N. 44 RICORSO PER CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE 19 dicembre 2002
Ricorso per conflitto di attribuzione depositato in cancelleria il 19 dicembre 2002 (dell'on. sen. prof. avv. Francesco Cossiga) Presidente della Repubblica - Sentenza della Corte Suprema di Cassazione-sez. III civile, nn. 8733 e 8734 del 27 giugno 2000, di annullamento con rinvio di due sentenze della Corte d'appello civile di Roma, in data 21 aprile 1997 e 16 marzo 1998, emesse in riforma di due decisioni del Tribunale civile di Roma di condanna del senatore Francesco Cossiga al risarcimento dei danni morali per le opinioni dallo stesso espresse quando ricopriva la carica di Presidente della Repubblica, nei confronti degli onorevoli Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato - Ricorso per conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato sollevato dal senatore Francesco Cossiga - Ritenuta legittimazione attiva dell'ex Presidente della Repubblica per la lesione del principio di irresponsabilita' del Presidente della Repubblica e del relativo potere di esternazione in relazione ad opinioni espresse durante l'esercizio dell'incarico presidenziale. - Corte di cassazione, sentenze del 27 giugno 2000, nn. 8733 e 8734. - Costituzione, artt. 87 e 90.(GU n.1 del 8-1-2003 )
Ricorso per conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato per l'on. sen. prof. avv. Francesco Cossiga, rappresentato e difeso, in virtu' di delega in calce al presente atto, dagli avv.ti prof. Franco Coppi, prof. Agostino Gambino e prof. Giuseppe Morbidelli ed elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. prof. Agostino Gambino in Roma, via dei Tre Orologi 14/a; Contro la III sezione civile della Corte suprema di cassazione per l'annullamento delle sentenze nn. 8733 e 8734 del 27 giugno 2000. 1. - Le sentenze della Corte suprema di cassazione. Con le sentenze di seguito indicate (Cass., III sez. civ., 27 giugno 2000, n. 8733, Flamigni c. Cossiga e Cass., III sez. civ., 27 giugno 2000, n. 8734, Onorato c. Cossiga), la suprema Corte di Cassazione ha disposto l'annullamento di due decisioni della Corte d'appello civile di Roma rese, rispettivamente, in data 21 aprile 1997 e 16 marzo 1998 ed emesse in riforma di due pronunce del Tribunale civile di Roma con le quali l'ex Presidente della Repubblica, on. sen. prof. avv. Francesco Cossiga, era stato condannato al risarcimento dei pretesi danni morali per le espressioni dal medesimo pronunciate, nel corso del suo mandato, nei confronti degli onorevoli Sergio Flamigni e Pierluigi Onorato e da questi ritenute lesive del loro onore e della loro dignita'. I giudici di primo grado erano giunti al convincimento che "fuori dell'esercizio delle sue funzioni il Presidente della Repubblica risponde come qualsiasi cittadino", perche' la sua irresponsabilita' e' "strettamente correlata alla responsabilita' dei ministri" che controfirmano gli atti presidenziali. Ad avviso del Tribunale di Roma, questa interpretazione si ricaverebbe tra l'altro da quanto disposto dalla legge 5 giugno 1989, n. 219 che, all'art. 8, prevede espressamente il caso dell'incompetenza del Comitato parlamentare per la messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica in caso di "reato diverso da quelli previsti dall'art. 90 della Costituzione" e, all'art. 9, contempla la conseguente "trasmissione degli atti all'autorita' giudiziaria ordinaria". Dall'assenza della controfirma su un atto presidenziale si potrebbe dunque "trarre un ragionevole sintomo o indizio della non riferibilita' dell'atto medesimo ad una specifica finzione presidenziale". Inoltre l'irresponsabilita' del Presidente della Repubblica costituirebbe il "logico corollario della particolare posizione che la Costituzione assegna al capo dello Stato, posizione il piu' possibile avulsa da qualsiasi coinvolgimento del medesimo in attivita' di indirizzo politico ed amministrativo" ed "eminentemente rappresentativa e quale custode e garante della Costituzione medesima, al di fuori delle funzioni di governo". Essa, quindi, rappresenterebbe un "elemento rafforzativo della sua posizione (oltre che super partes) priva di "potere" di indirizzo politico" (cosi', Tribunale civile di Roma, I Sez. Civ., 22 giugno 1993, Onorato c. Cossiga). Alle condanne pronunciate dal Tribunale civile di Roma si era opposta, invece, la Corte d'appello civile di Roma che aveva integralmente riformato le sentenze dei giudici primo grado. Per la Corte d'appello infatti "il carattere politico della funzione esercitata" dai titolari degli organi monocratici dello Stato apparato non consente "di distinguere il munus dalla persona fisica" giacche' questa "si immedesima in esso si' che non e' dato di distinguere la volonta' dell'uno che non sia la volonta' dell'altro". Il Capo dello Stato, ha proseguito il giudice d'appello, puo' esprimere "proprie valutazioni ed orientamenti in quanto, a suo insindacabile giudizio, ritenuti indispensabili per lo svolgimento della funzione di monito e di persuasione oltre che di garante dei valori costituzionali di cui e' senz'altro uno dei maggiori esponenti quale viva vox constitutionis" senza, per questo, incorrere in responsabilita'. La suprema Corte di cassazione infine, annullando con rinvio ad altra Sezione della medesima Corte d'appello, e' intervenuta per la prima volta in materia di immunita' presidenziali ex art. 90 Cost., precisandone natura ed estensione. Per fare cio' ha operato una complessa ricostruzione del ruolo e delle responsabilita' del Presidente della Repubblica, optando per una lettura ampia dei poteri presidenziali nel senso di considerare il Capo dello Stato titolare non solo delle funzioni espressamente elencate nell'art. 87 della Costituzione ma, soprattutto, valorizzandone il ruolo di rappresentante dell'unita' nazionale. Ed infatti essa ha considerato - in base agli artt. 89 e 90 Cost. - atti compiuti nell'esercizio delle funzioni non solo quelli ufficiali e controfirmati, ma anche "ogni atto, dichiarazione o comportamento che trovi la sua causa nella funzione o in un fine ad essa inerente". In quest'ottica e' stato affrontato il problema del c.d. "potere" di esternazione che la suprema Corte ha ricondotto alla previsione del primo comma dell'art. 87 della Costituzione, in base al quale il Presidente della Repubblica rappresenta l'unita' nazionale. In tale veste infatti ben potrebbe il Capo dello Stato rivolgersi direttamente al Paese esplicando la sua naturale funzione di stimolo e di garanzia costituzionale. Secondo la Cassazione tale punto "merita di essere condiviso in nome del diritto vivente" e alla luce della "prassi" instauratasi. Ma nonostante questa lettura ampia dei poteri presidenziali, anche attraverso il richiamo al "diritto vivente" e alla "prassi" per concretizzare un esercizio immune delle funzioni, rimane comunque necessario - sottolinea la Cassazione - che l'attivita' presidenziale "rientri tra quelle elencate" non potendosi parlare di una generale (e generica) funzione presidenziale, al di fiori delle suddette ipotesi. In proposito, la Cassazione, richiamandosi alla sentenza della Corte cost. n. 10 del 17 gennaio 2000, in tema di insindacabilita' ex art. 68 Cost., per cui: "Nel linguaggio e nel sistema della Costituzione, le "funzioni" riferite agli organi non indicano generiche finalita', ma riguardano ambiti e modi genericamente definiti", ha sostenuto che la ricostruzione ampia delle funzioni presidenziali trova percio' un limite nel dover comunque ogni atto o comportamento essere connesso con una delle esplicite funzioni elencate. In altri termini, "in tanto e' ammissibile un potere (o una facolta) di esternazione del Presidente della Repubblica, in quanto esso sia strumentalmente diretto alla realizzazione di un compito presidenziale, pur nell'ampia accezione suddetta". Per la Cassazione dunque l'irresponsabilita' del Capo dello Stato ex art. 90 Cost. deve risultare strettamente connessa all'esercizio di concrete funzioni e quindi ratione materiae e non ratione personae. Sotto questo profilo essa ha infatti affermato che: "il principio di irresponsabilita' del capo dello Stato e' un istituto tipico delle forme di governo parlamentare", essendo "il logico corollario della particolare posizione" del Presidente in tale forma di governo, "avulsa da qualsiasi coinvolgimento in attivita' di indirizzo politico". Conseguentemente, "vi e' (...) una profonda differenza tra lo Stato monarchico (art. 4 Statuto Albertino), dove l'irresponsabilita' del Monarca era assoluta (la persona del re era "sacra ed inviolabile") e, quindi, ratione personae e lo Stato repubblicano, dove l'irresponsabilita' del Presidente della Repubblica e' strettamente connessa all'esercizio delle funzioni presidenziali, ed e', quindi ratione materiae". Di conseguenza, "gli atti compiuti fuori da detto esercizio non vanno esenti da responsabilita'" perche' l'irresponsabilita' presidenziale va collegata alla sua posizione nel sistema che e', e rimane, quella di garante della Costituzione, privo, quindi, di poteri di politica attiva. Dette sentenze, dalla motivazione pressoche' identica, hanno pertanto statuito in punto di diritto quanto segue. In primo luogo, in base all'art. 90 Cost., l'irresponsabilita' giuridica del Capo dello Stato in sede civile, penale, amministrativa, deve considerarsi limitata unicamente agli "atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni" (ovvero quelli controfirmati ai sensi dell'art. 89 Costituzione e quelli, piu' o meno formali, che trovino la loro causa o in un fine inerente alla funzione ovvero nella funzione stessa, come ad esempio ex art. 87 Cost. nella rappresentanza dell'unita' nazionale, che fonda la possibilita', in capo al Presidente, di parlare in nome del Paese) e non comprende quelle c.d. "extrafunzionali". In secondo luogo, tra le funzioni del Presidente della Repubblica coperte dall'immunita', puo' annoverarsi anche la c.d. "autodifesa" dell'organo costituzionale, allorche' l'ordinamento non assegni detta difesa alle funzioni di altri organi ovvero nei casi in cui oggettive circostanze concrete impongano l'immediatezza dell'autodifesa. In terzo luogo, spetta all'autorita' giudiziaria accertare se l'atto compiuto sia funzionale o extrafunzionale "salva la facolta' per il Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione per menomazione" di fronte alla Corte costituzionale. In quarto luogo, il Presidente della Repubblica non e' certamente vincolato ad esprimersi solo attraverso messaggi formali, ma comunque "il suo c.d. "potere di esternazione , che non e' equiparabile alla libera manifestazione del pensiero di cui all'art. 21 Cost., non integra di per se' una funzione, per cui e' necessario che l'esternazione sia strumentale o accessoria ad una funzione presidenziale, perche' possa beneficiare dell'immunita'". Infine, le ingiurie e le diffamazioni compiute dal Capo dello Stato "beneficiano dell'immunita' solo se commesse "a causa della funzione, e cioe' come estrinsecazione modale della stessa, non essendo sufficiente la mera contestualita' cronologica, che da' luogo solo ad atto arbitrario concomitante". A cio' si collega la considerazione per cui il c.d. "legittimo esercizio della critica politica, riconosciuto ad ogni cittadino, pur potendo sopportare toni aspri e di disapprovazione, non deve comunque trasmodare nell'attacco personale e nella pura contumelia, con conseguente lesione del diritto altrui all'integrita' morale". 2. - L'ammissibilita' del ricorso: la legittimazione dell'ex Presidente della Repubblica, senatore Francesco Cossiga, a sollevare conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. In primo luogo, questa difesa ritiene di dovere svolgere alcune considerazioni preliminari sulla ammissibilita' del ricorso che con il presente atto viene proposto sotto il duplice profilo soggettivo ed oggettivo. Sotto il profilo soggettivo, ovvero circa la legittimazione dell'ex Presidente della Repubblica, senatore Francesco Cossiga, a sollevare conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato, e' ben noto che la identificazione dei "poteri dello Stato" (art. 134 Cost.) e degli "organi competenti a dichiarare definitivamente la volonta' del potere cui appartengono" (art. 37, legge 87 del 1953) e' a tutt'oggi lontana dall'aver trovato una sua definitiva sistemazione. Il sistema costituzionale si configura infatti in modo estremamente articolato con la previsione di una pluralita' di centri di potere che si affiancano a quelli tradizionali ciascuno dei quali esercita funzioni proprie direttamente assegnate dalla Costituzione e tali da incidere sull'organizzazione e sul funzionamento della forma di governo e della forma di Stato. La nozione di potere si e' allargata fino ad abbracciare tutti gli organi ai quali sia riconosciuta e garantita una quota di attribuzioni costituzionalmente definita e quindi le parti del conflitto tra poteri non risultano nominativamente individuabili; il che si colloca - come autorevolmente affermato - nel quadro di un sempre piu' accentuato pluralismo istituzionale (C. Mezzanotte, Le nozioni di potere e di conflitto nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Giur. cost. 1979, I, 110) a fronte del quale la concreta individuazione dei poteri confliggenti non puo' che avvenire caso per caso, con riferimento alla struttura del potere e alla dinamica delle relazioni intercorrenti tra gli organi che concorrono a costituirlo. Emblematica in tal senso e' la recente giurisprudenza costituzionale che ha previsto, sia pur negandola, l'ipotesi del coinvolgimento di singoli parlamentari nel conflitto tra poteri presentatasi nel corso del 1998 varie volte (conflitti - come e' noto - sollevati dal deputato Vittorio Sgarbi contro organi della magistratura giudicante e requirente. La negazione dell'accesso al giudizio della Corte viene riferita all'ipotesi per la quale il ricorrente lamenti una lesione della prerogativa della irresponsabilita' per le opinioni espresse sulla base dell'art. 68 Cost. che secondo la Corte viceversa puo' venire fatta valere dalla Camera di appartenenza del parlamentare trattandosi di una potesta' che fa capo all'organo collegiale complessivamente inteso, ma non al singolo, per il quale restano esperibili tutti i rimedi endoprocessuali riconosciuti dall'ordinamento). Nei casi di specie la Corte costituzionale ha negato il conflitto tra poteri sull'assunto che esso risulti circoscritto ai rapporti tra prerogative parlamentari e autorita' giudiziaria, peraltro "restando impregiudicata la questione se in altre situazioni siano configurabili attribuzioni individuali di potere costituzionale, per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri dello Stato" (ord. 177 del 1998). Nell'ordinanza n. 101 del 2000 (caso Previti) inoltre l'inammissibilita' non e' stata dichiarata per carenza del requisito soggettivo. Secondo la Corte infatti per tutelarsi in ordine alla situazione lamentata (ovvero la menomazione lamentata della propria posizione costituzionale da parte di alcuni provvedimenti dell'autorita' giudiziaria) il ricorrente impropriamente ha usato lo strumento del conflitto di attribuzioni nei confronti dell'autorita' giudiziaria; il che costituisce una conferma di quanto gia' sostenuto nell'ordinanza 177 del 1998 nella quale appunto si ipotizzava la configurabilita' di attribuzioni individuali di potere costituzionale, per la cui tutela il singolo parlamentare sia legittimato a ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri dello Stato. Da tale giurisprudenza emerge la centralita' del c.d. aspetto "oggettivo" del conflitto, cioe' il carattere costituzionale delle attribuzioni in contestazione, cosicche' "il profilo soggettivo e' privo di autonomia e va risolto alla luce del profilo oggettivo", con la conseguenza - se ne e' dedotto - che laddove sia lesa una attribuzione del parlamentare questo e' comunque legittimato a ricorrere allo strumento del conflitto tra poteri (vedi G. Brunelli, "Caso Previti", atto I: porte aperte alla Camera (e al Senato), porta chiusa (ma non del tutto) al deputato, in Giur. cost., 2000, 963 ss.). In sintesi, come sostenuto in dottrina (R. Bin L'ultima fortezza. Teoria della costituzione e conflitti di attribuzioni, Milano, 1996, spec. 115), tutti i meccanismi decisionali e i loro protagonisti purche' trovino in disposizioni costituzionali il loro fondamento, sono potenzialmente coperti dalla garanzia del conflitto: si tratta di un criterio elastico che non consente di identificare e selezionare a priori i possibili soggetti della controversia, ma che spinge piuttosto a verificare nel concreto delle situazioni se esistano i presupposti per un intervento della Corte volto a ristabilire l'equilibrio tra i poteri. Nella specie, e' vero che l'on., sen. prof. avv. Francesco Cossiga, non riveste piu' la carica di Presidente; ma proprio alla luce della piu' recente giurisprudenza indirizzata nel senso di una progressiva estensione dei profili soggettivi del conflitto attraverso la verificabilita' caso, per caso della legittimazione attiva (e passiva), si ritiene che si debba tener conto a tal fine, cioe' ai fini della dichiarazione di ammissibilita' del presente ricorso, la posizione giuridica dell'ex Presidente della Repubblica. Si tratta di una questione assai importante e che merita attenta analisi. Siamo infatti convinti che lo status derivante dall'essere stato investito di una carica pubblica - ovvero della suprema carica prevista dal nostro ordinamento, cioe' quella di Capo dello Stato - e' fattore dirimente ai fini della ammissibilita' del conflitto in esame. La questione merita tanto piu' attenzione se consideriamo che il senatore Francesco Cossiga e' stato citato in giudizio mentre ricopriva la carica di Presidente e che oggi, pur ancora pendente il giudizio civile a seguito dell'annullamento con rimessione disposto dalla suprema Corte di cassazione, ma avendo terminato il suo mandato, non potrebbe piu' - secondo una rigida e formalistica interpretazione "di potere dello Stato" - sollevare il conflitto stesso. In via generale, l'ordinamento costituzionale italiano, cosi' come quelli di altri Paesi stranieri, riconduce spesso in capo alle persone che hanno occupato determinati uffici pubblici una posizione giuridica del tutto singolare. Si pensi - a puro titolo, esemplificativo - alla Costituzione francese (art. 56) che prevede che gli ex Presidenti della Repubblica sono membri di diritto del Consiglio costituzionale, o alla Costituzione irlandese (art. 12, comma 4) che consente agli ex Presidenti della Repubblica di candidarsi alla carica di Presidente su loro stessa designazione, con cio' derogando al complesso e articolato procedimento previsto dalla stessa norma per tutti coloro che aspirano ad essere eletti ma che non rivestono detto status. Quanto all'Italia, e' noto come la qualita' di "ex" acquista rilevanza nel dettato costituzionale in tre differenti fattispecie (v. M. Ainis, L'ex Presidente della Repubblica, in La figura ed il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, Milano, 1985, 263 ss.): in primo luogo, la circostanza di avere mantenuto in passato una certa posizione nell'organizzazione costituzionale dello Stato inibisce, per il futuro, a ricoprire altre cariche pubbliche o a fruire di diritti riconosciuti al resto dei cittadini: e' questo il caso regolato dalla XIII disp. fin., in base alla quale "i membri e i discendenti di Casa Savoia non sono elettori e non possono ricoprire uffici pubblici ne' cariche elettive", oltre a disporre l'avocazione allo Stato dei beni appartenenti alla famiglia reale situati nel territorio nazionale; ma si pensi anche a tutte le altre ipotesi in cui la qualita' di ex rappresenta una condizione ostativa alla riassunzione dell'ufficio pubblico gia' precedentemente occupato [ad esempio per i giudici costituzionali, l'art. 135, comma 3, Cost.); in secondo luogo ce tutta una serie di ipotesi in relazione alle quali lo status di ex detentore di taluni uffici o costituisce requisito per l'accesso ad altre cariche pubbliche, oppure legittima alla partecipazione nell'esercizio di attivita' costituzionalmente rilevanti. Si pensi, quanto alla prima fattispecie, all'Autorita' garante della concorrenza e del mercato o al Garante dell'editoria (rispettivamente art. 10, comma 2, legge n. 287 del 1990: "il Presidente e' scelto tra le persone di notoria indipendenza che abbiano ricoperto incarichi istituzionali di grande responsabilita' e rilievo. I quattro membri sono scelti tra persone di notoria indipendenza da individuarsi tra i magistrati del Consiglio di Stato, della Corte dei conti e della Corte di cassazione ...)"; art. 6, comma 2, legge 6 agosto 1990, n. 223: "il Garante e' nominato con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta formulata dai Presidenti del Senato e della Camera dei deputati, d'intesa tra loro, tra coloro che abbiano ricoperto la carica di giudice della Corte costituzionale ovvero che ricoprano o abbiano ricoperto la carica del Presidente della Corte di cassazione o equiparati (...)"]. Quanto alla seconda, si pensi invece al procedimento di formazione del Governo nell'ambito del quale regole consuetudinarie o perlomeno convenzionali, fanno si' che il Capo dello Stato abbia piu' volte proceduto alle consultazioni degli ex Presidenti del Consiglio, delle Camere, oltre che degli stessi ex Presidenti della Repubblica". Infine, vi sono altre ipotesi rispetto alle quali l'avere ricoperto una certa carica nell'organizzazione costituzionale dello Stato conferisce il diritto di accedere ad un'altra carica, solitamente legata alla prima da un nesso di omogeneita'. Esempi sono costituiti dalla III disp. trans. della Costituzione che contemplava il diritto di entrare a far parte del Primo Senato della Repubblica ai deputati dell'Assemblea costituente il cui curriculum vitae comprendesse la presidenza del Consiglio dei Ministri o di una Assemblea legislativa; oppure l'aver fatto parte del disciolto Senato o l'aver avuto almeno tre elezioni, compresa quella all'Assemblea costituente; o l'essere stati dichiarati decaduti nella seduta della Camera dei deputati del 9 novembre 1926; o ancora l'essere stati condannati dal tribunale speciale fascista per la difesa dello Stato ad un periodo di reclusione non inferiore a cinque anni; infine l'avere partecipato alla Consulta nazionale. Rientra in questa categoria anche - ed e' intuitivo - l'art. 59, comma 1 della Costituzione ai sensi del quale: "E' senatore di diritto e a vita, salvo rinunzia, chi e' stato Presidente della Repubblica". Come in proposito si e' affermato (M. Ainis, op. cit., 268), proprio l'inserzione dell'art. 59 nel corpo della legge fondamentale dello Stato testimonia a chiare lettere che alla scadenza del mandato il Presidente della Repubblica conserva una posizione costituzionalmente rilevante la cui messa a fuoco non e' priva d'interesse. Al tempo stesso, la norma in questione gioca un ruolo decisivo per ricostruirne lo status giuridico: in questo senso infatti la ratio dell'articolo e' stata quella di inserire soggetti forniti di un patrimonio di esperienza da utilizzare nella gestione costituzionale dello Stato e quindi al tempo stesso capaci di garantire la continuita' dell'ordinamento e la salvaguardia dei suoi valori fondamentali. Accordando l'ingresso al Senato all'ex Capo dello Stato i Costituenti non intesero conferirgli un ruolo di soggetto politico attivo, come parrebbe desumersi dalle caratteristiche del consesso senatoriale: l'approvazione dell'art. 59 fu piuttosto il mezzo attraverso cui venne sanzionata la qualita' di "consigliere" nelle ... questioni istituzionali di chi e' stato Presidente della Repubblica; si tratto' di una soluzione di compromesso rispetto alla primitiva formulazione del testo costituzionale redatto dalla Commissione dei settantacinque nella quale (art. 56) il Senato veniva delineato come una Camera dei meliores, composta da coloro che "per cariche ed uffici ricoperti, e per la loro posizione e l'attivita' che svolgono, danno fondata presunzione di capacita' politica, amministrativa, tecnica" della quale avrebbero potuto farne parte soltanto una limitata lista di eleggibili, tra cui appunto gli ex Presidenti della Repubblica. Accanto a cio' vi sono tutta una serie di norme convenzionali, di regole di correttezza o piu' semplicemente di canoni di opportunita' politica o di costume il cui insieme da' vita ad un mosaico del tutto peculiare: si puo' fare riferimento ad esempio al rispetto del c.d. "segreto d'ufficio" (G.U. Rescigno, Art. 87, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1978, 195) quale limite giuridico che comprime la liberta' di manifestazione, del pensiero dell'ex Presidente; nel senso cioe' che il segreto d'ufficio resiste anche dopo la scadenza della carica. In proposito e' da dire che sui fatti di cui e' venuto a conoscenza nel corso del mandato e in ragione della sua posizione, l'ex Capo dello Stato e' tenuto a mantenere un assoluto riserbo, tanto che ben potrebbe ad esempio rifiutarsi di testimoniare dinanzi ad una Commissione parlamentare o all'autorita' giudiziaria ordinaria. Dagli elementi ora esposti, si ricava che il Capo dello Stato, una volta cessato dalle funzioni, acquisisce comunque uno status del tutto peculiare, che i Costituenti hanno ritenuto opportuno disciplinare e che non puo' non ripercuotersi sulla questione ora in esame. In sintesi, questa difesa ritiene che l'avere rivestito la carica di Presidente della Repubblica, abbia di per se' una sorta di "effetto di irradiamento" sulla posizione del soggetto cessato dalla carica. E sarebbe quindi contraddittorio che l'odierno ricorrente, pur senatore di diritto e a vita, non avesse piu', in quanto terminato il mandato di Presidente, alcuna legittimazione a sollevare un conflitto tra poteri, trattandosi di fatti che riguardavano l'ufficio presidenziale durante l'esercizio del suo mandato e per i quali non vi e' stato ancora alcun giudicato. Dette considerazioni inducono a ritenere piu' che ragionevole e dunque confidare che l'ecc.ma Corte costituzionale dichiari ammissibile il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato che col presente viene sollevato. 3. - Il "tono" costituzionale del conflitto. Queste conclusioni, motivate sotto il profilo soggettivo, acquistano ancora maggiore pregnanza se passiamo al profilo "oggettivo" del conflitto. In proposito non sussiste dubbio alcuno che il presente conflitto tra poteri abbia natura costituzionale, ovvero - come si usa dire - il conflitto abbia un "tono" costituzionale. E' noto infatti come il conflitto tra poteri dello Stato sia una "controversia costituzionale riguardante l'interpretazione o l'applicazione delle norme di competenza; in termini piu' precisi, come una controversia intorno alla appartenenza di una potesta', che interessa la sfera costituzionale e che ha come oggetto l'interpretazione o l'applicazione di norme costituzionali di competenza. Il conflitto costituzionale trae origine da un'attivita' viziata (o almeno ritenuta tale) per una violazione di limiti di competenza segnati da una norma costituzionale: in genere, dall'attivita' di un organo costituzionale il quale, violando i limiti posti alla sua sfera di attribuzioni, abbia invaso o menomato la sfera di potesta' propria di altri organi" (cosi' A. Pensovecchio Li Bassi, voce Conflitti costituzionali, in Enc. dir., VIII, 1961, 1002). Ed infatti il conflitto ha a che vedere con il rispetto del disegno tracciato dal Costituente e non e' limitato al caso di vindicatio potestatis ma si estende a comprendere ogni ipotesi in cui dall'illegittimo esercizio di un potere altrui consegua la menomazione di una sfera di attribuzioni costituzionalmente assegnata all'altro soggetto. Nel caso di specie il conflitto nasce da eccedenze del potere giudiziario e, piu' precisamente, dalla ascrizione di responsabilita', nei confronti del senatore Francesco Cossiga per atti e comportamenti, nel caso di specie, il c.d. potere di esternazione, che sono ricollegabili alla funzione presidenziale. Si e' infatti in presenza di una serie di atti dell'autorita' giudiziaria invasivi e menomativi delle prerogative costituzionali dell'ufficio presidenziale, piu' precisamente del regime delle immunita' di cui gode il Capo dello Stato ai sensi dell'art. 90 della Costituzione. Detto regime trova giustificazione costituzionale nella necessita' di proteggere da eventuali abusi l'esercizio delle funzioni attribuite a determinati soggetti. Cio' significa - come e' stato ritenuto in dottrina - che gia' in sede di definizione di tali prerogative, il Costituente e il legislatore costituzionale si erano posti il problema del bilanciamento fra opposte esigenze, circoscrivendo e delimitando in nome di quei valori l'esercizio della funzione giurisdizionale. Nel nostro ordinamento dunque, nel quale la ripartizione costituzionale delle competenze tra gli organi dello Stato e' garantita attraverso lo strumento del conflitto di attribuzione, deve essere la Corte costituzionale, e nessun altro organo, a risolvere le controversie che possono insorgere tra gli organi giudiziari e gli organi titolari delle immunita' a fronte di un eventuale uso distorto delle attribuzioni a ciascuno assegnate. La controversia riguardera' dunque la delimitazione costituzionale delle attribuzioni del potere giudiziario in riferimento alle norme sulle immunita'. Certo e' che fa molto dubitare l'asserita compatibilita' costituzionale di una verifica effettiva di cio' che sia esercizio delle funzioni presidenziali e di cio' che non lo sia lasciata alla giurisdizione ordinaria. Del resto, anche a voler sostenere - e certo sarebbe una tesi errata - l'estraneita' del contenuto delle esternazioni del senatore Francesco Cossiga rispetto all'esercizio delle funzioni presidenziali, il tema delle immunita' presidenziali e' questione delicatissima e ad altissimo tasso di "politicita'", tanto che si ritiene a dir poco inopportuno che l'autorita' giudiziaria possa spingersi a sindacare le funzioni presidenziali costituzionalmente stabilite, qualificando come estranee ad esse esternazioni magari soltanto non gradite. La Corte di cassazione, del resto, pur ritenendo di rimettere all'autorita' giudiziaria il compito di accertare se l'atto compiuto sia funzionale o extra funzionale, fa "salva la facolta' per il Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto di attribuzione per menomazione" di fronte alla Corte costituzionale". In questo modo di procedere risulta pertanto palese che la stessa suprema Corte si e' posta il problema della competenza alla identificazione delle materie oggetto di riserva di immunita' e pur risolvendo la questione in modo contraddittorio - considerato appunto che attribuisce detto potere alla autorita' giudiziaria ma ammette nel contempo la sollevabilita' del conflitto per menomazione da parte del Presidente - pone un punto fermo: e cioe' l'ex Presidente della Repubblica, senatore Francesco Cossiga, e' legittimato a sollevare il conflitto di attribuzione tra i poteri dello Stato. L'interesse al ricorso nasce dal fatto che la determinazione concreta del contenuto delle immunita' presidenziali ex art. 90 Cost., in particolare per quanto qui interessa, e' stato intaccato dalla sentenza della suprema Corte di cassazione, rendendo inevitabile il conflitto - che peraltro, giova ribadirlo, sembra auspicare la stessa Corte di cassazione - nella misura in cui viene legittimata l'autorita' giudiziaria ordinaria ad intervenire in un campo, quello appunto delle immunita' costituzionali, che le e' del tutto estraneo. Vero e' che la identificazione delle materie oggetto di riserva di immunita' e' competenza riservata alla Corte costituzionale, a norma dell'art. 37 della legge 87 del 1953 per cui il conflitto tra poteri sorge per la delimitazione della sfera di attribuzioni determinata per i vari poteri da norme costituzionali, mentre l'art. 38 stabilisce poi che la Corte risolve il conflitto dichiarando il potere al quale spettano le attribuzioni contestate e, ove sia stato emanato un atto viziato da incompetenza, lo annulla. Il punto centrale e' l'assoluta incompatibilita' e contraddizione tra l'interpretazione accolta della figura presidenziale come cio' che vi e' di permanente, di superiore, di indiscusso, di comune a tutti nella vita nazionale, come interprete degli interessi superiori della nazione e la successiva asserzione di un controllo giurisdizionale ordinario sulla natura e sui limiti della irresponsabilita' presidenziale, a tutela dei diritti dei terzi coinvolti. Per concludere su questo punto, questa difesa auspica che il conflitto ora proposto venga dichiarato ammissibile; il che consentirebbe alla ecc.ma Corte costituzionale, nella seconda fase del giudizio, di delimitare le attribuzioni in contestazione, tracciando in concreto il confine dei poteri dell'autorita' giudiziaria nei confronti delle immunita' presidenziali ex art. 90 Cost., cosi' come ha fatto in relazione all'art. 68 della Costituzione. Ma vi e' un'altra ragione - questa volta di opportunita' - che suggerisce che la Corte si pronunci sull'ammissibilita' del conflitto. Dichiarare ammissibile il conflitto consentirebbe a privare di fondamento quelle posizioni, peraltro isolate della dottrina, che hanno stigmatizzato come "sconcertanti" alcune affermazioni contenute nelle decisioni della prima sezione civileĀ della Corte di appello di Roma che, in riforma delle impugnate sentenze del Tribunale civile di Roma, hanno dichiarato improponibile le domande di risarcimento dei danni avanzate nei confronti del senatore Cossiga. Come puo' desumersi dalla lettura degli atti, cui si rinvia, la Corte di appello di Roma, nella sua articolata motivazione si e' richiamata - tra le varie e articolate argomentazioni - alla nota tesi di Carlo Esposito, secondo la quale anche al Presidente della Repubblica deve riconoscersi la possibilita' di fluire della liberta' di manifestazione del pensiero che la Costituzione riconosce a tutti. Avverso questa argomentazione si e' testualmente sostenuto (A. Pizzorusso, in Giur. cost., 1998, 2853 ss., spec. 2857) che "se, nel caso del Presidente della Repubblica, cio' dovesse comportare l'eliminazione di qualunque limite a tale liberta', perche' mai lo stesso ragionamento non dovrebbe valere anche per qualunque altro soggetto ed in particolare per qualunque altro titolare di un munus pubblico anche diverso da quello del Presidente che comporti una qualche limitazione di tale liberta'? (...). In realta', l'argomento secondo cui costituirebbe una funzione propria del Presidente, se non quella di commettere reati, quanto meno quella di stabilire "a suo insindacabile giudizio" in quali casi il commetterli sia indispensabile "per lo svolgimento della funzione di monito e di persuasione oltreche' di garante dei valori costituzionali di cui e' senz'altro uno dei maggiori esponenti quale viva vox constitutionis" e' di rara speciosita', se si osserva che esso tende a stabilire un parallelo con l'ipotesi dell'immunita' parlamentare ex art. 68, comma l, della cui applicabilita', secondo la discussa giurisprudenza sopra riferita, sarebbe comunque giudice esclusivo la camera di appartenenza dell'autore di un fatto conforme ad una fattispecie penale e non l'autore stesso. Non si puo' non rammentare infatti che, nel caso del parlamentare, non e' lui stesso a decidere, bensi' la camera, della quale fanno parte molti altri soggetti (e qualcuno potrebbe pensare che lui abbia un qualche dovere, almeno morale, di astenersi) e soprattutto che la camera non dispone di un potere arbitrario, ma ad essa spetta soltanto di valutare se la persecuzione del suo membro non sia determinata da intento persecutorio diretto a nuocere all'esercizio della funzione parlamentare (e non soltanto alla persona fisica). Si aggiunga che il giudizio della camera non e' "insindacabile", ma puo' costituire oggetto, quanto meno, di un ricorso per conflitto di attribuzioni (il che dimostra che esso non costituisce una valutazione puramente fondata sull'arbitrio, ma un'applicazione della legge). Nel caso in esame, invece, secondo la Corte d'appello, la decisione circa l'applicabilita' dell'immunita' spetterebbe insindacabilmente allo stesso autore del fatto per cui si dovrebbe procedere". Il tenore di queste argomentazioni, oltre a non cogliere nel segno, devono essere respinte. A parte infatti una considerazione di carattere generale circa il diritto della liberta' di manifestazione del pensiero a tutti riconosciuto e dunque anche al Presidente della Repubblica, peraltro gia' fortemente limitato anche in misura maggiore rispetto ad altri titolari di organi, vero che - per usare le parole di G. Guarino (Il Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 903 ss.) - "Noi dobbiamo partire dalla constatazione che il principio generale del nostro ordinamento non e' quello della limitazione dei diritti privati in funzione delle cariche pubbliche, ma e' al contrario quello che il cittadino non deve subire alcuna limitazione dei suoi diritti per il solo fatto di ricevere una nomina dallo Stato. Il diritto politico di accedere ai pubblici uffici e alla cariche elettive (art. 51 Cost.) non e' alternativo con tutti gli altri, ma viene anzi a conchiudere la serie dei diritti pubblici dei cittadini". Inoltre - ed e' cio' che qui interessa - consentendo all'ex Presidente della Repubblica di sollevare il conflitto, ed essendo quindi lo stesso senatore Francesco Cossiga a volere che la Corte costituzionale intervenga in materia, verrebbe meno il paventato rischio - peraltro tutto da dimostrare - per il quale la decisione circa l'applicabilita' dell'immunita' spetterebbe insindacabilmente allo stesso autore del fatto per cui si dovrebbe procedere. 4. - Il problema della responsabilita' giuridica del Capo dello Stato. Il tema della responsabilita' giuridica del Presidente della Repubblica - da distinguere rispetto alla c.d. responsabilita' di carattere politico che non interessa in questa sede - e' stato da sempre dibattuto dalla dottrina costituzionalistica, divisa sull'interpretazione di tale prerogativa costituzionale, in ragione delle piu' diverse ricostruzioni del complessivo ruolo costituzionale da riconoscere al Capo dello Stato. Sul tema - ci preme ricordarlo - regna la piu' assoluta incertezza interpretativa, non solo della giurisprudenza che - come si e' visto - ha variamente deciso in ordine ai problemi riguardanti la responsabilita' giuridica del Capo dello Stato (per fatti commessi tanto al di fuori dell'esercizio delle proprie funzioni, quanto prima di assumere la carica di Presidente della Repubblica), ma ancor piu' della dottrina, a dimostrazione che la materia ha ricevuto una configurazione a livello costituzionale talmente ambigua che e' assai arduo qualunque tentativo di ricostruzione di essa in chiave unitaria. Innanzitutto il tema della responsabilita' deve essere analizzato in prospettiva diacronica, poiche' l'evoluzione storica subita dal ruolo del Capo dello Stato ha influenzato anche la concreta estensione delle sue prerogative. In questa prospettiva, al principio monarchico, cui corrisponderebbe l'idea di un Capo dello Stato quale organo sovrano, collocato in posizione preminente rispetto agli altri organi costituzionali, si sarebbe sostituito il principio repubblicano, che contempla l'idea di un Capo dello Stato "organo tra gli organi", soggetto al pari degli altri alla Costituzione (cosi' F. Pergolesi, Diritto costituzionale Padova, 1963, I, 398). Di conseguenza, mentre nelle esperienze monarchiche "la persona del Re e' sacra e inviolabile" - come espressamente contemplato, ad esempio, dall'art. 4 dello Statuto Albertino - ovvero totalmente immune dalla legge penale e quindi assolutamente irresponsabile (cfr. E. Crosa, La monarchia nel diritto pubblico italiano, Torino, 1922, 22, che concepisce l'immunita' del capo dello Stato come un attributo che consegue alla "regalita' nel complesso sociale storico ed etico che rappresenta"), detta irresponsabilita' c.d. ratione personae, tipica appunto delle monarchie, non sarebbe piu' concepibile negli ordinamenti repubblicani, nei quali e' costituzionalmente sancita l'origine popolare della sovranita' [ad es. A. Pace, Le forme extrapenali di responsabilita' del Capo dello Stato, in Il Presidente della Repubblica (a cura di M. Luciani e M. Volpi Bologna, 1997, 371 ss]. Si tratterebbe dunque di una irresponsabilita' oggettivata nella Costituzione che ne definisce e circoscrive il ruolo e non personificata nella sacralita' dell'istituzione regia (C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, Padova, 1975, I, 540-541). In sintesi, negli Stati monarchici (come ricorda C. Cereti, Diritto costituzionale, Torino, 1963, 392) il "carattere vitalizio dell'ufficio regio esigerebbe, necessariamente, la sua piu' assoluta irresponsabilita' (non nel senso ch'egli si trovi al di sopra delle leggi, ma nel significato ch'egli non possa essere oggetto di alcuna sanzione"). In questo senso lo Statuto Albertino affermava, appunto, la sacralita' e inviolabilita' del Sovrano: e se con il primo termine si faceva riferimento a specifiche regole di correttezza, che dovevano assicurare al Capo dello Stato un particolare prestigio formale, con il secondo non solo si indicava la speciale tutela penale che ricopriva la persona del Re, ma anche, e specialmente, si voleva intendere la sua irresponsabilita' (sotto il profilo penale, l'incapacita' processuale del Re era assoluta; nel campo della responsabilita' civile, in particolare in Italia, si era ammesso il danneggiato a rivolgersi all'Amministrazione della Casa Reale per il risarcimento del danno subito; sotto il profilo della responsabilita' politica il principio per cui "il Re non puo' mai far male", ossia "the King can do no wrong", era stato concretamente realizzato affiancando sempre al Sovrano almeno un ministro, che assumesse tale responsabilita' per ogni suo atto, sulla base del principio: "il Re non puo' mai agire da solo, cioe' the King cannot act alone"). Analoghe disposizioni circa l'irresponsabilita' del Capo dello Stato sono attualmente previste dai testi costituzionali di ordinamenti che conoscono la monarchia parlamentare. Ad esempio art. 88 Cost. Belgio: "La persona del Re e' inviolabile; i suoi ministri sono responsabili"; art. 13 Cost. Danimarca: "Il Re e' irresponsabile e la sua persona e' inviolabile e sacra. I ministri sono responsabili dell'esercizio dei poteri di Governo"; art. 4 Cost. Lussemburgo: "La persona del Granduca e' inviolabile"; art. 7 Cost. Svezia: "Il Re non puo' essere perseguito penalmente per i suoi atti o per le sue omissioni. Il Reggente non puo' essere messo in stato di accusa per gli atti o le omissioni compiuti nella qualita' di Capo dello Stato". La scelta per la forma repubblicana seguita da quella per la forma di governo parlamentare si sono rivelate significative per determinare la portata dell'irresponsabilita' presidenziale nell'attuale sistema costituzionale. Ed infatti l'art. 90 Cost. che statuisce la "non responsabilita'" del Presidente della Repubblica per gli atti compiuti nell'esercizio delle proprie funzioni fatta eccezione per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione; e' frutto di quelle scelte. E' evidente dunque che il regime della responsabilita' del Capo dello Stato e' derivato da come l'Assemblea costituente ha delineato la posizione di tale organo nel sistema costituzionale. Posizione - quella riconosciuta al Presidente della Repubblica dalle norme costituzionali - a dir poco ambigua, che spiega le difficolta' della dottrina a ricostruire in maniera unitaria funzioni e responsabilita' dell'organo, per certi profili assimilabile ad una struttura governante e per altri ad una struttura garante dell'ordinamento. Ed infatti, pur condividendo l'idea di fondo che il Capo dello Stato e' organo di garanzia costituzionale (nell'accezione che ne ha dato S. Galeotti, La garanzia costituzionale (presupposti e concetti), Milano, 1950, nonche' Id., voce Garanzia costituzionale, in Enc. dir., XVIII, Milano, 1969, 491. ss.), la dottrina si e' divisa tra chi ha preferito accentuarne i "profili governanti" e chi invece quelli "garanti" (l'alternativa e' stata prospettata in questi termini da S. Galeotti, Il Presidente della Repubblica: struttura garantistica o struttura governante?, in G. Silvestri (a cura di), La figura e il ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano, cit., 17 ss.). Certo e' che - come autorevolmente sostenuto - e' da considerare "un luogo comune quello che vuole che i nostri costituenti abbiano inteso creare un Presidente debole. Essi intesero piuttosto creare un governo parlamentare a maglie larghe, affidato per la sua effettiva determinazione alla pratica applicativa, entro cui il parlamento avrebbe dovuto essere sufficientemente libero nella individuazione della maggioranza di governo, ma in cui anche il Presidente avrebbe dovuto occupare uno spazio consistente, dedicato all'esercizio del proprio potere d'influenza. I costituenti confidavano anche nel ruolo d'influenza, di mediazione, di arbitrato che avrebbe svolto il Presidente della Repubblica" (cosi', M. Fioravanti, Sovranita' e forma di governo, relazione al Convegno su Costituzione e Repubblica, Firenze, 1997, paper, 9, pubblicato sul sito Internet - HYPERLINK "http://www.bdp.it/costituzione" www.bdp.it/costituzione ). Nella prima accezione, cioe' nella accentuazione dei profili "governanti", gia' nel 1960 Carlo Esposito sosteneva, secondo una formula che e' stata a piu' riprese riproposta e che e' diventata famosissima che: "(...) la tesi del Capo dello Stato come organo politico imparziale o supra partes appartiene al mondo delle ricostruzioni mistiche e non a quello delle definizioni realistiche del Capo dello Stato (...). Secondo ogni seria ricostruzione realistica, quando si attribuiscono poteri al Capo dello Stato (e in particolare quando si attribuiscono poteri sottratti alla prevalente volonta' ministeriale) questi non sono dati alla "Dea Ragione", ma a un uomo con i suoi vizi e con le sue virtu', con le sue passioni e con i suoi inevitabili orientamenti, che (...) nell'esercizio delle sue funzioni sara' animato dal desiderio di attuare o conservare il proprio potere, di far valere e prevalere (sia pure nei limiti segnati dal diritto) il proprio potere, i propri orientamenti, le proprie idee sulle altre. L'unica distinzione qualitativa tra il potere del Capo dello Stato irresponsabile, salvo i casi di grave illegalita', e inamovibile, a vita o per tempo determinato, e quello degli altri organi politici, in regime parlamentare, non e' nella imparzialita' del Capo dello Stato, ma se mai nella "personalizzazione" del suo potere (C. Esposito, voce Capo dello Stato, in Enc. dir. VI, 1960, 236). Altri autori, invece, riconoscono in capo al Presidente della Repubblica un potere di indirizzo politico costituzionale attraverso il quale dovrebbe darsi attuazione ai fini costituzionali (G. Motzo, Il potere di esternazione e di messaggio (Appunti), in Arch. giur. Serafini, CLII, 1957, 22 ss; P. Barile, I poteri del Presidente della Repubblica, cit., 308-309; E. Cheli, Atto politico e funzione di indirizzo politico, Milano 1961, 97 ss. nonche' dello stesso autore, art. 89, in Commentario della Costituzione, cit., 145 ss.) e limitare "l'azione delle forze di maggioranza" in quanto garante degli "indirizzi fondamentali, unitari e permanenti della comunita' statale" (cfr. V. Crisafulli, Aspetti problematici del sistema parlamentare vigente in Italia, in Studi per E. Crosa, I, Milano, 1960, 652 ss; cfr. anche A. Baldassarre C. Mezzanotte, Il Presidente della Repubblica fra unita maggioritaria e unita' nazionale, in Quad. cost. 1985, 7 ss P. Biscaretti di Ruffia, Le attribuzioni del Presidente della Repubblica, in Riv. trim. dir. pubbl., 1963, 280). Viceversa, sul versante opposto, si schierano coloro i quali sia pure con posizioni differenziate - riconoscono al Presidente della Repubblica esclusivamente un ruolo di garanzia costituzionale (cosi' G. Guarino, Il Presidente della Repubblica italiana. cit., U. De Siervo La responsabilita' penale del capo dello Stato, in Il Presidente della Repubblica, cit., 345 ss A. Pace, Le forme extrapenali, cit., 371 ss R. Romboli, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale, in Il Presidente della Repubblica, cit., 348 ss L. Carlassarre, art. 90, cit., 149 ss.), da intendersi nel modo piu' vario: alcuni interpretano il concetto in senso lato, ovvero il Capo dello Stato sarebbe chiamato "non a decidere ma a far decidere (...), a richiamare le ragioni dell'unita' nei confronti della dialettica politica, a salvaguardare l'indipendenza degli apparati di garanzia in senso ampio (...) rispetto agli interessi e alle vedute di parte che legittimamente si esprimono nel continuo Parlamento Governo" (cosi' V. Onida, L'ultimo Cossiga: recenti novita' nella prassi della presidenza della Repubblica, in Quad. cost., 1992, 168); per altri, garanzia costituzionale vuol dire piu' semplicemente tutelare la conservazione, l'osservanza e l'attuazione della Costituzione da parte degli organi costituzionali, assicurando la regolarita' formale e sostanziale del loro funzionamento e della loro azione (S. Galeotti, Garanzie costituzionali, cit., 491; M. Galizia, Studi sui rapporti tra Parlamento e Governo, Milano, 1972, 291; C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico cit., II, 1223 ss C. Lavagna, Istituzioni di diritto pubblico, Torino, 1986, 473 ss.). Alle diverse interpretazioni circa la posizione del Capo dello Stato nel sistema costituzionale italiano, si ricollegano anche diverse interpretazioni in ordine alla sua responsabilita' giuridica. Coloro i quali tendono a rico-struire il ruolo del Presidente accentuandone i profili "governanti" sono, in genere, propensi a riconoscerne anche la sostanziale immunita', invocando la necessita' di garantire la liberta' e l'autonomia del Presidente nell'esercizio delle proprie funzioni. Si pensi, ad esempio, a coloro che hanno sostenuto che "in ipotesi di crisi dell'intero sistema" il Presidente della Repubblica potrebbe ergersi a supremo reggitore dello Stato, comandando "quel che resta dell'apparato burocratico e militare anche senza previa legittimazione formale" (cosi' G. U. Rescigno, Il Presidente della Repubblica. Art. 87, in Commentario della Costituzione, cit., 146), oppure assumendo "poteri dittatoriali" (F. Modugno, D. Nocilla, voce Stato d'assedio, in Noviss. dig. it., XVIII, Torino, 1957, 290-291), ovvero sostituendosi al Parlamento e provvedendo "con ministri da lui nominati e godenti della sua fiducia (invece di quella del parlamento)" (cfr. C. Esposito, voce Capo dello Stato, cit.). Ebbene, per questa dottrina, il Capo dello Stato e', e non puo' non essere, salvo che per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione, totalmente irresponsabile. E "questa irresponsabilita' penale, poi, e' sostanziale e non solamente processuale; cioe' non solo impedisce- che il Presidente della Repubblica venga processato, ma addirittura impedisce che il fatto possa essere considerato illecito, con la conseguenza fondamentale che l'uomo Presidente della Repubblica resta irresponsabile giuridicamente anche dopo che e' cessato il suo mandato" (cosi' G. U. Rescigno, Corso di diritto pubblico, Bologna, 1997, 487). Il Capo dello Stato, cioe', stando a questa interpretazione, godrebbe di una vera e propria "immunita' di diritto sostanziale" concernente "i fatti commessi nel periodo di tempo in cui esistono i presupposti dell'immunita'; e tali fatti restano sottratti alla sanzione penale anche dopo che l'immunita' e' cessata" (A. Pagliaro, voce Immunita', in Enc. dir., XX, 1970, 218). Cio' che, detto in altri termini, equivale a riconoscere in capo al Presidente della Repubblica una vera e propria immunita' assoluta del tutto parificata a quella della quale godeva il Sovrano in regime monarchico proprio perche' collegata direttamente alla loro persona in forza del "carattere "sacro dell'istituzione regia" (cfr. C. Mortati, Istituzioni, cit., 549-550). Al contrario, coloro che ricostruiscono il ruolo del Capo dello Stato in chiave "garantistica" ne ammettono la responsabilita' giuridica con l'unica eccezione dei reati posti in essere nell'esercizio delle funzioni presidenziali, con la conseguenza che per costoro sarebbe sempre possibile ricorrere in giudizio sia per i reati extrafunzionali sia per quelli commessi prima dell'assunzione della carica: si sostiene in proposito che "il prestigio delle istituzioni sarebbe assai piu' gravemente compromesso nel caso in cui un capo dello Stato colpevole, o anche sospetto, di- un reato comune rimanesse in carica esente da processo" (cosi' L. Carlassarre, Art. 90, cit., 151; A. Pace, Le forme extrapenali cit., 375. V. anche, nel medesimo senso G. Ferrara, Sulla responsabilita' penale del Presidente della Repubblica, in Studi in onore di M. Mazziotti di Celso, I, Padova, 1995, 597; F. Dimora, Alla ricerca della responsabilita' del capo dello Stato, Milano, 1991, 114; V. Angiolini, Le braci del diritto costituzionale ed i confini della responsabilita' politica, in Riv. dir. cost., 1998, 57 ss., spec. 96). A tutela del Capo dello Stato, cioe', sarebbe disposta soltanto "una parziale immunita'" limitata "agli atti posti in essere nell'esercizio della funzione presidenziale" (V. Crisafulli, Lezionir II, 2, cit., 457 e C. Rossano, voce Presidente della Repubblica, I, Diritto costituzionale, in Enc. giur. Treccani, XXIV, Roma, 1991, 4), il che equivale a dire che la sua irresponsabilita' rimane "strettamente circoscritta", fatta eccezione per i reati di alto tradimento e attentato alla Costituzione, a quei fatti connessi all'esercizio delle sue funzioni sussistendo percio' "con riguardo ad ogni altra possibile ipotesi piena responsabilita' anche di ordine penale della persona investita della carica" (cfr. V. Crisafulli, Lezioni, II, 2, cit., 458). Premesse le suesposte considerazioni sulle diverse opzioni, interpretative del ruolo del Capo dello Stato nell'ordinamento costituzionale italiano, bisogna cominciare ad entrare nel merito della questione in esame al fine di chiarire se il Sen. Francesco Cossiga possa essere chiamato a rispondere di alcune affermazioni ritenute dagli onorevoli Flamigni e Onorato lesive del loro onore e dignita'. Si tratta dunque di verificare se dette "esternazioni" possano considerarsi coperte dal principio di irresponsabilita' sancito dall'art. 90 della Costituzione per gli atti compiuti dal Presidente della Repubblica nell'esercizio delle sue funzioni. In primo luogo ci preme sottolineare che detta verifica era gia' stata ampiamente effettuata dalla Corte d'apello di Roma, la quale non solo non si era sottratta alla valutazione delle dichiarazioni del Presidente Cossiga, ma anzi, al contrario, ne aveva puntualmente verificato la (eventuale) portata "offensiva" e la riconducibilita' o meno alle funzioni presidenziali, ritenendo l'ambito della funzione presidenziale non circoscrivibile ai soli atti controfirmabili, come aveva erroneamente ritenuto il Tribunale civile di Roma. In secondo luogo e' da precisare che l'irresponsabilita' ex art. 90 Cost. si prospetta (G. Di Raimo, voce Reati ministeriali, in Enc. dir., XXXVIII, 1987, 1156) "come una causa funzionale di non assoggettabilita' a sanzioni penali, civili o amministrative. Tale causa, infatti, non impedisce nell'art. 90 il delinearsi del carattere antigiuridico del fatto, di cui viene a condizionare solo la punibilita'. La ratio della irresponsabilita' presidenziale e' quella di coprire, nel modo piu' largo, ogni atto anche realmente illecito (...) onde porre al riparo da qualsiasi interferenza di altri organi una funzione in cui si riassume al vertice l'intero ordinamento dello Stato; facendovi eccezione solo nei casi in cui l'azione del Presidente si rivolga contro l'ordinamento stesso nella sua essenza unitaria e costituzionale. Conseguentemente - per autore - devono respingersi le diverse opinioni che sono state espresse in dottrina sull'irresponsabilita' presidenziale e che collocano la stessa in un momento anteriore al completarsi dell'astratta figura del fatto di reato. Quelle che affermano trattarsi di una incapacita' penale o di una sottrazione alla generale obbligatorieta' dei precetti giuridici (...); e quella, infine, che vi individua una causa di giustificazione. E' anche da escludere che ricorra una ipotesi di esenzione, dalla giurisdizione, il che comporterebbe la procedibilita' degli illeciti funzionali, diversi dalle due figure previste dall'art. 90, dopo la cessazione dalla carica". In sintesi, non vi e' dubbio dunque che la precisa ricostruzione operata dalla Corte di appello di Roma lungi dal ridursi ad una immotivata affermazione di guarentigie sovrane, descrive al contrario, con ampiezza di motivazione e di argomenti, il ruolo e le funzioni dell'istituzione Presidente della Repubblica cosi' come e' venuta delineandosi nella forma di governo, attraverso una realistica ricostruzione dell'organo presidenziale nell'ordinamento italiano e in specie della sua capacita' di incidere sull'attivita' di indirizzo politico. Non a caso la disciplina costituzionale dedicata al Presidente della Repubblica e' stata riconosciuta dotata di elasticita', onde consentire di adattarsi dinamicamente alle contingenze politiche esterne ed a tutti i possibili mutamenti degli assetti istituzionali e che la categoria degli atti presidenziali coperti della immunita' ex art. 90 Cost., in quanto ricomprendente fatti e comportamenti, e' stata ritenuta ben piu' ampia di quella indicata dal precedente art. 89 e ricomprendente solo atti. Se infatti le prese di posizione del Presidente anche quelle a contenuto politico, potessero essere sindacate, si porrebbe il Capo dello Stato in una posizione persino deteriore rispetto a quella del parlamentare e, di fatto, gli si impedirebbe di esercitare la posizione costituzionale di rappresentanza dell'intera Nazione, con gravi ripercussioni sul complessivo assetto istituzionale .e sulle garanzie dei cittadini. Sotto questo profilo, bastera' ricordare che la Costituzione affida al Presidente le funzioni primarie di Capo dello Stato e di rappresentante dell'unita' nazionale, cioe' di soggetto tendenzialmente autonomo dai circuiti fiduciari di maggioranza e quindi garante di tutti i cittadini, anche di quelli che non si riconoscono nell'indirizzo politico governativo (come conferma l'art. 83, terzo comma Cost., con l'aspirazione della Carta fondamentale, realizzatasi piu' volte nella prassi, ad un'elezione di un Capo dello Stato espressione di una maggioranza piu' ampia di quella di governo). In altri termini, se le comunicazioni del Presidente (quelle a contenuto politico, ovviamente) non godessero del regime di irresponsabilita' di cui all'art. 90, comma 1, Cost. verrebbe meno proprio la garanzia di assoluta indipendenza del Capo dello Stato nei confronti di qualsiasi altro organo costituzionale e si porrebbe, di fatto, il Presidente della Repubblica in una inaccettabile posizione di subalternita', certamente lontana anche dalla visione dei Costituenti e dall'idea, comunque superata, di un Capo dello Stato del tutto estraneo alla formazione dell'indirizzo politico-costituzionale del Paese. 5 - Il potere di "esternazione" del Presidente della Repubblica. Si entra in questo modo nella delicatissima e assai dibattuta questione del potere di "esternazione" del Presidente della Repubblica. In via di principio, si ritiene che non si possa negare al Presidente della Repubblica di esprimere proprie valutazioni ed orientamenti laddove essi siano ritenuti indispensabili per lo svolgimento delle funzioni che la Costituzione gli attribuisce. E' d'altra parte da tempo acquisito il principio che nell'espressione della funzione rappresentativa del Capo dello Stato questi provvede "alla realizzazione di un autonomo indirizzo, volto a garantire il rispetto e l'attuazione di quei principi costituzionali nei quali si identificano gli interessi unitari dell'intera comunita' e a tal fine materialmente espresso attraverso una molteplicita' di comportamenti coperti dalla irresponsabilita' del Capo dello Stato, anche se non espressi attraverso atti formalmente prescritti" (M:C. Grisolia, Potere di messaggio ed esternazioni presidenziali Milano, 1986, 23 ss.). Vero e' che - come e' stato ben rilevato (V. Onida, L'ultimo Cossiga: recenti novita' nella prassi della Presidenza della Repubblica, in Quad. cost. 1992, 165 ss.) - "Tanto improvvisa e drastica e' stata la messa in discussione, da parte del Capo dello Stato, da un lato delle norme in vigore, invocando non tanto una riforma quanto una vera e propria rifondazione del sistema costituzionale, dall'altro lato di prassi e di convenzioni consolidate; tanto clamorosa la rivendicazione (quasi sempre piu' teorica che pratica, ma non priva di conseguenze) di una diversa interpretazione dei poteri presidenziali; tanto frequenti e vivaci le polemiche sollevate dalla prima magistratura dello Stato non solo verso individui e gruppi, ma anche verso istituzioni costituzionali (...); tanto brusca e netta la proposizione di un'immagine pubblica del tutto medita della Presidenza e del suo ruolo, cosi' da indurre molti ad affermare che d'ora in poi la Presidenza della Repubblica non potra' piu' essere la stessa di prima; tanto netta la dislocazione del posto e del ruolo assunto e rivendicato dalla Presidenza nel dibattito politico e istituzionale; tanto improvvisamente ed enormemente accresciuto lo spazio che nell'informazione quotidiana e nell'attenzione dei mezzi di comunicazione ha chiesto e ottenuto la Presidenza; tanto diverso, perfino, il linguaggio con cui il Presidente si e' rivolto, attraverso i mezzi di comunicazione, ai suoi interlocutori o ai cittadini". il punto e' che e' la stessa figura di Capo dello Stato a collocarsi alla frontiera del sistema degli organi politici e a risentire in modo molto intenso delle diverse situazioni che si creano nelle altre "zone" dell'ordinamento costituzionale. Il che deriva con molta probabilita' dalla circostanza che si tratta di una carica monocratica, cui le decisioni, i comportamenti e la personalita' del suo titolare conferiscono contenuti non mediati dalla complessita' di rapporti di forza e dalla pluralita' di posizioni che caratterizzano altri poteri (tipicamente quello parlamentare); alla posizione in qualche modo non ben definita che e' propria del Presidente di una Repubblica parlamentare, da un lato erede formale dell'antico potere assoluto del Sovrano, dall'altro ormai titolare piu' di poteri di partecipazione a decisioni altrui che di poteri attivi esercitati in esclusiva (V. Onida, L'ultimo Cossiga cit., 167.). Ma allora, non si puo' che riprendere il pensiero di Livio Paladin (voce Presidente della Repubblica, in Enc. dir., XXXV, Milano, 1986, spec. 240) laddove ha correttamente individuato nella "eterogenea natura" e "grande complessita' delle funzioni presidenziali", "il fenomeno della "personalizzazione del potere che non ha mancato di differenziare le une dalle altre Presidenze del periodo repubblicano: nel senso che ogni Presidente si e' ritagliato il suo ruolo - entro le generiche previsioni costituzionali. - secondo le caratteristiche umane e politiche della propria personalita', oltreche' in vista delle concrete occasioni che la situazione del momento gli veniva offrendo. Quanti hanno gridato allo scandalo, per il solo fatto che i diversi stili presidenziali venissero posti in evidenza dagli studiosi e dai commentatori, non hanno tenuto e non tengono conto dei dati fondamentali della questione: ossia che il Presidente della Repubblica non e' rigidamente vincolato da norme ben precise e rispondenti ad ogni evenienza; e che molti fra i poteri presidenziali non si prestano a venire esercitati di continuo, ma sono attivabili solo in presenza di certi presupposti, per cui puo' ben darsi che alcuni di essi non vengano mai sperimentati da un determinato Presidente e che, viceversa, altri siano usati con particolare frequenza; che i poteri stessi sono comunque troppo vasti e troppo impegnativi (...) perche' siano tutti valorizzabili in pieno: con la conseguenza che si rende addirittura indispensabile, per ogni titolare della carica in esame, decidere autonomamente - nella misura consentita dalle circostanze - quali componenti dell'ufficio debbano venire privilegiate e quali, invece, mantenute allo stato di quiescenza". Non si puo' certo negare che l'aspetto della Presidenza Cossiga che forse piu' ha fatto discutere e' stato quello delle c.d. esternazioni attraverso giornali, radio e televisioni in forma talvolta di opinioni, di giudizi, di moniti, di critiche, di precisazioni, di battute talvolta anche assai sarcastiche. Esternazioni che, per il modo in cui sono state proposte dal loro Autore o, piu' spesso amplificate dai mezzi di comunicazione, hanno costituito necessariamente termini di paragone, di adesione, o anche di ostilita' nel dibattito politico e la cui caratteristica, di novita' rispetto al passato, e' quella di avere come destinatari, direttamente e senza intermediari, i cittadini. Tuttavia, come del resto gia' osservava G. Motzo (nella voce Messaggio, in Enc. dir., XXVI, 1976, 146) il Capo dello Stato deve disporre "dei mezzi che gli consentano di rompere il riserbo, normalmente imposto all'esercizio delle funzioni che gli sono commesse dalla Costituzione, per fare appello all'opinione politica del Paese. Cio' avverra' nei momenti culminanti della vita nazionale e nelle occasioni in cui la manifestazione del pensiero o la comunicazione che si rinviene in un atto di esternazione debba - a suo avviso - esser rivolta, oltreche' all'organo destinatario formale ed alla cerchia dei destinatari immediati, anche a rendere edotta la pubblica opinione di eventi e di valutazioni che richiedono una consapevole partecipazione dei consociati alle vicende costituzionali ed una adeguata valutazione dell'operato presidenziale". Si tratta - e' noto - di un potere sui cui confini costituzionali si discute molto e che, comunque, appare in questi anni in rapida evoluzione, se non in una fase di mutamento radicale. Le cause strutturali di questo processo vanno ricercate essenzialmente nello sviluppo della democrazia pluralistica, nell'aumento della "complessita'" (e quindi dell'insicurezza) sociale e nella grandiosa crescita dell'importanza della comunicazione politica e dei mass media (A. Baldassarre - C. Mezzanotte, Gli uomini del Quirinale, Bari, 1985, 16). In altri termini, come pure ha dovuto rilevare quella dottrina piu' rigida e formalistica nell'interpretazione del potere di esternazione presidenziale (A. Pace, Esternazioni presidenziali e forma di governo. Considerazioni critiche, in Quad. cost., 1992, 191 ss.), le esternazioni di Cossiga - che peraltro non differiscono granche' rispetto a quelle del suo predecessore - vanno interpretate nel senso della "ricerca costante di una adesione della pubblica opinione"; la volonta' di "attestare coram populo la funzione di interprete fedele di quella opinione e di tutore della correttezza e della legalita'"; un "ricorrente pedagogismo etico-politico-costituzionale che si traduce in critiche direttamente riferite alla classe politica o a singoli uomini politici e di governo (...) o, per converso, in esaltazione di valori (...)" (le frasi virgolettate sono di G. D'Orazio, Presidenza Pertini (1978-1985). Neutralita' o diarchia, Rimini, 1985, 209). Ma tutto cio' - ci sia consentito - non puo' in alcun modo essere oggetto di sindacato da parte dell'autorita' giudiziaria. Vero e' che e' assolutamente impensabile - per come la figura e il ruolo del Presidente della Repubblica e' stata disegnata dai Costituenti e per come si e' effettivamente evoluta nella forma di governo - la rigorosa distinzione tra le manifestazioni di pensiero che il Capo dello Stato compie uti singulus, senza nesso con le sue funzioni, e le enunciazioni e gli atti riconducibili all'esercizio della carica. Ed infatti non vi e' dubbio che - come pure si e' sostenuto (S. Galeotti-B. Pezzini, voce Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, in Dig. disc. pubbl. XI, 1996, 482-483) - "alle spalle della crescita esponenziale delle esternazioni atipiche, si ritrova un processo di trasformazione del ruolo e delle forme della comunicazione politica, in cui le dichiarazioni del Presidente della Repubblica - come degli altri protagonisti della scena politica - sono amplificate, sollecitate, create (se non come dichiarazioni, come notizia ), dalla spasmodica attenzione dei mezzi di comunicazione. Quando le esternazioni sfuggono alla dimensione formale, scritta, si rende evidentemente inapplicabile la regola costituzionale dell'art. 89 Cost., che consente al governo di esercitare il controllo sui presupposti di legittimita' dell'atto presidenziale, e purtuttavia resta invece applicabile l'art. 90 Cost., che limita la responsabilita' diretta del Presidente per gli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni", peraltro "inadatte ad un controllo di questo genere di comportamenti, dal momento che e' pressocche' impossibile configurare i reati presidenziali nella specie di reati di opinione; d'altro canto non risultano persuasivi i suggerimenti diretti a limitare l'irresponsabilita' presidenziale, sia mediante la forma della cosiddetta responsabilita' politica diffusa, che resta una categoria giuridicamente debole, sia riferendo la responsabilita' al Governo, attraverso la artificiosa costruzione della controfirma implicita, ovvero postulando a carico del Governo un onere, alternativo, di dare copertura politica al Presidente nell'esercizio delle sue funzioni ovvero di contestargli formalmente lo sconfinamento dalle proprie attribuzioni. Queste difficolta' manifestano specificamente la insussistenza delle basi costituzionali su cui si e' preteso di giustificare la prassi estensiva, sia richiamando l'art. 21 Cost., sia riconducendola alla qualificazione di rappresentante dell'unita' nazionale; il titolare di un organo monocratico di vertice - e qui' sta il punto - non ha una dimensione politica privata (la sfera delle esternazioni informali) contrapposta ad una dimensione pubblica; ha una sfera assolutamente privata, nella quale peraltro e' pienamente responsabile (salva la regola convenzionale dell'improcedibilita' penale durante il mandato), contrapposta ad una sfera pubblica nella quale esercita le sue funzioni, che sono solo quelle previste, esplicitamente o implicitamente, dalla Costituzione. Le esternazioni, di conseguenza, o riguardano le funzioni, o esorbitano dalle funzioni: non e' data la possibilita' di creare attraverso le esternazioni attribuzioni che si collocherebbero in una zona intermedia (come una funzione generale ed atipica di esternazione)". La conclusione e' che - come aveva ben affermato la Corte di appello di Roma - "non si puo' non riconoscere che riguardo alla cospicua congerie delle esternazioni non qualificate e non ascrivibili ne' alle funzioni tipizzate ne' alla persona privata, ma in qualche modo riferibili o genericamente connesse alla carica rappresentativa, alla realizzazione dell'indirizzo politico-costituzionale, ai poteri di stimolo e di persuasione, ai poteri di autotutela delle prerogative della istituzione presidenziale, non puo' che concludersi a favore della loro immunita': cioe' di esenzione da qualunque responsabilita' (civile e penale, per quel che qui interessa), salvo le ipotesi tassativamente indicate dalla Carta fondamentale all'art. 90 (alto tradimento e attentato alla Costituzione)". Ed e' su tali premesse che i giudici della Corte d'appello hanno fatto giustizia della formalistica teoria dei primi giudici, secondo la quale le espressioni del potere valutativo del Presidente della Repubblica dovrebbero comunque manifestarsi con atti formali tipici in astratto controfirmabili. Nell'ambito cosi' delineato, la sfera di irresponsabilita' presidenziale e' stata dunque riconosciuta "anche per tutti gli atti e comportamenti non suscettibili di controfirma (...)", il cui contenuto e la strumentalita' e' influenzato dalle "condizioni del momento storico, (dal)l'equilibrio delle forze politiche, (dal)la forza della legittimazione popolare (...)". Cio' ha giustamente condotto la Corte d'appello ad affermare che, di fronte all'aggressione di un "avversario", intenzionato ad attaccare le qualita' morali e di affidabilita' della persona fisica del Presidente "al fine di metterne in discussione la legittimita' a ricoprire la carica piu' elevata dello Stato...", "la reazione offensiva tesa a demolire la credibilita' dell'avversario medesimo mediante la denigrazione delle capacita' professionali, di giudizio e di obiettivita' (...) prima ancora di una legittima difesa, discriminante in quanto tale la persona fisica del Presidente titolare dell'organo, va valutata principalmente come forma di autotutela della carica ricoperta dal sen. Cossiga in quel momento, ovvero un tentativo di affermare per tale via la perdurante legittimita' e la piena funzionalita' dall'alto Ufficio rispetto a (o nei confronti de) la Comunita' nazionale. Autotutela e tentativo non certo sindacabili, quanto a forma modalita' e correttezza in questa sede giudiziaria ordinaria (...)". La difesa delle istituzioni autorizza all'occorrenza "di deviare dai limiti formali ordinari (...) quando l'ostilita' e gli attacchi all'indipendenza dell'organo spingono quest'ultimo a trincerarsi in una necessaria difesa e con l'utilizzazione delle proprie prerogative estensibili fin dove lo richieda la difesa stessa della istituzione (...)", senza rilievo della sfera dei terzi posto che, in questi casi, e' la stessa Carta costituzionale che "ritiene rilevanti e sindacabili" solo gli interessi supremi dello Stato compendiati nelle specifiche ipotesi di alto tradimento e di attentato alla Costituzione. In buona sostanza, la sentenza ha correttamente definito l'ambito delle funzioni presidenziali tra le quali ha inserito le manifestazioni di pensiero del titolare dell'organo "in qualche modo riferibili o genericamente connesse alla carica rappresentativa (...)" e tra queste quelle ricollegabili "ai poteri di autotutela delle prerogative della istituzione presidenziale". Su questa base, la Corte del merito, con motivazione ineccepibile; ha correttamente ritenuto di dover superare l'anacronistica concezione dei poteri e delle prerogative presidenziali dei Costituenti, costantemente smentita nella prassi recente e non piu' compatibile con la logica del sistema costituzionale. La Corte d'appello, infatti, ha chiarito che il contenuto e la strumentalita' di atti sostanzialmente ufficiosi del Presidente della Repubblica e' determinata dalla logica del sistema in atto, dalle condizioni del momento storico, dall'equilibrio delle forze politiche e dalla forza della legittimazione popolare degli organi rappresentativi. Nessuna soluzione sostanziale viene data al problema dalla suprema Corte di cassazione considerato che essa ritiene che in nome del diritto vivente, vada radicato, nel primo comma dell'art. 87 Cost., "il diritto del Presidente a parlare nel nome del Paese, anche al di la' delle puntuali competenze affidategli dalla Costituzione, quale concepita dai Costituenti", riconoscendogli anche un "potere di chiarimento", un potere, cioe', attraverso il quale il Capo dello Stato avrebbe la facolta' di chiarire pubblicamente "il significato e le ragioni dei propri atti" e che sarebbe collegato alla sua "responsabilita' politica diffusa". Con il che, se da una parte sembra accedere alla interpretazione piu' restrittiva del ruolo presidenziale, dall'altra, nel riconoscergli una facolta' di esternazione (che radicherebbe nelle norme costituzionali come integrate dalle prassi applicative) collegata alla responsabilita' politica diffusa, sembra attribuirgli, quantunque implicitamente, un ruolo certamente diverso dalla mera garanzia costituzionale. Resta comunque il fatto che il mero riconoscimento della responsabilita' presidenziale per gli atti extrafunzionali dimostra che qualcosa, nel modo di interpretare il ruolo del Capo dello Stato, sta cambiando, e sta cambiando nel senso che questo suo ruolo subisce un tale ridimensionamento da far sospettare che i motivi di cio' siano da ricercare non gia', semplicemente, in una lettura della Carta costituzionale piu' restrittiva, ma altrove. In sintesi, come ha ritenuto la Corte d'appello, devono considerarsi "coperte dall'immunita' (...) le esternazioni del Presidente della Repubblica non qualificate e non ascrivibili alle funzioni tipizzate (...) ma in qualche modo riferibili o genericamente connesse alla carica rappresentativa, alla realizzazione dell'indirizzo politico-costituzionale, ai poteri di stimolo e di persuasione o ai poteri di "autotutela" delle prerogative presidenziali", e che "l'attivita' di esternazione presidenziale (...) rientra nelle funzioni costituzionali del Presidente della Repubblica". Certo e' che l'ecc.ma Corte costituzionale, sulla base degli atti di causa, potra' agevolmente verificare che la reazione agli attacchi mossi nei confronti del Presidente della Repubblica dagli onorevoli Flamigni e Onorato in nessun caso puo' considerarsi come dettata da motivi meramente privati, sebbene come reazione legittima del titolare della istituzione piu' elevata della Repubblica all'attacco comunque infamante portato alla istituzione stessa da lui rivestita. Ed e' su questo piano che la Corte di merito ha riconosciuto la funzionalita' delle dichiarazioni del Presidente Cossiga, che ha ritenuto collegate all'esercizio delle funzioni presidenziali, nonche' espressione della funzione di autotutela delle prerogative presidenziali e quindi non ascrivibili alla sfera privata del titolare dell'organo. Da queste premesse consegue come suo logico corollario, che devono ritenersi pienamente giustificate le reazioni verbali del senatore Cossiga nei confronti degli onorevoli Flamigni ed Onorato. Ad ogni buon conto, e' a dir poco bizzarra la tesi che tenta di sostenere la non riconducibi1ita' delle reazioni verbali del Presidente Cossiga in oggetto all'esercizio delle funzioni. E' circostanza, pacificamente riconosciuta, quella secondo la quale sarebbe una pura finzione, operare una distinzione tra sfera privata e sfera pubblica nel caso di comunicazioni aventi oggetto politico, posto che il Presidente e' organo monocratico e che la funzione pubblica che esercita ha carattere permanente e comporta che coloro che ne sono investiti possano esplicarla in qualsiasi momento, nelle forme che essi stessi ritengano piu' adeguate. In altre parole, considerato che il Presidente della Repubblica non esercita la propria funzione necessariamente in un luogo predeterminato e ad orari stabiliti non puo' ricorrersi ad altro criterio che non sia quello della valenza politica e istituzionale del contenuto della comunicazione ovvero della sua palese appartenenza alla sfera assolutamente privata del Presidente. Quanto agli episodi contestati, non si comprende davvero come possa essere censurata la valutazione circa la piena strumentalita' dei comportamenti del Presidente Cossiga al suo ruolo pubblico, politico ed istituzionale. Le frasi pronunciate dal Presidente nei confronti dell'on. Onorato costituivano infatti la reazione della massima carica dello Stato alle posizioni espresse dal parlamentare con riferimento a vicende di straordinaria valenza istituzionale, come la collocazione dell'Italia nel suo tradizionale sistema di alleanze in occasione della Guerra del Golfo (collocazione che, secondo il Presidente, avrebbe potuto vacillare qualora avessero prevalso le posizioni "pacifiste" espresse, tra gli altri, dall'on. Onorato), ovvero la "vicenda Gladio" (coinvolgente un giudizio politico su un periodo storico caratterizzato da una "guerra fredda" anche interna al Paese e da fortissime contrapposizioni, le cui laceranti conseguenze, all'epoca della presidenza Cossiga, erano ancora presenti nel tessuto civile e politico italiano), ovvero ancora l'adesione dell'on. Onorato alla richiesta di messa in stato d'accusa del Presidente della Repubblica avanzata da taluni onorevoli, con istanza di indagine preliminare anche sulla vicenda "Gladio", che comportava un gravissimo attacco alla massima carica dello Stato, certamente idoneo a giustificare una reazione della quale, se non si vuole urtare il buon senso, non puo negarsi il carattere squisitamente politico, nell'ambito di un aspro scontro istituzionale. Le frasi pronunciate dal Presidente nei confronti del senatore Flamigni costituivano invece la legittima reazione della massima carica dello Stato alle posizioni espresse dal parlamentare in sede di Commissione parlamentare sul caso Moro e nel libro "La tela del Ragno - Il delitto Moro" con riferimento a vicende di straordinaria valenza istituzionale, come il presunto coinvolgimento della persona del Presidente della Repubblica, quando era Ministro dell'interno, in oscure trame legate a Licio Gelli, le logge massoniche P2 e i servizi segreti e che avrebbero concorso a causare l'uccisione dell'on. Moro. Illazioni gravissime - queste si' davvero diffamatorie - idonee a screditare la massima carica dello Stato, mediante un gravissimo attacco certamente idoneo a giustificare una risposta della quale, anche qui' se non si vuole urtare il buon senso, non puo' negarsi il carattere squisitamente politico e pubblico, nell'ambito di una doverosa difesa istituzionale dell'altissimo Ufficio. In definitiva, non sussiste alcun ragionevole fondamento per escludere le dichiarazioni del Presidente Cossiga dall'area delle immunita' ex art. 90 Cost. Cio' e' tanto piu' vero se analizziamo dette dichiarazioni anche alla luce dei principi che l'ecc.ma Corte costituzionale ha stabilito nella sua consolidata giurisprudenza in tema di prerogative di cui all'art. 68, comma 1, della Costituzione laddove ha affermato che l'insindacabilita' non copre tutte le opinioni espresse dal parlamentare nello svolgimento della sua attivita' politica, ma solo quelle legate da "nesso funzionale" con le attivita' svolte "nella qualita'" di membro delle Camere (sentt. n. 375 del 1997; 289 del 1998; 329 e 417 del 1999; 56, 58 e 82 del 2000 ecc.). Si e' infatti in presenza di esternazioni strumentali alla posizione pubblica e istituzionale del Presidente e di indubbia valenza politica, come tali riconducibili al regime di irresponsabilita' presidenziale di cui all'art. 90 Cost. In relazione alle iniziative politiche dell'on. Onorato, e in specie con riferimento al dissenso espresso da quest'ultimo con la posizione italiana sulla Guerra del Golfo, il Presidente Cossiga, con uno stile sferzante ricorrente, soprattutto in tempi recenti, in occasione di confronto politico su temi scottanti, ha accusato l'on. Onorato di una faziosita' cosi' netta da suscitare dubbi sulla sua capacita' di giudicare con serenita'. Faziosita' che, secondo il Presidente, aveva spinto l'on. Onorato ad opporsi ufficialmente e nelle sue vesti di parlamentare ad una iniziativa internazionale di fondamentale importanza ai fini della conferma o dell'uscita dell'Italia dal suo tradizionale sistema di alleanze. E poiche' l'eventualita' di una nuova collocazione internazionale del Paese o comunque di un indebolimento della collocazione occidentale, in un momento storico di transizione ancora incerto e delicatissimo, era evidentemente considerata dal Presidente Cossiga come gravemente lesiva degli interessi della Nazione, l'iniziativa dell'on. Onorato riceveva una forte censura, in quanto ritenuta frutto della faziosita' politica del suo autore e della mancanza nello stesso di una salda concezione di Stato e di Patria. Nessuno dubita che si sia trattato di una aspra critica, formulata direttamente, senza ipocrisie e con aperta franchezza. Ma non se ne puo' affermare il carattere denigratorio ed offensivo, ne' il superamento dei limiti del legittimo diritto di critica politica. Una critica, questa, abitualmente caratterizzata da un linguaggio forte e da espressioni severe, talvolta irridenti, manifestanti aperta disistima per l'avversario politico e le idee che questo professa. Proprio per tale ragione, in questa materia, comunemente si riconosce che i limiti della liberta' di manifestazione del pensiero godono della loro massima estensione, proprio perche' la liberta' e la trasparenza del dibattito politico sono coessenziali all'affermazione di una vera democrazia. D'altra parte, il cittadino che decide di dedicarsi alla vita politica attiva opera sempre una scelta di parte e, necessariamente, abbraccia una "fazione" o l'altra. L'uomo politico, per questa semplice ragione, non puo' pretendere che gli venga riconosciuta da tutti una obiettivita' e serenita' di giudizio e non puo' adontarsi per l'attribuzione di una "faziosita'" che, al di la' della forza del termine, e' connaturale all'uomo di parte. Si vuoi dire, in altre parole, che tale addebito non puo' considerarsi offensivo e idoneo a travalicare i limiti di continenza nel dibattito politico. D'altra parte, la faziosita', considerata quale mancanza di obiettivita', e' una caratteristica umana anche piuttosto comune e per lo piu' involontaria, essendo spesso l'obiettivita' una mera aspirazione anche nelle persone piu' equilibrate. Non si vede quindi dove sia l'offesa nell'addebitarla esplicitamente, senza giri di parole, e nel far presente di ritenere la persona faziosa piu' adatta all'attivita' politica e meno a quella di magistrato. All'on. Onorato non e' stata negata ne' la capacita' professionale, ne' l'indipendenza; ne e' stata solo rilevata una caratteristica umana e attitudinale ritenuta poco compatibile con l'obiettivita' del magistrato. Il tutto, come detto, nell'ambito ed in occasione di uno sconto, politico gravissimo, voluto dall'on. Onorato con la sua infamante accusa al Presidente della Repubblica Cossiga di alto tradimento e di attentato alla Costituzione. Quanto alle affermazioni sulla concezione di Stato e di Patria di cui l'on. Onorato sarebbe privo, davvero non se ne vede il contenuto offensivo. Si tratta di un giudizio politico, connesso alle iniziative dell'on. Onorato nel campo della politica internazionale. Un giudizio sicuramente negativo, ma legittimo, con il quale il Presidente Cossiga, ritenendo di interpretare il sentimento della Nazione quale massimo rappresentante della stessa, ha inteso censurare una posizione che, a suo avviso nella predetta qualita', era radicalmente contraria agli interessi dell'Italia. D'altra parte, nell'acceso scambio di battute, l'on. Onorato aveva affermato di non avere la stessa concezione di Stato e di Patria del Presidente Cossiga, manifestando cosi', in forma allusiva, un giudizio di disvalore sulla concezione del Presidente con malizioso collegamento alla vicenda Gladio. In altre parole, le accuse sono state reciproche ed ognuno ha imputato all'altro una concezione di Stato e di Patria contraria a quella ritenuta giusta. Con la conseguenza che se siffatti addebiti incrociati dovessero ritenersi offensivi lo sarebbero per entrambi i destinatari e l'on. Onorato, che ha sicuramente provocato la reazione del Presidente della Repubblica, non potrebbe dolersi di alcunche'. A nulla varrebbe affermare che iniziative giuridicamente lecite, come quelle dell'on. Onorato (dissenso rispetto alla posizione italiana sulla guerra del Golfo; adesione alla richiesta di messa in stato di accusa del Presidente), non possono integrare quel fatto ingiusto che costituisce la provocazione alla quale e' legittimo reagire. Vero e', infatti, che sotto l'apparenza formale di atti giuridicamente legittimi, l'on. Onorato si era reso autore di un attacco di inusitata gravita' teso a screditare la piu' alta carica dello Stato, imputandole reati gravissimi, come l'alto tradimento. In tal modo, nella sostanza, il primo a sentirsi qualificare come traditore e' stato proprio il Presidente della Repubblica. E seppure tale gratuito attacco e' stato portato nelle forme di un'iniziativa giuridica prevista dalla Costituzione, e' agevole replicare che anche la reazione del Presidente e' avvenuta in un incontro formale tra organi costituzionali, nel pieno quindi dell'esercizio delle prerogative presidenziali. Aldila' di ogni ulteriore considerazione di merito, l'aspetto che, comunque, piu' di ogni altro interessa in questa sede sottolineare, concerne la non spettanza all'autorita' giudiziaria del potere di valutare se l'atto presidenziale compiuto possa considerarsi funzionale o extrafunzionale. 6. - Sugli atti extrafunzionali del Presidente della Repubblica. Non vi e' dubbio che uno dei problemi centrali del regime della responsabilita' del Capo dello Stato e' quello che concerne gli atti extrafunzionali, cioe' gli atti compiuti al di fuori delle funzioni presidenziali, essendovi in Costituzione solo un testuale riferimento "agli atti compiuti nell'esercizio delle sue funzioni" (art. 90 Cost.). La questione fu peraltro affrontata in Assemblea Costituente ove non mancarono voci favorevoli a statuire una apposita disciplina. Tuttavia, a fronte di alcune proposte miranti a garantire al Capo dello Stato l'assoluta improcedibilita' delle sue azioni in sede penale e civile durante il settennato, l'Assemblea respinse tanto la proposta, formulata dall'on. Bettiol, di approvare un articolo aggiuntivo secondo il quale "il Presidente della Repubblica, mentre dura in carica, non puo' essere perseguito per violazioni alla legge penale commesse fuori dell'esercizio delle sue funzioni" (Atti Ass. cost., seduta ant. del 24 ottobre 1947, 3511) tanto l'articolo aggiuntivo presentato dall'on. Monticelli ai sensi del quale "il Presidente della Repubblica non puo' essere sottoposto a procedimento penale durante l'esercizio delle sue funzioni" (Atti, Ass. cost., seduta ant. del 24 ottobre 1947, 3512), tanto, infine, l'articolo aggiuntivo presentato dalla Commissione (e fatto proprio dall'on. Monticelli) ai sensi del quale "il Presidente della Repubblica non puo', mente e' in carica, essere sottoposto a procedimento penale per fatti estranei all'esercizio delle sue funzioni" (Atti Ass. cost., seduta ant. del 24 ottobre 1947, 3516). Prevalse, infine, la tesi per cui "per ragioni di opportunita' e di convenienza" non sarebbe stato opportuno dover determinare alcunche' circa la responsabilita' penale del Capo dello Stato per reati comuni (si veda l'intervento di Tosato, in Atti Ass. cost., II Sottocommissione, I Sezione, 4 gennaio 1947, 1769 ss.). Il problema e' comunque talmente sentito che anche autori come il Balladore Pallieri che ammettono la sussistenza di una responsabilita' giuridica del Presidente - e cioe' la "normale responsabilita' penale" e "la piena responsabilita' civile" - onde per cui contro il Presidente sarebbero possibili citazioni civili, procedimenti di volontaria giurisdizione, contravvenzioni, imputazioni penali, non essendo egli nemmeno tutelato dalle comuni immunita' parlamentari", - devono ammettere che "la pratica e le norme di correttezza si incaricheranno di attenuare, ove ne sia il caso, il rigore di tali principi. Il fatto che si tratti del Presidente della Repubblica e' circostanza tale che non puo', in fatto, non influire sul rapporto giuridico, e particolare prudenza e particolari riguardi verrebbero senza dubbio adoperati qualora il caso si presentasse" (G. Balladore Pallieri, Diritto costituzionale, V ed., Milano, 1957, 157). Certo e' che ammettendo la procedibilita' per i reati non funzionali, ovvero quegli atti e comportamenti che non hanno alcuna relazione con l'attivita' funzionale del Presidente secondo il concetto espresso di commissione nell'esercizio delle funzioni, si possono determinare - come e' stato rilevato (G. Di Raimo, op. cit., 1159) - "incresciosi inconvenienti ed anche sminuire l'efficacia della prerogativa per gli atti funzionali che possono essere sindacati dal giudice ordinario allo scopo di accertare se siano o meno coperti dalla irresponsabilita'". Tradizionalmente tutte le prerogative costituzionali garantite nel nostro ordinamento trovano il loro necessario fondamento nella tutela del libero esercizio di funzioni costituzionali o, piu' in generale, nella garanzia della posizione costituzionale dei titolari di funzioni supreme. E questo teoricamente garantisce che la prerogativa, prevista a tutela dell'esercizio di fondamentali funzioni costituzionali, non si tramuti in mero privilegio personale. In quest'ottica e' ben noto che la dottrina maggioritaria ha ritenuto che: "l'irresponsabilita' scollegata dalla funzione e da eventuali specifiche esigenze della medesima, e' un privilegio. E il privilegio non ha cittadinanza in democrazia" (cosi' L. Carlassarre, art. 90 Cost., in Commentario della Costituzione a cura di G. Branca, Bologna-Roma, 1983, 149 ss., spec. 159). Su cio' non possiamo che essere d'accordo. Come pure sulla circostanza che, ai fini dell'operativita' delle immunita', sia sufficiente - come pure e' stato sostenuto in dottrina (ad esempio da P. Rossi, Lineamenti di diritto penale costituzionale, Palermo, 1953, 224 ss.) - un mero rapporto di contestualita' cronologica, cioe' "il semplice fatto che l'atto o il comportamento sia posto in essere mentre il Presidente e' temporalmente nell'esercizio delle funzioni o in occasione delle medesime". E' evidente che ammettere un mero rapporto di contestualita' cronologica, potrebbe condurre effettivamente anche a conseguenze aberranti, basti pensare agli esempi "ormai logori della violenza carnale esercitata sulla segretaria negli uffici del Quirinale, dell'omicidio colposo durante una partita di caccia organizzata per un Capo di Stato estero e simili (...)" (L. Carlassarre, art. 90 Cost., cit., 159; ricostruisce l'intera tematica S. Antonelli, Le immunita' del Presidente della Repubblica italiana, Milano, 1971, 180 ss.). Tuttavia anche gli autori che riconoscono una ampia responsabilita' presidenziale devono ammettere che vi sono settori - come appunto quello del potere di esternazione - nell'ambito dei quali si prospettano problemi particolari, anche perche' la prassi ha registrato interventi molto piu' intensi e frequenti di quelli previsti e prevedibili al tempo della Costituente, piu' ampi e liberi soprattutto per quanto riguarda le forme. In sintesi nella disciplina della responsabilita' per fatti estranei all'esercizio delle funzioni si rivela una lacuna, che lascia esposto il Presidente alle conseguenze di iniziative arbitrarie o destabilizzanti, e che i Costituenti avevano ritenuto di poter risolvere, forse troppo semplicisticamente - come e' dimostrato dal caso in esame - sul piano extragiuridico. Non e' un caso che gia' cinquant'anni orsono, una autorevolissima dottrina (oggi peraltro attualissima), non sia stata appagata dell'interpretazione letterale dell'art. 90 Cost. ed abbia cercato, in base ad altri argomenti, di negare o comunque limitare la responsabilita' penale del Presidente della Repubblica secondo il diritto comune. Si tratta della posizione di Emilio Crosa che espresse il suo pensiero in un articolo del 1951 diventato presto molto noto (Gli organi costituzionali e il Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, in Riv. trim. dir. pubbl., 1951, 95 ss.). In questo articolo, il Crosa, riprendendo alcune tesi di Vittorio Emanuele Orlando, affronto' la questione della identificazione tra organo e persona fisica. L'organo presidenziale si scinde, infatti, come ogni altro nel pubblico ufficio, nell'istituzione e nel titolare. Come e' noto, a partire da Vittorio Emanuele Orlando [Immunita' parlamentari ed organi sovrani, ora in Diritto pubblico generale. Scritti varii (1891-1940) coordinati in sistema, Milano, 1954, 482 ss.], le inviolabilita' o le immunita', pur operando in concreto a tutela della liberta' personale degli individui investiti di cariche pubbliche sono preordinate in via di principio a vantaggio non della singola persona, ma dell'ufficio. Per definire una tale situazione giuridica viene anche usato il termine "prerogativa" in un senso particolare - indicativo cioe' di un attributo proprio dell'ufficio o dell'istituzione - e soprattutto in contrasto col termine privilegio, il quale gia' di per se' denota discipline giuridiche pertinenti direttamente e particolarmente ai singoli soggetti. Con tali espressioni ci si richiama alla teoria generale degli organi giuridici, per cui e' postulata una stretta ed intima connessione fra l'ufficio ed i soggetti fisici preposti, riguardati come sue parti integranti: le persone dei titolari risultano protette essenzialmente per la sfera di quei rapporti in cui sono assunte e qualificate dall'ordinamento come facenti corpo con l'ufficio ricoperto. La tutela dell'integrita' delle persone vale, quindi, a salvaguardare l'integrita' dell'istituzione di cui sono parte e l'esercizio regolare dell'attivita' ad esse affidata (E. Crosa, Gli organi costituzionali e il Presidente della Repubblica nella Costituzione italiana, cit., 96). Per quanto riguarda l'organo presidenziale (come lo chiama E. Crosa, op. cit., 106 ss.), esso "si scinde come ogni altro nel pubblico ufficio, cioe' nella istituzione e nel titolare. La guarentigia del pubblico ufficio e' data dall'istituto della irresponsabilita' che copre gli atti di competenza presidenziale col limite dell'alto tradimento e dell'attentato alla Costituzione (art. 90). (...). L'ufficio puo' dirsi pertanto garantito secondo le esigenze della tecnica giuridica, perche' nessun atto di qualsiasi altro organo costituzionale, o di terzi puo' vulnerare ne' comunque interferire sull'adempimento delle funzioni. Ma questo adempimento, per l'inscindibilita' nell'organo del pubblico ufficio del titolare presuppone la guarentigia del titolare, la sua assoluta indipendenza. Questa non e' garantita pienamente se le tutele previste si svolgono nella sola sfera delle attribuzioni costituzionali, e sono da queste delimitate, e non contemplano invece l'unita' stessa dell'organo con la persona del titolare che trascende evidentemente il pubblico ufficio. La posizione giuridica dei titolari degli organi costituzionali e' tutt'uno con la posizione nell'ordinamento giuridico della istituzione. (...). Le guarentigie che tutelano i titolari degli organi, nella loro accezione tecnica, mirano a salvaguardare l'integrita' dell'organo inscindibile nei suoi due elementi di pubblico ufficio e di titolare, inscindibile nell'esercizio stesso della funzione ad esso devoluta necessaria e sufficiente perche' sia posta in essere l'attivita' dello Stato. Per l'ufficio presidenziale tali garanzie non sono previste dalla Costituzione (...)". Si tratta di una vera e propria "lacuna" costituzionale. "La guarentigia e' data dall'irresponsabilita' limitata agli atti compiuti nell'esercizio delle funzioni (art. 90) e quindi tutela l'integrita' e l'indipendenza della funzione, dell'ufficio e del titolare entro limiti determinati. Ma se l'organo e' nel suo aspetto di pubblico ufficio tutelato, risulta deficiente la tutela del titolare, fuori dalla sfera specifica delle sue funzioni, e quindi per la struttura monotitolare dell'organo risulta deficiente la tutela integrale e pertanto il regolamento giuridico dell'organo nella sua unita (...)". Va dunque affermata "l'immunita' presidenziale per ogni procedimento penale o civile che comunque venga a limitare la sua liberta' d'azione o a porlo in una situazione di soggezione di fronte ad altro organo dello Stato. Per la sua posizione di organo costituzionale, nessuna causa che non sia prevista espressamente dalla Costituzione puo' attentare alla sua indipendenza ed integrita'. Il che non significa (...) che egli sia sottratto alla legge comune per i rapporti civili, ne' che egli sia irresponsabile per le violazioni della legge penale. Per queste egli e' certamente responsabile come ogni altro cittadino, ma sinche' e' in carica non e' passibile di alcun procedimento. Pertanto in questa ipotesi, puramente teorica, l'autorita' giudiziaria dovra' dichiarare la sua assoluta incompetenza. (...). L'equivoco fondamentale in cui e' incorso il costituente (...) sta nell'avere scambiato il principio fondamentale di ogni ordinamento democratico per cui nessun cittadino, sia pure egli il primo dello Stato, e' sottratto all'impero delle leggi, come principio regolatore della posizione di un organo costituzionale. Ma altro e' affermare tale principio esattissimo in linea giuridica ed essenziale in linea politica, ed altro e' considerare la posizione dell'organo costituzionale. La responsabilita' di ogni ordine, all'infuori di quella derivante dall'esercizio delle funzioni nei limiti previsti dalla costituzione, non e' diminuita, ne' alterata dalla garanzia assoluta d'immunita', durante la permanenza in carica derivante dal principio generale dell'assoluta integrita' dell'organo, accolto dall'ordinamento giuridico. (...). Pertanto l'inviolabilita' del Presidente nel periodo del suo ufficio non ricostituisce la inviolabilita' regia, attributo essenzialmente della persona, ma assume di questo istituto, da cui sono state tolte le sovrastrutture metagiuridiche e storiche, e in particolare quelle che ne trascendono la natura organica, quanto ne e' essenziale per la definizione della natura e posizione giuridica nell'ordinamento statuale dell'organo costituzionale". Sulla base di cio' si e' cercato di dimostrare fondata la costruzione delle immunita' come tipico e coessenziale carattere degli organi costituzionali in quanto conseguente alla loro indipendenza da altre autorita' e alla divisione dei poteri. "Appare cosi' radicalmente rovesciata la tesi che si tratti di eccezioni al ius commune, poiche' e' postulato, anzi, criterio generale del diritto costituzionale, operante per dare regola agli organi supremi". Pertanto le norme sulle prerogative dei diversi organi costituzionali sono intese non piu' quali disposizioni particolari ed eccezionali, ma quali parti integranti di un "insieme di regole e di istituti che la scienza riduce a sistema" (V.E. Orlando, op. cit. 484). In sintesi, stante la peculiare inscindibilita' dell'ufficio dal titolare che si riscontra nella configurazione dell'organo monocratico, la garanzia di una assoluta indipendenza nei confronti di qualsiasi atto proveniente da altro organo costituzionale, o da altro potere, non puo' essere veramente completa se non si estende anche alla persona del titolare, e quindi alla sfera della sua responsabilita' extra-funzioni. Superando la formalistica impostazione del Tribunale di Roma, che conduceva ad un sostanziale svuotamento del munus presidenziale, riducendolo ad una mera funzione di rappresentanza formale, la Corte di appello di Roma ha invece correttamente affermato che il carattere politico della funzione degli organi monocratici dello Stato-apparato "non consente (...) di distinguere il munus dalla persona fisica (...)" non potendosi scindere la persona dal titolare dell'organo per ascrivere all'una o all'altro atti e comportamenti in ragione dei contenuti o dei modi in cui si manifestano e per farne poi discendere forme diverse di responsabilita', con la conseguenza che "il carattere permanente della funzione pubblica non ha il significato di un continuo esercizio in concreto di essa, bensi' del fatto che coloro che ne sono investiti la possono esplicare in qualsiasi momento ove il caso lo richieda ... e nelle forme ritenute piu' acconce ... Il che vuol dire che il potere di formare la volonta' dalla istituzione ... e' lasciata al potere valutativo dell'organo preposto ... senza che tale potere sia condizionato dalla eventuale diversa opinione o volonta' di coloro che vi sono soggetti".
P. Q. M. Si insiste affinche' codesta ecc.ma Corte voglia dichiarare ammissibile il presente ricorso. Roma, addi' 11 febbraio 2002 Prof. avv. Franco Coppi - Prof. avv. Agostino Gambino - Prof. avv. Giuseppe Morbidelli 03C0001