N. 171 ORDINANZA (Atto di promovimento) 11 dicembre 2002

Ordinanza  emessa  l'11  dicembre  2002  dal  tribunale  di Melfi nel
procedimento penale a carico di Burdo Francesco ed altro

Reati  e  pene  -  False  comunicazioni  sociali - Nuova disciplina -
  Configurazione   quale   reato   contravvenzionale   -  Conseguente
  riduzione del termine di prescrizione - Sostanziale non punibilita'
  di  un  reato  di  difficile  accertamento  e  attribuito alla piu'
  complessa  cognizione  del  giudice  collegiale  - Contrasto con il
  principio di razionalita'.
- Decreto  legislativo 11 aprile 2001, n. 62, art. 1; legge 3 ottobre
  2001, n. 366, art. 11.
- Costituzione, art. 3.
(GU n.14 del 9-4-2003 )
                            IL TRIBUNALE

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
Esposizione  del  contesto  di  fatto  e rilevanza della questione di
legittimita' costituzionale
    Con  decreto  del giudice per l'udienza preliminare del Tribunale
di  Melfi,  emesso  in  data  28 giugno 2000, Burdo Francesco e Burdo
Domenico  venivano  rinviati  a giudizio avanti a questo collegio per
rispondere del reato di false comunicazioni sociali (art. 2621 codice
civile,  nella  formulazione  anteriore  al  d.lgs.  n. 61/2002), per
avere, in concorso tra loro e nella qualita' di amministratore unico,
il  primo,  e  liquidatore,  il  secondo, della Societa' Vulture Olii
S.r.l.,    effettuato    false   comunicazioni   sociali,   esponendo
fraudolentamente  nei  bilanci fatti non corrispondenti al vero sulle
condizioni economiche della societa'.
    Il    fatto   oggetto   dell'imputazione   risale,   secondo   la
contestazione, agli anni 1993-1994, periodo in cui l'art. 2621 codice
civile  configurava  le  false  comunicazioni  sociali  come  delitto
perseguibile  d'ufficio  e lo sanzionava con la pena della reclusione
da  un  anno a cinque anni e con la multa da due a venti milioni. Per
il  combinato  disposto  degli  artt. 2621  codice  civile, 157 e 160
codice  penale  il  termine  di  prescrizione per tale delitto era di
dieci  anni, che, in presenza di una causa di interruzione, aumentava
a quindici anni.
    Con  il  d.lgs.  n. 61/2002  (emanato  in  attuazione della legge
delega  n. 366/2001)  la citata normativa e' stata sostituita con una
nuova,  che  (in  conformita' all'art. 11 della legge delega) prevede
due  fattispecie:  la  prima  (art. 2621  c.c.), posta a tutela della
trasparenza  e  della  veridicita'  dell'informazione  societaria, e'
stata configurata come reato di pura condotta, perseguibile d'ufficio
e  sanzionato  con  l'arresto  fino ad un anno e sei mesi; la seconda
(art. 2622  c.c.),  posta  a  tutela  del  patrimonio  dei soci e dei
creditori,  e' stata configurata come reato di evento (costituito dal
danno  per i soci o per i creditori), sanzionato con la reclusione da
sei  mesi  a tre anni (e, per le societa' non quotate, perseguibile a
querela da parte di questi ultimi).
    La  scelta delle suddette sanzioni, per effetto degli artt. 157 e
160  c.p.  ed  in  assenza  di  una diversa specifica disposizione al
riguardo,   ha   determinato  la  modifica,  anche,  del  termine  di
prescrizione  passato  da dieci anni (con aumento, in presenza di una
causa  di  interruzione, a quindici anni) a tre anni (con aumento, in
presenza di una causa di interruzione, a quattro anni e sei mesi) per
la  fattispecie  prevista  dall'art. 2621  c.c.  e a cinque anni (con
aumento, in presenza di una causa di interruzione, a sette anni e sei
mesi) per la fattispecie di cui all'art. 2622 c.c.
    Tra  la  fattispecie  che  era prevista dall'art. 2621 c.c. nella
formulazione anteriore al d.lgs. n. 61/2002 e le fattispecie previste
dai  vigenti artt. 2621 e 2621 c.c. si ritiene (cfr. Cass. pen., sez.
V,  21  maggio  2002,  n. 6921; Trib. Milano, sez. II, ord. 23 aprile
2002)  sussistente  un rapporto di successione tra norme penali e non
un   fenomeno   di   abrogazione   della  vecchia  fattispecie  (tale
interpretazione   appare  indiscutibile  per  quel  che  riguarda  le
fattispecie  previste  dal  vecchio  e  dal  nuovo  art. 2621  c.c.);
conseguentemente  il fatto oggetto di contestazione, essendo evidente
la  sua  riconducibilita' al nuovo art. 2621 c.c., mantiene rilevanza
penale.
    Occorre,  pero',  rilevare  che  il fatto oggetto di imputazione,
essendo  stato  consumato  nel 1994, risulterebbe - per effetto della
modifica,  operata dal d.lgs. n. 61/2002, del termine di prescrizione
da  dieci  a  tre anni - prescritto e, ai sensi dell'art. 129 c.p.p.,
dovrebbe   essere  dichiarata,  non  essendo  evidente,  allo  Stato,
l'insussistenza     dell'ipotesi     accusatoria,     immediatamente,
l'estinzione  del  reato  (in  mancanza  di  tale  modifica il reato,
invece,  si  sarebbe  estinto, per effetto degli eventi interruttivi,
nel 2009).
    Si  deve,  tuttavia,  sottolineare che la modifica del termine di
prescrizione  (da  dieci  a tre anni), operata dall'art. 1 del d.lgs.
n. 62/2001  (in  combinato disposto con gli artt. 157 e 160 c.p.), ha
privato  della  possibilita'  pratica di portare a termine i processi
aventi  ad  oggetto la fattispecie in esame prima dell'estinzione del
reato.
    La  norma  in  esame  (e l'art. 11 della legge delega), pertanto,
nell'effettuare  tale  modifica,  a  parere di questo collegio, si e'
posta  in  palese  contrasto  con  il  parametro costituzionale della
razionalita'.
L'ammissibilita' della questione di legittimita' costituzionale.
    Prima  di  entrare nel merito occorre verificare l'ammissibilita'
della questione prospettata.
    La  legittimita'  costituzionale  di norme penali di favore tocca
due  questioni strettamente legate, ma, logicamente e giuridicamente,
distinte:  il  rispetto del principio di irretroattivita' della legge
penale (art. 25, secondo comma, Cost.), il rispetto dell'orientamento
della  Corte  costituzionale  che  riconosce  il  potere  di creare o
modificare le fattispecie penali (precetto e sanzione) esclusivamente
al  legislatore,  con  conseguente  impossibilita'  per  la  Corte di
pronunciare sentenze che andrebbero a produrre tali effetti.
    Per  quel  che  attiene alla prima questione si deve rilevare che
secondo  un  orientamento  risalente  della  Corte (sent. n. 62/1969;
sent.  n. 26/1975)  le questioni di legittimita' costituzionale delle
norme  penali  di  favore  sarebbero  sempre  necessariamente  (cioe'
indipendentemente    dell'esito    del    giudizio    costituzionale)
irrilevanti.  Secondo  la Corte, invero, anche se la norma risultasse
incostituzionale, il principio di irretroattivita' delle norme penali
(sancito   dall'art. 25  Cost.)  impedirebbe  al  giudice  a  quo  di
applicare  la  norma  sfavorevole (che necessariamente prenderebbe il
posto  di quella dichiarata incostituzionale) e, conseguentemente, la
questione nel giudizio a quo risulterebbe sempre irrilevante.
    La  Corte  (recependo  le  sollecitazioni della dottrina), pero',
successivamente   (sent.   n. 148/1983,   sent.   n. 826/1988,  sent.
n. 124/1990,   sent.   n. 167/1993,   sent.   n. 194/1993   e   sent.
n. 25/1994),  ha  superato  tale  orientamento  e ha affermato, fermo
restando l'intangibilita' del principio dell'art. 25 Cost. e, quindi,
il  divieto  di  sottoporre  a  pena  (o  a  pena  piu'  grave) fatti
disciplinati  in  modo  piu' favorevole al momento della commissione,
l'esistenza  del  carattere  della  rilevanza  ogni  qualvolta, dalla
decisione  possano, comunque, derivare effetti giuridici (la Corte ha
sottolineato  che  il  giudizio potrebbe concludersi con una sentenza
interpretativa   di   rigetto   ovvero   potrebbe   produrre  effetti
relativamente alla formula di proscioglimento o, comunque, sulla base
normativa  della  pronuncia,  ancorche'  identica  nel  contenuto del
dispositivo).
    A  questo  punto  occorre  precisare che nei casi, come quello in
esame,  in  cui  il  fatto  oggetto di giudizio e' pregresso rispetto
all'entrata   in   vigore   della   norma   oggetto  di  giudizio  di
costituzionalita'   l'eventuale   pronuncia   di   accoglimento   non
determinerebbe l'applicazione retroattiva della norma e, dunque (come
rilevato,  pacificamente,  dalla dottrina e, per l'analoga situazione
della  mancata conversione di decreti - legge contenenti norme penali
di  favore,  dalla  Corte  cost..  sent. n. 511/985), non vi e' alcun
ostacolo  all'applicazione  nel  processo a quo della decisione della
Corte,  con  conseguente  rilevanza  della questione. Alla stregua di
tali  considerazioni appare evidente che, neanche, in base al vecchio
orientamento  della  Corte  il giudizio di costituzionalita' in esame
risulterebbe inammissibile.
    Occorre  ora  affrontare  la  seconda questione: l'art. 25 Cost.,
secondo  la  giurisprudenza  recente  della Corte (sent. n. 150/1988;
sent.  n. 330/1996; ord. n. 297/1997) attribuisce in via esclusiva al
legislatore  il  potere  di creare o modificare le fattispecie penali
(precetto  e  sanzione)  e,  pertanto,  preclude alla Corte qualunque
pronuncia  manipolativa,  che  avrebbe  l'effetto  di  modificare  la
fattispecie come prevista dal legislatore.
    Al   riguardo   si   deve  rilevare  che  la  Corte  ha,  sempre,
riconosciuto  che  il  sindacato  sia ammissibile quando si tratta di
verificare   il   rispetto   del   principio  di  uguaglianza  (sent.
n. 143/1983), nonche' la razionalita' e la ragionevolezza della norma
(sent.   n. 25/1994;   sent.   n. 341/1994;  ord.  n. 448/1992;  ord.
n. 297/1997; sent. n. 409/1989; sent. n. 343/1993).
    La  questione  che  questo  collegio vuole portare all'attenzione
della  Corte,  essendo  relativa  alla  razionalita' della norma, non
entra  affatto  in  contrasto  con l'orientamento in esame. Invero si
chiede  alla  Corte di verificare l'irrazionalita' della norma che da
un   lato  prevede  la  punibilita'  di  una  condotta  e  dall'altro
stabilisce  un  termine di prescrizione che assicura l'estinzione del
reato   prima   della   fine  del  processo  e,  dunque,  la  pratica
impunibilita' della medesima condotta.
    Si potrebbe eccepire, pero', che l'effetto ultimo di un'eventuale
pronuncia di accoglimento sarebbe quello di produrre effetti negativi
per  l'imputato interessato (che anziche' "godere" della prescrizione
potrebbe essere condannato).
    Al  riguardo  si  deve  evitare  di  confondere i due profili che
attengono alla materia in esame: il principio dell'irretroattivita' e
l'orientamento    della   Corte   sull'attribuzione   esclusiva   del
legislatore.
    Sotto   il   primo   profilo   l'interessato,  al  di  la'  della
considerazione che appare dubbio che l'art. 25 garantisca, anche, che
il  reato  debba  avere  sempre  il  medesimo termine di prescrizione
previsto  nel momento di commissione, non avrebbe nulla da lamentare,
in  quanto,  nel  momento  in  cui commetteva il fatto, il termine di
prescrizione  era  di  dieci  anni  e tale resterebbe a seguito della
pronuncia della Corte.
    Sotto  il  secondo profilo non bisogna proprio porsi il problema,
in  quanto  si  prospetta  una  questione attinente alla razionalita'
della  norma  e,  pertanto,  in  perfetta sintonia con l'orientamento
della Corte.
La   non   manifesta  infondateza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale.
    Venendo  al  merito  della  questione  occorre  precisare  che la
questione  posta  da  questo  collegio non attiene alla sanzione, ne'
sotto  il  profilo  dell'entita'  (  detenzione fino ad un anno e sei
mesi),  ne' sotto quello della natura (arresto), ma esclusivamente al
termine di prescrizione.
    Il  legislatore  nel modificare la sanzione prevista per il reato
di  false  comunicazioni  sociali,  per  il  combinato disposto degli
artt. 2621  c.c.  e  157  c.p.,  ha,  anche, sostituito il precedente
termine di prescrizione (dieci anni) con quello di tre anni.
    Tale  termine  (tre  anni  fino  ad  un massimo di quattro anni e
mezzo) - tenendo conto: che il termine non decorre dal momento in cui
la  notizia  di reato e' conosciuta dall'autorita', ma dal momento di
commissione  del  fatto,  che,  per  il  reato  in esame, normalmente
precede, anche di molto tempo, l'inizio delle indagini (significativo
in  tal  senso e' il fatto oggetto di questo procedimento: consumato,
secondo  l'accusa, nel 1994 e accertato nel 1998); che l'accertamento
dell'elemento oggettivo del reato in esame (collegandosi a violazioni
di tipo contabile ed economico e richiedendo, normalmente, l'esame di
una  massa  notevole di documenti, spesso, di non facile reperimento)
e'   difficile   e   complesso;   che   l'accertamento  dell'elemento
soggettivo,  a  differenza  delle  altre ipotesi contravvenzionali, e
particolarmente  complesso in quanto e' caratterizzato dalla verifica
della  sussistenza di un particolarissimo dolo specifico intenzionale
(l'intenzione  di  ingannare  i  soci  o  il  pubblico  e  il fine di
conseguire  per  se'  o  per altri un ingiusto profitto, tra l'altro,
potrebbe  richiedere  la  verifica anche delle scritture contabili di
molte  altre  societa);  che,  ai  sensi  dell'art. 33-bis  c.p.p., a
differenza  delle  altre contravvenzioni, il reato e' attribuito alla
cognizione  del  collegio  (il  cui funzionamento e' sicuramente piu'
complesso  dell'organo monocratico) e che deve passare, anche, per il
filtro  dell'udienza  preliminare  (che le recenti riforme hanno reso
piu' articolata e complessa); che il nostro sistema prevede tre gradi
di  giudizio  ed  una  fase  dibattimentale  che, essendo ispirata ai
principi   accusatori,   si  presenta  particolarmente  complessa  ed
articolata  -  appare  evidente  che (ad eccezione di casi di scuola,
quali  ad  esempio  quello dell'imputato che confessi poco dopo avere
commesso  il  fatto  e  che  non eserciti la facolta' di impugnare la
sentenza)  privi  della  possibilita' pratica di portare a termine il
processo prima dell'estinzione del reato.
    Occorre  precisare  che  questo collegio non pone la questione in
termini  meramente concreti, chiedendo alla Corte di tenere conto, ad
esempio,  della  considerevole  durata  dei processi in quegli uffici
giudiziari  particolarmente  gravati dal carico di lavoro e dai vuoti
di  organico,  ma  in  termini  astratti.  Invero il differimento tra
momento  di commissione del reato (e, dunque, di partenza del termine
di  prescrizione)  e  la  conoscenza  del  fatto  di  reato  da parte
dell'autorita'   competente  prescinde  dall'efficienza  dell'ufficio
giudiziario.  La  complessita'  della verifica della fondatezza della
notizia  di  reato,  sia sotto il profilo oggettivo, che sotto quello
soggettivo, e' tale da determinare la perdita di notevole tempo anche
alla   piu'   efficiente   delle   Procure.   Tali   difficolta'   si
ripresenteranno  nell'udienza  preliminare  e  nel  dibattimento dove
l'accertamento  (davanti  ad  un organo collegiale) deve avvenire nel
fuoco   del   contraddittorio   (magari  con  l'intervento  anche  di
consulenti   di  parte).  Il  tempo  necessario  per  lo  svolgimento
dell'appello e del giudizio di legittimita' portera' inevitabilmente,
anche  nei  processi  svolti negli uffici giudiziari piu' efficienti,
all'estinzione del reato per prescrizione.
    Tali  considerazioni  portano  a ritenere che l'art. 1 del d.lgs.
n. 61/2002,  nel  sancire  che  le  false comunicazioni (non dannose)
costituiscano   reato   e  nel  prevedere  per  esse  un  termine  di
prescrizione  che assicura l'estinzione del medesimo prima della fine
del    procedimento,    risulti   palesemente   irrazionale.   Invero
l'irrazionalita',  come chiarito da autorevole dottrina, deriva dalla
circostanza  che  il  legislatore  ha contraddetto le scelte che esso
stesso  ha  fatto e nel caso in esame tale contraddizione e' evidente
in  quanto  il legislatore sceglie di prevedere la punibilita' di una
condotta,  ma  poi  prevede  un  termine di prescrizione che assicura
l'impunibilita' della medesima.
    La  giurisprudenza costituzionale ha, ormai da tempo, recepito il
principio di razionalita' e, in applicazione di esso, ha elaborato la
regola  secondo  cui  il  legislatore  ha  il dovere di equiparare il
trattamento  giuridico  delle situazioni analoghe e, al contrario, di
differenziare  il  trattamento  delle  situazioni  diverse (ancorando
normativamente  il principio all'art. 3 Cost.; cfr. sent. n. 45/1967;
sent. n. 204/1982).
    Nel   caso   in   esame  l'evidente  contraddizione  consente  di
prospettare il vizio di razionalita', anche, nei termini della regola
affermata  dalla  Corte  costituzionale, in quanto e' evidente che il
caso  in esame (in cui il legislatore sceglie di punire una condotta,
ma   poi   prevede   un   termine   di   prescrizione   che  assicura
l'impunibilita'   pratica   della   medesima)   e'   stato   trattato
diversamente da tutti gli altri analoghi (il termine di paragone puo'
essere  costituito  addirittura  da  tutti  gli  altri fatti a cui il
legislatore  ha  ritenuto di dovere dare rilevanza penale), in cui il
legislatore ha scelto di punire una condotta e ha previsto un termine
di  prescrizione  che,  in  astratto,  non escluda la possibilita' di
finire il processo prima dell'estinzione del reato.
    In  entrambe  le situazioni prospettate il legislatore sceglie di
dovere  sanzionare  le  condotte  prese in considerazione (situazione
analoga),  ma  poi solo in un caso prevede un termine di prescrizione
che assicura l'impunibilita'.
    A  tali  prospettazioni  si potrebbe eccepire che la scelta della
durata del termine di prescrizione dipende dalla diversa gravita' del
fatto e che, quindi, la brevita' del termine e' giustificata nel caso
in  esame  dalla  non rilevante gravita' riconosciuta dal legislatore
alle false comunicazioni non dannose.
    Si tratterebbe, pero', di un'eccezione completamente infondata in
quanto non si chiede alla Corte di valutare la congruita' del termine
di  prescrizione in considerazione della gravita' del fatto ovvero di
verificare  se  la  durata  di  questo sia giustificata rispetto alla
durata  dei  termini  previsti  per gli altri reati. Questo collegio,
infatti,  e'  ben  consapevole del fatto che la durata del termine di
prescrizione  attiene  alle  insindacabili  scelte  discrezionali del
legislatore  legate alla gravita' dei fatti e che sotto tale profilo,
anche,  il  diverso  termine di prescrizione previsto per altri reati
trova,  razionale,  giustificazione  nella diversa valutazione che il
legislatore  opera  sulla  gravita' dei fatti (cfr. Corte cost., ord.
n. 89/171; Cass. pen., sez. III, 31 maggio 1991; che hanno dichiarato
manifestamente  infondate le questioni di costituzionalita', relative
alla  particolare durata del termine di prescrizione di taluni reati,
proprio in considerazione della ragionevole, specifica valutazione di
gravita' delle fattispecie fatta dal legislatore).
    La  questione  posta  da  questo collegio e' quella di verificare
l'irrazionalita' della norma che da un lato prevede la punibilita' di
una  condotta  e dall'altro stabilisce un termine di prescrizione che
assicura  l'estinzione  del  reato  prima  della fine del processo e,
dunque,  la  pratica  impunibilita' della medesima condotta (da altro
punto  di  vista la questione prospettata da questo collegio potrebbe
essere  cosi'  semplificata:  posto  che  la  scelta  del  termine di
prescrizione attiene ad una valutazione discrezionale del legislatore
legata  alla gravita' del fatto, tale discrezionalita' puo' spingersi
al  punto  di scegliere, irrazionalmente, un termine che impedisca di
terminare il processo prima dell'estinzione del reato?).
    La  disparita'  di trattamento contestata, per porre la questione
nello  schema  tradizionale della regola affermata dalla Corte, viene
rilevata nel fatto che il legislatore nel caso in esame, a differenza
degli   altri,   nello  scegliere  discrezionalmente  un  termine  di
prescrizione adeguato alla diversa gravita' del fatto, ne ha previsto
uno  che,  anche  in  astratto,  assicura  la mancata punizione della
condotta.
    Passando  dal  raffronto  con  tutti  gli  altri  reati alle sole
contravvenzioni  punte  con  l'arresto  si puo' rilevare un'ulteriore
violazione della regola enunciata dalla Corte costituzionale sotto il
profilo della mancata differenziazione di situazioni diverse.
    Invero  il  legislatore  nel  prevedere  per il reato in esame il
medesimo    termine   di   prescrizione   previsto   per   le   altre
contravvenzioni  (punite  con l'arresto) non solo non ha tenuto conto
delle  particolari  difficolta'  oggettive  di  accertamento che tale
reato   presenta,   ma,  neppure,  di  alcune  peculiarita',  che  lo
differenziano  dalle  altre contravvenzioni e che, indiscutibilmente,
allungano la durata dei processi.
    La  prima  e'  costituita  dall'elemento  soggettivo,  in quanto,
mentre l'art. 42, quarto comma c.p. prevede che nelle contravvenzioni
ciascuno  risponde  della  propria  azione  od  omissione cosciente e
volontaria,  sia  essa  dolosa  o  colposa,  il  nuovo art. 2621 c.c.
richiede  l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e il fine di
conseguire  per  se'  o  per altri un ingiusto profitto, che vanno ad
aggiungersi   al   dolo  generico  avente  ad  oggetto  gli  elementi
strutturali del fatto.
    La   seconda   e'   costituita   dal   fatto   che,   mentre   le
contravvenzioni,   normalmente,   sono   attribuite  alla  cognizione
dell'organo  monocratico  e  non  passano  per il filtro dell'udienza
preliminare,   il  reato  in  esame  e'  attribuito  alla  cognizione
dell'organo  collegiale  (il  cui  funzionamento  e' sicuramente piu'
complesso)  e  deve passare per l'udienza preliminare (che le recenti
riforme hanno reso ancor piu' complessa).
    Appare,  pertanto, palese che il legislatore nel prevedere per la
fattispecie in esame il medesimo termine di prescrizione previsto per
le  altre  contravvenzioni  senza tenere conto di queste peculiarita'
(oltre  a  quelle delle difficolta' di accertamento), che incidono in
maniera  evidente  sulla  possibilita' di terminare il processo prima
che  il  reato si estingua, ha trattato in modo uguale situazioni che
andavano trattate in modo, razionalmente, diverso.
    Nel  caso  in  cui  i termini di raffronto utilizzati fino ad ora
(tutti  i  reati  ovvero  tutte  le  contravvenzioni  sanzionate  con
l'arresto)   fossero   ritenuti   troppo  generici  si  potrebbe  far
riferimento   ad  un  caso  specifico,  che  renderebbe  evidente  la
violazione  della  regola  affermata  dalla  Corte costituzionale, in
quanto,  pur  presentando caratteristiche del tutto analoghe a quella
in esame (qualificazione del reato come contravvenzione e difficolta'
di  accertamento  che,  nel  caso  in  cui  si  applicasse il termine
ordinario   di  prescrizione,  renderebbero  del  tutto  virtuale  la
punibilita'  della  condotta),  e'  stato trattato dal legislatore in
modo palesemente diverso.
    Il  parametro  di  raffronto  e'  costituito dall'abrogato art. 9
della  legge n. 516/1982, che, derogando all'art. 157 c.p., prevedeva
per  la  prescrizione  di  alcune contravvenzioni in materia di reati
tributari  il  termine  di  sette  anni.  La  "ratio",  della  deroga
all'art. 157   c.p.,   veniva  rinvenuta  dalla  dottrina  nei  tempi
usualmente  non  brevi  che  richiedevano  gli  accertamenti  per  la
verifica  della  fondatezza di tali reati. Invero, pur essendo caduta
la  pregiudiziale tributaria, era evidente che la comunicazione della
notizia  di reato all'autorita' giudiziaria presupponeva una verifica
della   sussistenza   delle  violazioni  tributarie,  che  richiedeva
accertamenti contabili ed economici di una voluminosa documentazione,
che  spesso si trovava, in parte, presso terzi (si deve sottolineare,
fin  d'ora,  che  si  trattava  di accertamenti analoghi a quelli che
vanno  fatti,  in  sede  di  indagini  preliminari, per verificare la
fondatezza,  sotto  il profilo dell'elemento oggettivo, di un'ipotesi
di  false  comunicazioni  sociali,  come conferma il fatto oggetto di
questo   processo,   in  cui  le  notizie  di  reato,  relative  alle
fattispecie   poste   a   raffronto,   sono  pervenute  all'autorita'
giudiziaria  proprio  all'esito  dell'unico,  complesso, accertamento
documentale e contabile realizzato dal medesimo organo di Polizia).
    Il   legislatore,  cioe',  aveva  preso  atto  della  difficolta'
dell'accertamento  e,  per evitare che la sanzione, per effetto della
sua   qualificazione   come   contravvenzione   e  della  conseguente
applicazione  dell'art. 157 c.p., divenisse meramente virtuale, aveva
previsto  un  termine  di prescrizione specifico piu' lungo di quello
previsto  dalla  norma  generale (tale "ratio" e' confermata anche al
fattore  l'art. 9,  d.l.  n. 429/1982,  convertito  con modificazioni
dalla  legge  n. 516/1982,  aveva  ritenuto di soddisfare la medesima
esigenza  spostando  in  avanti  il momento dal quale la prescrizione
cominciava a decorrere).
    La  recente  riforma della materia (legge n. 74/2000) costituisce
un'ulteriore conferma della "ratio" esposta; invero il legislatore da
un   lato,  nel  riformulare  le  fattispecie  contravvenzionali  non
abrogate,  le ha qualificate come delitti; dall'altro ha eliminato la
deroga  all'art. 157  c.p.  Il  legislatore,  cioe',  considerato che
riqualificando  le  fattispecie  come  delitti  non  si  sarebbe piu'
applicato  il  breve  termine di prescrizione previsto, dall'art. 157
c.p., per le contravvenzioni (e che, conseguentemente, le difficolta'
di  accertamento  della  fattispecie  sarebbero  state  adeguatamente
soddisfatte dalla norma generale), non ha piu' previsto il termine di
prescrizione particolare.
    Orbene,  considerato  che,  per  i motivi sopra esposti, le false
comunicazioni  sociali hanno analoghi problemi di accertamento (anzi,
maggiori  in  quanto  se  sotto  il  profilo  oggettivo  si tratta di
effettuare le analoghe, complesse, verifiche documentali e contabili,
sotto  il  profilo  soggettivo  l'accertamento  del reato in esame e'
complicato   dalla   necessita'   di  verificare  il  dolo  specifico
intenzionale),  sarebbe  stato  razionale che il legislatore si fosse
comportato,  all'inverso, in uguale maniera; ossia nel momento in cui
riqualificava   il   reato   in   esame   come  contravvenzione,  con
conseguente,   applicazione  del  termine  di  prescrizione  previsto
dall'art. 157  c.p.,  avrebbe  dovuto  prevedere  per esso un termine
particolare,  che  non  escludesse, anche, in astratto il termine del
processo prima dell'estinzione del reato.
    Non si capisce perche' il legislatore, in relazione a fattispecie
che presentano analoghe difficolta' di accertamento, nel disciplinare
il   termine   di   prescrizione,  in  un  caso  abbia  tenuto  conto
adeguatamente  (e  rigorosamente  nel  tempo)  delle  difficolta'  di
accertamento   (e   delle   conseguenze   derivanti  sul  termine  di
prescrizione  per  effetto  della  qualifica  della  fattispecie come
delitto  ovvero contravvenzione) ed in un altro caso non abbia tenuto
in  alcuna  considerazione  di  tali  difficolta' e delle conseguenze
derivanti  sul  termine  di  prescrizione per effetto della qualifica
della fattispecie come contravvenzione.
    Questa  disparita' di trattamento rende incostituzionale la norma
anche  nel caso in cui si ritenesse che le prospettate difficolta' di
accertamento  non  escluderebbero  completamente  la  possibilita' di
terminare il processo prima dell'estinzione del reato ma ridurrebbero
notevolmente  tale  possibilita' (al di sotto di tale valutazione non
appare  proprio  possibile andare). Invero - posto che le difficolta'
di  accertamento  dei reati di cui all'art. 9, legge n. 516/1982 sono
analoghe  (e,  per  certi aspetti, minori) rispetto a quelle previste
dal  reato  in  esame  -  se  si  ritenesse  che  le  difficolta'  di
accertamento  di  quest'ultimo  ridurrebbero  solo la possibilita' di
terminare  il  processo  prima dell'estinzione del reato si dovrebbe,
coerentemete, ritenere che, anche, le difficolta' di accertamento dei
reati  di  cui  all'art. 9,  legge  n. 516/1982  riducevano  solo  la
suddetta  possibilita'.  Pertanto, considerato che quelle difficolta'
(in   considerazione  della  riduzione  della  suddetta  possibilita)
avevano  giustificato  l'allungamento del termine di prescrizione dei
reati  di  cui  all'art. 9,  legge  n. 516/1982,  anche le, analoghe,
difficolta'   previste   per  il  reato  in  esame  avrebbero  dovuto
giustificare un allungamento del termine di prescrizione.
    L'abrogazione  dell'art. 9  da  parte  del  d.lgs. n. 74/2000 non
riduce  l'efficacia  dimostrativa  dell'argomentazione esposta, anzi,
come  gia'  sottolineato,  la  rafforza,  in quanto l'abrogazione del
termine  specifico  e' legata alla riqualificazione delle fattispecie
(prima   contravvenzionali)   non   abrogate  come  delitti  ed  alla
conseguente (per effetto dell'art. 157 c.p.) applicazione del termine
piu'  lungo  previsto per tale tipo di reati. Tali vicende, pertanto,
confermano  che  il  legislatore in questo caso ha tenuto conto delle
difficolta'  di  accertamento  in  quanto ha ricondotto il termine di
prescrizione  nell'ambito  della  disciplina  generale solo quando ha
riqualificato le fattispecie come delitto.
    Le  vicende  del  termine  di  prescrizione  dei  reati tributari
dimostra  piu'  in  generale  che  il  legislatore,  normalmente, nel
disciplinare  il  termine di prescrizione, tiene conto della gravita'
del  reato, ma anche delle difficolta' di accertamento che potrebbero
pregiudicare  completamente  la  possibilita' di portare a termine il
processo prima che il reato si estingua e che, quando sussistono tali
difficolta', anche se il reato e' considerato una contravvenzione (e,
dunque,  non particolarmente grave), il legislatore allunga i termini
previsti  per  reati  della  medesima  gravita' per evitare la palese
contraddizione  di  prevedere  la punibilita' di una condotta che non
potrebbe mai essere sanzionata.
    Per i motivi esposti va dichiarata rilevante e non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' costituzionale, in relazione
all'art. 3  Cost.,  dell'art. 1,  d.lgs.  n. 62/2001  (e dell'art. 11
della legge delega) nella parte in cui ha modificato anche il termine
di  prescrizione previsto dalla normativa vigente prima della riforma
(che  per  il combinato disposto degli artt. 2621 c.c. e 157 c.p. era
di  dieci  anni);  va,  conseguentemente, disposta la sospensione del
procedimento.
                              P. Q. M.
    Visto l'art. 23, legge 11 marzo 1953, n. 87;
    Dichiara rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale,  in  relazione  all'art. 3 Cost., degli
artt. 1,  d.lgs. n. 62/2001 e il n. 366/2001 nella parte in cui hanno
modificato  anche il termine di prescrizione previsto dalla normativa
vigente prima della riforma;
    Sospende il presente procedimento.
    Manda a11a cancelleria per gli adempimenti previsti dall'art. 23,
ultimo comma, legge 11 marzo 1953, n. 87.
        Melfi, addi' 11 dicembre 2002
                       Il Presidente: Catelli
03C0295