche verso istituzioni costituzionali
(...);  tanto  brusca e netta la proposizione di un'immagine pubblica
del  tutto  medita della Presidenza e del suo ruolo, cosi' da indurre
molti  ad  affermare  che d'ora in poi la Presidenza della Repubblica
non   potra'   piu'  essere  la  stessa  di  prima;  tanto  netta  la
dislocazione  del  posto  e  del  ruolo  assunto  e rivendicato dalla
Presidenza    nel   dibattito   politico   e   istituzionale;   tanto
improvvisamente    ed   enormemente   accresciuto   lo   spazio   che
nell'informazione   quotidiana   e   nell'attenzione   dei  mezzi  di
comunicazione  ha  chiesto  e  ottenuto la Presidenza; tanto diverso,
perfino,   il  linguaggio  con  cui  il  Presidente  si  e'  rivolto,
attraverso  i  mezzi  di  comunicazione,  ai  suoi interlocutori o ai
cittadini".
    il  punto  e'  che  e'  la  stessa  figura  di Capo dello Stato a
collocarsi  alla  frontiera  del  sistema  degli  organi politici e a
risentire  in  modo  molto  intenso  delle  diverse situazioni che si
creano  nelle  altre  "zone"  dell'ordinamento costituzionale. Il che
deriva  con molta probabilita' dalla circostanza che si tratta di una
carica   monocratica,   cui   le  decisioni,  i  comportamenti  e  la
personalita'  del  suo  titolare  conferiscono  contenuti non mediati
dalla  complessita'  di  rapporti  di  forza  e  dalla  pluralita' di
posizioni   che   caratterizzano  altri  poteri  (tipicamente  quello
parlamentare); alla posizione in qualche modo non ben definita che e'
propria  del  Presidente  di  una Repubblica parlamentare, da un lato
erede  formale  dell'antico  potere  assoluto del Sovrano, dall'altro
ormai  titolare  piu'  di poteri di partecipazione a decisioni altrui
che  di  poteri  attivi  esercitati  in esclusiva (V. Onida, L'ultimo
Cossiga cit., 167.).
    Ma  allora,  non  si  puo'  che  riprendere  il pensiero di Livio
Paladin  (voce  Presidente  della  Repubblica,  in  Enc.  dir., XXXV,
Milano,  1986,  spec. 240) laddove ha correttamente individuato nella
"eterogenea   natura"   e   "grande   complessita'   delle   funzioni
presidenziali",  "il fenomeno della "personalizzazione del potere che
non  ha  mancato  di  differenziare le une dalle altre Presidenze del
periodo  repubblicano: nel senso che ogni Presidente si e' ritagliato
il suo ruolo - entro le generiche previsioni costituzionali.
    -  secondo  le  caratteristiche  umane  e politiche della propria
personalita',  oltreche'  in  vista  delle  concrete occasioni che la
situazione del momento gli veniva offrendo. Quanti hanno gridato allo
scandalo,  per  il  solo  fatto  che  i  diversi  stili presidenziali
venissero  posti  in  evidenza dagli studiosi e dai commentatori, non
hanno  tenuto  e  non  tengono  conto  dei  dati  fondamentali  della
questione:   ossia   che   il  Presidente  della  Repubblica  non  e'
rigidamente  vincolato  da  norme  ben  precise e rispondenti ad ogni
evenienza;  e  che molti fra i poteri presidenziali non si prestano a
venire esercitati di continuo, ma sono attivabili solo in presenza di
certi  presupposti,  per  cui  puo'  ben darsi che alcuni di essi non
vengano   mai  sperimentati  da  un  determinato  Presidente  e  che,
viceversa,  altri siano usati con particolare frequenza; che i poteri
stessi  sono comunque troppo vasti e troppo impegnativi (...) perche'
siano  tutti  valorizzabili in pieno: con la conseguenza che si rende
addirittura  indispensabile, per ogni titolare della carica in esame,
decidere  autonomamente - nella misura consentita dalle circostanze -
quali  componenti  dell'ufficio  debbano venire privilegiate e quali,
invece, mantenute allo stato di quiescenza".
    Non  si  puo' certo negare che l'aspetto della Presidenza Cossiga
che  forse  piu'  ha  fatto  discutere  e'  stato  quello  delle c.d.
esternazioni  attraverso  giornali,  radio  e  televisioni  in  forma
talvolta  di  opinioni,  di  giudizi,  di  moniti,  di  critiche,  di
precisazioni,   di   battute   talvolta   anche   assai  sarcastiche.
Esternazioni  che,  per  il  modo in cui sono state proposte dal loro
Autore  o,  piu' spesso amplificate dai mezzi di comunicazione, hanno
costituito  necessariamente termini di paragone, di adesione, o anche
di  ostilita'  nel  dibattito  politico  e  la cui caratteristica, di
novita'  rispetto  al  passato,  e' quella di avere come destinatari,
direttamente e senza intermediari, i cittadini.
    Tuttavia,  come  del  resto  gia'  osservava G. Motzo (nella voce
Messaggio,  in  Enc.  dir., XXVI, 1976, 146) il Capo dello Stato deve
disporre  "dei  mezzi  che  gli  consentano  di  rompere  il riserbo,
normalmente   imposto  all'esercizio  delle  funzioni  che  gli  sono
commesse  dalla  Costituzione, per fare appello all'opinione politica
del  Paese. Cio' avverra' nei momenti culminanti della vita nazionale
e  nelle  occasioni  in  cui  la  manifestazione  del  pensiero  o la
comunicazione  che  si  rinviene in un atto di esternazione debba - a
suo avviso - esser rivolta, oltreche' all'organo destinatario formale
ed  alla cerchia dei destinatari immediati, anche a rendere edotta la
pubblica  opinione  di  eventi  e  di  valutazioni che richiedono una
consapevole partecipazione dei consociati alle vicende costituzionali
ed una adeguata valutazione dell'operato presidenziale".
    Si tratta - e' noto - di un potere sui cui confini costituzionali
si  discute  molto  e  che, comunque, appare in questi anni in rapida
evoluzione,  se  non  in  una  fase  di  mutamento radicale. Le cause
strutturali  di  questo processo vanno ricercate essenzialmente nello
sviluppo    della   democrazia   pluralistica,   nell'aumento   della
"complessita'"  (e quindi dell'insicurezza) sociale e nella grandiosa
crescita  dell'importanza  della  comunicazione  politica  e dei mass
media  (A.  Baldassarre  -  C.  Mezzanotte, Gli uomini del Quirinale,
Bari, 1985, 16).
    In  altri  termini,  come pure ha dovuto rilevare quella dottrina
piu'   rigida  e  formalistica  nell'interpretazione  del  potere  di
esternazione  presidenziale  (A.  Pace,  Esternazioni presidenziali e
forma  di governo. Considerazioni critiche, in Quad. cost., 1992, 191
ss.),  le  esternazioni  di  Cossiga  - che peraltro non differiscono
granche'  rispetto a quelle del suo predecessore - vanno interpretate
nel  senso  della  "ricerca  costante  di una adesione della pubblica
opinione";  la  volonta'  di  "attestare  coram populo la funzione di
interprete  fedele di quella opinione e di tutore della correttezza e
della        legalita'";       un       "ricorrente       pedagogismo
etico-politico-costituzionale che si traduce in critiche direttamente
riferite  alla  classe  politica  o  a  singoli  uomini politici e di
governo  (...)  o,  per converso, in esaltazione di valori (...)" (le
frasi   virgolettate   sono   di   G.  D'Orazio,  Presidenza  Pertini
(1978-1985). Neutralita' o diarchia, Rimini, 1985, 209).
    Ma tutto cio' - ci sia consentito - non puo' in alcun modo essere
oggetto di sindacato da parte dell'autorita' giudiziaria.
    Vero  e'  che e' assolutamente impensabile - per come la figura e
il  ruolo  del  Presidente  della  Repubblica  e' stata disegnata dai
Costituenti  e  per  come si e' effettivamente evoluta nella forma di
governo  -  la rigorosa distinzione tra le manifestazioni di pensiero
che  il  Capo dello Stato compie uti singulus, senza nesso con le sue
funzioni,  e  le  enunciazioni e gli atti riconducibili all'esercizio
della carica.
    Ed  infatti  non vi e' dubbio che - come pure si e' sostenuto (S.
Galeotti-B.   Pezzini,   voce   Presidente   della  Repubblica  nella
Costituzione  italiana,  in  Dig.  disc.  pubbl. XI, 1996, 482-483) -
"alle spalle della crescita esponenziale delle esternazioni atipiche,
si  ritrova  un  processo  di  trasformazione del ruolo e delle forme
della  comunicazione politica, in cui le dichiarazioni del Presidente
della Repubblica - come degli altri protagonisti della scena politica
-  sono  amplificate, sollecitate, create (se non come dichiarazioni,
come   notizia   ),   dalla   spasmodica   attenzione  dei  mezzi  di
comunicazione.   Quando  le  esternazioni  sfuggono  alla  dimensione
formale,  scritta,  si  rende  evidentemente  inapplicabile la regola
costituzionale   dell'art. 89  Cost.,  che  consente  al  governo  di
esercitare  il  controllo  sui  presupposti di legittimita' dell'atto
presidenziale,  e  purtuttavia  resta  invece  applicabile  l'art. 90
Cost.,  che  limita la responsabilita' diretta del Presidente per gli
atti  compiuti  nell'esercizio delle funzioni", peraltro "inadatte ad
un  controllo  di  questo genere di comportamenti, dal momento che e'
pressocche'  impossibile  configurare  i  reati  presidenziali  nella
specie di reati di opinione; d'altro canto non risultano persuasivi i
suggerimenti  diretti  a  limitare l'irresponsabilita' presidenziale,
sia  mediante  la  forma  della  cosiddetta  responsabilita' politica
diffusa, che resta una categoria giuridicamente debole, sia riferendo
la  responsabilita' al Governo, attraverso la artificiosa costruzione
della  controfirma  implicita, ovvero postulando a carico del Governo
un  onere,  alternativo,  di  dare  copertura  politica al Presidente
nell'esercizio  delle sue funzioni ovvero di contestargli formalmente
lo  sconfinamento  dalle  proprie  attribuzioni.  Queste  difficolta'
manifestano specificamente la insussistenza delle basi costituzionali
su  cui  si  e'  preteso  di  giustificare  la  prassi estensiva, sia
richiamando  l'art. 21  Cost., sia riconducendola alla qualificazione
di  rappresentante  dell'unita'  nazionale;  il titolare di un organo
monocratico  di vertice - e qui' sta il punto - non ha una dimensione
politica privata (la sfera delle esternazioni informali) contrapposta
ad una dimensione pubblica; ha una sfera assolutamente privata, nella
quale   peraltro   e'   pienamente   responsabile  (salva  la  regola
convenzionale   dell'improcedibilita'  penale  durante  il  mandato),
contrapposta  ad  una  sfera  pubblica  nella  quale  esercita le sue
funzioni,   che   sono   solo   quelle   previste,  esplicitamente  o
implicitamente,  dalla Costituzione. Le esternazioni, di conseguenza,
o riguardano le funzioni, o esorbitano dalle funzioni: non e' data la
possibilita' di creare attraverso le esternazioni attribuzioni che si
collocherebbero in una zona intermedia (come una funzione generale ed
atipica di esternazione)".
    La  conclusione  e'  che  -  come aveva ben affermato la Corte di
appello  di  Roma  -  "non  si puo' non riconoscere che riguardo alla
cospicua   congerie   delle   esternazioni   non  qualificate  e  non
ascrivibili  ne' alle funzioni tipizzate ne' alla persona privata, ma
in  qualche  modo  riferibili  o  genericamente  connesse alla carica
rappresentativa,        alla       realizzazione       dell'indirizzo
politico-costituzionale,  ai  poteri  di stimolo e di persuasione, ai
poteri    di   autotutela   delle   prerogative   della   istituzione
presidenziale,   non   puo'  che  concludersi  a  favore  della  loro
immunita':  cioe' di esenzione da qualunque responsabilita' (civile e
penale,  per quel che qui interessa), salvo le ipotesi tassativamente
indicate  dalla  Carta  fondamentale  all'art. 90  (alto tradimento e
attentato alla Costituzione)".
    Ed  e' su tali premesse che i giudici della Corte d'appello hanno
fatto  giustizia della formalistica teoria dei primi giudici, secondo
la  quale  le  espressioni del potere valutativo del Presidente della
Repubblica  dovrebbero  comunque manifestarsi con atti formali tipici
in astratto controfirmabili.
    Nell'ambito   cosi'  delineato,  la  sfera  di  irresponsabilita'
presidenziale  e' stata dunque riconosciuta "anche per tutti gli atti
e  comportamenti  non  suscettibili  di  controfirma  (...)",  il cui
contenuto  e  la  strumentalita' e' influenzato dalle "condizioni del
momento  storico,  (dal)l'equilibrio  delle  forze politiche, (dal)la
forza della legittimazione popolare (...)".
    Cio' ha giustamente condotto la Corte d'appello ad affermare che,
di   fronte  all'aggressione  di  un  "avversario",  intenzionato  ad
attaccare  le qualita' morali e di affidabilita' della persona fisica
del  Presidente "al fine di metterne in discussione la legittimita' a
ricoprire  la  carica  piu'  elevata  dello  Stato...",  "la reazione
offensiva  tesa  a  demolire la credibilita' dell'avversario medesimo
mediante la denigrazione delle capacita' professionali, di giudizio e
di   obiettivita'   (...)  prima  ancora  di  una  legittima  difesa,
discriminante  in  quanto  tale  la  persona  fisica  del  Presidente
titolare  dell'organo,  va  valutata  principalmente  come  forma  di
autotutela  della  carica ricoperta dal sen. Cossiga in quel momento,
ovvero   un  tentativo  di  affermare  per  tale  via  la  perdurante
legittimita' e la piena funzionalita' dall'alto Ufficio rispetto a (o
nei  confronti de) la Comunita' nazionale. Autotutela e tentativo non
certo  sindacabili,  quanto a forma modalita' e correttezza in questa
sede giudiziaria ordinaria (...)".
    La  difesa delle istituzioni autorizza all'occorrenza "di deviare
dai  limiti  formali ordinari (...) quando l'ostilita' e gli attacchi
all'indipendenza  dell'organo  spingono quest'ultimo a trincerarsi in
una necessaria difesa e con l'utilizzazione delle proprie prerogative
estensibili  fin  dove lo richieda la difesa stessa della istituzione
(...)",  senza  rilievo  della  sfera  dei terzi posto che, in questi
casi,  e'  la  stessa  Carta  costituzionale che "ritiene rilevanti e
sindacabili" solo gli interessi supremi dello Stato compendiati nelle
specifiche   ipotesi   di   alto   tradimento  e  di  attentato  alla
Costituzione.
    In buona sostanza, la sentenza ha correttamente definito l'ambito
delle   funzioni   presidenziali   tra   le   quali  ha  inserito  le
manifestazioni  di pensiero del titolare dell'organo "in qualche modo
riferibili  o  genericamente  connesse  alla  carica  rappresentativa
(...)"  e  tra  queste  quelle ricollegabili "ai poteri di autotutela
delle prerogative della istituzione presidenziale".
    Su   questa   base,   la   Corte   del  merito,  con  motivazione
ineccepibile;   ha   correttamente   ritenuto   di   dover   superare
l'anacronistica   concezione   dei   poteri   e   delle   prerogative
presidenziali  dei  Costituenti,  costantemente smentita nella prassi
recente   e   non   piu'   compatibile  con  la  logica  del  sistema
costituzionale.
    La  Corte  d'appello,  infatti, ha chiarito che il contenuto e la
strumentalita' di atti sostanzialmente ufficiosi del Presidente della
Repubblica  e'  determinata  dalla  logica del sistema in atto, dalle
condizioni del momento storico, dall'equilibrio delle forze politiche
e   dalla   forza   della   legittimazione   popolare   degli  organi
rappresentativi.
    Nessuna  soluzione  sostanziale  viene  data  al  problema  dalla
suprema  Corte di cassazione considerato che essa ritiene che in nome
del  diritto  vivente,  vada  radicato,  nel primo comma dell'art. 87
Cost., "il diritto del Presidente a parlare nel nome del Paese, anche
al  di  la' delle puntuali competenze affidategli dalla Costituzione,
quale concepita dai Costituenti", riconoscendogli anche un "potere di
chiarimento",  un  potere,  cioe',  attraverso il quale il Capo dello
Stato avrebbe la facolta' di chiarire pubblicamente "il significato e
le  ragioni  dei  propri  atti"  e  che  sarebbe  collegato  alla sua
"responsabilita' politica diffusa".
    Con  il che, se da una parte sembra accedere alla interpretazione
piu'   restrittiva   del   ruolo   presidenziale,   dall'altra,   nel
riconoscergli  una  facolta'  di esternazione (che radicherebbe nelle
norme   costituzionali   come  integrate  dalle  prassi  applicative)
collegata alla responsabilita' politica diffusa, sembra attribuirgli,
quantunque  implicitamente,  un  ruolo  certamente diverso dalla mera
garanzia   costituzionale.  Resta  comunque  il  fatto  che  il  mero
riconoscimento  della  responsabilita'  presidenziale  per  gli  atti
extrafunzionali  dimostra  che  qualcosa, nel modo di interpretare il
ruolo  del Capo dello Stato, sta cambiando, e sta cambiando nel senso
che  questo  suo  ruolo  subisce  un  tale  ridimensionamento  da far
sospettare  che  i  motivi  di  cio'  siano  da  ricercare  non gia',
semplicemente,   in  una  lettura  della  Carta  costituzionale  piu'
restrittiva, ma altrove.
    In   sintesi,   come  ha  ritenuto  la  Corte  d'appello,  devono
considerarsi   "coperte  dall'immunita'  (...)  le  esternazioni  del
Presidente  della  Repubblica  non qualificate e non ascrivibili alle
funzioni   tipizzate   (...)   ma   in   qualche  modo  riferibili  o
genericamente    connesse    alla    carica   rappresentativa,   alla
realizzazione  dell'indirizzo  politico-costituzionale,  ai poteri di
stimolo   e   di  persuasione  o  ai  poteri  di  "autotutela"  delle
prerogative   presidenziali",  e  che  "l'attivita'  di  esternazione
presidenziale   (...)   rientra  nelle  funzioni  costituzionali  del
Presidente della Repubblica".
    Certo e' che l'ecc.ma Corte costituzionale, sulla base degli atti
di causa, potra' agevolmente verificare che la reazione agli attacchi
mossi  nei  confronti del Presidente della Repubblica dagli onorevoli
Flamigni  e  Onorato in nessun caso puo' considerarsi come dettata da
motivi   meramente  privati,  sebbene  come  reazione  legittima  del
titolare  della istituzione piu' elevata della Repubblica all'attacco
comunque infamante portato alla istituzione stessa da lui rivestita.
    Ed  e'  su questo piano che la Corte di merito ha riconosciuto la
funzionalita'  delle  dichiarazioni  del  Presidente  Cossiga, che ha
ritenuto   collegate   all'esercizio  delle  funzioni  presidenziali,
nonche'  espressione  della  funzione di autotutela delle prerogative
presidenziali  e  quindi  non  ascrivibili  alla  sfera  privata  del
titolare dell'organo.
    Da  queste  premesse  consegue  come  suo  logico corollario, che
devono  ritenersi  pienamente  giustificate  le  reazioni verbali del
senatore Cossiga nei confronti degli onorevoli Flamigni ed Onorato.
    Ad  ogni  buon conto, e' a dir poco bizzarra la tesi che tenta di
sostenere   la   non  riconducibi1ita'  delle  reazioni  verbali  del
Presidente  Cossiga  in  oggetto  all'esercizio  delle  funzioni.  E'
circostanza,  pacificamente  riconosciuta,  quella  secondo  la quale
sarebbe  una pura finzione, operare una distinzione tra sfera privata
e  sfera  pubblica nel caso di comunicazioni aventi oggetto politico,
posto  che  il  Presidente  e'  organo  monocratico e che la funzione
pubblica  che  esercita ha carattere permanente e comporta che coloro
che  ne sono investiti possano esplicarla in qualsiasi momento, nelle
forme che essi stessi ritengano piu' adeguate.
    In  altre  parole, considerato che il Presidente della Repubblica
non   esercita  la  propria  funzione  necessariamente  in  un  luogo
predeterminato  e  ad  orari  stabiliti  non puo' ricorrersi ad altro
criterio  che  non  sia quello della valenza politica e istituzionale
del   contenuto   della   comunicazione   ovvero   della  sua  palese
appartenenza alla sfera assolutamente privata del Presidente.
    Quanto  agli  episodi  contestati,  non si comprende davvero come
possa  essere  censurata la valutazione circa la piena strumentalita'
dei  comportamenti  del  Presidente  Cossiga  al  suo ruolo pubblico,
politico ed istituzionale.
    Le    frasi    pronunciate    dal    Presidente   nei   confronti
dell'on. Onorato  costituivano  infatti  la  reazione  della  massima
carica  dello  Stato  alle  posizioni  espresse  dal parlamentare con
riferimento a vicende di straordinaria valenza istituzionale, come la
collocazione  dell'Italia nel suo tradizionale sistema di alleanze in
occasione  della  Guerra  del  Golfo  (collocazione  che,  secondo il
Presidente,  avrebbe  potuto  vacillare  qualora avessero prevalso le
posizioni  "pacifiste"  espresse,  tra  gli altri, dall'on. Onorato),
ovvero  la  "vicenda Gladio" (coinvolgente un giudizio politico su un
periodo  storico  caratterizzato da una "guerra fredda" anche interna
al   Paese   e  da  fortissime  contrapposizioni,  le  cui  laceranti
conseguenze,   all'epoca   della  presidenza  Cossiga,  erano  ancora
presenti  nel  tessuto  civile  e  politico  italiano), ovvero ancora
l'adesione dell'on. Onorato alla richiesta di messa in stato d'accusa
del  Presidente  della  Repubblica  avanzata da taluni onorevoli, con
istanza  di  indagine  preliminare  anche sulla vicenda "Gladio", che
comportava  un  gravissimo  attacco  alla massima carica dello Stato,
certamente  idoneo a giustificare una reazione della quale, se non si
vuole   urtare   il   buon   senso,  non  puo  negarsi  il  carattere
squisitamente    politico,    nell'ambito   di   un   aspro   scontro
istituzionale.
    Le  frasi  pronunciate  dal Presidente nei confronti del senatore
Flamigni  costituivano  invece  la  legittima  reazione della massima
carica  dello  Stato alle posizioni espresse dal parlamentare in sede
di  Commissione  parlamentare  sul caso Moro e nel libro "La tela del
Ragno  -  Il delitto Moro" con riferimento a vicende di straordinaria
valenza  istituzionale, come il presunto coinvolgimento della persona
del Presidente della Repubblica, quando era Ministro dell'interno, in
oscure trame legate a Licio Gelli, le logge massoniche P2 e i servizi
segreti e che avrebbero concorso a causare l'uccisione dell'on. Moro.
Illazioni  gravissime  -  queste  si' davvero diffamatorie - idonee a
screditare  la  massima  carica  dello  Stato, mediante un gravissimo
attacco  certamente  idoneo  a giustificare una risposta della quale,
anche  qui' se non si vuole urtare il buon senso, non puo' negarsi il
carattere  squisitamente  politico  e  pubblico,  nell'ambito  di una
doverosa  difesa istituzionale dell'altissimo Ufficio. In definitiva,
non   sussiste   alcun   ragionevole   fondamento  per  escludere  le
dichiarazioni  del  Presidente  Cossiga  dall'area delle immunita' ex
art. 90 Cost.
    Cio'  e' tanto piu' vero se analizziamo dette dichiarazioni anche
alla luce dei principi che l'ecc.ma Corte costituzionale ha stabilito
nella  sua  consolidata  giurisprudenza in tema di prerogative di cui
all'art. 68,  comma  1,  della  Costituzione laddove ha affermato che
l'insindacabilita'   non   copre   tutte  le  opinioni  espresse  dal
parlamentare  nello svolgimento della sua attivita' politica, ma solo
quelle  legate  da  "nesso funzionale" con le attivita' svolte "nella
qualita'"  di  membro  delle  Camere (sentt. n. 375 del 1997; 289 del
1998; 329 e 417 del 1999; 56, 58 e 82 del 2000 ecc.).
    Si  e'  infatti  in  presenza  di  esternazioni  strumentali alla
posizione  pubblica  e  istituzionale  del  Presidente  e di indubbia
valenza    politica,   come   tali   riconducibili   al   regime   di
irresponsabilita' presidenziale di cui all'art. 90 Cost.
    In  relazione  alle  iniziative  politiche dell'on. Onorato, e in
specie  con  riferimento  al dissenso espresso da quest'ultimo con la
posizione italiana sulla Guerra del Golfo, il Presidente Cossiga, con
uno  stile  sferzante  ricorrente,  soprattutto  in tempi recenti, in
occasione  di  confronto  politico  su  temi  scottanti,  ha accusato
l'on. Onorato  di una faziosita' cosi' netta da suscitare dubbi sulla
sua  capacita' di giudicare con serenita'. Faziosita' che, secondo il
Presidente,  aveva  spinto  l'on. Onorato  ad opporsi ufficialmente e
nelle  sue  vesti di parlamentare ad una iniziativa internazionale di
fondamentale   importanza   ai  fini  della  conferma  o  dell'uscita
dell'Italia dal suo tradizionale sistema di alleanze.
    E poiche' l'eventualita' di una nuova collocazione internazionale
del   Paese   o  comunque  di  un  indebolimento  della  collocazione
occidentale,  in  un  momento storico di transizione ancora incerto e
delicatissimo,  era  evidentemente considerata dal Presidente Cossiga
come  gravemente  lesiva  degli interessi della Nazione, l'iniziativa
dell'on. Onorato  riceveva  una  forte  censura,  in  quanto ritenuta
frutto  della  faziosita'  politica  del  suo autore e della mancanza
nello  stesso  di  una salda concezione di Stato e di Patria. Nessuno
dubita   che   si  sia  trattato  di  una  aspra  critica,  formulata
direttamente,  senza  ipocrisie e con aperta franchezza. Ma non se ne
puo'  affermare  il  carattere  denigratorio  ed  offensivo,  ne'  il
superamento dei limiti del legittimo diritto di critica politica. Una
critica, questa, abitualmente caratterizzata da un linguaggio forte e
da   espressioni  severe,  talvolta  irridenti,  manifestanti  aperta
disistima  per  l'avversario  politico e le idee che questo professa.
Proprio per tale ragione, in questa materia, comunemente si riconosce
che  i  limiti  della  liberta' di manifestazione del pensiero godono
della  loro  massima  estensione,  proprio  perche'  la liberta' e la
trasparenza del dibattito politico sono coessenziali all'affermazione
di una vera democrazia.
    D'altra  parte,  il  cittadino  che decide di dedicarsi alla vita
politica  attiva opera sempre una scelta di parte e, necessariamente,
abbraccia  una  "fazione"  o  l'altra.  L'uomo  politico,  per questa
semplice  ragione,  non puo' pretendere che gli venga riconosciuta da
tutti  una  obiettivita' e serenita' di giudizio e non puo' adontarsi
per l'attribuzione di una "faziosita'" che, al di la' della forza del
termine, e' connaturale all'uomo di parte.
    Si  vuoi  dire,  in  altre  parole,  che  tale  addebito non puo'
considerarsi  offensivo e idoneo a travalicare i limiti di continenza
nel  dibattito  politico.  D'altra  parte, la faziosita', considerata
quale  mancanza  di  obiettivita',  e' una caratteristica umana anche
piuttosto   comune   e  per  lo  piu'  involontaria,  essendo  spesso
l'obiettivita'   una   mera  aspirazione  anche  nelle  persone  piu'
equilibrate.  Non  si  vede quindi dove sia l'offesa nell'addebitarla
esplicitamente,  senza giri di parole, e nel far presente di ritenere
la persona faziosa piu' adatta all'attivita' politica e meno a quella
di  magistrato.  All'on. Onorato non e' stata negata ne' la capacita'
professionale,  ne'  l'indipendenza;  ne  e'  stata solo rilevata una
caratteristica  umana  e  attitudinale  ritenuta poco compatibile con
l'obiettivita' del magistrato.
    Il  tutto, come detto, nell'ambito ed in occasione di uno sconto,
politico  gravissimo,  voluto  dall'on. Onorato  con la sua infamante
accusa al Presidente della Repubblica Cossiga di alto tradimento e di
attentato alla Costituzione.
    Quanto alle affermazioni sulla concezione di Stato e di Patria di
cui  l'on. Onorato sarebbe privo, davvero non se ne vede il contenuto
offensivo.   Si   tratta  di  un  giudizio  politico,  connesso  alle
iniziative  dell'on. Onorato nel campo della politica internazionale.
Un  giudizio  sicuramente  negativo,  ma  legittimo,  con il quale il
Presidente  Cossiga,  ritenendo  di  interpretare il sentimento della
Nazione   quale   massimo  rappresentante  della  stessa,  ha  inteso
censurare  una  posizione  che, a suo avviso nella predetta qualita',
era radicalmente contraria agli interessi dell'Italia.
    D'altra  parte,  nell'acceso  scambio  di  battute, l'on. Onorato
aveva  affermato  di  non  avere  la  stessa concezione di Stato e di
Patria del Presidente Cossiga, manifestando cosi', in forma allusiva,
un   giudizio  di  disvalore  sulla  concezione  del  Presidente  con
malizioso  collegamento  alla  vicenda  Gladio.  In  altre parole, le
accuse  sono  state  reciproche  ed  ognuno ha imputato all'altro una
concezione  di  Stato e di Patria contraria a quella ritenuta giusta.
Con  la  conseguenza  che  se  siffatti addebiti incrociati dovessero
ritenersi  offensivi  lo  sarebbero  per  entrambi  i  destinatari  e
l'on. Onorato,   che   ha   sicuramente  provocato  la  reazione  del
Presidente della Repubblica, non potrebbe dolersi di alcunche'.
    A  nulla varrebbe affermare che iniziative giuridicamente lecite,
come  quelle  dell'on.  Onorato  (dissenso  rispetto  alla  posizione
italiana  sulla guerra del Golfo; adesione alla richiesta di messa in
stato  di  accusa  del  Presidente), non possono integrare quel fatto
ingiusto  che  costituisce  la  provocazione  alla quale e' legittimo
reagire.
    Vero   e',   infatti,  che  sotto  l'apparenza  formale  di  atti
giuridicamente  legittimi,  l'on. Onorato  si  era  reso autore di un
attacco  di  inusitata gravita' teso a screditare la piu' alta carica
dello Stato, imputandole reati gravissimi, come l'alto tradimento. In
tal  modo,  nella  sostanza,  il  primo  a  sentirsi qualificare come
traditore  e' stato proprio il Presidente della Repubblica. E seppure
tale  gratuito  attacco e' stato portato nelle forme di un'iniziativa
giuridica prevista dalla Costituzione, e' agevole replicare che anche
la  reazione  del  Presidente  e' avvenuta in un incontro formale tra
organi   costituzionali,   nel   pieno  quindi  dell'esercizio  delle
prerogative presidenziali.
    Aldila'  di  ogni  ulteriore  considerazione di merito, l'aspetto
che,   comunque,   piu'  di  ogni  altro  interessa  in  questa  sede
sottolineare, concerne la non spettanza all'autorita' giudiziaria del
potere   di   valutare   se   l'atto   presidenziale  compiuto  possa
considerarsi funzionale o extrafunzionale.
    6. - Sugli atti extrafunzionali del Presidente della Repubblica.
    Non  vi  e' dubbio che uno dei problemi centrali del regime della
responsabilita'  del Capo dello Stato e' quello che concerne gli atti
extrafunzionali,  cioe'  gli atti compiuti al di fuori delle funzioni
presidenziali, essendovi in Costituzione solo un testuale riferimento
"agli  atti  compiuti  nell'esercizio  delle  sue  funzioni" (art. 90
Cost.).
    La  questione fu peraltro affrontata in Assemblea Costituente ove
non  mancarono  voci  favorevoli  a statuire una apposita disciplina.
Tuttavia,  a  fronte  di  alcune proposte miranti a garantire al Capo
dello  Stato  l'assoluta  improcedibilita'  delle  sue azioni in sede
penale  e civile durante il settennato, l'Assemblea respinse tanto la
proposta,  formulata  dall'on.  Bettiol,  di  approvare  un  articolo
aggiuntivo  secondo  il quale "il Presidente della Repubblica, mentre
dura  in carica, non puo' essere perseguito per violazioni alla legge
penale  commesse  fuori dell'esercizio delle sue funzioni" (Atti Ass.
cost.,  seduta  ant.  del  24  ottobre  1947,  3511) tanto l'articolo
aggiuntivo  presentato  dall'on. Monticelli  ai  sensi  del quale "il
Presidente della Repubblica non puo' essere sottoposto a procedimento
penale  durante  l'esercizio  delle  sue funzioni" (Atti, Ass. cost.,
seduta  ant.  del  24  ottobre 1947, 3512), tanto, infine, l'articolo
aggiuntivo    presentato   dalla   Commissione   (e   fatto   proprio
dall'on. Monticelli)   ai   sensi  del  quale  "il  Presidente  della
Repubblica  non  puo',  mente  e'  in  carica,  essere  sottoposto  a
procedimento  penale  per  fatti  estranei  all'esercizio  delle  sue
funzioni"  (Atti  Ass. cost., seduta ant. del 24 ottobre 1947, 3516).
Prevalse,  infine,  la tesi per cui "per ragioni di opportunita' e di
convenienza"  non sarebbe stato opportuno dover determinare alcunche'
circa la responsabilita' penale del Capo dello Stato per reati comuni
(si   veda   l'intervento   di   Tosato,   in  Atti  Ass.  cost.,  II
Sottocommissione, I Sezione, 4 gennaio 1947, 1769 ss.).
    Il problema e' comunque talmente sentito che anche autori come il
Balladore    Pallieri   che   ammettono   la   sussistenza   di   una
responsabilita'  giuridica  del  Presidente  -  e  cioe'  la "normale
responsabilita'  penale"  e  "la piena responsabilita' civile" - onde
per  cui  contro  il Presidente sarebbero possibili citazioni civili,
procedimenti    di    volontaria    giurisdizione,   contravvenzioni,
imputazioni  penali,  non  essendo egli nemmeno tutelato dalle comuni
immunita'  parlamentari",  -  devono  ammettere  che "la pratica e le
norme  di  correttezza  si incaricheranno di attenuare, ove ne sia il
caso,  il  rigore  di  tali  principi.  Il  fatto  che  si tratti del
Presidente  della  Repubblica  e'  circostanza  tale che non puo', in
fatto,  non influire sul rapporto giuridico, e particolare prudenza e
particolari  riguardi  verrebbero  senza  dubbio adoperati qualora il
caso  si presentasse" (G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale,
V ed., Milano, 1957, 157).
    Certo  e'  che  ammettendo  la  procedibilita'  per  i  reati non
funzionali,  ovvero  quegli atti e comportamenti che non hanno alcuna
relazione  con  l'attivita'  funzionale  del  Presidente  secondo  il
concetto  espresso  di  commissione nell'esercizio delle funzioni, si
possono  determinare - come e' stato rilevato (G. Di Raimo, op. cit.,
1159)  -  "incresciosi  inconvenienti  ed  anche sminuire l'efficacia
della   prerogativa  per  gli  atti  funzionali  che  possono  essere
sindacati  dal  giudice  ordinario allo scopo di accertare se siano o
meno coperti dalla irresponsabilita'".
    Tradizionalmente  tutte  le  prerogative costituzionali garantite
nel  nostro  ordinamento  trovano il loro necessario fondamento nella
tutela  del  libero  esercizio  di funzioni costituzionali o, piu' in
generale,  nella garanzia della posizione costituzionale dei titolari
di   funzioni  supreme.  E  questo  teoricamente  garantisce  che  la
prerogativa,   prevista   a  tutela  dell'esercizio  di  fondamentali
funzioni costituzionali, non si tramuti in mero privilegio personale.
    In  quest'ottica  e'  ben  noto  che la dottrina maggioritaria ha
ritenuto  che:  "l'irresponsabilita'  scollegata  dalla funzione e da
eventuali  specifiche esigenze della medesima, e' un privilegio. E il
privilegio  non ha cittadinanza in democrazia" (cosi' L. Carlassarre,
art. 90 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca,
Bologna-Roma, 1983, 149 ss., spec. 159).
    Su  cio'  non  possiamo  che  essere  d'accordo.  Come pure sulla
circostanza  che,  ai  fini  dell'operativita'  delle  immunita', sia
sufficiente - come pure e' stato sostenuto in dottrina (ad esempio da
P. Rossi, Lineamenti di diritto penale costituzionale, Palermo, 1953,
224  ss.) - un mero rapporto di contestualita' cronologica, cioe' "il
semplice  fatto  che  l'atto  o  il comportamento sia posto in essere
mentre il Presidente e' temporalmente nell'esercizio delle funzioni o
in  occasione  delle  medesime".  E'  evidente  che ammettere un mero
rapporto    di    contestualita'   cronologica,   potrebbe   condurre
effettivamente  anche  a  conseguenze  aberranti,  basti pensare agli
esempi   "ormai   logori  della  violenza  carnale  esercitata  sulla
segretaria  negli uffici del Quirinale, dell'omicidio colposo durante
una  partita  di  caccia  organizzata  per  un Capo di Stato estero e
simili (...)" (L. Carlassarre, art. 90 Cost., cit., 159; ricostruisce
l'intera  tematica  S.  Antonelli,  Le immunita' del Presidente della
Repubblica italiana, Milano, 1971, 180 ss.).
    Tuttavia   anche   gli   autori   che   riconoscono   una   ampia
responsabilita'  presidenziale devono ammettere che vi sono settori -
come  appunto  quello  del  potere  di esternazione - nell'ambito dei
quali si prospettano problemi particolari, anche perche' la prassi ha
registrato  interventi  molto  piu'  intensi  e  frequenti  di quelli
previsti e prevedibili al tempo della Costituente, piu' ampi e liberi
soprattutto per quanto riguarda le forme.
    In  sintesi  nella  disciplina  della  responsabilita'  per fatti
estranei  all'esercizio  delle  funzioni  si  rivela  una lacuna, che
lascia   esposto   il   Presidente  alle  conseguenze  di  iniziative
arbitrarie o destabilizzanti, e che i Costituenti avevano ritenuto di
poter risolvere, forse troppo semplicisticamente - come e' dimostrato
dal caso in esame - sul piano extragiuridico.
    Non e' un caso che gia' cinquant'anni orsono, una autorevolissima
dottrina   (oggi  peraltro  attualissima),  non  sia  stata  appagata
dell'interpretazione  letterale  dell'art. 90 Cost. ed abbia cercato,
in  base  ad  altri  argomenti,  di  negare  o  comunque  limitare la
responsabilita'  penale  del  Presidente  della Repubblica secondo il
diritto comune.
    Si  tratta  della  posizione  di Emilio Crosa che espresse il suo
pensiero  in  un  articolo  del 1951 diventato presto molto noto (Gli
organi   costituzionali   e  il  Presidente  della  Repubblica  nella
Costituzione  italiana,  in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 95 ss.). In
questo  articolo,  il  Crosa,  riprendendo  alcune  tesi  di Vittorio
Emanuele  Orlando,  affronto'  la questione della identificazione tra
organo  e  persona fisica. L'organo presidenziale si scinde, infatti,
come   ogni  altro  nel  pubblico  ufficio,  nell'istituzione  e  nel
titolare.
    Come  e'  noto, a partire da Vittorio Emanuele Orlando [Immunita'
parlamentari  ed  organi  sovrani,  ora in Diritto pubblico generale.
Scritti  varii  (1891-1940)  coordinati in sistema, Milano, 1954, 482
ss.],  le  inviolabilita'  o le immunita', pur operando in concreto a
tutela  della liberta' personale degli individui investiti di cariche
pubbliche  sono preordinate in via di principio a vantaggio non della
singola  persona,  ma  dell'ufficio. Per definire una tale situazione
giuridica  viene  anche  usato  il  termine "prerogativa" in un senso
particolare - indicativo cioe' di un attributo proprio dell'ufficio o
dell'istituzione - e soprattutto in contrasto col termine privilegio,
il  quale  gia'  di  per  se' denota discipline giuridiche pertinenti
direttamente e particolarmente ai singoli soggetti.
    Con  tali  espressioni  ci si richiama alla teoria generale degli
organi  giuridici,  per  cui  e'  postulata  una  stretta  ed  intima
connessione  fra  l'ufficio ed i soggetti fisici preposti, riguardati
come sue parti integranti: le persone dei titolari risultano protette
essenzialmente  per  la  sfera di quei rapporti in cui sono assunte e
qualificate   dall'ordinamento   come  facenti  corpo  con  l'ufficio
ricoperto.  La  tutela  dell'integrita' delle persone vale, quindi, a
salvaguardare  l'integrita'  dell'istituzione  di  cui  sono  parte e
l'esercizio  regolare  dell'attivita' ad esse affidata (E. Crosa, Gli
organi   costituzionali   e  il  Presidente  della  Repubblica  nella
Costituzione  italiana,  cit.,  96).  Per  quanto  riguarda  l'organo
presidenziale  (come lo chiama E. Crosa, op. cit., 106 ss.), esso "si
scinde  come ogni altro nel pubblico ufficio, cioe' nella istituzione
e   nel  titolare.  La  guarentigia  del  pubblico  ufficio  e'  data
dall'istituto   della   irresponsabilita'   che  copre  gli  atti  di
competenza   presidenziale   col   limite   dell'alto   tradimento  e
dell'attentato  alla  Costituzione  (art.  90). (...). L'ufficio puo'
dirsi pertanto garantito secondo le esigenze della tecnica giuridica,
perche'  nessun  atto  di qualsiasi altro organo costituzionale, o di
terzi  puo' vulnerare ne' comunque interferire sull'adempimento delle
funzioni.  Ma  questo  adempimento, per l'inscindibilita' nell'organo
del  pubblico  ufficio  del  titolare  presuppone  la guarentigia del
titolare,  la  sua  assoluta  indipendenza.  Questa  non e' garantita
pienamente  se  le tutele previste si svolgono nella sola sfera delle
attribuzioni  costituzionali,  e  sono  da  queste  delimitate, e non
contemplano  invece  l'unita'  stessa  dell'organo con la persona del
titolare   che   trascende  evidentemente  il  pubblico  ufficio.  La
posizione  giuridica  dei  titolari  degli  organi  costituzionali e'
tutt'uno   con   la   posizione   nell'ordinamento   giuridico  della
istituzione.  (...).  Le  guarentigie  che  tutelano i titolari degli
organi,   nella   loro  accezione  tecnica,  mirano  a  salvaguardare
l'integrita'  dell'organo  inscindibile  nei  suoi  due  elementi  di
pubblico  ufficio  e  di titolare, inscindibile nell'esercizio stesso
della  funzione ad esso devoluta necessaria e sufficiente perche' sia
posta  in essere l'attivita' dello Stato. Per l'ufficio presidenziale
tali  garanzie non sono previste dalla Costituzione (...)". Si tratta
di  una  vera  e  propria "lacuna" costituzionale. "La guarentigia e'
data    dall'irresponsabilita'    limitata    agli    atti   compiuti
nell'esercizio  delle funzioni (art. 90) e quindi tutela l'integrita'
e  l'indipendenza  della  funzione, dell'ufficio e del titolare entro
limiti  determinati.  Ma  se  l'organo e' nel suo aspetto di pubblico
ufficio  tutelato,  risulta  deficiente la tutela del titolare, fuori
dalla  sfera  specifica delle sue funzioni, e quindi per la struttura
monotitolare  dell'organo  risulta  deficiente  la tutela integrale e
pertanto il regolamento giuridico dell'organo nella sua unita (...)".
Va  dunque affermata "l'immunita' presidenziale per ogni procedimento
penale  o  civile  che  comunque  venga  a  limitare  la sua liberta'
d'azione o a porlo in una situazione di soggezione di fronte ad altro
organo  dello  Stato.  Per la sua posizione di organo costituzionale,
nessuna  causa  che non sia prevista espressamente dalla Costituzione
puo'  attentare  alla  sua  indipendenza  ed  integrita'.  Il che non
significa  (...)  che  egli  sia  sottratto  alla  legge comune per i
rapporti  civili,  ne'  che egli sia irresponsabile per le violazioni
della  legge  penale. Per queste egli e' certamente responsabile come
ogni  altro  cittadino,  ma  sinche' e' in carica non e' passibile di
alcun  procedimento.  Pertanto  in questa ipotesi, puramente teorica,
l'autorita'   giudiziaria   dovra'   dichiarare   la   sua   assoluta
incompetenza.  (...).  L'equivoco  fondamentale  in cui e' incorso il
costituente  (...) sta nell'avere scambiato il principio fondamentale
di  ogni  ordinamento  democratico per cui nessun cittadino, sia pure
egli  il primo dello Stato, e' sottratto all'impero delle leggi, come
principio  regolatore della posizione di un organo costituzionale. Ma
altro  e'  affermare tale principio esattissimo in linea giuridica ed
essenziale  in  linea  politica, ed altro e' considerare la posizione
dell'organo   costituzionale.  La  responsabilita'  di  ogni  ordine,
all'infuori  di  quella  derivante  dall'esercizio delle funzioni nei
limiti  previsti  dalla  costituzione, non e' diminuita, ne' alterata
dalla  garanzia assoluta d'immunita', durante la permanenza in carica
derivante    dal    principio   generale   dell'assoluta   integrita'
dell'organo,  accolto  dall'ordinamento  giuridico.  (...).  Pertanto
l'inviolabilita'  del  Presidente  nel  periodo  del  suo ufficio non
ricostituisce la inviolabilita' regia, attributo essenzialmente della
persona,  ma  assume  di  questo istituto, da cui sono state tolte le
sovrastrutture metagiuridiche e storiche, e in particolare quelle che
ne  trascendono  la  natura  organica, quanto ne e' essenziale per la
definizione  della  natura  e  posizione  giuridica  nell'ordinamento
statuale dell'organo costituzionale".
    Sulla  base  di  cio'  si  e'  cercato  di  dimostrare fondata la
costruzione  delle  immunita'  come  tipico  e coessenziale carattere
degli   organi   costituzionali   in  quanto  conseguente  alla  loro
indipendenza  da altre autorita' e alla divisione dei poteri. "Appare
cosi'  radicalmente  rovesciata la tesi che si tratti di eccezioni al
ius  commune,  poiche'  e'  postulato,  anzi,  criterio  generale del
diritto   costituzionale,   operante  per  dare  regola  agli  organi
supremi".
    Pertanto   le   norme   sulle   prerogative  dei  diversi  organi
costituzionali sono intese non piu' quali disposizioni particolari ed
eccezionali,  ma quali parti integranti di un "insieme di regole e di
istituti  che  la  scienza  riduce a sistema" (V.E. Orlando, op. cit.
484).
    In  sintesi, stante la peculiare inscindibilita' dell'ufficio dal
titolare   che   si   riscontra   nella   configurazione  dell'organo
monocratico,  la  garanzia di una assoluta indipendenza nei confronti
di  qualsiasi  atto  proveniente da altro organo costituzionale, o da
altro  potere,  non  puo' essere veramente completa se non si estende
anche  alla  persona  del  titolare,  e  quindi  alla sfera della sua
responsabilita' extra-funzioni.
    Superando la formalistica impostazione del Tribunale di Roma, che
conduceva  ad  un  sostanziale  svuotamento  del munus presidenziale,
riducendolo  ad una mera funzione di rappresentanza formale, la Corte
di appello di Roma ha invece correttamente affermato che il carattere
politico della funzione degli organi monocratici dello Stato-apparato
"non  consente  (...)  di  distinguere  il munus dalla persona fisica
(...)" non potendosi scindere la persona dal titolare dell'organo per
ascrivere  all'una  o  all'altro  atti e comportamenti in ragione dei
contenuti o dei modi in cui si manifestano e per farne poi discendere
forme   diverse  di  responsabilita',  con  la  conseguenza  che  "il
carattere permanente della funzione pubblica non ha il significato di
un  continuo  esercizio  in  concreto  di  essa, bensi' del fatto che
coloro  che  ne  sono  investiti  la  possono  esplicare in qualsiasi
momento  ove  il  caso  lo  richieda ...  e nelle forme ritenute piu'
acconce ...  Il  che  vuol  dire che il potere di formare la volonta'
dalla  istituzione ...  e'  lasciata al potere valutativo dell'organo
preposto ...  senza  che tale potere sia condizionato dalla eventuale
diversa opinione o volonta' di coloro che vi sono soggetti".
                              P. Q. M.
    Si  insiste  affinche'  codesta  ecc.ma  Corte  voglia dichiarare
ammissibile il presente ricorso.
        Roma, addi' 11 febbraio 2002
Prof.  avv.  Franco  Coppi - Prof. avv. Agostino Gambino - Prof. avv.
                         Giuseppe Morbidelli
03C0001