N. 162 ORDINANZA (Atto di promovimento) 21 gennaio 2003

Ordinanza   emessa   il  21 gennaio  2003  dal  giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale di Palermo nel procedimento penale a carico
di Vaccaro Pietra ed altri

Reati  e  pene  -  False  comunicazioni  sociali - Nuova disciplina -
  Configurazione  quale reato contravvenzionale Conseguente riduzione
  del   termine   di   prescrizione  -  Impossibilita'  di  garantire
  l'effettivita'  della  sanzione  (in  contrasto  con quanto imposto
  dalla  direttiva  comunitaria n. 68/151) - Mancata previsione di un
  adeguato  mezzo  processuale in grado di consentire la celebrazione
  del  processo  entro i termini di prescrizione stabiliti Violazione
  dell'obbligo    di   conformare   la   legislazione   ai   principi
  dell'ordinamento comunitario.
- Codice  civile,  artt. 2621  e  2622, come modificati dal d.lgs. 11
  aprile 2002, n. 61.
- Costituzione,  artt. 10, 11 e 117; Direttiva 68/151/CEE del 9 marzo
  1968.
(GU n.14 del 9-4-2003 )
                 IL GIUDICE DELL'UDIENZA PRELIMINARE

    Ha   emesso   la   seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale
n. 72/1999, R.G.N.R. n. 3092/1999 R.G.G.I.P.;

                            O s s e r v a

    Va  preliminarmente  valutata  la  rilevanza  della  questione di
legittimita'   costituzionale   nel   presente   procedimento   degli
artt. 2621 e 2622 c.c. come novellati dalla legge n. 61/2002.
    All'uopo   e'  opportuno  specificare  che  nei  confronti  degli
imputati  di  questo procedimento il pubblico ministero ha chiesto il
decreto   che  dispone  il  giudizio  per  un  fatto  sussunto  negli
articoli 110  c.p.  e  2621  cod.  civ.  commesso  in Palermo fino al
30 giugno 1999.
    Il  pubblico  ministero  ha  esercitato  l'azione penale sotto la
vigenza  della  abrogata  previsione  normativa  del  reato  di false
comunicazioni sociali.
    Esso  prevedeva  all'art. 2621  cod.  civ.  salvo  che  il  fatto
costituisse  reato  piu' grave "... la pena della reclusione da uno a
cinque anni e la multa da lire due milioni a venti milioni".
    A mente dell'art. 157 c.p. questo delitto si prescriveva in dieci
anni  in via ordinaria ed in quindici anni se prorogato il termine di
prescrizione.
    La  novella sopra menzionata, la n. 61 del 2002, ha modificato la
figura  del  reato  scindendola  in  due  diversi articoli del codice
civile:
        l'art. 2621  c.c.  che punisce a titolo di contravvenzione il
reato  di false comunicazioni sociali, con pena fino ad un anno e sei
mesi di arresto, se dal fatto non deriva danno a soci e creditori;
        l'art. 2622  c.c. che punisce i soggetti in esso specificati,
a  querela  del  socio  o  creditore, laddove costoro hanno subito un
danno  patrimoniale dalla condotta tipica, alla pena della reclusione
da sei mesi a tre anni.
    Il termine di prescrizione, pertanto, nelle ipotesi modificate e'
ovviamente di molto ridotto.
    Tanto  premesso, va rilevato che il contenuto della direttiva CEE
n. 68/151,   norma  vincolante  per  gli  Stati  membri,  impone  una
"adeguata   sanzione  nelle  ipotesi  di  mancata  pubblicazione  del
bilancio e del conto profitti e perdite".
    Sotto  questo  profilo  si  puo'  dubitare del fatto che le norme
incriminatrici,  come  sopra  modificate,  possano  essere  idonee  a
garantire,  per  i tempi di prescrizione estremamente brevi, non solo
l'adeguatezza,  ma  anche  l'effettivita',  la  proporzionalita' e la
capacita'  dissuasiva  della  sanzione  di essa (avuto riguardo anche
alla  complessita'  degli  accertamenti  da svolgere per accertare il
delitto  e  la  sua  entita',  in relazione ai parametri dagli stessi
articoli  dettati  per  la  rilevanza penale della condotta - si veda
Corte di giustizia sentenza del 21 settembre 1989, C-68/1988).
    Sempre  al  fine  di  esprimere il giudizio sulla rilevanza delle
questioni  sollevate,  per  ordine  espositivo, va ricordato che agli
articoli 10 e 11 Cost. prevedono e sanciscono l'autolimitazione della
sovranita' nazionale in condizione di parita' con gli altri stati per
assicurare la pace e la giustizia fra le nazioni, e che l'ordinamento
giuridico  italiano  si conforma alle norme di diritto internazionale
generalmente riconosciute.
    La  questione,  cosi'  posta,  in relazione ai due principi sopra
formulati, non puo' prescindere dal dettato di cui all'art. 117 della
Costituzione  che,  rispetto a quanto statuito dagli articoli 10 e 11
della   Costituzione,   sono,  gia'  nel  corpo  della  stessa  Carta
costituzionale, immediata e diretta specificazione.
    Infatti  la  norma,  siccome  innovata dalla legge costituzionale
n. 3   del   18 ottobre   2001,   all'art. 3  afferma:  "La  potesta'
legislativa  e'  eserciata  dallo  Stato e dalle Regioni nel rispetto
della  Costituzione,  nonche'  dei vincoli derivanti dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali".
    La  norma  fissa  pertanto  nella  Costituzione  l'obbligo per il
legislatore   di  conformarsi,  oltre  che  alle  disposizioni  della
Costituzione  medesima,  ai principi dell'ordinamento comunitario; se
il  legislatore  non  rispetta  tale  obbligo  nel legiferare ha gia'
violato la relativa disposizione costituzionale.
    La direttiva CEE n. 68/151 - che come di seguito si specifichera'
-  opera nel nostro ordinamento grazie ai principi di autolimitazione
della  sovranita' (artt. 10-11 nonche' 117 Cost.) in materia di falso
in  bilancio  all'art. 6  prevede  che "gli Stati membri stabiliscono
adeguate  sanzioni  per  i casi di mancata pubblicita' del bilancio e
del  conto  profitti  e perdite, come prescritta dall'art. 2, par. 1,
lettera  F  -  mancanza  nei  documenti commerciali delle indicazioni
obbligatorie  di  cui  all'art. 4",  e  cio'  per  attuare  e rendere
efficaci  e proteggere gli interessi dei soci e dei terzi, cosi' come
e'  previsto  negli  Stati membri, a mente dell'art. 58 secondo comma
del Trattato CEE.
    Cio'   posto,   per   il   giudizio  di  rilevanza  nel  presente
procedimento,  e'  da chiedersi prima se la Corte costituzionale puo'
avere  spazi  decisionali  allorche'  le si chieda una abrogazione di
norme  penali  piu'  favorevoli  al  reo  - come nel caso in specie -
rispetto alla previgenza di norme della stessa natura penale, ma meno
favorevoli   quanto  al  regime  sanzionatorio.  Opera,  infatti,  il
principio di cui all'art. 25 Costituzione.
    In  linea  generale la giurisprudenza costituzionale presenta due
fondamentali arresti circa gli effetti delle proprie decisioni:
        1. -   in  caso  di  dichiarazione  di incostituzionalita' di
legge  abrogante,  "...  ridiventano operanti le norme abrogate dalle
disposizioni  dichiarate  illegittime"  (si  vedano,  per  tutte,  le
sentenze  nn. 107/1974  e  108/1986).  E  comunque rimanendo - per il
dettato  dell'art. 136  Cost.  -  "proibito applicare norme che siano
state dichiarate costituzionalmente illegittime", atteso che le norme
"che  per  effetto  delle dichiarazioni di illegittimita' hanno perso
vigore  e  sono  state  eliminate  dall'ordinamento,  non  possono di
conseguenza  nemmeno  piu'  trovare  applicazione in sede giudiziaria
(nel  giudizio  a  quo come negli altri procedimenti pendenti). Corte
cost. nn. 127/66 e 48/1970;
        2. - secondo  altre  decisioni  invece  si  determinerebbe un
vuoto   normativo  che  il  legislatore  dovrebbe,  a  seguito  della
pronuncia  della  suprema Corte, affrontare e risolvere in osservanza
dei  principi della Costituzione. Quanto alla configurabilita' di una
decisione,  come  nel  caso che trattiamo, e dunque alla possibilita'
che   a   seguito   della   abrogazione  di  una  norma  penale,  per
incostituzionalita'  della  stessa,  possa rivivere altra fattispecie
incriminatrice,    piu'    grave   rispetto   alla   abrogata   norma
incostituzionale,  la  Corte, nella sentenza n. 148 del 1983 ha cosi'
statuito:  "...  Una e' la garanzia che i principi del diritto penale
costituzionale   possono   offrire   agli   imputati   circoscrivendo
l'efficacia  spettante  a dichiarazioni di illegittimita' delle norme
penali  di  favore,  altro e' il sindacato cui le norme stesse devono
pur  sempre  sottostare,  a  pena di istituire zone franche del tutto
impreviste dalla Costituzione all'interno delle quali la legislazione
stessa  diverrebbe  incontrollabile. In secondo luogo le norme penali
di  favore  fanno  anche  esse parte del sistema al pari di qualunque
altra  norma costitutiva dell'ordinamento.". Esse devono, pertanto, e
come tutte la altre, ispirarsi al piu' generale e superiore principio
di  ragionevolezza  tutelato  dall'art. 3  Cost.  che  si vuole debba
sottendere la produzione e formazione delle leggi.
    Soccorre  all'uopo  quanto dalla stessa Corte deciso in relazione
al  generale ed astratto principio cui deve sempre ispirarsi l'intero
nostro ordinamento giuridico: "Nel giudizio sulla razionalita' di una
certa disciplina non si deve guardare soltanto alla posizione formale
di  chi  ne  e' destinatario, ma anche alla funzione e allo scopo cui
essa e' preordinata "(sentt. nn. 132 /1984; 53/1987; 55/1989).
    Pertanto, deve ritenersi inammissibile che vi siano norme emanate
dal  legislatore  che possano sfuggire al controllo dei giudici delle
leggi,   per   ragioni   di   tutela   degli   interessi  dell'intera
collettivita'.
    Cio'  posto  ne discende - anche alla luce di quanto dalla stessa
Corte  affermato  - che puo' essere chiesto al giudice delle leggi un
intervento  sulla norma penale di maggior favore per il reo, rispetto
al dettato di una legge precedente meno favorevole.
    Il  giudice  ben  sa - tuttavia - che la Corte costituzionale con
ordinanza  n. 175/2001  ha  dichiarato  la manifesta inammissibilita'
della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 18, comma 1,
della  legge  25 giugno  1999,  n. 205, concernente l'abrogazione del
reato di oltraggio a pubblico ufficiale.
    E  che  la  stessa  Corte  cosi'  ha  statuito: "... la questione
tendente   a   reintrodurre   una   fattispecie  criminosa  abrogata,
manifestamente   eccede   i   compiti   della   Corte,   poiche'   la
qualificazione  delle  condotte  ai  fini della repressione penale e'
espressione di una scelta discrezionale riservata al legislatore.
    Nel  corpo  della  stessa  ordinanza  e'  dato  leggere:  "che, a
prescindere  da ogni valutazione circa il presupposto dal quale muove
il  remittente,  ostano  ad uno scrutinio di merito della questione i
limiti  propri  della giustizia costituzionale alla quale non compete
porre  una  disciplina  transitoria  intesa  a  introdurre,  come  si
vorrebbe  nella specie, condizioni di procedibilita' e di punibilita'
che,  secondo  la  stessa  prospettazione  del  remittente, sarebbero
estranee  all'ambito  di  operativita'  dell'articolo 19  della legge
n. 205 del 1999; che questa Corte ha infatti reiteratamente affermato
esserle  precluso, in materia penale, ogni intervento additivo che si
risolva  in un aggravamento della posizione sostanziale dell'imputato
(v.  ordinanze  n. 317  del  2000,  n. 337 del 1999, n. 413, n. 392 e
n. 106  del  1998,  e  n. 297  e  n. 178  del  1997); che pertanto la
questione deve essere dichiarata manifestamente inammissibile.".
    Ed ancora che la Corte con sentenza n. 330 dell'11 luglio 1996 ha
ribadito:  "Secondo  la costante giurisprudenza della Corte, in forza
del  principio  di  stretta legalita' dei reati e delle pene, sancito
dall'art. 25,  secondo  comma, Cost., il potere di creare fattispecie
penali  o  di  aggravare  le  pene  e'  esclusivamente  riservato  al
legislatore,  sicche'  esula  dai  poteri  del giudice costituzionale
emanare una pronuncia dalla quale possa derivare l'introduzione, o la
reintroduzione, di figure di reato o di aggravamenti di pena."
    Tuttavia  il  caso in esame non richiede alla Corte un intervento
in contrasto con l'art. 25, ne' un aggravamento della pena o comunque
della  posizione  sostanziale dell'imputato, ma chiede di intervenire
sulla  peculiare  situazione  di  una  norma  interna  dello Stato in
contrasto  con  quella  sovrannazionale  nella misura in cui la norma
interna  non  consente  l'effettivita'  della  sanzione. Rimanendo la
quantificazione  di  quest'ultima  indubbiamente  tra le facolta' del
legislatore, nella entita' che egli intende codificare; da irrogarsi,
pero',  con  un  processo che non debba necessariamente - per i brevi
termini  di  prescrizione  e  la  complessita'  degli accertamenti da
effettuare  -  arenarsi  inevitabilmente  tra  la fase delle indagini
preliminari  e  quella,  al piu', del giudizio di primo grado, con la
conseguenziale indefettibile declaratoria di estinzione del reato per
sopravvenuta prescrizione del reato.
    In relazione a cio' e' necessario, ancora, richiamare quanto piu'
in  generale affermato dalla Corte di giustizia in una causa pendente
tra  la Commissione delle comunita' europee e la Repubblica Ellenica,
nella  sentenza  del 21 settembre 1989, C 68/88. Nella stessa e' dato
leggere  che  : "in ogni caso la sanzione alle violazioni del diritto
comunitario  devono avere carattere di effettivita', proporzionalita'
e capacita' dissuasiva".
    Cio'  posto,  la Corte costituzionale, con la sentenza n. 113 del
19 aprile  1985,  ha  affermato  che: "... anche le statuizioni della
Corte  di  giustizia sono a pieno titolo diritto comunitario, al pari
delle  disposizioni  contenute  nei  trattati e negli atti di diritto
derivato".
    Cio'  basta  per  ritenere,  allora,  che  i  principi in tema di
effettivita',  proporzionalita'  e  capacita'  dissuasiva della pena,
enucleati  dalla  Corte  di  giustizia  sono vincolanti per gli Stati
membri  al pari del diritto comunitario, e da essi il legislatore, in
forza dell'art. 117 Cost. non puo' discostarsi.
    In  questi  termini  la  Corte  - a parere di questo giudice - in
applicazione  dei  principi  posti  dagli  artt.  10,  11  e  3 della
Costituzione,  nonche' dalla direttiva n. 68/151 - puo' sindacare nel
merito  la  questione decidendo l'eventuale incostituzionalita' delle
due  disposizioni  di  legge  nella  parte in cui, attraverso i brevi
termini  di  prescrizione previsti dalla disposizione generale di cui
all'art. 157  c.p. non si rende attuabile la direttiva CEE che impone
comunque  l'adeguatezza  della  sanzione  nel caso del reato di false
comunicazioni  sociali;  ergo,  e prima ancora nella parte in cui non
consente l'effettivita' del processo.
    Si   ritiene,   conseguentemente,   rilevante   la  questione  di
costituzionalita'  degli  artt. 2621  e  2622  c.c. in relazione agli
artt. 10, 11 e 117 Cost.
    Cio'  posto,  ed  entrando  ora  nel  merito  della non manifesta
infondatezza  dell'anzidetta  questione di legittimita', va osservato
che  secondo  l'art. 117 della Costituzione: "La potesta' legislativa
e'  esercitata  dallo  Stato  e  dalle  Regioni,  nel  rispetto della
Costituzione   nonche'   dei   vincoli   derivanti   dall'ordinamento
comunitario e dagli obblighi internazionali.".
    Si   e'   gia'  osservato  che  testualmente  la  norma  pone  al
legislatore   un   limite   invalicabile,   come  ed  al  pari  delle
disposizioni costituzionali.
    Si  deve  immediatamente  procedere,  allora, alla verifica della
natura giuridica e della efficacia della direttiva prima di esaminare
il  merito  di  tale  seconda  questione  al  fine di stabilire se la
direttiva  rientra  o meno nell'ordinamento comunitario e se e' fonte
di obblighi internazionali
    La  giurisprudenza  e  la dottrina (Fiandaca - Manuale di diritto
penale)  sono  certamente  concordi  nel ritenere che la legislazione
"comunitaria  puo'  anche condizionare l'ambito di applicazione della
fattispecie incriminatrice dell'ordinamento interno: e cio' in virtu'
del  princmio  del  primato  del diritto comunitario, per il quale la
norma comunitaria deve prevalere sulla norma penale interna.".
    "...  La  norma  penale incriminatrice puo' venire a contatto sia
con  un  regolamento  comunitario  -  con  un  atto,  cioe', che crea
rapporti  giuridici  anche  tra  singoli  cittadini  -  sia  con  una
direttiva - con un atto normativo, cioe' che vincola gli Stati membri
solo  riguardo ai fini ed agli obiettivi da raggiungere -, sia con le
norme  dei  trattati  (che  fissano gli obiettivi interni generali, i
mezzi  e le competenze e sono recepite in appositi atti normativi con
peculiari procedimenti di formazione).
    E'  ora da definire se ed in che termini la direttiva comunitaria
ha efficacia normativa diretta oltre che sugli Stati membri anche sui
soggetti  del loro ordinamento, se cioe' essa puo' essere considerata
fonte di norme comunitarie cosi' come i regolamenti.
    La Corte costituzionale, cosi' come alcune voci in dottrina (cfr.
Mucciarelli,  Osservazioni,  409  ;  Sgubbi,  Diritto  penale,  1230;
Monaco,  L'esecuzione  delle  direttive  comunitarie nell'ordinamento
Italiano  in  Foro  Italiano,  1977  I,  2325)  ha  affermato che "le
direttive  comunitarie  a  differenza  dei  regolamenti  non hanno di
regola   efficacia   normativa   diretta,   in  quanto  si  rivolgono
generalmente  agli  Stati membri, ai quali chiedono l'adozione, entro
certi   limiti,   di   provvedimenti   legislativi,  regolamentari  o
amministrativi,   per   il  conseguimento  di  determinati  obiettivi
comuni."   (Corte  cost.  n. 163/1977)  "In  linea  di  principio  le
direttive  fondano  obblighi  per gli stati membri e non direttamente
anche  per  i  soggetti  del  loro ordinamento interno ...". Cio' non
toglie  che  anche  le  direttive  possano avere molteplici effetti a
livello  di fonti primarie, nell'ordinamento interno: per esempio per
quanto riguarda i rapporti tra Stato e Regioni ...".
    La  Corte costituzionale ha affermato, infatti, che "le direttive
solo  di  regola  non  hanno efficacia diretta come le altre fonti di
diritto   comunitario,  poiche'  in  alcuni  casi  possono  contenere
disposizioni   precettive  idonee  a  produrre  effetti  diretti  nei
rapporti  tra  gli  Stati  membri  destinatari  e i soggetti privati"
(Sent.  n. 182/1976).  L'efficacia  deve essere valutata in relazione
non  solo  alla  forma,  ma anche alla sostanza dell'atto ed alla sua
funzione nel sistema del trattato.
    La  dottrina  ha specificato che sono direttamente applicabili le
c.d.  direttive  analitiche,  quelle  cioe'  che  contengono precetti
sufficientemente  individuati  e  specifici. Diversamente opinando si
avrebbe  come "conseguenza sconcertante il far dipendere la rilevanza
penale  di  certi  comportamenti non dalla loro conformita' o no alla
fattispecie  tipica, bensi' dalla diligenza del legislatore in ordine
al  rispetto  sul  piano  formale  degli  obblighi  impostigli  dalla
direttiva." (Fiandaca op.cit.).
    Venendo  ora a trattare della direttiva CCE n. 68/151, questa, va
rilevato, in quanto contenente un precetto che afferisce alla materia
penale,  per  l'operare  del  principio  di cui all'art. 25 Cost. non
puo',  ex  se', in caso di contrasto con il diritto interno, produrre
effetti  direttamente  sui  cittadini;  non vi e' dubbio che la norma
comunitaria,  di cui si tratta, pone degli obblighi e produce effetti
diretti  sugli  Stati  membri.  Essa  pertanto  senza esitazione puo'
definirsi  come  fonte  di  vincoli ed obblighi per gli Stati membri.
(art. 117 Cost.).
    In  caso  di  contrasto,  pertanto, tra la norma interna e quella
comunitaria si deve prospettare il medesimo alla Corte costituzionale
affinche'  sia  questa a valutarlo come eventuale violazione da parte
del  legislatore  interno  del  dettato,  in  primo  luogo  ed in via
diretta,  dell'art. 117  che lo vincola espressamente alla produzione
normativa  internazionale,  in secondo luogo dei principi di cui agli
artt. 10   e  11  della  Carta  costituzionale  che  hanno  posto  le
fondamenta  per la ricezione delle norme provenienti dall'ordinamento
soprannazionate,   e   che   stanno  a  fondamento  del  nuovo  testo
dell'art. 117 della predetta Carta.
    La  direttiva  n. 68/151 CEE del 9 marzo 1968 ha come fine quello
di  "...  coordinare,  per renderle equivalenti, le garanzie che sono
richieste  negli  Stati  membri, alle societa', a mente dell'art. 58,
secondo  comma  del Trattato, per proteggere gli interessi dei soci e
dei  terzi",  e  cio' attraverso "il coordinamento delle disposizioni
nazionali   concernenti   la   pubblicita'   e   la  validita'  degli
obblighi"... "soprattutto in ordine alla tutela dei terzi ... poiche'
esse  societa'  non offrono altra garanzia che il patrimonio sociale,
considerando  che la pubblicita' deve consentire a terzi di conoscere
gli atti essenziali della societa'... omissis ... considerando che la
tutela  dei  terzi  deve  essere assicurata mediante disposizioni che
limitino   per   quanto  possibile  le  cause  di  invalidita'  delle
obbligazioni  assunte  in  nome  della  societa', considerando che e'
necessario, per garantire la certezza del diritto nei rapporti tra le
societa'  ed  i terzi, nonche' nei rapporti tra soci, limitare i casi
di nullita'".
    Pertanto  "Gli  Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i
casi  di  -  mancata  pubblicita' del bilancio e del conto profitti e
perdite,   come   prescritta   dall'art. 2,   paragrafo   l,  lettera
F - mancanza nei documenti commerciali delle indicazioni obbligatorie
di cui all'art. 4".
    Mentre e' evidente la ratio della norma contenuta nella direttiva
-  la tutela dei diritti terzi creditori e dei soci - va approfondita
la   possibilita'  di  operare  logicamente  la  equiparazione  della
condotta  di  omessa  pubblicita' del bilancio e del conto profitti e
perdite  e  quella della condotta di falsificazione di tali documenti
ed in genere delle comunicazioni sociali.
    Avuto  allora  riguardo  alla  ratio  della suddetta direttiva, e
cioe'  la  tutela  dei  diritti  dei soci e dei terzi che, hanno come
unica  garanzia  il patrimonio sociale, appare ragionevole concludere
che,  se  lesione di tali diritti vi e' nella condotta omissiva della
pubblicazione di un documento che rappresenti la condizione economica
e  finanziaria  di  una societa', ugualmente detta lesione si annida,
forse  piu'  insidiosa, nella falsa rappresentazione di una scrittura
come  il  bilancio,  che  e'  rappresentativa  della detta condizione
economica  e  finanziaria  di una societa' in un dato arco temporale;
condotta che puo' concretarsi anche nella omissione di una iscrizione
di una voce in bilancio.
    Nella  condotta  di  false  comunicazioni sociali, secondo questo
giudice,  e'  compresa,  come una delle forme di manifestazione della
condotta  medesima,  la  omissione della rappresentazione della reale
situazione  economico-patrimoniale  di  una  societa'; e del resto la
condotta  omissiva  e'  pure  esplicitamente  prevista  come forma di
manifestazione della fattispecie tipica dallo stesso art. 2621 c.c. e
2622  c.c.  nella  forma  delle omissioni delle informazioni previste
dalla legge.
    Tanto premesso circa la omogeneita' delle condotte previste dalla
norma  interna  e  dalla  norma  comunitaria,  va valutato il dedotto
contrasto  tra  le  stesse  norme, afferente alla inadeguatezza della
tutela,  avuto  riguardo  al  mezzo  processuale,  che il legislatore
italiano  ha  riservato  al  bene  giuridico  che viene offeso con le
condotte  tipizzate,  dalle  fattispecie  interna  vita  alla luce di
quella comunitaria.
    Invero,  come  sopra  gia'  evidenziato,  l'art. 6  della  citata
direttiva  dispone  "Gli  Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni
per i casi di mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e
perdite...".
    E'  lecito,  dunque,  dubitare  dell'adeguatezza  della  sanzione
prevista dal legislatore italiano per i reati di cui si tratta.
    Non  puo'  che  richiamarsi  qui quanto osservato allorche' si e'
affrontato il profilo della rilevanza della questione che ci occupa.
    Il  concetto  di  adeguatezza  della  sanzione,  accompagnato dal
carattere di effettivita', proporzionalita' e capacita' dissuasiva di
essa,  appare violato dalle due disposizioni impugnate, contenute nel
codice  civile. Cio' malgrado il carattere precettivo della pronunzia
della  Corte di giustizia che i suddetti principi ha posto, carattere
che, si ribadisce, la stessa Corte costituzionale ha riconosciuto.
    Detto  principio  e' da considerarsi eluso in radice allorche' si
consideri  la  estrema  difficolta'  in  concreto,  a  seguito  della
modifica  della  disposizione  di  cui  all'originario  2621 c.c., di
pervenire,  non  tanto  ad  una  adeguata sanzione penale, quanto, ed
ancor  prima  ad  una effettiva irrogazione di qualsivoglia sanzione,
nella  entita'  che  il  legislatore  interno  ritiene  proporzionata
all'offesa,  entro  i  termini  di prescrizione del reato di cui alle
norme impugnate.
    Invero,  la  norma  di  cui  all'art. 2621  c.c.  e quella di cui
all'art. 2622 c.c. prevedono per l'ipotesi contravvenzionale una pena
fino  ad  un anno e sei mesi di arresto, per il delitto la pena della
reclusione da sei mesi a tre anni.
    Il  primo  si  prescrive  in tre anni ed il secondo in cinque; le
proroghe  consentono di giungere a quattro anni e sei mesi ed a sette
anni.  Entro  questi  termini,  consideriamo  quelli  prorogati, deve
garantirsi  la  definizione  del  processo  con  sentenza  passata in
giudicato.
    L'accertamento del fatto-reato di false comunicazioni in bilancio
richiede  certamente  numerosi  complessi accertamenti tecnici su una
lunga  serie di dati economici emergenti dalla acquisizione lettura e
comparazione  di  moltissimi  documenti  - spesso relativi a numerosi
anni di esercizio.
    E'  frequente  nella  istruzione di processi - come quello per il
quale  questo  giudice  procede  -  che  gia' la notitia criminis sia
datata,  al  momento in cui viene all'attenzione degli inquirenti. E'
frequente,  poi,  che  il  pubblico  ministero,  attivatosi in tempo,
incontri  difficolta'  nell'acquisire tutti i documenti da cui trarre
il  dato  o  la  prova della condotta tipica. Vi sono poi i tempi del
processo, o dibattimento di primo e secondo grado, quindi il giudizio
di legittimita'.
    Nel  nostro  sistema  processuale, a meno che non si configuri un
meccanismo  processuale  che  in  alcuni  casi  sospenda i termini di
prescrizione,  i  reati  di  false  comunicazioni  in  bilancio sono,
dunque, destinati a rimanere impuniti.
    Cio',   si   badi   bene,  non  per  una  patologia  del  sistema
processuale,  ma  -  al  di  la'  di qualche raro caso in cui si deve
valutare  una  violazione  di  facile  lettura  -  per  la  oggettiva
complessita' degli accertamenti e delle valutazioni tecnico contabili
che  questa  fattispecie  richiede, in relazione alle caratteristiche
strutturali  sue proprie ed anche in relazione alle garanzie previste
nel nostro sistema processuale.
    Questa    condizione   di   sostanziale   impunita'   dei   fatti
astrattamente  configurati  come  reato nelle fattispecie di cui agli
artt. 2621  e  2622  c.c., nel violare la direttiva comunitaria sopra
riportata,  (sulla cui capacita' precettiva si e' detto), nonche' nel
violare   il  principio  di  effettivita',  adeguatezza  e  capacita'
dissuasiva  della  sanzione,  posto  dalla  Corte  di  giustizia,  da
elevarsi   a   rango   di   norma   comunitaria   secondo   la  Corte
costituzionale, integra - secondo questo giudicante - in se' la piena
violazione dell'art. 117 della Costituzione.
    E'  utile a questo punto fare un riferimento concreto da porre ad
esempio  di quanto si e' appena osservato, rilevando che, ad esempio,
nello  stesso  procedimento  pendente  innanzi a questo giudice e nel
quale  e' stata sollevata la questione di legittimita' costituzionale
sono  state  condotte  lunghe  ed  articolate  indagini  preliminari,
soprattutto  per  la  necessita'  di complessi accertamenti di natura
tecnica,  tanto  che  l'avvio  del  procedimento  risale al 1999 e la
richiesta  di  rinvio  a  giudizio  e'  stata  formulata  soltanto il
25 luglio 2001.
    Tali  tempi  delle  indagini preliminari, in un procedimento come
quello  in  trattazione,  sono  da  ritenersi  fisiologici, attesa la
complessita' degli accertamenti necessari all'accertamento dei fatti;
e  deve  ritenersi  in  generale  che i processi che hanno ad oggetto
condotte   di  false  comunicazioni  sociali,  richiedono  di  regola
indagini  piu' lunghe di altre per la natura stessa - particolarmente
complessa - dei fatti da verificare ed ascrivere agli imputati.
    Certo  va  sempre  considerata  la  possibilita'  che la verifica
processuale  di  una  delle  condotte tipizzate dalle due fattispecie
possa  essere  celere  e rispettare i tempi di prescrizione de reato;
cio' a ben vedere coinciderebbe con l'accertamento di fatti di minore
gravita'  o  di  piu'  facile  verifica probatoria. Si tratterebbe di
processi  relativi  a singoli fatti di reato tempestivamente iscritti
dal  pubblico ministero nel registro degli indagati in quanto oggetto
di  altrettanto  tempestiva notizia criminis, contestati ad un numero
ridotto di soggetti.
    Si  determinerebbe,  allora,  nel  quotidiano  della applicazione
delle  due  norme  incriminatici,  la vera disparita' di trattamento.
Infatti  i  processi  per  reati  di  false  comunicazioni sociali se
inerenti  a  fatti  di  relativa  gravita'  giungerebbero - con buona
probabilita'  -  a  definizione con sentenza passata in giudicato. Al
contrario i fatti piu' gravi, per i quali sono - di regola e come nel
caso di specie - necessarie indagini particolarmente complesse, sotto
il  profilo  tecnico,  questi  fatti,  specie  se reiterati nel tempo
rimarrebbero costantemente impuniti.
    Pertanto,  tenuto  conto  di  tutte  le considerazioni svolte, la
questione come sopra formulata appare non manifestamente infondata.
                              P. Q. M.
    Visti  gli  artt. 2621,  2622  codice  civile;  10, 11, 117 della
Costituzione;  vista  la direttiva n. 68/151 CEE del 9 marzo 1968; 23
,legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Solleva   la   questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
articoli 2621  e  2622  c.c.  come modificati dal decreto legislativo
n. 61/2002   per   contrasto   con  gli  artt. 10,  11  e  117  della
Costituzione ed in relazione al dettato della direttiva CEE n. 68/151
nella  parte  in cui non consentono l'effettivita', a mezzo di idoneo
meccanismo processuale, della adeguata sanzione penale prevista dalla
direttiva  medesima e nella parte in cui non prevedono adeguato mezzo
processuale  in  grado  di  consentire  la  celebrazione del processo
penale  entro  i  termini  di  prescrizione  dei reati previsti dalle
stesse norme, avuto riguardo alla direttiva CEE n. 68/151.
    Dispone   l'immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale ed ordina la sospensione del procedimento.
    Ordina  che  a  cura della cancelleria, la presente ordinanza sia
notificata  alle  parti  nonche' al pubblico ministero, al Presidente
del  Consiglio  dei  ministri  e  comunicata  ai Presidenti delle due
Camere del Parlamento.
        Palermo, addi' 21 gennaio 2003
                         Il giudice: Licata
03C0271