N. 162 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 gennaio 2003
Ordinanza emessa il 21 gennaio 2003 dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Palermo nel procedimento penale a carico di Vaccaro Pietra ed altri Reati e pene - False comunicazioni sociali - Nuova disciplina - Configurazione quale reato contravvenzionale Conseguente riduzione del termine di prescrizione - Impossibilita' di garantire l'effettivita' della sanzione (in contrasto con quanto imposto dalla direttiva comunitaria n. 68/151) - Mancata previsione di un adeguato mezzo processuale in grado di consentire la celebrazione del processo entro i termini di prescrizione stabiliti Violazione dell'obbligo di conformare la legislazione ai principi dell'ordinamento comunitario. - Codice civile, artt. 2621 e 2622, come modificati dal d.lgs. 11 aprile 2002, n. 61. - Costituzione, artt. 10, 11 e 117; Direttiva 68/151/CEE del 9 marzo 1968.(GU n.14 del 9-4-2003 )
IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE Ha emesso la seguente ordinanza nel procedimento penale n. 72/1999, R.G.N.R. n. 3092/1999 R.G.G.I.P.; O s s e r v a Va preliminarmente valutata la rilevanza della questione di legittimita' costituzionale nel presente procedimento degli artt. 2621 e 2622 c.c. come novellati dalla legge n. 61/2002. All'uopo e' opportuno specificare che nei confronti degli imputati di questo procedimento il pubblico ministero ha chiesto il decreto che dispone il giudizio per un fatto sussunto negli articoli 110 c.p. e 2621 cod. civ. commesso in Palermo fino al 30 giugno 1999. Il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale sotto la vigenza della abrogata previsione normativa del reato di false comunicazioni sociali. Esso prevedeva all'art. 2621 cod. civ. salvo che il fatto costituisse reato piu' grave "... la pena della reclusione da uno a cinque anni e la multa da lire due milioni a venti milioni". A mente dell'art. 157 c.p. questo delitto si prescriveva in dieci anni in via ordinaria ed in quindici anni se prorogato il termine di prescrizione. La novella sopra menzionata, la n. 61 del 2002, ha modificato la figura del reato scindendola in due diversi articoli del codice civile: l'art. 2621 c.c. che punisce a titolo di contravvenzione il reato di false comunicazioni sociali, con pena fino ad un anno e sei mesi di arresto, se dal fatto non deriva danno a soci e creditori; l'art. 2622 c.c. che punisce i soggetti in esso specificati, a querela del socio o creditore, laddove costoro hanno subito un danno patrimoniale dalla condotta tipica, alla pena della reclusione da sei mesi a tre anni. Il termine di prescrizione, pertanto, nelle ipotesi modificate e' ovviamente di molto ridotto. Tanto premesso, va rilevato che il contenuto della direttiva CEE n. 68/151, norma vincolante per gli Stati membri, impone una "adeguata sanzione nelle ipotesi di mancata pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite". Sotto questo profilo si puo' dubitare del fatto che le norme incriminatrici, come sopra modificate, possano essere idonee a garantire, per i tempi di prescrizione estremamente brevi, non solo l'adeguatezza, ma anche l'effettivita', la proporzionalita' e la capacita' dissuasiva della sanzione di essa (avuto riguardo anche alla complessita' degli accertamenti da svolgere per accertare il delitto e la sua entita', in relazione ai parametri dagli stessi articoli dettati per la rilevanza penale della condotta - si veda Corte di giustizia sentenza del 21 settembre 1989, C-68/1988). Sempre al fine di esprimere il giudizio sulla rilevanza delle questioni sollevate, per ordine espositivo, va ricordato che agli articoli 10 e 11 Cost. prevedono e sanciscono l'autolimitazione della sovranita' nazionale in condizione di parita' con gli altri stati per assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni, e che l'ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute. La questione, cosi' posta, in relazione ai due principi sopra formulati, non puo' prescindere dal dettato di cui all'art. 117 della Costituzione che, rispetto a quanto statuito dagli articoli 10 e 11 della Costituzione, sono, gia' nel corpo della stessa Carta costituzionale, immediata e diretta specificazione. Infatti la norma, siccome innovata dalla legge costituzionale n. 3 del 18 ottobre 2001, all'art. 3 afferma: "La potesta' legislativa e' eserciata dallo Stato e dalle Regioni nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali". La norma fissa pertanto nella Costituzione l'obbligo per il legislatore di conformarsi, oltre che alle disposizioni della Costituzione medesima, ai principi dell'ordinamento comunitario; se il legislatore non rispetta tale obbligo nel legiferare ha gia' violato la relativa disposizione costituzionale. La direttiva CEE n. 68/151 - che come di seguito si specifichera' - opera nel nostro ordinamento grazie ai principi di autolimitazione della sovranita' (artt. 10-11 nonche' 117 Cost.) in materia di falso in bilancio all'art. 6 prevede che "gli Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i casi di mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e perdite, come prescritta dall'art. 2, par. 1, lettera F - mancanza nei documenti commerciali delle indicazioni obbligatorie di cui all'art. 4", e cio' per attuare e rendere efficaci e proteggere gli interessi dei soci e dei terzi, cosi' come e' previsto negli Stati membri, a mente dell'art. 58 secondo comma del Trattato CEE. Cio' posto, per il giudizio di rilevanza nel presente procedimento, e' da chiedersi prima se la Corte costituzionale puo' avere spazi decisionali allorche' le si chieda una abrogazione di norme penali piu' favorevoli al reo - come nel caso in specie - rispetto alla previgenza di norme della stessa natura penale, ma meno favorevoli quanto al regime sanzionatorio. Opera, infatti, il principio di cui all'art. 25 Costituzione. In linea generale la giurisprudenza costituzionale presenta due fondamentali arresti circa gli effetti delle proprie decisioni: 1. - in caso di dichiarazione di incostituzionalita' di legge abrogante, "... ridiventano operanti le norme abrogate dalle disposizioni dichiarate illegittime" (si vedano, per tutte, le sentenze nn. 107/1974 e 108/1986). E comunque rimanendo - per il dettato dell'art. 136 Cost. - "proibito applicare norme che siano state dichiarate costituzionalmente illegittime", atteso che le norme "che per effetto delle dichiarazioni di illegittimita' hanno perso vigore e sono state eliminate dall'ordinamento, non possono di conseguenza nemmeno piu' trovare applicazione in sede giudiziaria (nel giudizio a quo come negli altri procedimenti pendenti). Corte cost. nn. 127/66 e 48/1970; 2. - secondo altre decisioni invece si determinerebbe un vuoto normativo che il legislatore dovrebbe, a seguito della pronuncia della suprema Corte, affrontare e risolvere in osservanza dei principi della Costituzione. Quanto alla configurabilita' di una decisione, come nel caso che trattiamo, e dunque alla possibilita' che a seguito della abrogazione di una norma penale, per incostituzionalita' della stessa, possa rivivere altra fattispecie incriminatrice, piu' grave rispetto alla abrogata norma incostituzionale, la Corte, nella sentenza n. 148 del 1983 ha cosi' statuito: "... Una e' la garanzia che i principi del diritto penale costituzionale possono offrire agli imputati circoscrivendo l'efficacia spettante a dichiarazioni di illegittimita' delle norme penali di favore, altro e' il sindacato cui le norme stesse devono pur sempre sottostare, a pena di istituire zone franche del tutto impreviste dalla Costituzione all'interno delle quali la legislazione stessa diverrebbe incontrollabile. In secondo luogo le norme penali di favore fanno anche esse parte del sistema al pari di qualunque altra norma costitutiva dell'ordinamento.". Esse devono, pertanto, e come tutte la altre, ispirarsi al piu' generale e superiore principio di ragionevolezza tutelato dall'art. 3 Cost. che si vuole debba sottendere la produzione e formazione delle leggi. Soccorre all'uopo quanto dalla stessa Corte deciso in relazione al generale ed astratto principio cui deve sempre ispirarsi l'intero nostro ordinamento giuridico: "Nel giudizio sulla razionalita' di una certa disciplina non si deve guardare soltanto alla posizione formale di chi ne e' destinatario, ma anche alla funzione e allo scopo cui essa e' preordinata "(sentt. nn. 132 /1984; 53/1987; 55/1989). Pertanto, deve ritenersi inammissibile che vi siano norme emanate dal legislatore che possano sfuggire al controllo dei giudici delle leggi, per ragioni di tutela degli interessi dell'intera collettivita'. Cio' posto ne discende - anche alla luce di quanto dalla stessa Corte affermato - che puo' essere chiesto al giudice delle leggi un intervento sulla norma penale di maggior favore per il reo, rispetto al dettato di una legge precedente meno favorevole. Il giudice ben sa - tuttavia - che la Corte costituzionale con ordinanza n. 175/2001 ha dichiarato la manifesta inammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 18, comma 1, della legge 25 giugno 1999, n. 205, concernente l'abrogazione del reato di oltraggio a pubblico ufficiale. E che la stessa Corte cosi' ha statuito: "... la questione tendente a reintrodurre una fattispecie criminosa abrogata, manifestamente eccede i compiti della Corte, poiche' la qualificazione delle condotte ai fini della repressione penale e' espressione di una scelta discrezionale riservata al legislatore. Nel corpo della stessa ordinanza e' dato leggere: "che, a prescindere da ogni valutazione circa il presupposto dal quale muove il remittente, ostano ad uno scrutinio di merito della questione i limiti propri della giustizia costituzionale alla quale non compete porre una disciplina transitoria intesa a introdurre, come si vorrebbe nella specie, condizioni di procedibilita' e di punibilita' che, secondo la stessa prospettazione del remittente, sarebbero estranee all'ambito di operativita' dell'articolo 19 della legge n. 205 del 1999; che questa Corte ha infatti reiteratamente affermato esserle precluso, in materia penale, ogni intervento additivo che si risolva in un aggravamento della posizione sostanziale dell'imputato (v. ordinanze n. 317 del 2000, n. 337 del 1999, n. 413, n. 392 e n. 106 del 1998, e n. 297 e n. 178 del 1997); che pertanto la questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.". Ed ancora che la Corte con sentenza n. 330 dell'11 luglio 1996 ha ribadito: "Secondo la costante giurisprudenza della Corte, in forza del principio di stretta legalita' dei reati e delle pene, sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., il potere di creare fattispecie penali o di aggravare le pene e' esclusivamente riservato al legislatore, sicche' esula dai poteri del giudice costituzionale emanare una pronuncia dalla quale possa derivare l'introduzione, o la reintroduzione, di figure di reato o di aggravamenti di pena." Tuttavia il caso in esame non richiede alla Corte un intervento in contrasto con l'art. 25, ne' un aggravamento della pena o comunque della posizione sostanziale dell'imputato, ma chiede di intervenire sulla peculiare situazione di una norma interna dello Stato in contrasto con quella sovrannazionale nella misura in cui la norma interna non consente l'effettivita' della sanzione. Rimanendo la quantificazione di quest'ultima indubbiamente tra le facolta' del legislatore, nella entita' che egli intende codificare; da irrogarsi, pero', con un processo che non debba necessariamente - per i brevi termini di prescrizione e la complessita' degli accertamenti da effettuare - arenarsi inevitabilmente tra la fase delle indagini preliminari e quella, al piu', del giudizio di primo grado, con la conseguenziale indefettibile declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione del reato. In relazione a cio' e' necessario, ancora, richiamare quanto piu' in generale affermato dalla Corte di giustizia in una causa pendente tra la Commissione delle comunita' europee e la Repubblica Ellenica, nella sentenza del 21 settembre 1989, C 68/88. Nella stessa e' dato leggere che : "in ogni caso la sanzione alle violazioni del diritto comunitario devono avere carattere di effettivita', proporzionalita' e capacita' dissuasiva". Cio' posto, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del 19 aprile 1985, ha affermato che: "... anche le statuizioni della Corte di giustizia sono a pieno titolo diritto comunitario, al pari delle disposizioni contenute nei trattati e negli atti di diritto derivato". Cio' basta per ritenere, allora, che i principi in tema di effettivita', proporzionalita' e capacita' dissuasiva della pena, enucleati dalla Corte di giustizia sono vincolanti per gli Stati membri al pari del diritto comunitario, e da essi il legislatore, in forza dell'art. 117 Cost. non puo' discostarsi. In questi termini la Corte - a parere di questo giudice - in applicazione dei principi posti dagli artt. 10, 11 e 3 della Costituzione, nonche' dalla direttiva n. 68/151 - puo' sindacare nel merito la questione decidendo l'eventuale incostituzionalita' delle due disposizioni di legge nella parte in cui, attraverso i brevi termini di prescrizione previsti dalla disposizione generale di cui all'art. 157 c.p. non si rende attuabile la direttiva CEE che impone comunque l'adeguatezza della sanzione nel caso del reato di false comunicazioni sociali; ergo, e prima ancora nella parte in cui non consente l'effettivita' del processo. Si ritiene, conseguentemente, rilevante la questione di costituzionalita' degli artt. 2621 e 2622 c.c. in relazione agli artt. 10, 11 e 117 Cost. Cio' posto, ed entrando ora nel merito della non manifesta infondatezza dell'anzidetta questione di legittimita', va osservato che secondo l'art. 117 della Costituzione: "La potesta' legislativa e' esercitata dallo Stato e dalle Regioni, nel rispetto della Costituzione nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali.". Si e' gia' osservato che testualmente la norma pone al legislatore un limite invalicabile, come ed al pari delle disposizioni costituzionali. Si deve immediatamente procedere, allora, alla verifica della natura giuridica e della efficacia della direttiva prima di esaminare il merito di tale seconda questione al fine di stabilire se la direttiva rientra o meno nell'ordinamento comunitario e se e' fonte di obblighi internazionali La giurisprudenza e la dottrina (Fiandaca - Manuale di diritto penale) sono certamente concordi nel ritenere che la legislazione "comunitaria puo' anche condizionare l'ambito di applicazione della fattispecie incriminatrice dell'ordinamento interno: e cio' in virtu' del princmio del primato del diritto comunitario, per il quale la norma comunitaria deve prevalere sulla norma penale interna.". "... La norma penale incriminatrice puo' venire a contatto sia con un regolamento comunitario - con un atto, cioe', che crea rapporti giuridici anche tra singoli cittadini - sia con una direttiva - con un atto normativo, cioe' che vincola gli Stati membri solo riguardo ai fini ed agli obiettivi da raggiungere -, sia con le norme dei trattati (che fissano gli obiettivi interni generali, i mezzi e le competenze e sono recepite in appositi atti normativi con peculiari procedimenti di formazione). E' ora da definire se ed in che termini la direttiva comunitaria ha efficacia normativa diretta oltre che sugli Stati membri anche sui soggetti del loro ordinamento, se cioe' essa puo' essere considerata fonte di norme comunitarie cosi' come i regolamenti. La Corte costituzionale, cosi' come alcune voci in dottrina (cfr. Mucciarelli, Osservazioni, 409 ; Sgubbi, Diritto penale, 1230; Monaco, L'esecuzione delle direttive comunitarie nell'ordinamento Italiano in Foro Italiano, 1977 I, 2325) ha affermato che "le direttive comunitarie a differenza dei regolamenti non hanno di regola efficacia normativa diretta, in quanto si rivolgono generalmente agli Stati membri, ai quali chiedono l'adozione, entro certi limiti, di provvedimenti legislativi, regolamentari o amministrativi, per il conseguimento di determinati obiettivi comuni." (Corte cost. n. 163/1977) "In linea di principio le direttive fondano obblighi per gli stati membri e non direttamente anche per i soggetti del loro ordinamento interno ...". Cio' non toglie che anche le direttive possano avere molteplici effetti a livello di fonti primarie, nell'ordinamento interno: per esempio per quanto riguarda i rapporti tra Stato e Regioni ...". La Corte costituzionale ha affermato, infatti, che "le direttive solo di regola non hanno efficacia diretta come le altre fonti di diritto comunitario, poiche' in alcuni casi possono contenere disposizioni precettive idonee a produrre effetti diretti nei rapporti tra gli Stati membri destinatari e i soggetti privati" (Sent. n. 182/1976). L'efficacia deve essere valutata in relazione non solo alla forma, ma anche alla sostanza dell'atto ed alla sua funzione nel sistema del trattato. La dottrina ha specificato che sono direttamente applicabili le c.d. direttive analitiche, quelle cioe' che contengono precetti sufficientemente individuati e specifici. Diversamente opinando si avrebbe come "conseguenza sconcertante il far dipendere la rilevanza penale di certi comportamenti non dalla loro conformita' o no alla fattispecie tipica, bensi' dalla diligenza del legislatore in ordine al rispetto sul piano formale degli obblighi impostigli dalla direttiva." (Fiandaca op.cit.). Venendo ora a trattare della direttiva CCE n. 68/151, questa, va rilevato, in quanto contenente un precetto che afferisce alla materia penale, per l'operare del principio di cui all'art. 25 Cost. non puo', ex se', in caso di contrasto con il diritto interno, produrre effetti direttamente sui cittadini; non vi e' dubbio che la norma comunitaria, di cui si tratta, pone degli obblighi e produce effetti diretti sugli Stati membri. Essa pertanto senza esitazione puo' definirsi come fonte di vincoli ed obblighi per gli Stati membri. (art. 117 Cost.). In caso di contrasto, pertanto, tra la norma interna e quella comunitaria si deve prospettare il medesimo alla Corte costituzionale affinche' sia questa a valutarlo come eventuale violazione da parte del legislatore interno del dettato, in primo luogo ed in via diretta, dell'art. 117 che lo vincola espressamente alla produzione normativa internazionale, in secondo luogo dei principi di cui agli artt. 10 e 11 della Carta costituzionale che hanno posto le fondamenta per la ricezione delle norme provenienti dall'ordinamento soprannazionate, e che stanno a fondamento del nuovo testo dell'art. 117 della predetta Carta. La direttiva n. 68/151 CEE del 9 marzo 1968 ha come fine quello di "... coordinare, per renderle equivalenti, le garanzie che sono richieste negli Stati membri, alle societa', a mente dell'art. 58, secondo comma del Trattato, per proteggere gli interessi dei soci e dei terzi", e cio' attraverso "il coordinamento delle disposizioni nazionali concernenti la pubblicita' e la validita' degli obblighi"... "soprattutto in ordine alla tutela dei terzi ... poiche' esse societa' non offrono altra garanzia che il patrimonio sociale, considerando che la pubblicita' deve consentire a terzi di conoscere gli atti essenziali della societa'... omissis ... considerando che la tutela dei terzi deve essere assicurata mediante disposizioni che limitino per quanto possibile le cause di invalidita' delle obbligazioni assunte in nome della societa', considerando che e' necessario, per garantire la certezza del diritto nei rapporti tra le societa' ed i terzi, nonche' nei rapporti tra soci, limitare i casi di nullita'". Pertanto "Gli Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i casi di - mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e perdite, come prescritta dall'art. 2, paragrafo l, lettera F - mancanza nei documenti commerciali delle indicazioni obbligatorie di cui all'art. 4". Mentre e' evidente la ratio della norma contenuta nella direttiva - la tutela dei diritti terzi creditori e dei soci - va approfondita la possibilita' di operare logicamente la equiparazione della condotta di omessa pubblicita' del bilancio e del conto profitti e perdite e quella della condotta di falsificazione di tali documenti ed in genere delle comunicazioni sociali. Avuto allora riguardo alla ratio della suddetta direttiva, e cioe' la tutela dei diritti dei soci e dei terzi che, hanno come unica garanzia il patrimonio sociale, appare ragionevole concludere che, se lesione di tali diritti vi e' nella condotta omissiva della pubblicazione di un documento che rappresenti la condizione economica e finanziaria di una societa', ugualmente detta lesione si annida, forse piu' insidiosa, nella falsa rappresentazione di una scrittura come il bilancio, che e' rappresentativa della detta condizione economica e finanziaria di una societa' in un dato arco temporale; condotta che puo' concretarsi anche nella omissione di una iscrizione di una voce in bilancio. Nella condotta di false comunicazioni sociali, secondo questo giudice, e' compresa, come una delle forme di manifestazione della condotta medesima, la omissione della rappresentazione della reale situazione economico-patrimoniale di una societa'; e del resto la condotta omissiva e' pure esplicitamente prevista come forma di manifestazione della fattispecie tipica dallo stesso art. 2621 c.c. e 2622 c.c. nella forma delle omissioni delle informazioni previste dalla legge. Tanto premesso circa la omogeneita' delle condotte previste dalla norma interna e dalla norma comunitaria, va valutato il dedotto contrasto tra le stesse norme, afferente alla inadeguatezza della tutela, avuto riguardo al mezzo processuale, che il legislatore italiano ha riservato al bene giuridico che viene offeso con le condotte tipizzate, dalle fattispecie interna vita alla luce di quella comunitaria. Invero, come sopra gia' evidenziato, l'art. 6 della citata direttiva dispone "Gli Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i casi di mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e perdite...". E' lecito, dunque, dubitare dell'adeguatezza della sanzione prevista dal legislatore italiano per i reati di cui si tratta. Non puo' che richiamarsi qui quanto osservato allorche' si e' affrontato il profilo della rilevanza della questione che ci occupa. Il concetto di adeguatezza della sanzione, accompagnato dal carattere di effettivita', proporzionalita' e capacita' dissuasiva di essa, appare violato dalle due disposizioni impugnate, contenute nel codice civile. Cio' malgrado il carattere precettivo della pronunzia della Corte di giustizia che i suddetti principi ha posto, carattere che, si ribadisce, la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto. Detto principio e' da considerarsi eluso in radice allorche' si consideri la estrema difficolta' in concreto, a seguito della modifica della disposizione di cui all'originario 2621 c.c., di pervenire, non tanto ad una adeguata sanzione penale, quanto, ed ancor prima ad una effettiva irrogazione di qualsivoglia sanzione, nella entita' che il legislatore interno ritiene proporzionata all'offesa, entro i termini di prescrizione del reato di cui alle norme impugnate. Invero, la norma di cui all'art. 2621 c.c. e quella di cui all'art. 2622 c.c. prevedono per l'ipotesi contravvenzionale una pena fino ad un anno e sei mesi di arresto, per il delitto la pena della reclusione da sei mesi a tre anni. Il primo si prescrive in tre anni ed il secondo in cinque; le proroghe consentono di giungere a quattro anni e sei mesi ed a sette anni. Entro questi termini, consideriamo quelli prorogati, deve garantirsi la definizione del processo con sentenza passata in giudicato. L'accertamento del fatto-reato di false comunicazioni in bilancio richiede certamente numerosi complessi accertamenti tecnici su una lunga serie di dati economici emergenti dalla acquisizione lettura e comparazione di moltissimi documenti - spesso relativi a numerosi anni di esercizio. E' frequente nella istruzione di processi - come quello per il quale questo giudice procede - che gia' la notitia criminis sia datata, al momento in cui viene all'attenzione degli inquirenti. E' frequente, poi, che il pubblico ministero, attivatosi in tempo, incontri difficolta' nell'acquisire tutti i documenti da cui trarre il dato o la prova della condotta tipica. Vi sono poi i tempi del processo, o dibattimento di primo e secondo grado, quindi il giudizio di legittimita'. Nel nostro sistema processuale, a meno che non si configuri un meccanismo processuale che in alcuni casi sospenda i termini di prescrizione, i reati di false comunicazioni in bilancio sono, dunque, destinati a rimanere impuniti. Cio', si badi bene, non per una patologia del sistema processuale, ma - al di la' di qualche raro caso in cui si deve valutare una violazione di facile lettura - per la oggettiva complessita' degli accertamenti e delle valutazioni tecnico contabili che questa fattispecie richiede, in relazione alle caratteristiche strutturali sue proprie ed anche in relazione alle garanzie previste nel nostro sistema processuale. Questa condizione di sostanziale impunita' dei fatti astrattamente configurati come reato nelle fattispecie di cui agli artt. 2621 e 2622 c.c., nel violare la direttiva comunitaria sopra riportata, (sulla cui capacita' precettiva si e' detto), nonche' nel violare il principio di effettivita', adeguatezza e capacita' dissuasiva della sanzione, posto dalla Corte di giustizia, da elevarsi a rango di norma comunitaria secondo la Corte costituzionale, integra - secondo questo giudicante - in se' la piena violazione dell'art. 117 della Costituzione. E' utile a questo punto fare un riferimento concreto da porre ad esempio di quanto si e' appena osservato, rilevando che, ad esempio, nello stesso procedimento pendente innanzi a questo giudice e nel quale e' stata sollevata la questione di legittimita' costituzionale sono state condotte lunghe ed articolate indagini preliminari, soprattutto per la necessita' di complessi accertamenti di natura tecnica, tanto che l'avvio del procedimento risale al 1999 e la richiesta di rinvio a giudizio e' stata formulata soltanto il 25 luglio 2001. Tali tempi delle indagini preliminari, in un procedimento come quello in trattazione, sono da ritenersi fisiologici, attesa la complessita' degli accertamenti necessari all'accertamento dei fatti; e deve ritenersi in generale che i processi che hanno ad oggetto condotte di false comunicazioni sociali, richiedono di regola indagini piu' lunghe di altre per la natura stessa - particolarmente complessa - dei fatti da verificare ed ascrivere agli imputati. Certo va sempre considerata la possibilita' che la verifica processuale di una delle condotte tipizzate dalle due fattispecie possa essere celere e rispettare i tempi di prescrizione de reato; cio' a ben vedere coinciderebbe con l'accertamento di fatti di minore gravita' o di piu' facile verifica probatoria. Si tratterebbe di processi relativi a singoli fatti di reato tempestivamente iscritti dal pubblico ministero nel registro degli indagati in quanto oggetto di altrettanto tempestiva notizia criminis, contestati ad un numero ridotto di soggetti. Si determinerebbe, allora, nel quotidiano della applicazione delle due norme incriminatici, la vera disparita' di trattamento. Infatti i processi per reati di false comunicazioni sociali se inerenti a fatti di relativa gravita' giungerebbero - con buona probabilita' - a definizione con sentenza passata in giudicato. Al contrario i fatti piu' gravi, per i quali sono - di regola e come nel caso di specie - necessarie indagini particolarmente complesse, sotto il profilo tecnico, questi fatti, specie se reiterati nel tempo rimarrebbero costantemente impuniti. Pertanto, tenuto conto di tutte le considerazioni svolte, la questione come sopra formulata appare non manifestamente infondata.
P. Q. M. Visti gli artt. 2621, 2622 codice civile; 10, 11, 117 della Costituzione; vista la direttiva n. 68/151 CEE del 9 marzo 1968; 23 ,legge 11 marzo 1953, n. 87; Solleva la questione di legittimita' costituzionale degli articoli 2621 e 2622 c.c. come modificati dal decreto legislativo n. 61/2002 per contrasto con gli artt. 10, 11 e 117 della Costituzione ed in relazione al dettato della direttiva CEE n. 68/151 nella parte in cui non consentono l'effettivita', a mezzo di idoneo meccanismo processuale, della adeguata sanzione penale prevista dalla direttiva medesima e nella parte in cui non prevedono adeguato mezzo processuale in grado di consentire la celebrazione del processo penale entro i termini di prescrizione dei reati previsti dalle stesse norme, avuto riguardo alla direttiva CEE n. 68/151. Dispone l'immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale ed ordina la sospensione del procedimento. Ordina che a cura della cancelleria, la presente ordinanza sia notificata alle parti nonche' al pubblico ministero, al Presidente del Consiglio dei ministri e comunicata ai Presidenti delle due Camere del Parlamento. Palermo, addi' 21 gennaio 2003 Il giudice: Licata 03C0271